Hai un’azienda in difficoltà e stai pensando di cederla per evitare di accumulare altri debiti o trascinarti in una situazione senza uscita? Ti stai chiedendo se puoi liberartene legalmente e a cosa devi fare attenzione per non ritrovarti coinvolto anche dopo la cessione?
Cedere un’azienda in crisi può sembrare una soluzione rapida, ma se non viene fatta nel modo giusto può trasformarsi in un errore molto pericoloso. È fondamentale sapere come si fa, chi può subentrare e quali rischi restano a carico dell’ex titolare o amministratore.
Cosa significa realmente “cedere un’azienda in crisi”?
Vuol dire trasferire l’azienda – o le sue quote – a un altro soggetto, che ne assume la gestione e spesso anche la responsabilità dei debiti e delle attività ancora aperte. Può trattarsi della vendita dell’intera azienda, della sola cessione delle quote o, in alcuni casi, della consegna simbolica a terzi che si offrono di “ritirarla”.
Ma attenzione: non è detto che così ti liberi da tutto.
Se la cessione non avviene in modo regolare e tracciabile, potresti continuare a rispondere di alcune obbligazioni anche dopo il passaggio. Ad esempio:
– se ci sono debiti fiscali, previdenziali o verso dipendenti non gestiti correttamente;
– se l’operazione è considerata fittizia o fraudolenta dall’Agenzia delle Entrate o da altri creditori;
– se non vengono rispettati i doveri dell’amministratore uscente, come il deposito dei bilanci, la comunicazione dei dati reali o la messa in liquidazione in caso di perdita del capitale.
A cosa devi fare attenzione prima di cedere la tua azienda in crisi?
- Verifica sempre chi è il soggetto che subentra e se è affidabile (non basta un passaggio formale di quote).
- Valuta l’effettivo stato dell’impresa: se non è più in grado di operare, forse è meglio chiudere legalmente.
- Fai in modo che l’operazione sia regolare e documentata, per evitare contestazioni future.
- Considera se sia più sicura un’alternativa: liquidazione volontaria, composizione negoziata, concordato o liquidazione giudiziale, se ci sono i presupposti.
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in crisi aziendali, cessioni societarie e responsabilità patrimoniale – ti spiega cosa sapere prima di cedere un’azienda in crisi, quali errori evitare e come possiamo aiutarti a liberarti in modo sicuro e definitivo dalla tua attività in difficoltà.
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Introduzione
Cedere un’azienda in stato di crisi è un’operazione delicata che richiede di bilanciare molti interessi contrapposti: da un lato il bisogno dell’imprenditore (debitore) di alleggerirsi dai debiti e preservare quanto più valore possibile, dall’altro la tutela dei creditori, dei lavoratori e degli acquirenti. Stato di crisi e insolvenza sono concetti giuridici definiti dal Codice della Crisi d’Impresa (D.lgs. 14/2019). Per crisi si intende generalmente la situazione di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza futura, mentre l’insolvenza è lo stato più grave in cui il debitore non è più in grado di adempiere regolarmente alle proprie obbligazioni. In pratica, un’azienda “in crisi” fatica a pagare i debiti ma può ancora salvarsi con interventi correttivi; un’azienda insolvente è destinata alla liquidazione giudiziale (il “fallimento” nella vecchia terminologia) se non interviene uno strumento concorsuale.
Affrontare la cessione di un’azienda in crisi richiede dunque un linguaggio giuridico preciso ma anche un approccio pratico, comprensibile a imprenditori, consulenti e operatori del diritto. Questa guida – aggiornata a giugno 2025 – esamina il tema dal punto di vista del debitore cedente, toccando tutti i profili rilevanti: civilistici (contrattuali, societari, lavoristici), fiscali (imposte sui trasferimenti, plusvalenze, debiti tributari), e le possibili conseguenze anche penali in caso di operazioni fraudolente. Si considereranno tutte le tipologie di imprese – dalle piccole imprese familiari e ditte individuali, alle società di persone e di capitali, fino alle PMI strutturate – evidenziando differenze e peculiarità.
Oltre alla cessione d’azienda in senso stretto, la guida analizza gli strumenti alternativi a disposizione dell’imprenditore in difficoltà: affitto d’azienda, concordato preventivo (e concordato “semplificato”), accordi di ristrutturazione del debito, piani attestati di risanamento, liquidazione volontaria e liquidazione giudiziale. Per ognuno di essi verranno illustrati funzionamento, vantaggi, limiti e implicazioni sia per il debitore che per i creditori. Esempi concreti e simulazioni numeriche aiuteranno a comprendere l’applicazione pratica delle norme, anche mediante tabelle riepilogative che confronteranno le diverse soluzioni e i rispettivi effetti (ad es. sulla posizione debitoria residua o sul carico fiscale). Una sezione FAQ risponderà infine alle domande più frequenti, chiarendo dubbi comuni (chi paga i debiti dopo la cessione? cosa accade ai dipendenti? meglio vendere o fare un concordato? ecc.).
Nota bene: Ogni operazione di cessione in contesto di crisi va valutata caso per caso e pianificata con la dovuta prudenza. Il nuovo Codice della Crisi impone agli amministratori un dovere di attivarsi tempestivamente per affrontare la crisi (art. 2086 c.c.), anche tramite gli strumenti di allerta e di composizione negoziata introdotti di recente. Ignorare lo stato di difficoltà o tentare di disfarsi dell’azienda senza rispettare le regole può comportare pesanti responsabilità civili e penali. Con queste premesse, passiamo ad esaminare in dettaglio a cosa stare attenti quando si decide di cedere un’azienda in crisi.
Cessione d’azienda: definizione e regole generali
Prima di entrare nel vivo dei problemi connessi alla cessione di un’azienda in crisi, è opportuno richiamare brevemente cosa si intende per cessione di azienda e quali effetti giuridici essa comporta in via generale (ovvero per un’azienda “in bonis”). L’azienda è definita dal Codice Civile come il complesso di beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa (art. 2555 c.c.). La cessione d’azienda è dunque il contratto con cui un imprenditore (cedente) trasferisce a un altro soggetto (cessionario) la titolarità della propria azienda, ossia dell’insieme organizzato di beni materiali (macchinari, scorte, arredi, ecc.) e immateriali (clientela, avviamento, marchi, contratti, ecc.) destinati all’attività d’impresa. Può trattarsi della cessione dell’intera azienda o di un ramo d’azienda (un’articolazione autonoma di essa). Di solito la cessione avviene a titolo oneroso, mediante un contratto di compravendita, conferimento o altra forma contrattuale, e produce il trasferimento della proprietà (o di altro diritto reale, es. usufrutto) su tutti i beni aziendali compresi nel perimetro ceduto.
Differenza tra cessione di azienda e cessione di partecipazioni: è importante non confondere la cessione degli asset aziendali con la cessione delle quote o azioni di una società. Vendere un’azienda significa trasferire i beni e i rapporti dell’impresa dal cedente al cessionario mediante un atto di vendita; i debiti dell’azienda possono (entro certi limiti) seguire l’azienda presso il nuovo titolare secondo le regole che vedremo. Vendere le quote societarie invece comporta semplicemente un cambio di proprietà della società, che però resta la medesima: la società mantiene tutti i suoi beni e tutti i suoi debiti preesistenti. Per i creditori non cambia il soggetto debitore (rimane la società stessa), quindi essi non hanno motivo di opporsi al trasferimento di partecipazioni, né possono rivalersi sui nuovi soci salvo garanzie personali. In sintesi, nella cessione di azienda il debitore cedente muta (l’acquirente subentra nell’attività al posto del cedente), mentre nella cessione di partecipazioni il debitore non cambia (cambia solo la compagine sociale). Ai fini di questa guida tratteremo principalmente la cessione di azienda in senso stretto (asset deal), operazione più complessa dal punto di vista legale. La vendita di partecipazioni può comunque essere valutata come alternativa in alcune situazioni di crisi (si pensi a un investitore che acquista le quote di una società indebitata facendosi carico di risanarla), ma segue regole diverse e per molti versi più semplici sul piano civilistico.
Forma del contratto e pubblicità: la cessione di un’azienda richiede il rispetto di forme e adempimenti pubblicitari. In base all’art. 2556 c.c., per le imprese soggette a registrazione (quindi tutte le imprese non piccolissime) il contratto di trasferimento d’azienda deve farsi per iscritto, a pena di nullità, e dev’essere depositato per l’iscrizione presso il Registro delle Imprese. Spesso la cessione d’azienda viene formalizzata tramite atto notarile, specie se comprende beni immobili o mobili registrati (automezzi, macchinari industriali registrati, ecc.), oppure tramite scrittura privata autenticata. L’iscrizione nel Registro delle Imprese ha la funzione di rendere conoscibile ai terzi l’avvenuto trasferimento. Da tale pubblicità legale discendono alcuni effetti importanti descritti più avanti (ad esempio, l’opponibilità ai debitori ceduti per i crediti aziendali ex art. 2559 c.c.).
Beni e rapporti compresi nella cessione: salvo diverso accordo, il trasferimento abbraccia tutto il complesso aziendale, ovvero tutti gli elementi organizzati per l’esercizio dell’impresa. Per regola generale:
- Crediti: i crediti relativi all’azienda ceduta (es. crediti verso clienti) si trasferiscono automaticamente al cessionario, senza necessità di notifica ai debitori, dal momento dell’iscrizione dell’atto di cessione nel Registro Imprese. Il debitore ceduto che paga in buona fede il cedente senza sapere della cessione è però liberato, motivo per cui è buona prassi notificare singolarmente ai debitori l’avvenuto trasferimento. L’art. 2559 c.c. deroga così alla disciplina generale di cessione dei crediti, agevolando il cessionario che subentra nei crediti aziendali senza bisogno di tante formalità.
- Debiti: i debiti aziendali non seguono automaticamente l’azienda, a tutela dei creditori. Il principio generale (art. 2560 c.c.) è che il cedente non è liberato dai debiti anteriori al trasferimento se non risulta il consenso dei creditori, e che il cessionario risponde in solido con il cedente solo dei debiti che risultano dalle scritture contabili obbligatorie dell’azienda. Questa norma cruciale – su cui torneremo diffusamente – tutela i creditori mantenendo il cedente come garante originario e, allo stesso tempo, rendendo il cessionario co-obbligato per i debiti “apparenti” dai libri contabili. Le parti possono pattuire diversamente tra di loro (ad es. che taluni debiti non vengano accollati al cessionario), ma tale patto non ha effetto verso i terzi creditori senza il loro consenso. In assenza di consenso dei creditori, il compratore può tutt’al più ottenere dal venditore un indennizzo o la restituzione di parte del prezzo se si trova a pagare debiti pregressi non contemplati.
- Contratti in corso: a norma dell’art. 2558 c.c., il cessionario subentra nei contratti stipulati per l’esercizio dell’azienda che non abbiano carattere personale, salvo patto contrario. Ciò significa che tutti i contratti aziendali (es. contratti di fornitura, locazione di immobili, contratti con clienti, leasing, utenze, assicurazioni, ecc.) continuano con l’acquirente alle stesse condizioni, a meno che: (a) si tratti di contratti intuitu personae legati alla persona del cedente, oppure (b) l’atto di cessione escluda specifici contratti e la controparte contrattuale acconsenta alla loro non trasferibilità. In pratica, quando si vende un’azienda si trasferisce tutto il portafoglio contrattuale legato all’attività. Ciò è positivo perché garantisce continuità aziendale (il compratore si ritrova già fornitori, clienti, contratti in essere), ma comporta che eventuali contratti sfavorevoli (es. un affitto oneroso, un contratto di fornitura a prezzo alto) passino al cessionario, salvo diverso accordo. Nel preparare la cessione è quindi importante individuare quali contratti si vogliono trasferire e prevedere se necessario clausole di split o risoluzione consensuale prima del closing. Da notare che alcune tipologie di contratto prevedono per legge o per pattuizione una clausola di gradimento/consenso in caso di trasferimento d’azienda (es: nei contratti pubblici, o in franchising, o nei contratti di locazione immobiliare ultra-novennali, spesso è pattuito che il contratto non si trasferisce senza consenso del terzo). La violazione di tali clausole può comportare la risoluzione del contratto o altre conseguenze, quindi il cedente in crisi deve tenere conto anche di questi aspetti contrattuali nella pianificazione della vendita.
- Rapporti di lavoro: il trasferimento di un’azienda (o di un ramo autonomo di essa) comporta l’automatica continuazione dei rapporti di lavoro con il cessionario, ai sensi dell’art. 2112 c.c. I lavoratori passano alle dipendenze dell’acquirente mantenendo tutti i diritti che avevano con il cedente: stesso trattamento economico-normativo, anzianità, tutela prevista dai contratti collettivi applicati. Il trasferimento d’azienda non è di per sé motivo di licenziamento: eventuali esuberi vanno gestiti con gli strumenti ordinari (licenziamento per giustificato motivo oggettivo, o collettivo se applicabile, nel rispetto della legge n. 428/1990 che prevede una procedura di informazione sindacale). Inoltre, il cessionario risponde in solido con il cedente per tutti i crediti che i lavoratori avevano maturato al tempo del trasferimento (stipendi arretrati, TFR, ferie non godute, ecc.). Questa è una deroga importante al principio di cui sopra sui debiti: la legge tutela i dipendenti garantendo che possano rivolgersi anche al nuovo datore per i loro crediti pregressi. Approfondiremo anche questo profilo, specie in contesto di crisi (ad es. vedremo che i debiti verso enti previdenziali per contributi non versati seguono una disciplina particolare).
- Avviamento e divieto di concorrenza: il valore di avviamento dell’azienda (goodwill) si trasferisce anch’esso al cessionario, benché non sia un bene “tangibile”. Proprio per proteggere l’avviamento ceduto, l’art. 2557 c.c. pone a carico del cedente un divieto di concorrenza: salvo patto contrario, il venditore deve astenersi, per un periodo massimo di 5 anni, dall’iniziare una nuova impresa che per oggetto, ubicazione o altre circostanze sia idonea a sottrarre la clientela all’azienda ceduta. Ciò impedisce al cedente di “rivendersi” subito sul mercato creando un’attività concorrente che vanifichi l’avviamento ceduto.
Riassumendo, la cessione d’azienda ordinaria implica una circolazione automatica di molti rapporti giuridici: l’acquirente prende in carico l’azienda come un “pacchetto” comprensivo di beni, crediti, contratti, dipendenti, e potenzialmente alcuni debiti. La legge tutela il cessionario fissando limiti alla responsabilità per i debiti pregressi (art. 2560, che richiede la risultanza nei libri contabili obbligatori) e tutela i creditori assicurando che possano agire almeno contro il cedente e, se il debito è contabilizzato, anche contro il cessionario. Questa disciplina di diritto comune vale per ogni cessione d’azienda in bonis. Quando l’azienda è in crisi o insolvente, però, subentrano regole speciali (previste dal Codice della Crisi e da leggi collegate) che modificano parzialmente il quadro sopra descritto. Tali regole mirano a favorire soluzioni che preservino il valore aziendale e al tempo stesso garantiscano la par condicio creditorum (parità di trattamento dei creditori) nelle procedure concorsuali. Nei paragrafi successivi vedremo dunque come si declina la cessione d’azienda nel contesto di crisi d’impresa, quali sono i rischi specifici e le tutele da approntare.
Cessione di un’azienda in crisi: profili civilistici e responsabilità debitorie
Affrontiamo ora il cuore del problema: cosa accade ai debiti quando si vende un’azienda in crisi? Dal punto di vista del debitore cedente, l’obiettivo evidente della vendita è spesso quello di liberarsi del “fardello” dei debiti insieme all’azienda, oppure quantomeno di ottenere liquidità da destinare ai creditori. È però fondamentale comprendere che, al di fuori di specifiche procedure concorsuali, la legge non consente al cedente di scaricare unilateralmente i debiti sull’acquirente, né di “far sparire” i debiti con la vendita. I creditori godono di tutele precise. Analizziamo dunque la disciplina della responsabilità per i debiti aziendali nella cessione in crisi, evidenziando i rischi di successive azioni dei creditori (civili e, in taluni casi, anche penali) in caso di operazioni pregiudizievoli.
Responsabilità del cedente e principio di solidarietà del cessionario (art. 2560 c.c.)
Come già accennato, l’art. 2560 c.c. prevede due cose: (1) il cedente non è automaticamente liberato dai debiti dell’azienda ceduta, a meno che i creditori acconsentano espressamente a liberarlo; (2) il cessionario risponde in solido con il cedente dei debiti relativi all’esercizio dell’azienda ceduta anteriore al trasferimento, ma soltanto per quei debiti che risultano dai libri contabili obbligatori. Questa norma è il pilastro civilistico in materia di successione nei debiti aziendali e vale anche se l’atto di cessione nulla dice al riguardo (è norma imperativa a tutela dei creditori).
Per il cedente ciò significa che vendere l’azienda non equivale a “fare sparire i debiti”: egli rimane comunque obbligato verso i creditori per i debiti sorti prima della cessione, salvo che ogni singolo creditore lo liberi. Tali liberazioni sono rare, avvenendo di solito solo se il creditore viene pagato o assicurato in altro modo. Dunque il cedente, dopo la vendita, potrebbe trovarsi ancora esposto verso eventuali debiti non integralmente soddisfatti con il ricavato.
Per il cessionario, l’art. 2560 configura una responsabilità aggiuntiva (solidale con il cedente) limitata però ai debiti contabilizzati. La ratio è di proteggere sia il credito dei terzi sia l’acquirente stesso: i libri contabili obbligatori (in primis il libro giornale e il libro degli inventari, art. 2214 c.c.) rappresentano l’informazione ufficiale su cui un potenziale acquirente può fare affidamento per conoscere la situazione debitoria dell’azienda. Se un debito è regolarmente registrato in contabilità, si presume che l’acquirente ne fosse o potesse esserne a conoscenza; per converso, un debito non registrato non deve gravare sul cessionario, nemmeno se questi ne era a conoscenza per altre vie. La giurisprudenza della Cassazione è costante nell’affermare che la conoscenza extrabilancio del debito da parte dell’acquirente è irrilevante: l’iscrizione formale nei libri è requisito indefettibile per far scattare la responsabilità ex art. 2560. Ad esempio, è stato escluso che il cessionario risponda di un debito non contabilizzato anche se ne era a conoscenza per altre fonti, proprio perché mancava l’iscrizione nei libri contabili obbligatori. Inoltre, i “libri contabili obbligatori” cui fare riferimento sono solo quelli indicati dall’art. 2214 c.c. (libro giornale e inventari, eventualmente bilanci), non bastando documenti diversi come registri IVA, scritture ausiliarie o altro.
Questa interpretazione rigorosa tutela l’acquirente da passività occulte, ma al tempo stesso può creare difficoltà probatorie ai creditori: spetta al creditore, in causa, dimostrare che il suo credito era effettivamente annotato nei libri contabili dell’azienda. Tale prova non è agevole, poiché i creditori di norma non hanno accesso ai libri sociali (non sono documenti pubblici); possono chiederne l’esibizione in giudizio, ma il cessionario spesso vi si oppone. Anche indicare in contratto quali debiti assume il compratore non aiuta i creditori per far valere la solidarietà, essendo il contratto res inter alios acta (i creditori non ne sono parti).
Riepilogo degli effetti di art. 2560 c.c.:
- Il cedente continua ad essere obbligato per tutti i debiti aziendali antecedenti la cessione, salvo liberazione del creditore (consenso alla liberazione).
- Il cessionario è co-obbligato solo per i debiti anteriori che risultino dai libri contabili obbligatori dell’azienda.
- Il cessionario non risponde dei debiti: (a) non risultanti dai libri obbligatori (anche se magari annotati altrove o noti per altre vie); (b) non chiaramente individuabili dai libri (es. se i libri presentano dati incompleti o generici sul debito, come mancata indicazione del creditore – in tal caso la Cassazione ha escluso la solidarietà); (c) relativi all’azienda ma sorti dopo il trasferimento (ovviamente); (d) contrattualmente esclusi a carico del cessionario, limitatamente però agli effetti interni (verso i creditori quell’esclusione non vale, salvo il caso particolare esaminato più avanti di cessione avvenuta nell’ambito di procedure di crisi).
- La responsabilità solidale del cessionario ha natura aggiuntiva, non sostitutiva: i creditori possono agire sia contro il venditore sia contro l’acquirente (nei limiti suddetti), restando però il debito unico. Se paga uno, l’altro è liberato, e il cessionario che paga può rivalersi sul cedente (diritto di regresso). Viceversa, se paga il cedente, non ha regresso verso il cessionario (perché la solidarietà è prevista a tutela dei creditori, non del cedente).
Per un’azienda in crisi, queste regole sono cruciali. In primo luogo, il debitore cedente deve essere consapevole che la vendita, di per sé, non lo libera dai debiti pregressi: a meno di soddisfarli integralmente col prezzo o di ottenere liberatorie, i creditori potranno comunque pretendere da lui il pagamento del dovuto post-cessione. Inoltre, i creditori insoddisfatti potrebbero reagire con azioni giudiziali, come vedremo tra poco. In secondo luogo, un potenziale acquirente di un’azienda in difficoltà sarà molto cauto riguardo ai debiti del cedente: sapendo di poter essere chiamato in solido per i debiti iscritti in contabilità, vorrà verificare attentamente i libri (due diligence) e probabilmente inserirà clausole di garanzia nel contratto, oppure condizionerà l’acquisto al pagamento di determinati debiti prima del closing. Questo incide sulla praticabilità stessa della vendita: più l’azienda è gravata di passività, meno appetibile sarà per un compratore, a meno che si possa strutturare l’operazione in modo da “bonificare” il perimetro ceduto dai debiti (ad esempio tramite una procedura concorsuale).
Va segnalato che l’art. 2560 c.c., pensato per vendite in bonis, può prestarsi ad abusi in contesto di crisi quando il cedente tenti di eludere i creditori. Ad esempio, un imprenditore malintenzionato potrebbe trasferire l’azienda a una società di famiglia o una “newco” vicina, omettendo di iscrivere nei libri contabili alcuni debiti, con l’intento di spogliare la vecchia società dei beni e lasciare i creditori senza garanzie. Formalmente, il cessionario in tal caso non sarebbe responsabile di quei debiti (perché non risultanti dalle scritture) e il cedente originario, svuotato dei beni, potrebbe fallire senza patrimonio. Schema del genere purtroppo si è visto nella pratica (trasferimenti a newco con stessa compagine sociale, stessa attività, stessi clienti, allo scopo di proseguire il business pulito dai debiti). La giurisprudenza più recente ha posto un freno a tali abusi: è stato affermato che se è palese che l’operazione sia meramente elusiva, con il cessionario di fatto consapevole dei debiti pur non iscritti, scatta comunque la responsabilità solidale del cessionario per tutelare i creditori. In particolare, la Corte di Cassazione ha ritenuto applicabile la responsabilità ex art. 2560 in due ipotesi tradizionalmente escluse: (1) debiti non risultanti dai libri ma conosciuti dall’acquirente (caso esaminato: il socio unico e amministratore della società cedente era anche amministratore delegato della cessionaria, quindi la nuova società “sapeva” dei debiti); (2) quando a seguito di operazioni straordinarie cedente e cessionario finiscono per coincidere (caso: la società cedente, dopo aver trasferito l’azienda, è stata fusa per incorporazione nella cessionaria). In tali situazioni, secondo la Cassazione, l’art. 2560 c.c. non può essere usato per avvantaggiarsi in frode ai creditori: o si disapplica la condizione formale dell’iscrizione, o addirittura si considera inoperante la norma per mancanza di alterità tra cedente e cessionario. Già in precedenza, infatti, si era chiarito che la solidarietà ex 2560 presuppone un’effettiva diversità dei soggetti (cedente e cessionario): se il trasferimento è meramente simulato o solo formale, con gli stessi soggetti dietro le quinte, allora la norma non può essere invocata dal cessionario per sottrarsi ai debiti. Le Sezioni Unite della Cassazione hanno stabilito che il principio di responsabilità del compratore “incontra un limite solo nella carenza di un’effettiva alterità soggettiva” fra cedente e cessionario. Ciò vuol dire che se Tizio trasferisce la sua azienda a una società di cui egli stesso detiene il controllo e amministrazione, l’operazione potrebbe essere considerata una mera continuazione sotto altra veste, senza liberazione dai debiti (anzi, in un caso la Cassazione ha detto che il cessionario in tali circostanze risponde di tutti i debiti, anche non risultanti dai libri, essendo venuta meno la premessa della norma).
Conclusione pratica per il cedente: se la tua azienda è indebitata e pensi di venderla, sappi che – a meno di usare strumenti straordinari descritti più avanti – rimarrai comunque obbligato verso i creditori per i debiti anteriori, e l’acquirente potrebbe risponderne con te solo per quelli ufficialmente risultanti. Tentativi di “ripulire” l’azienda trasferendola a un’altra tua società o a familiari, lasciando i debiti indietro, rischiano di essere vanificati in sede civile (con azioni dei creditori) e addirittura di configurare reati (come vedremo). È quindi fondamentale, quando si cede in crisi, agire in modo trasparente e preferibilmente nel quadro di piani di risanamento o procedure concorsuali che forniscano ratifica giudiziale all’operazione.
Tutela dei creditori: azioni revocatorie e altre iniziative
I creditori dell’azienda ceduta, specialmente se rimasti insoddisfatti in tutto o in parte dopo la cessione, hanno a disposizione alcuni strumenti per tutelarsi. Abbiamo visto che possono, in teoria, agire anche contro il cessionario per i debiti iscritti in contabilità. Nella pratica, però, questa strada (azione diretta ex art. 2560) è spesso poco efficace per le difficoltà probatorie e perché talvolta l’azienda ceduta viene fatta proseguire in forma “schermata” rendendo difficile individuare i contorni del debito.
Lo strumento più incisivo per i creditori pregiudicati da una vendita d’azienda è l’azione revocatoria. Esistono due tipi di revocatoria: quella ordinaria (art. 2901 c.c., azione individuale dei creditori) e quella fallimentare/concorsuale (promossa dal curatore fallimentare o dall’organo della procedura concorsuale una volta aperto il concorso).
- Azione revocatoria ordinaria (art. 2901 c.c.): se la cessione d’azienda ha arrecato pregiudizio alle ragioni di un creditore (cioè ha diminuito la garanzia patrimoniale su cui poteva contare), questi può chiedere al tribunale di dichiararne l’inefficacia verso di lui. In altre parole, il creditore insoddisfatto potrebbe far “revocare” l’atto di cessione, rendendolo inopponibile, così da poter aggredire i beni ceduti come se fossero ancora del debitore. I requisiti per la revocatoria ordinaria sono: eventus damni (pregiudizio per il creditore) e consilium fraudis (la conoscenza del pregiudizio da parte del debitore e, nei casi di atto a titolo oneroso, la partecipazione alla frode del terzo acquirente). Applicando questi concetti: vendere l’azienda sottrae beni al ceto creditorio; se ciò avviene quando il debitore era già indebitato e con intento di evitare il pagamento, la revocatoria può essere accolta. Nella prassi, per facilitare la prova, si usano presunzioni: ad esempio, un atto a titolo gratuito (cessione senza corrispettivo o a corrispettivo irrisorio) è revocabile se compiuto entro 2 anni dal sorgere del credito; un atto oneroso verso un terzo consapevole del pregiudizio è revocabile entro 5 anni. La cessione d’azienda fatta a familiari o società controllate, a prezzo vile, poco prima del default, è il tipico caso che un creditore potrebbe far caducare con la revocatoria. L’esito è l’inefficacia relativa: l’azienda magari resta al cessionario, ma quel creditore potrà escuterne i beni come se appartenessero ancora al debitore originario.
- Azione revocatoria fallimentare (artt. 163 e ss. Cod. Crisi, già art. 67 L. Fall.): se dopo la cessione l’impresa del cedente viene assoggettata a liquidazione giudiziale (fallimento), spetterà al curatore valutare se la vendita è stata pregiudizievole per la massa e agire di conseguenza. Il Codice della Crisi prevede (analogamente a prima) che siano revocabili una serie di atti compiuti dal debitore in prossimità dell’insolvenza: in particolare gli atti a titolo oneroso compiuti in un determinato periodo sospetto prima dell’apertura della procedura, se il corrispettivo versato dal cessionario è inferiore di oltre 1/4 al valore effettivo dell’azienda (atto a titolo oneroso sottovalutato). Il periodo sospetto per queste vendite a prezzo vile è di un anno dalla dichiarazione di liquidazione giudiziale (art. 166 co.2 lett. a, CCII). Sono poi sempre revocabili (periodo 6 mesi) i pagamenti preferenziali fatti a taluni creditori a ridosso del fallimento, e addirittura due anni per atti gratuiti (cessione a titolo gratuito). Una cessione d’azienda a titolo gratuito o simbolico entro i due anni antecedenti il fallimento del cedente sarà con ogni probabilità revocata, poiché palesemente lesiva (il patrimonio esce senza contropartita). Se il cessionario ha pagato un corrispettivo basso, il curatore può sostenere che vi sia stata ineseguibilità in parte e chiedere la revoca. La conseguenza della revocatoria fallimentare è più incisiva: l’atto viene dichiarato inefficace rispetto alla massa dei creditori, e il curatore può riprendere i beni venduti (o il loro controvalore) per distribuirli ai creditori del fallito. Il cessionario ha poi diritto di insinuarsi al passivo per riavere quanto pagato, come credito chirografario. Capite bene che per un acquirente è una prospettiva allarmante: potrebbe perdere l’azienda acquistata e restare con un pugno di mosche, recuperando solo in parte il prezzo pagato (dalla procedura). Pertanto, un compratore prudente, sapendo che il cedente è in crisi, condizionerà l’acquisto alla ragionevole certezza che non vi sarà un fallimento a breve o – meglio ancora – che la cessione avvenga nell’ambito di strumenti esenti da revocatoria (vedi oltre).
Esenzioni da revocatoria: il legislatore, consapevole che il timore delle azioni revocatorie e della responsabilità ex art. 2560 costituisce un deterrente per chi sarebbe interessato a rilevare aziende in difficoltà, ha previsto alcune esenzioni per favorire le operazioni di risanamento. In particolare, non sono soggetti a revocatoria fallimentare gli atti, i pagamenti e le garanzie posti in essere in esecuzione di un piano attestato di risanamento o di un accordo di ristrutturazione omologato o di un concordato preventivo omologato (purché tali atti siano coerenti col piano). Il Codice della Crisi (art. 166, co.3, lett. e) riprende questa regola: se il trasferimento d’azienda è previsto da un piano di concordato preventivo o da altro strumento di regolazione della crisi omologato, esso non è soggetto a revocatoria. Ad esempio, se nel concordato preventivo del cedente era contemplata la vendita dell’azienda a un certo prezzo per pagare i creditori, quella vendita – una volta omologato il concordato – non potrà essere messa in discussione da un successivo fallimento (anche nell’ipotesi in cui il concordato vada in risoluzione o annullamento). Analogamente, l’art. 67, co.3, lett. d) della vecchia legge fallimentare (ora trasfuso nell’art. 166 CCII) esentava gli atti compiuti in esecuzione di un piano attestato di risanamento pubblicato. Scopo di queste esenzioni è incentivare le soluzioni concordate della crisi – il cessionario che acquista in quel contesto sa che il suo acquisto non verrà aggredito dal curatore, il che aumenta la fiducia e la disponibilità a pagare un prezzo equo.
Oltre alla revocatoria, un creditore pregiudicato da una cessione potrebbe valutare altre azioni di responsabilità. Ad esempio, se la vendita dell’azienda costituisce violazione dei doveri degli amministratori (che hanno distratto asset a danno dei creditori sociali), il curatore fallimentare potrà esperire l’azione di responsabilità contro gli amministratori per mala gestio. In casi estremi, se la cessione avviene quando la società era di fatto già insolvente e costituisce un tentativo doloso di elusione del fallimento, si può configurare il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale (ne parleremo nella sezione penale). Dunque il cedente deve muoversi con grande cautela: se la crisi è irreversibile, potrebbe essere preferibile procedere tramite concordato preventivo o altro strumento concorsuale, dove la cessione d’azienda avviene con il controllo del tribunale e nel rispetto delle regole di gara, piuttosto che vendere “sottobanco” rischiando successive azioni giudiziarie.
Debiti particolari: fiscali, previdenziali e verso lavoratori
Alcune categorie di debiti aziendali seguono regole aggiuntive nella cessione, dettate da normative speciali. I debiti tributari sono disciplinati dall’art. 14 D.lgs. 472/1997, mentre i debiti contributivi (verso INPS e altri enti previdenziali) hanno peculiarità derivanti sia dalla norma civilistica sia dalla giurisprudenza. Vediamoli separatamente:
- Debiti fiscali (Erario): L’art. 14, D.lgs. 472/1997 prevede una responsabilità solidale specifica in caso di trasferimento d’azienda, a tutela del Fisco. In sintesi, il cessionario è responsabile in solido col cedente (con beneficio di preventiva escussione del cedente) per il pagamento delle imposte e sanzioni riferite a violazioni tributarie già commesse nell’anno in cui avviene la cessione e nei due anni precedenti. Inoltre, include anche debiti per violazioni anteriori ma già accertate (irrogate e contestate) nello stesso periodo. La responsabilità è però limitata al valore dell’azienda ceduta. In pratica, se acquisto un’azienda, potrei dover rispondere per imposte e sanzioni non pagate dal cedente negli ultimi 2-3 anni, ma solo fino a concorrenza di un importo pari al valore (o prezzo) dell’azienda acquisita. Questa norma impone perciò al cessionario un onere di verifica fiscale: prima dell’atto di cessione si può richiedere all’Agenzia delle Entrate un certificato che attesti l’esistenza di contestazioni in corso o di debiti tributari non soddisfatti riferiti a quel periodo. Se il certificato è negativo (nessun debito risultante) oppure l’AdE non lo rilascia entro 40 giorni, il cessionario è pienamente liberato da responsabilità tributaria. Se invece dal certificato emergono pendenze, il cessionario sarà responsabile nei limiti dei debiti ivi indicati (sempre fino al valore dell’azienda). Va aggiunto che la norma prevede un’ipotesi di frode: se la cessione è fatta in frode al Fisco (presunzione: entro 6 mesi dalla constatazione di una violazione tributaria penalmente rilevante), le limitazioni di cui sopra saltano e la responsabilità del cessionario diventa illimitata. Questo per evitare “fughe” dell’ultimo minuto dopo un controllo fiscale. Esempio: Tizio cede la sua azienda a Caio nel 2025. Nel 2024 aveva subito un accertamento fiscale con sanzioni non definite. Caio richiede il certificato ex art.14: se il certificato evidenzia, poniamo, €50.000 di imposte/sanzioni per 2023-2024 non pagate, Caio sarà responsabile in solido fino a €50.000. Se però Tizio gli avesse nascosto un grosso debito IVA 2021 non ancora contestato, Caio in teoria non ne risponde (perché la violazione non era stata constatata nel triennio). Tuttavia, se entro 6 mesi prima della vendita c’era stata una verifica che aveva constatato frodi IVA, Caio potrebbe essere ritenuto responsabile anche oltre i limiti, essendo la cessione presumibilmente fraudolenta. Il meccanismo del certificato serve a “pulire” la posizione: con certificato negativo, Caio dorme tranquillo, con certificato positivo, Caio può calcolare nel prezzo quelle pendenze o pretendere che Tizio le estingua.
- Debiti previdenziali (INPS e altri enti): Non esiste un articolo di legge analogo a quello fiscale, ma si applicano in parte le regole generali. I contributi non versati ai vari enti (INPS, Casse previdenza) rientrano nei debiti dell’azienda e, se risultanti dalle scritture contabili, il cessionario ne risponde ex art. 2560 c.c. come per qualunque debito. Attenzione però all’intersezione con l’art. 2112 c.c.: quest’ultimo rende solidalmente responsabile il cessionario per “tutti i crediti che il lavoratore aveva al tempo del trasferimento”. Sorge spontaneo chiedersi: i contributi previdenziali arretrati sono un credito “del lavoratore” (e quindi coperto da solidarietà ex 2112) oppure no? La Cassazione ha chiarito che il lavoratore è estraneo al rapporto contributivo tra datore e ente previdenziale, quindi i contributi non versati non rientrano tra i crediti tutelati da 2112 c.c.. In altre parole, il lavoratore ha diritto alla pensione a prescindere, ma il credito per i contributi è dell’INPS, non suo; dunque l’INPS non può invocare la solidarietà ex art. 2112 (che copre salari, TFR, ferie, ecc.), ma può far valere semmai l’art. 2560 se quei debiti contributivi risultano dai libri. Nella pratica, l’INPS – analogamente al Fisco – rilascia un DURC (Documento Unico Regolarità Contributiva) su richiesta, da cui risulta se l’azienda ha debiti contributivi pendenti. È buona norma per l’acquirente verificarlo. Va segnalato che, a differenza del Fisco, non c’è un meccanismo di esonero automatico per il cessionario: se acquisto un’azienda con debiti INPS e questi sono nei libri, rischio poi cartelle esattoriali dall’INPS (o dall’Agenzia Entrate-Riscossione) in solido col cedente. Spesso, comunque, tali debiti vengono indicati e considerati in sede di trattativa, magari trattenendo parte del prezzo a garanzia.
- Debiti verso dipendenti: Come detto, l’art. 2112 c.c. prevede la continuazione dei rapporti di lavoro e la responsabilità solidale del cessionario per i crediti che i lavoratori avevano al momento della cessione. Ciò include tipicamente retribuzioni non pagate, straordinari, TFR maturato e non versato al Fondo Tesoreria, ferie e permessi non goduti, ecc. Sono esclusi invece i crediti maturati dopo la cessione (ovviamente a carico solo del nuovo datore) e – come visto – i contributi previdenziali arretrati (per quelli, il lavoratore non ha un suo credito diretto). Il cessionario dunque deve considerare nel passivo eventuali mensilità arretrate o TFR pregresso: i lavoratori potranno richiederli anche a lui. Non è possibile far diversamente nemmeno con il consenso del lavoratore, se non entro limiti ristretti (un patto peggiorativo dei diritti del lavoratore in occasione di trasferimento è nullo, art. 2112). In contesti di crisi, spesso i debiti verso dipendenti (stipendi arretrati) vengono coperti dal Fondo di Garanzia INPS in caso di fallimento o concordato (se l’impresa non paga, interviene il Fondo a garantire TFR e ultime 3 mensilità). Ma se si cede l’azienda fuori da procedure concorsuali, l’acquirente si accolla quell’onere solidale. È dunque opportuno per il cessionario sapere esattamente quanti stipendi e quanto TFR sono dovuti, magari subordinando il perfezionamento dell’operazione al pagamento di parte di essi da parte del cedente (o ad accordi con i lavoratori).
In sintesi, per i debiti verso Erario e INPS esistono strumenti specifici (certificati dei carichi pendenti, DURC) e normative che il cedente in crisi dovrebbe attivare per facilitare la cessione. Il cessionario chiederà probabilmente di vedere questi documenti e potrebbe trattenere dal prezzo eventuali importi scoperti. Dal lato del cedente, se si vuole attirare un compratore affidabile, conviene presentarsi con la “casa in ordine” o almeno con chiara evidenza delle posizioni debitorie fiscali/previdenziali – magari avendo già avviato una trattativa con AdE o Inps per dilazioni o transazioni. Si noti che il Codice della Crisi ha apportato modifiche importanti: quando la cessione d’azienda avviene nell’ambito di procedure concorsuali o di composizione della crisi, la legge esonera il cessionario sia dalla responsabilità ex art. 2560 c.c. sia da quella fiscale ex art. 14 D.lgs. 472/97. Approfondiamo questo aspetto nel prossimo paragrafo.
Cessione d’azienda in procedure di crisi: esonero del cessionario dai debiti
Una grande differenza tra vendere un’azienda “in proprio” e venderla attraverso una procedura concorsuale sta proprio nella responsabilità per debiti pregressi. Il legislatore ha riconosciuto che se un imprenditore in crisi cede la propria azienda come parte di un percorso di risanamento (concordato, accordo, ecc.), vincolare l’acquirente ai debiti pregressi renderebbe l’azienda invendibile. Pertanto, la legge esclude l’applicazione dell’art. 2560 c.c. e delle responsabilità tributarie in vari casi di cessione in ambito concorsuale.
In particolare, ai sensi degli artt. 118, comma 8 e 214, comma 3 del Codice della Crisi, se la cessione avviene nell’ambito di: concordato preventivo, liquidazione giudiziale (fallimento), concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio o concordato minore, il cessionario non risponde dei debiti dell’azienda ceduta sorti prima del trasferimento. Similmente, l’autorizzazione del tribunale prevista nell’ambito della composizione negoziata (art. 22, co.1 lett. d, CCII) consente di trasferire l’azienda (o rami) “senza responsabilità solidale dell’acquirente per i debiti aziendali”. In sostanza, quando la cessione è parte di un processo controllato di regolazione della crisi, la regola “ordinaria” di art. 2560 c.c. viene messa da parte per favorire la continuità aziendale. Si parla al riguardo di effetto purgativo della vendita concorsuale: l’azienda esce “ripulita” dai debiti pregressi e questi restano in capo alla procedura (saranno soddisfatti con il prezzo incassato, secondo le regole concorsuali).
Ad esempio, una vendita nel contesto di un fallimento (liquidazione giudiziale) è tipicamente purgativa: la Cassazione ha confermato che l’acquirente di un’azienda dal fallimento non può essere chiamato a rispondere dei debiti del fallito, neppure se risultavano dai libri. Parimenti, una vendita inserita in un concordato preventivo omologato gode di esonero ex lege. Anche il nuovo concordato semplificato (introdotto nel 2021) rinvia a tale esonero. Lo scopo, come osservato dottrinariamente, è evitare che l’aspettativa di dover pagare i debiti altrui disincentivi possibili compratori, i quali altrimenti preferirebbero acquistare i beni singolarmente o a prezzi molto ridotti.
Va però evidenziato un dettaglio: il Codice della Crisi nella sua versione originaria del 2019 non menzionava espressamente tutti gli strumenti. In particolare, la composizione negoziata e il piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione (PRO) inizialmente non rientravano nell’elenco delle esenzioni dell’art. 14, D.lgs. 472/97 (responsabilità fiscale). Ciò creava un’anomalia: se vendevi in concordato niente responsabilità per debiti tributari (art. 14 co.5-bis), ma se vendevi durante una composizione negoziata, formalmente la norma fiscale non ti esonerava (perché quella procedura non era prevista nella legge tributaria). Questo vulnus è stato colmato di recente: con la Legge n. 111/2023 (delega fiscale) il legislatore ha disposto di estendere l’esenzione di responsabilità del cessionario anche alla composizione negoziata e al PRO. All’esito della riforma (attuata o in via di attuazione nel 2024), dunque, possiamo dire che qualsiasi cessione d’azienda effettuata nell’ambito di uno strumento di regolazione della crisi o insolvenza previsto dal Codice della Crisi comporta l’esclusione della responsabilità del compratore per i debiti anteriori, sia civilistici che tributari, salvo il caso di frode.
Ricapitolando, quando vale l’esonero? In base alle norme vigenti (art. 2560 c.c. richiamato dagli artt. 118 e 214 CCII, e art. 14 D.lgs. 472/97 co.5-bis):
- Vendite in concordato preventivo (omologato) – il compratore non risponde dei debiti antecedenti.
- Vendite in sede di liquidazione giudiziale (fallimento) – compratore non risponde (e gli atti sono di solito a efficacia immediatamente purgativa).
- Vendite nel concordato semplificato (ex art. 25-sexies CCII, omologato dal tribunale senza voto creditori) – esonero analogamente (il CCII richiama l’effetto dell’art. 214).
- Vendite nel concordato minore (procedura per piccoli imprenditori non fallibili) – esonero ex lege anch’esso equiparato a concordato preventivo.
- Vendite autorizzate durante la composizione negoziata della crisi – esonero possibile previa autorizzazione del tribunale ex art. 22 CCII. Il tribunale, se verifica che l’operazione è funzionale alla continuità aziendale e alla migliore soddisfazione dei creditori, può autorizzare la cessione “in qualunque forma” senza gli effetti dell’art. 2560 co.2 c.c. (quindi senza responsabilità del cessionario). Tale autorizzazione, se concessa, produce effetti che permangono anche nelle eventuali procedure concorsuali successive (quindi la vendita resta “valida e non revocabile” pure se poi l’impresa fallisce o va in concordato). Questo è un potente incentivo per usare la composizione negoziata come pre-pack: si trova un acquirente, si chiede l’ok del giudice, si vende pulito dai debiti e poi se serve si chiude il residuo in fallimento con i soli crediti di prezzo da distribuire).
- Vendite previste in accordo di ristrutturazione omologato (art. 57 CCII) o in piano di ristrutturazione omologato (art. 64-bis CCII) – attenzione: qui c’è una distinzione. Il Codice della Crisi, sorprendentemente, non ha incluso le cessioni fatte nell’ambito di accordi 182-bis o piani di risanamento tra quelle esonerate da responsabilità ex art. 2560. In effetti, l’art. 2560 c.c. “non si applica” di diritto solo nei casi detti sopra (procedure concorsuali e comp. negoziata). Quindi, se uno fa un accordo di ristrutturazione col 60% creditori e nel piano di accordo c’è la cessione d’azienda, formalmente l’acquirente potrebbe essere chiamato a rispondere dei debiti, perché l’accordo di per sé non è concorsuale (non v’è par condicio). Stessa cosa per un piano attestato ex art. 56 CCII: se include la vendita a un terzo, il cessionario non gode dell’esclusione di legge. Questa è una scelta discutibile, evidenziata dagli operatori come “lacuna” normativa. La ratio è forse che in accordi e piani mancano quegli elementi di concorsualità (adesione di tutti i creditori o controllo del giudice) tali da giustificare un esonero assoluto; sta di fatto che, ad oggi, per vendite in esecuzione di un accordo 182-bis omologato o di un piano attestato, l’acquirente potrebbe voler comunque tutelarsi perché la legge non gli dà automaticamente safe harbor. Come vedremo, però, è probabile che l’equiparazione venga estesa anche a queste ipotesi con la riforma fiscale in corso.
Sul fronte fiscale, l’art. 14 D.lgs. 472/97 contiene già (dal 2020) un comma 5-bis che esclude la responsabilità solidale per i debiti tributari del cedente se la cessione avviene: nell’ambito di una procedura concorsuale (fallimento, concordato preventivo, liquidazione coatta, amministrazione straordinaria) oppure di un accordo di ristrutturazione o di un piano attestato, o di una procedura di sovraindebitamento. Come detto, inizialmente non menzionava comp. negoziata e PRO, ma la Legge Delega 2023 rimedierà includendo anche queste fattispecie. In pratica, se l’azienda è ceduta come parte di un piano di risanamento, il fisco non può rivalersi sul compratore per imposte e sanzioni del passato. Non solo: in tal caso il compratore non è neppure tenuto a richiedere il certificato dei carichi pendenti ai fini della liberazione (non serve perché comunque è esonerato). L’esonero opera indipendentemente dall’ammontare dei debiti tributari e dal loro trattamento nel piano. La ratio è ovvia: togliere un “rischio fiscale” che spesso scoraggiava le acquisizioni di aziende in crisi. La norma aggiunge anche un’interessante estensione al gruppo: l’esonero fiscale vale pure se a cedere l’azienda è una società controllata da un’impresa in crisi che ha fatto ricorso a uno degli strumenti del Codice della Crisi. Cioè, se la capogruppo è in concordato e prevede di salvarsi vendendo l’azienda di una sua controllata in bonis, anche l’acquirente di quell’azienda di gruppo gode dell’esonero dai debiti fiscali del cedente. Ciò è logico perché spesso nei gruppi la crisi investe la holding ma coinvolge anche società controllate (si evita sennò che i debiti fiscali della controllata in bonis ricadano sul compratore quando la vendita è funzionale al risanamento della controllante).
Conclusione pratica per il cedente in crisi: se vuoi davvero liberare l’azienda dai debiti per renderla vendibile, considera fortemente l’uso di uno strumento concorsuale o pre-concorsuale. Vendere l’azienda all’interno di un concordato preventivo o con l’ausilio della composizione negoziata, infatti, ti permette di offrire al compratore un “pacchetto” senza debiti (saranno trattenuti nella procedura e soddisfatti col prezzo). Questo aumenta di molto le chance di trovare un acquirente e ottenere un prezzo migliore. Al contrario, se provi a vendere privatamente un’azienda sommersa di debiti, quasi certamente l’acquirente decurterà drasticamente il prezzo per coprirsi dei rischi, oppure pretenderà formule complicate di accollo selettivo, o più semplicemente non comprerà affatto. Nel seguito della guida analizzeremo più in dettaglio gli strumenti alternativi e come ciascuno può essere utilizzato.
Clausole contrattuali di salvaguardia e due diligence
Quando si procede comunque a una cessione d’azienda in crisi (sia nell’ambito di procedure, sia fuori), è fondamentale regolare nel contratto alcuni aspetti per prevenire controversie future. Dal lato del cedente, l’ideale sarebbe ottenere dal cessionario una liberazione dai debiti, ma come spiegato questo dipende dal consenso dei creditori. Tuttavia, le parti possono inserire clausole di manleva e aggiustamento del prezzo. Ad esempio, si può pattuire che “il cessionario non assume alcun debito del cedente, restando tali passività integralmente a carico del cedente”, oppure specificare quali debiti (nominativamente elencati) vengono accollati dall’acquirente e detratti dal prezzo. Tali clausole non vincolano i creditori (che potranno sempre rivalersi come consente la legge), ma hanno efficacia tra le parti: se, ad esempio, il compratore finisce per dover pagare un fornitore rimasto insoluto del cedente, potrà chiedere al cedente il rimborso integrale qualora il contratto prevedesse che tali debiti restavano a carico del venditore. In pratica il cessionario agirebbe in regresso sul cedente. Ciò presuppone che il cedente post-cessione sia solvibile… il che, in contesti di crisi, può essere aleatorio. Spesso quindi si concordano depositi cauzionali o escrow: una parte del prezzo viene accantonata per un certo periodo a garanzia di eventuali passività non emerse, e liberata al cedente solo se non spuntano sorprese (o usata per indennizzare il compratore in caso contrario).
Dal lato dell’acquirente, la tutela primaria è una due diligence approfondita prima della firma: esaminare bilanci, libri contabili, elenco creditori, contenziosi pendenti, cartelle esattoriali, DURC, ecc., per mappare tutti i debiti. È opportuno richiedere nel contratto dichiarazioni e garanzie del cedente (le representations & warranties) su vari punti: ad esempio, che i bilanci riflettono correttamente l’indebitamento, che non vi sono debiti ulteriori oltre quelli dichiarati, che non pendono cause o accertamenti non comunicati, ecc. In caso di falsità, il cessionario avrà diritto a un indennizzo o a riduzione del prezzo. Si possono prevedere franchigie, cap massimi di indennizzo, meccanismi di aggiustamento prezzo post-closing in base a situazione patrimoniale definitiva, ecc. Tutta questa contrattualistica è volta a allocare i rischi tra le parti, ma ricordiamo ancora: verso i terzi creditori vale la legge, non i patti. Quindi clausole del tipo “tutti i debiti restano in capo al cedente” servono a proteggere l’acquirente sul piano interno (regresso), ma non impediscono ai creditori di farsi avanti con lui nei casi previsti (ad es. debiti su libri, art. 2560). Per questo l’acquirente realmente tranquillo lo è solo se o paga egli stesso tutti i debiti (scontandoli dal prezzo) o se l’operazione avviene con esonero legale (concordato, ecc.).
Infine, è opportuno disciplinare anche altri aspetti: il trattamento del personale (es. se il cessionario intende non assumere alcuni dirigenti, bisognerà licenziarli prima con oneri a carico cedente, o ottenere accordi sindacali in caso di esuberi, perché dopo la cessione i licenziamenti per motivo economico collegato al trasferimento sono nulli), eventuali clausole sospensive (ad es. la condizione che alcuni creditori aderiscano a transazioni, o che la cessione sia autorizzata dal tribunale se c’è una procedura in corso, o che il certificato fiscale ex art. 14 sia negativo), e così via.
In sintesi, vendere/acquistare un’azienda in crisi richiede un contratto “su misura” e grande trasparenza. Nella crisi il tempo è però tiranno: spesso l’impresa ha urgenza di cedere per evitare il tracollo, e il rischio è di condurre trattative affrettate. Questo può portare a errori, omissioni o contenziosi successivi. Quando possibile, inserirsi in un alveo procedurale (concordato o composizione) aiuta perché molti aspetti (dipendenti, debiti, autorizzazioni) vengono gestiti secondo legge e con il crisma di omologhe giudiziali, riducendo l’incertezza postuma.
Profili penali connessi alla cessione dell’azienda indebitata
Un ultimo profilo civilistico da tenere presente sono le possibili implicazioni penalistiche di certe operazioni di trasferimento di azienda in contesti di insolvenza. Se la vendita è fatta con intenti fraudolenti verso i creditori o il Fisco, l’imprenditore cedente rischia l’incriminazione per reati fallimentari o tributari, indipendentemente dal fatto che l’acquirente possa rispondere o meno civilmente dei debiti. La Cassazione penale è chiara: “integra il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale la cessione di un ramo d’azienda senza corrispettivo o con corrispettivo inferiore al valore reale”, specialmente se tale operazione rende impossibile all’impresa di pagare i creditori. In tali casi, anche se astrattamente i creditori potrebbero rifarsi sul cessionario ex art. 2560, ciò non salva il venditore dall’accusa di aver distratto beni dal fallimento. In altri termini, vendere l’azienda sottocosto o gratis, sottraendo l’unico patrimonio ai creditori, è bancarotta fraudolenta patrimoniale (art. 216 L.F., ora art. 322 CCII) se poi interviene il fallimento del cedente. Non vale opporre che i creditori potevano teoricamente agire sul cessionario – ciò non elimina l’evento di danno e il dolo.
Ugualmente, sul versante fiscale, la Cassazione ha affermato che “nel caso di cessione di azienda o di ramo d’azienda da parte di cedente fortemente indebitato con l’Erario, è potenzialmente configurabile il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte” (art. 11 D.lgs. 74/2000). Non occorre nemmeno che il fisco abbia già avviato riscossione coattiva: basta l’intento di rendere inefficace la futura esecuzione trasferendo il patrimonio a terzi (spesso persone vicine). Nella vicenda decisa dalla Cassazione n. 44451/2017, ad esempio, una società con grossi debiti IVA aveva conferito l’azienda in una newco e poi ceduto rami a società di familiari, svuotandosi; ciò è stato ritenuto reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte. La presenza di responsabilità solidale del cessionario per i debiti tributari (che il cedente invocava a sua discolpa) è stata giudicata un post factum che non sana l’avvenuta distrazione. In altre parole, anche se teoricamente il fisco poteva agire sul cessionario, resta il fatto che il patrimonio è stato dirottato in pregiudizio dell’Erario, e dunque il reato sussiste.
Questi richiami servono a mettere in guardia il debitore cedente: pianificare la cessione dell’azienda in crisi deve essere fatto con correttezza e buona fede. Se si segue una procedura concorsuale, si è relativamente al riparo da accuse (le operazioni autorizzate dal tribunale e fatte nell’interesse dei creditori non integrano certo reati). Se invece si tenta una vendita “sottobanco” per salvare se stessi a scapito dei creditori, il rischio penale è concreto. Anche l’acquirente che partecipi consapevolmente a un disegno fraudolento potrebbe essere coinvolto come concorrente nel reato (ad es. in bancarotta come extraneus, o in sottrazione al pagamento imposte se era parte attiva dell’escamotage).
In conclusione su questo punto: trasparenza e fair value dovrebbero guidare la cessione in crisi. Meglio cedere a prezzo equo e destinare il ricavato ai debiti secondo legge, che nascondere operazioni allestite ad arte. In quest’ultimo caso, oltre alle azioni civilistiche dei creditori, si rischiano sanzioni ben più gravi come interdizioni e pene detentive.
Profili fiscali nella cessione di un’azienda in crisi
Passiamo ora ad esaminare in dettaglio i profili fiscali connessi alla cessione d’azienda in crisi. Questo ambito è duplice: da un lato riguarda le imposte dirette (la tassazione delle plusvalenze realizzate dal cedente e la (de)taxation delle sopravvenienze da eventuale riduzione dei debiti), dall’altro le imposte indirette (IVA e imposta di registro sul trasferimento d’azienda). Inoltre, bisogna considerare come determinate soluzioni di crisi (concordato, accordi, ecc.) impattino sul carico fiscale.
Tassazione della plusvalenza sulla cessione
Quando si cede un’azienda, il cedente potrebbe realizzare una plusvalenza: il corrispettivo pattuito meno il valore contabile netto dei beni ceduti (incluso l’avviamento). Fiscalmente, la plusvalenza è un provento imponibile ai sensi dell’art. 86 del TUIR (DPR 917/1986). Le modalità di tassazione dipendono dalla natura del cedente:
- Cedente società di capitali (Srl, Spa): la plusvalenza confluisce nel reddito d’impresa ai fini IRES (aliquota 24% attuale). Non è un componente straordinario escluso dall’imponibile: concorre integralmente, salvo possibili utilizzi di perdite pregresse per attenuarla. Non è invece soggetta a IRAP (poiché l’IRAP tassa il reddito operativo, e le plusvalenze straordinarie da cessione di azienda ne sono escluse per espressa previsione). Ad esempio, se una S.r.l. cede l’azienda e realizza €100.000 di plusvalenza, pagherà circa €24.000 di IRES aggiuntiva (meno eventuali perdite fiscali utilizzabili). Questo anche se la società è in difficoltà: lo Stato tassa l’evento positivo in sé. È vero che in situazioni di crisi spesso l’azienda viene ceduta in perdita (minusvalenza) o comunque la plusvalenza può essere assorbita da perdite pregresse, ma conviene sempre fare un calcolo ex ante. Dopo la cessione, la società cedente di solito va in liquidazione: dovrà comunque presentare dichiarazione fiscale per l’esercizio in cui ha venduto, dichiarando la plusvalenza.
- Cedente imprenditore individuale o società di persone (snc, sas): la plusvalenza costituisce reddito d’impresa in capo al titolare o ai soci (trasparenza per le società di persone). Essa dunque è soggetta a IRPEF secondo gli scaglioni di ciascun contribuente (o dei soci) e a addizionali. Tuttavia, il TUIR prevede un regime di favore: se l’azienda ceduta era posseduta da oltre 5 anni (imprenditore individuale) – requisito ridotto a 3 anni dal 2019 – il cedente può optare per la rateazione della plusvalenza in 5 quote annuali costanti. Ciò consente di spalmare il carico IRPEF su più anni, evitando magari di concentrare l’intero importo in uno scaglione IRPEF altissimo. La rateizzazione è concessa anche a società di persone con anzianità azienda >3 anni. Ad esempio, un artigiano che vende la sua ditta dopo 10 anni di attività con €50.000 di plusvalenza, può scegliere di dichiarare €10.000 di reddito extra all’anno per 5 anni, anziché €50.000 tutto in un anno (il che magari gli avrebbe fatto sforare negli scaglioni IRPEF alti). Questa opzione è spesso vantaggiosa, specie se il cedente prevede di avere redditi decrescenti negli anni successivi.
- Cedente società cooperativa: anche per le cooperative (che però raramente cedono l’intera azienda, semmai trasformano la forma) varrebbero le regole IRES con qualche particolarità se è cooperativa a mutualità prevalente (parte degli utili esenti, ma sulla plusvalenza da cessione integrale dell’azienda probabilmente quell’esenzione non opererebbe).
E se la cessione avviene in perdita? Una minusvalenza derivante dalla vendita (cioè incasso inferiore al valore contabile dei beni) è fiscalmente deducibile nel reddito d’impresa immediatamente, trattandosi di perdita su realizzo di elementi patrimoniali. Nella crisi è frequente che l’avviamento non venga riconosciuto interamente, quindi il cedente potrebbe non avere alcuna plusvalenza, anzi magari una minusvalenza deducibile che genera ulteriori perdite fiscali (utili a compensare altri redditi se c’è capienza).
Esempio numerico: La società Alfa (Srl) vende la propria azienda per €200.000. Nel suo stato patrimoniale l’azienda ha beni per valore contabile netto €50.000 e un avviamento di bilancio pari a €0 (non contabilizzato). Quindi praticamente l’intero prezzo genererà plusvalenza di €150.000 (prezzo 200k – attività nette 50k). Alfa aveva però €100.000 di perdite fiscali pregresse. Tassazione: plusvalenza 150k inclusa nel reddito 2025; si compensano le perdite per 150k (oltre l’80% del reddito imponibile, ma qui essendo perdite pregresse di certo periodo potrebbero applicarsi limiti 80% superati dal 2018… i dettagli a parte), residuo imponibile magari 0; IRES dovuta nulla. Quindi niente tasse sul realizzo. Se invece Alfa non avesse perdite, avrebbe 150k tassabili * 24% = €36.000 di IRES. Non poco, considerando che quell’importo riduce quanto resta per i creditori. Nel concordato preventivo, come vedremo, potrebbe esserci un effetto di detassazione delle sopravvenienze da riduzione debiti, ma non della plusvalenza in sé.
Dal punto di vista dell’acquirente, la plusvalenza del cedente è irrilevante. L’acquirente, invece, iscriverà i beni acquisiti al costo di acquisto. Se ha pagato più del valore contabile, la differenza va allocata su avviamento (goodwill) nell’attivo. Il goodwill pagato è deducibile dal reddito del cessionario tramite ammortamento: in Italia attualmente l’avviamento può essere ammortizzato in 1/10 per anno (10 anni) ai fini fiscali. Ci sono stati periodi con norme diverse (es. ammortamento maggiorato in 5 anni se pagata imposta sostitutiva), ma di base il compratore beneficia fiscalmente negli anni del maggior valore acquistato. Se la compravendita è avvenuta a prezzi di saldo, il compratore avrà minor ammortamenti futuri, ma anche ha pagato meno.
Un elemento di pianificazione fiscale importante: se la società cedente è una Srl o SpA, talvolta i soci preferirebbero vendere le quote piuttosto che far vendere l’azienda dalla società. Perché? Perché la cessione di partecipazioni può godere di regimi agevolati (es. participation exemption per società che vendono partecipazioni in altre società: 95% plusvalenza esente se requisiti, ma ciò vale per cessione di partecipazioni, non di azienda; oppure per persone fisiche non imprenditori, la vendita di quote dopo 5 anni è esente fino al 2017, poi dal 2018 c’è il capital gain 26%). Se i soci cedono le quote, la società non genera plusvalenza, ma i soci generano eventualmente un capital gain tassato con aliquota sostitutiva 26% (dal 2019 è così, prima c’erano altri meccanismi). Questo può essere conveniente se la plusvalenza “dentro” l’azienda sarebbe stata enorme e tassata al 24% in capo societario e poi eventuale distribuzione ai soci tassata di nuovo. Però l’acquirente di quote si accolla la società con tutti i debiti! Quindi di solito, per aziende in crisi, vendere le quote non è realisticamente fattibile, a meno che l’acquirente intenda farsi carico di un risanamento post acquisto. In qualche occasione, tuttavia, si attuano operazioni miste: ad esempio conferimento d’azienda in newco con emissione di partecipazioni, e vendita delle partecipazioni (il cosiddetto share deal al posto dell’asset deal). Questo schema può ridurre l’imposta di registro (perché il trasferimento è di partecipazioni, soggette a imposta fissa €200, anziché cessione di beni d’azienda soggetta a registro 3-9%) e far ricadere la plusvalenza in un regime di PEX. L’Agenzia delle Entrate tende a scrutinare simili operazioni sotto il profilo dell’abuso del diritto, specialmente se l’unico scopo è il risparmio d’imposta. Ad esempio, se un imprenditore conferisce l’azienda in una SRL (operazione fiscalmente neutrale) e poi vende la SRL subito dopo, cercando così di tassare il gain come capital gain su quote e non come reddito d’impresa, l’Agenzia può contestare l’abuso ex art. 10-bis L. 212/2000. Tuttavia, una risposta dell’Agenzia ha ritenuto non abusivo un percorso di conferimento + vendita quote quando c’erano valide ragioni extra-fiscali (ad es. continuità dei rapporti contrattuali).
Nel contesto di crisi, l’ottimizzazione fiscale della plusvalenza non è spesso la priorità (si è più preoccupati di salvare il salvabile e pagare i creditori), ma comunque un occhio al fisco va dato: evitare mosse che generino inutilmente tasse elevate proprio nel momento di minor liquidità. Va ricordato che in concordato liquidatorio, l’eventuale utile fiscale (plusvalenze ecc.) generato dalla cessione va a beneficio dei creditori erariali in parte, perché le imposte su quell’utile sono debiti prededucibili da soddisfare. Se però la procedura finisce in fallimento, a volte il fisco rimane a bocca asciutta se non c’è attivo sufficiente.
Cessione d’azienda: regime IVA e imposte indirette
La cessione di un’azienda è per legge fuori campo IVA. L’art. 2, comma 3, lett. b) del DPR 633/1972 esclude espressamente dal campo di applicazione dell’IVA “le cessioni che hanno a oggetto complessi aziendali o rami di azienda”. Dunque, niente IVA sul prezzo di vendita dell’azienda. Ciò per favorire la continuità: non si vuole gravare l’acquirente di un onere finanziario immediato (l’IVA) che poi dovrebbe detrarre, e non si vuole spezzare la catena di deduzioni sui singoli beni. La vendita di azienda è considerata non una cessione di beni ai fini IVA, bensì un’operazione unitariamente considerata estranea all’imposta. Questo comporta che il cedente non emette fattura con IVA, ma rende invece un atto notarile o scrittura soggetta a imposta di registro.
Imposta di registro: le cessioni di azienda (o ramo) sono soggette all’imposta di registro, in misura proporzionale. L’aliquota ordinaria è del 3% sul valore complessivo netto dei beni trasferiti, fatta eccezione per alcuni beni: se nel compendio ci sono beni immobili o diritti immobiliari, si applicano le aliquote proprie (es: 9% per immobili commerciali, 15% terreni agricoli se non coltivatore, ecc.) oppure se ci sono aziende agricole può essere 0%. Il principio generale (art. 23 DPR 131/86) sarebbe che se un atto comprende più beni con diverse aliquote, si applica l’aliquota più elevata sull’intero valore, salvo che nell’atto siano indicati corrispettivi distinti per i singoli beni: in tal caso si applicano le aliquote proprie di ciascun bene. Però l’Amministrazione finanziaria ha chiarito (Circ. Ag. Entrate 18/E/2013) che in assenza di immobili l’intera cessione d’azienda sconta il 3%, senza dover frammentare per categorie di beni. Dunque, tipicamente:
- Se l’azienda ceduta non comprende immobili: imposta di registro 3% sull’intero prezzo. Esempio: vendo ramo d’azienda di commercio, fatto di attrezzature, magazzino, avviamento, contratti: registro 3%.
- Se l’azienda comprende beni immobili: occorre distinguere. Se nel contratto viene attribuito un valore separato all’immobile, quell’importo sconta l’aliquota propria (spesso 9% per fabbricati strumentali, salvo esenzioni o crediti d’imposta riuso; 2% se è immobile abitativo con agevolazioni prima casa per l’acquirente – ipotesi rara in cessione d’azienda; 0% se immobile merce ceduto esente IVA? Ma qui essendo cessione azienda è fuori IVA, quindi registro e non IVA). Il resto dell’azienda sconta il 3%. Se i valori non sono separati, l’art. 23 DPR 131 in teoria dice di applicare l’aliquota maggiore sull’intero (quindi 9% su tutto). Per questo conviene sempre distinguere in atto il valore degli immobili da quello degli altri beni. La citata Circolare 18/E/2013 ha però affermato che in assenza di immobili si applica 3% e non si applica l’aliquota più alta di altri beni (anche se presenti merci tassate 0,50% in altri contesti o crediti 0,50%). Quindi sembra che adottino un criterio: se no immobili -> 3%. Se immobili inclusi e valore non separato -> 9% su tutto come peggiore dei casi.
- Attenzione: i beni mobili registrati (autoveicoli, macchine agricole) inclusi nell’azienda non fanno scattare aliquote particolari: anch’essi rientrano nel 3% generale come elementi aziendali. Diverso se fosse vendita isolata (quella paga IPT e PRA).
- Crediti e debiti ceduti come elemento dell’azienda: i crediti trasferiti per legge (ex 2559) non hanno imposta proporzionale di registro (non sono atti a sé, la cessione d’azienda in blocco copre tutto). Se però nel contratto viene previsto l’accollo di debiti da parte dell’acquirente con diminuzione del prezzo, la Cassazione considera quell’accollo come parte del corrispettivo (non come elemento autonomo tassabile, salvo casi di confusione su base imponibile – questione tecnica).
In casi di crisi, spesso l’azienda viene ceduta a prezzo base ridotto, magari simbolico, soprattutto se ci sono passività implicite che l’acquirente si assume. Dal punto di vista del registro, la base imponibile è il valore venale dei beni trasferiti (valore di mercato), o il prezzo pattuito se maggiore. L’agenzia potrebbe sindacare un prezzo troppo basso con valutazioni d’ufficio, richiedendo imposta sulla base di un maggior valore (si pensi a immobili). Però se la vendita avviene in procedure concorsuali mediante asta competitiva, di solito il prezzo d’asta è considerato di mercato. In più c’è una norma (art. 79 L. Fall., ora credo art. 216 CCII) che dichiara esenti da revocatoria le vendite a giusto prezzo dopo comparazione di offerte. Questo però non vincola il fisco, che può comunque richiedere registro sul valore superiore se lo stima. Ci sono tuttavia meccanismi di tutela: ad esempio, il valore catastale per gli immobili se cessione soggetta a registro come trasferimento, ma qui cessione d’azienda non gode di valore catastale automatico (quello vale solo per cessioni di immobili tra privati o non IVA in generale su immobili, ma in azienda? Probabilmente sì si può chiedere valore dichiarato non notificato se è “tra privati”? Non addentriamoci).
Riassumendo imposte indirette:
- IVA: non applicabile (operazione esclusa da campo IVA).
- Registro: 3% sul valore azienda al netto di passività (se trasferite), salvo presenza immobili (aliquote ordinarie su immobili).
- Imposte ipotecarie-catastali: se ci sono immobili, oltre al registro 9% si pagano imposta ipotecaria 50€ fissa e catastale 50€ (trattandosi di atto soggetto a registro proporzionale, ipocatastali sono fisse).
- Agevolazioni: se l’acquirente è un giovane imprenditore agricolo e c’è un fondo agrario, potrebbe chiedere agevolazioni piccola proprietà contadina (imposta registro 1%, ipotecaria e catastale fisse). Ma scenario particolare.
Nelle procedure concorsuali, spesso la legge prevede alleggerimenti tributari: ad esempio, nel fallimento (liquidazione giudiziale) gli atti compiuti dal curatore nell’esercizio delle sue funzioni sono esenti da imposta di bollo e registro (art. 373 L. Fall. ante, e art. 390 CCII conferma esenzioni). Il CCII art. 390, infatti, stabilisce il coordinamento con leggi speciali e credo mantenga l’esenzione per atti delle procedure (andrebbe verificato, ma nell’elenco fonti [34] riga 1578-1579 citano D.lgs. 12/01/2019 n.14 art. 390 come coordinamento). Se così, una vendita d’azienda effettuata dal curatore fallimentare potrebbe essere esente da registro (o al più registro fisso). Su questo serve cautela: la vecchia norma (art. 86 L.F.) esentava solo alcune formalità, e la prassi con la maxi imposta di registro su vendite fallimentari non era abolita. Anzi, il curatore è tenuto a pagare registro come atto di vendita. Forse però è ridotta? Approfondimento: sembra che vendite giudiziarie immobiliari scontano €200 fisse, ma vendite fallimentari di azienda credo paghino il 3% come atto di liquidazione. L’art. 390 CCII al comma 3 lettera d) dice di coordinare con leggi tributarie, possibile riduca aliquote. In attesa di chiarimenti, diremo: Nelle vendite concorsuali potrebbe esservi esenzione o favore (ma comunque se c’è esenzione, beneficiarne spetta alla procedura – in concordato no, soggetto è debitore stesso, che paga imposte).
Per un imprenditore in crisi, l’aspetto fiscale del trasferimento va valutato anche nell’ottica di cassa: ad esempio, se vendi l’azienda e con quell’incasso vuoi pagare i creditori, considera che una fetta andrà in imposte di registro e dirette. A volte nei concordati si chiede all’Erario di accettare un trattamento di riguardo su quelle imposte (o di postergarle): l’IVA non c’è, ma l’imposta di registro va pagata – se la procedura non la paga, l’Agenzia Entrate sarà creditore nella stessa procedura. Nelle vendite fallimentari tipicamente l’acquirente paga il prezzo e anche un fondo spese per imposte.
Trattamento fiscale delle riduzioni di debiti nelle soluzioni concordate
Un aspetto cruciale per l’imprenditore in crisi è: se attraverso una procedura concorsuale o un accordo ottengo di stralciare una parte dei debiti, devo poi pagare le tasse su questa “sopravvenienza attiva”? In generale, sì: la legge fiscale considera sopravvenienza attiva tassabile la riduzione dei debiti (art. 88, co.4 TUIR). Ad esempio, se ho debiti per 1 milione e i creditori mi fanno saldo e stralcio pagando 300k, i 700k di debito condonato sarebbero un componente positivo (perché il mio patrimonio netto aumenta di 700k di utili). Questo però è chiaramente un deterrente al risanamento: un’impresa che esce da un concordato con 700k di debiti perdonati non può trovarsi subito a doverne pagare il 24% in tasse! Equivarrebbe a ridare allo Stato una parte cospicua dello sconto ottenuto. Pertanto, già dal 2005 in avanti sono state introdotte esenzioni per questi casi. Oggi l’art. 88, comma 4-ter TUIR dispone che non sono considerate sopravvenienze attive imponibili le riduzioni dei debiti dell’impresa accordate in sede di concordato preventivo liquidatorio o di procedure estere equivalenti (tassativamente non imponibili). Inoltre stabilisce che in caso di concordato di risanamento, di accordo di ristrutturazione omologato e di piano attestato pubblicato, la riduzione dei debiti non costituisce sopravvenienza attiva per la parte che eccede le perdite pregresse e di periodo e altri elementi deducibili. In parole semplici:
- Se la procedura è liquidatoria (concordato liquidatorio, oppure il vecchio concordato fallimentare, o la liquidazione giudiziale stessa, equiparata), l’intera remissione di debito è detassata. Tanto la società sta chiudendo, eventuali perdite fiscali residuano senza utilizzo, per cui si evita di generare imponibile su qualcosa che non frutterà utili futuri.
- Se la procedura mira a risanare e proseguire l’attività (concordato in continuità, accordo 182-bis, piano attestato), allora la detassazione è solo parziale: bisogna prima assorbire l’importo della riduzione del debito con le eventuali perdite fiscali pregresse e dell’esercizio, con l’ACE, e con interessi indeducibili pregressi. Solo l’eccedenza oltre tali poste non sarà imponibile. L’idea è evitare che la società “risanata” si ritrovi con un duplice vantaggio fiscale: meno debiti (quindi un utile fiscale potenziale) e allo stesso tempo ancora perdite pregresse da scomputare su futuri redditi. Si vuole che usi quelle perdite per neutralizzare la sopravvenienza, così da azzerare tutto. Difatti la norma dice: la riduzione dei debiti non è tassata “per la parte che eccede le perdite pregresse e di periodo” ecc. Ciò significa che se la società ha perdite riportabili, deve utilizzarle fino all’80% di quell’anno per compensare l’ipotetica sopravvenienza, e solo se resta ancora sopravvenienza oltre le perdite allora quell’eccedenza è esente. Nel 2015 questa norma è stata applicata e interpretata, e l’Agenzia delle Entrate conferma: la sopravvenienza da concordato è esente fino a capienza perdite + ACE + interessi indeducibili. In caso di dubbi su come applicare, il Fisco ha fornito chiarimenti (ad esempio su come calcolare perdite di periodo coordinate col meccanismo dell’80%, vedi Risposta interpello n.183/2023 citata altrove).
In soldoni: il fisco non tassa i debiti tagliati nei concordati e accordi, salvo che per la parte coperta da eventuali tax asset della società risanata. Questo è un altro forte incentivo a preferire soluzioni concordate alla crisi. Ad esempio, se in un concordato vengono falcidiati €5 milioni di debiti, e la società aveva €1 milione di perdite pregresse e €0,5M di interessi indeducibili, essa potrà esentare €5M – €(1+0,5)M = €3,5M di sopravvenienze, mentre €1,5M verranno formalmente tassati ma compensati da quelle perdite e interessi (quindi di fatto nessuna imposta). L’utile post-concordato ripartirà da zero e la società non avrà più perdite riportabili (perché le ha “consumate” così). Questo meccanismo appare equo: se la società risanata mantiene invece delle perdite non utilizzate, potrà usarle contro utili futuri, quindi le fanno comunque comodo; se gliele avessero lasciate in aggiunta alla detassazione completa della sopravvenienza, avrebbe doppio vantaggio.
Per completezza, la detassazione di cui sopra opera anche per il concordato fallimentare (ora confluito come concordato nella liquidazione giudiziale art. 240 CCII) e per le procedure di sovraindebitamento (concordato minore, piano del consumatore, ecc., equiparate a concordato). Non opera invece se la riduzione debito è fuori da queste procedure (es. un accordo stragiudiziale privato non attestato – in tal caso l’art. 88 TUIR tasserebbe l’intera remissione). Quindi, un ulteriore motivo per formalizzare attraverso piani attestati almeno (che danno esenzione parziale).
Trattamento fiscale di altre componenti legate alla crisi:
- Se nell’ambito di un risanamento i soci effettuano rinunce a crediti verso la società, tali rinunce possono generare sopravvenienze attive tassabili. La legge in parte regola: la rinuncia di un credito da parte del socio si considera apporto di capitale (fino a concorrenza della quota di patrimonio netto contabile negativo, mi pare, per evitare doping di riserve) e non genera tassazione nei limiti. Questo è dettaglio oltre il focus.
- Transazione fiscale e contributiva: nell’accordo o concordato si può prevedere il pagamento parziale di debiti fiscali e previdenziali (transazione ex art. 63 CCII, ex art. 182-ter L.F.). Se il fisco accetta un taglio, la parte falcidiata rientra nella sopravvenienza attiva da esdebitazione concorsuale e quindi segue il regime di cui sopra (non tassata se eccede perdite, ecc.).
- Costi e accantonamenti: a volte la crisi impone di accantonare costi (es. spese legali, TFR anticipato se licenziamenti). Questi rimangono deducibili secondo regole proprie (TFR e indennità liquidazione del personale deducibili quando corrisposti, spese legali deducibili per competenza se inerenti al reddito d’impresa).
- Se si *liquida volontariamente la società dopo aver venduto l’azienda e pagato i creditori, l’eventuale patrimonio residuo distribuito ai soci subisce tassazione come dividendo o capital gain a seconda dei casi (attualmente, distribuzione di riserve da capitale esenti in capo a socio persona fisica fino a concorrenza costo quota; distribuzione di utili tassati al 26%; calcolo complesso). Non ci addentriamo poiché scenario raramente positivo in crisi.
Esempio pratico di calcolo fiscale in scenario di crisi
Supponiamo la società Beta Srl in crisi ceda l’intera azienda alla Gamma Srl per €300.000, all’interno di un concordato preventivo. Beta ha debiti per €1.000.000; con i 300k paga parzialmente i creditori (diciamo il concordato prevede 30% ai chirografari). Beta aveva a bilancio cespite netti 100k, quindi plusvalenza fiscale 200k. Aveva perdite pregresse 200k. Inoltre, dallo stralcio debiti derivano sopravvenienze attive di €700.000 (debiti 1M – pagato 300k in concordato = 700k remissione). Trattamento:
- Plusvalenza 200k: imponibile IRES. Beta ha però 200k di perdite, che nel concordato di risanamento deve usare per l’80%. Diciamo, Beta userà tutte le perdite 200k per abbattere la plusvalenza 200k. Risultato: plusvalenza tassata zero (200 – 200).
- Sopravvenienza 700k da concordato: Beta, essendo concordato liquidatorio (se non continua, ipotizziamo liquidatorio perché vende tutto e chiude), allora questa riduzione non è imponibile integralmente. Quindi 0 imponibile su 700k.
- Beta esce dal concordato e si avvia a chiusura: non ha più perdite (le ha usate). Non avrà debiti tributari perché 0 imponibile => 0 IRES, e su cessione d’azienda paga registro 3% = 9k (a carico della procedura, quindi i creditori in realtà riceveranno leggermente meno di 300k al netto).
- Se invece Beta fosse proseguita (concordato in continuità) e non liquidata, allora la remissione 700k sarebbe esente solo oltre perdite. Avendo Beta 0 perdite dopo l’uso su plusvalenza, residuava ACE ecc? ipotizziamo nulla; allora se prosegue 700k sarebbero esenti per la parte eccedente… dovrebbero essere esenti oltre perdite 0 => 700k esenti. Quindi comunque zero tasse, ma Beta avrebbe perdite esaurite.
Moralmente, il fisco non è un ostacolo insormontabile in caso di cessione in crisi, a patto di muoversi dentro i canali previsti.
Strumenti alternativi alla cessione dell’azienda in crisi
La vendita dell’azienda non è l’unica via per affrontare una situazione di crisi o insolvenza. A seconda dei casi, l’imprenditore potrebbe valutare soluzioni alternative che consentano di superare la crisi mantenendo la proprietà dell’azienda, o comunque liquidandola in forme diverse. In questa sezione esamineremo i principali strumenti alternativi alla cessione e li confronteremo brevemente:
- Affitto d’azienda: cedere temporaneamente la gestione dell’azienda a un terzo, dietro pagamento di un canone, mantenendone però la proprietà.
- Concordato preventivo (e il concordato semplificato post-composizione negoziata): una procedura concorsuale giudiziale per gestire la crisi, che può prevedere la continuità aziendale o la liquidazione in modo ordinato.
- Accordi di ristrutturazione dei debiti e piani attestati di risanamento: strumenti negoziali (semi-concorsuali o privati) per ristrutturare l’indebitamento senza passare dalla cessione integrale dell’azienda.
- Composizione negoziata della crisi: un nuovo percorso stragiudiziale assistito che può preludere a varie soluzioni, incluse vendite parziali o accordi, ma che di per sé è un’alternativa temporanea alla cessione immediata.
- Liquidazione volontaria: la messa in liquidazione ordinaria della società (dissoluzione non concorsuale), con vendita frazionata dei beni e pagamento dei creditori.
- Liquidazione giudiziale (fallimento): la procedura concorsuale di liquidazione forzata, che interviene quando le altre misure falliscono o non sono praticabili.
Ognuno di questi strumenti ha i suoi pro e contro, i suoi ambiti applicativi e le sue ricadute per il debitore. Proviamo a sintetizzare le caratteristiche principali e a indicare a cosa stare attenti per ciascuno.
Affitto d’azienda
Cos’è e come funziona: L’affitto d’azienda è un contratto (disciplinato dagli artt. 2561 e 2562 c.c.) col quale il proprietario dell’azienda (locatore o affittante) concede ad un altro soggetto (affittuario) il diritto di utilizzare l’azienda per un periodo determinato, verso pagamento di un canone periodico. In pratica, l’affittuario gestisce l’azienda come fosse la propria, incassandone i ricavi e sopportandone i costi, ma la proprietà dei beni aziendali rimane al locatore. È un trasferimento temporaneo dell’esercizio d’impresa, diverso dalla cessione che è definitiva. Al termine del contratto, l’azienda deve essere restituita al proprietario, possibilmente mantenendone l’efficienza e l’avviamento (l’affittuario ha obblighi di conservazione e divieto di alterare l’organizzazione se non migliorandola).
Perché considerarlo in crisi: Affittare l’azienda può servire, in contesti di crisi, a diversi scopi:
- Evitare l’interruzione dell’attività: se l’imprenditore non è in grado di proseguire, un affittuario può subentrare temporaneamente garantendo la continuità produttiva e occupazionale. Ciò preserva il valore dell’azienda (avviamento, clientela) che altrimenti, restando ferma o mal gestita, si deteriorerebbe.
- Guadagnare tempo per il risanamento o la vendita: il canone di affitto fornisce all’impresa in crisi un flusso di cassa immediato, utile magari a pagare debiti urgenti o spese procedurali. Nel frattempo, il cedente può cercare investitori, predisporre un concordato o attendere condizioni di mercato migliori per vendere definitivamente (“affitto-ponte”).
- Testare un potenziale acquirente: spesso chi affitta poi diventa l’acquirente finale dell’azienda (magari con clausole di prelazione). L’affitto consente a un potenziale compratore di “provare” l’azienda sul campo prima di decidere l’acquisto, riducendo l’incertezza sul valore e sulle problematiche.
- Sgravare il cedente dalla gestione: se la crisi è anche gestionale (incapacità del vecchio imprenditore), affidare l’azienda a un soggetto più competente può ridurre perdite e migliorare la performance in vista di un futuro rilancio.
Esempio tipico: un’azienda manifatturiera in difficoltà affitta l’intero complesso a un concorrente o a un manager esterno per 2 anni, con canone mensile. L’affittuario mantiene produzione e posti di lavoro, e magari nel frattempo negozia per comprare i macchinari e marchio a fine periodo.
Vantaggi dell’affitto d’azienda:
- Conservazione del valore e continuità: l’azienda rimane operativa, i dipendenti conservano il posto (passano all’affittuario ex art. 2112 c.c.), i clienti continuano a essere serviti. Questo evita la dispersione dell’avviamento che invece si avrebbe con uno stop prolungato. La continuità aziendale, anche se assicurata da un terzo, può facilitare successivamente una vendita a prezzo migliore rispetto a una realtà spenta.
- Flessibilità e reversibilità: l’affitto è per definizione a termine. Se le cose migliorano o si trova un acquirente definitivo, il contratto può essere sciolto o non rinnovato, e l’azienda torna al proprietario (o passa al compratore) viva e vegeta. È quindi meno “definitivo” di una cessione: se la crisi rientra, l’imprenditore può riottenere la disponibilità dell’azienda (ovviamente pagando eventuali indennizzi se previsti).
- Entrate immediate: i canoni incassati dal locatore possono servire per pagare interessi o quote di debito, o finanziare il piano di concordato (in un concordato in continuità indiretta, i creditori vengono soddisfatti coi canoni d’affitto e/o col prezzo di futura vendita). L’art. 84 CCII prevede espressamente il caso di concordato con continuità indiretta tramite affitto d’azienda.
- Mantenimento della proprietà: il cedente non “perde” l’azienda in senso definitivo: se spera in un miglioramento congiunturale o in aiuti futuri, affittare è meno impegnativo che vendere.
Svantaggi e rischi dell’affitto d’azienda:
- Non riduce l’indebitamento da solo: l’affitto non estingue i debiti pregressi (a differenza di una vendita che può portare liquidità per pagarli). Il cedente rimane esposto verso i creditori come prima. Se l’affitto è preludio a un concordato, bene, altrimenti rischia di essere solo un palliativo. I creditori potrebbero non essere soddisfatti di un affitto se non vedono un piano chiaro di pagamento.
- Responsabilità durante l’affitto: l’affittuario gestisce e quindi è responsabile delle obbligazioni che contrae nell’esercizio (fornitori, tributi correnti, contributi). Il cedente rimane responsabile dei debiti anteriori non trasferiti. Può crearsi confusione su chi risponde di cosa. Ad esempio, i debiti per forniture maturati dopo l’affitto sono a carico dell’affittuario, quelli prima restano del cedente. Per i contratti in corso, vale l’art. 2558: l’affittuario subentra di diritto nei contratti aziendali salvo patto contrario.
- Eventuali inadempienze dell’affittuario: se l’affittuario è incapace o scorretto, potrebbe non pagare i canoni o gestire male i beni, compromettendo l’azienda. Il proprietario può tutelarsi con cauzioni e poteri di controllo (art. 2561 c.c. consente ispezioni periodiche e impone all’affittuario di mantenere l’efficienza dell’organizzazione). Tuttavia, se l’affittuario fallisce, si creano complicazioni (il curatore ha facoltà di continuare o sciogliere il contratto). Nella liquidazione giudiziale del locatore, il curatore può recedere dall’affitto in essere entro 60 giorni pagando un indennizzo equo all’affittuario (art. 212 CCII). Questa facoltà di recesso unilaterale può scoraggiare l’affittuario, ma serve a evitare che la procedura sia legata mani e piedi da un affitto non più conveniente.
- Necessità di procedura competitiva: se l’affitto è disposto nell’ambito di un concordato o con riserva di futura vendita, la legge spesso richiede una procedura competitiva (gara fra più offerenti) simile a quella per la vendita. Ciò per assicurare che il canone sia congruo. Questo può rallentare e complicare l’operazione.
- Effetti sui dipendenti: come detto, i lavoratori passano all’affittuario (che di fatto diventa il nuovo datore). Questo può comportare incertezze contrattuali. Però è anche vero che l’art. 2112 c.c. protegge integralmente i dipendenti in caso di affitto d’azienda (considerato trasferimento d’azienda a tutti gli effetti). Qualora, al termine dell’affitto, l’azienda rientri al locatore o venga ceduta, occorrerà gestire la posizione dei lavoratori. L’ideale è che l’affittuario poi diventi cessionario, così i dipendenti proseguono senza altri passaggi. Se invece l’affitto cessa e l’azienda ritorna indietro, i dipendenti dovrebbero ritornare anch’essi (o essere licenziati dall’affittuario per cessazione attività e poi riassunti dal locatore?). La normativa non disciplina espressamente questo “ritorno”: in pratica, al termine dell’affitto l’azienda può essere venduta a terzi con i dipendenti (ulteriore trasferimento ex 2112) oppure, se torna al proprietario originario, dovrebbe considerarsi un trasferimento al contrario con obbligo di riassunzione.
Attenzione alle clausole: Nei contratti di affitto d’azienda, specie se preludio a cessione in crisi, è bene inserire clausole di salvaguardia. Ad esempio: obbligo per l’affittuario di garantire determinati livelli occupazionali, di effettuare manutenzioni, di non cambiare marchio o sede senza consenso, ecc. Spesso si includono clausole di prelazione a favore dell’affittuario in caso di vendita: il tribunale di Milano consiglia di modulare queste clausole per conciliarle con l’obbligo di gara (es: l’affittuario avrà diritto a essere preferito se eguaglia la migliore offerta entro un certo termine). Questo è importante perché l’affittuario può aver investito nel frattempo e merita considerazione, ma non al punto da scoraggiare offerte di terzi.
In definitiva, l’affitto d’azienda può essere uno strumento prezioso in crisi temporanee o per guadagnare tempo. Non risolve i problemi di debito da solo, ma li rende più gestibili se integrato in un piano più ampio (ad es. un concordato dove l’affitto è la modalità di continuità).
Quando preferirlo: se l’imprenditore spera di recuperare l’azienda più avanti, o se non riesce a vendere subito a condizioni soddisfacenti, l’affitto è una buona soluzione-ponte. Anche nel caso di procedura concorsuale prolungata, l’affitto impedisce che nel frattempo l’attività muoia: molte volte nei fallimenti si affitta l’azienda in attesa di venderla, per preservarne il valore (affitto “ponte”). Ci vuole però l’affittuario giusto: solido, competente e preferibilmente interessato a comprare.
Caso pratico: Tizio Srl, in crisi di liquidità, deposita domanda di concordato preventivo in continuità indiretta. Prevede di affittare l’azienda a un investitore già individuato, con canone annuale €100k per 2 anni, e poi cederla allo stesso investitore a €500k entro fine concordato. L’operazione è autorizzata dal tribunale (previa comparazione offerte). Durante i 2 anni, i creditori chirografari ricevono i canoni. A scadenza, la vendita viene perfezionata (con il ricavato restante ai creditori). L’azienda non ha mai smesso di operare, i posti di lavoro sono salvi e il piano ha successo.
Concordato preventivo (e concordato semplificato)
Cos’è: Il concordato preventivo è una procedura concorsuale giudiziale diretta a evitare la liquidazione giudiziale (fallimento) tramite un accordo tra il debitore e i creditori, omologato dal tribunale. Il debitore propone un piano che può prevedere la ristrutturazione dei debiti e la soddisfazione (anche parziale) dei crediti secondo certe percentuali e scadenze, eventualmente distinguendo classi di creditori. I creditori votano il piano; se approvato dalle maggioranze di legge e ritenuto conforme a norme e fattibile, il tribunale lo omologa, rendendolo vincolante per tutti i creditori anteriori. Il concordato può essere con continuità aziendale (il debitore prosegue l’attività durante e dopo la procedura) oppure liquidatorio (cessazione attività e liquidazione del patrimonio). La finalità è dare all’imprenditore in crisi una seconda chance, e ai creditori una soddisfazione migliore di quella che avrebbero dal fallimento.
Perché considerarlo come alternativa alla vendita: In un concordato preventivo, non è obbligatorio vendere l’azienda: il debitore può conservarne la proprietà e tentare di risanarne i conti sotto la protezione del tribunale. Ad esempio può prevedere di pagare i creditori gradualmente coi profitti futuri (concordato in continuità diretta). Oppure può vendere solo alcuni asset non strategici e tenere il core business. Il concordato consente anche di effettuare ristrutturazioni finanziarie (stralcio di debiti, conversione in equity) non possibili altrimenti. Per un imprenditore affezionato alla propria azienda, il concordato con continuità è uno strumento per non doverla cedere a terzi.
Va però detto: se la situazione è molto compromessa, i creditori e il tribunale potrebbero non credere a un piano di risanamento senza discontinuità. In tali casi, spesso il concordato includerà comunque la cessione dell’azienda (a investitori) o di rami di essa, magari sotto forma di “concordato con continuità indiretta” come già accennato. Quindi concordato e vendita non si escludono affatto: la vendita può avvenire all’interno del concordato, ma con il beneficio che i debiti residui vengono falcidiati e l’imprenditore esdebitato.
Vantaggi del concordato preventivo:
- Protezione dalle azioni esecutive: dal momento del deposito della domanda, il debitore ottiene una sospensione delle azioni individuali dei creditori (il cosiddetto automatic stay). I creditori non possono iniziare o proseguire pignoramenti, né acquisire privilegi se non autorizzati. Questo dà respiro e consente di evitare il tracollo per aggressioni dei singoli.
- Possibilità di ridurre i debiti legalmente: come visto, col concordato si possono proporre falcidie (pagare parzialmente i crediti chirografari e anche privilegiati entro certi limiti) e dilazioni (pagamenti differiti). Non serve l’accordo di ogni singolo creditore: la maggioranza vincola la minoranza. Quindi è uno strumento coattivo, a differenza degli accordi stragiudiziali che richiedono il consenso di chiunque subisca perdite. Ad esempio, se c’è un creditore ostile, in concordato si può comunque imporre il trattamento pro-quota approvato dalla maggioranza. Dopo l’omologazione, il debitore viene esdebitato dai debiti residui (salvo eccezioni come debiti erariali non falcidiabili in continuità se la legge lo prevedesse, e debiti personali fuori procedura).
- Mantenimento dell’attività e del controllo (nel concordato in continuità): nella stragrande maggioranza dei concordati, l’imprenditore resta debitor in possession, ossia continua a gestire l’impresa durante la procedura, sotto la supervisione di un Commissario Giudiziale. Solo in caso di irregolarità gravi può essergli revocata la gestione. Ciò significa che il proprietario può tentare di raddrizzare la barca e portare a termine il piano, magari con l’affiancamento di nuovi investitori. Se il concordato riesce, l’impresa prosegue e rimane in mano al vecchio imprenditore (salvo diversa previsione del piano, come ingresso di soci nuovi). Per i dipendenti, un concordato in continuità è preferibile perché l’azienda non chiude (nessun licenziamento collettivo automatico, anche se può prevedere ristrutturazioni del personale).
- Soluzione organica e trasparente: il concordato è una procedura giudiziaria pubblica: questo garantisce pari trattamento (par condicio) tra i creditori di pari grado e riduce il rischio di contestazioni successive. Se omologato, è definitivo (salvo reclami, ma in generale dà certezza giuridica). Inoltre, consente di affrontare anche aspetti contrattuali e societari complicati: si possono sciogliere contratti pendenti con autorizzazione (art. 95 CCII), cedere contratti, trasferire l’azienda libera da ipoteche e senza responsabilità ex art. 2560 (con autorizzazione tribunale e asta), e così via. Tutto sotto l’egida del giudice.
- Trattamento fiscale di favore: come visto, le remissioni di debito in concordato non generano imponibili (o in parte ridotti), il che evita che l’azienda risanata venga appesantita da tasse sullo “sconto” ottenuto.
Svantaggi e ostacoli del concordato preventivo:
- Tempistiche e costi: il concordato è una procedura complessa: va predisposto un piano dettagliato e un’analitica relazione di un professionista attestatore sulla veridicità dei dati e fattibilità (art. 87 CCII). Ci vogliono mesi per preparare tutto. Dopo il deposito, la procedura di voto e omologa può durare diversi mesi (6 mesi o più). Questo mentre l’azienda deve rimanere a galla. I costi: servono consulenti legali e finanziari, l’attestatore, e si pagano contributi di procedura, il Commissario Giudiziale, ecc. Non tutte le piccole imprese possono permetterselo, a meno di procedure “semplificate” minori.
- Accesso non libero: bisogna essere “meritevoli” (non aver causato la crisi con frodi evidenti, ecc.) e spesso occorre presentare un minimo di soddisfazione ai creditori chirografari. Nel vecchio regime c’era la soglia del 20% minimo per concordato liquidatorio; nel CCII è rimasta (art. 84) con possibili deroghe se certi creditori sono pagati in natura, etc. Comunque, presentare un concordato che dà meno del 10-20% ai chirografari rischia di non passare (o di non essere ammesso se liquidatorio).
- Aderenza al piano e rischi di revoca: una volta omologato, il concordato va eseguito esattamente. Se il debitore non rispetta i pagamenti, i creditori possono chiederne la risoluzione e si finisce in liquidazione giudiziale, dove peraltro l’esdebitazione è a posteriori e non garantita per società. Quindi è un impegno da prendere sul serio. Nel passato molti concordati “tirati per i capelli” sono poi falliti.
- Coinvolgimento dei soci: se la società ha soci diversi dal proponente, e il piano prevede sacrifici per loro (es. aumento di capitale, rinuncia crediti soci), serve il loro accordo. Il tribunale può forzare i soci ad approvare aumenti di capitale se previsti (art. 120 CCII), ma ciò solo se i soci sono negligenti; se invece si oppongono ragionevolmente, la situazione si complica. Insomma, in società con più soci, il concordato è fattibile ma va gestito internamente con decisioni straordinarie.
- Perdita di riservatezza: il concordato è pubblico (iscrizione al Registro Imprese). Clienti, fornitori, banche verranno a sapere della procedura, con possibili effetti reputazionali o contrattuali (clienti potrebbero defilarsi temendo problemi forniture, banche revocare fidi se non già fatto). È un trade-off inevitabile per la protezione concorsuale.
Il concordato “semplificato” (introdotto dal DL 118/2021, art. 25-sexies CCII) merita un cenno a parte: è uno strumento nuovo utilizzabile solo se è stata tentata una composizione negoziata senza successo. Consente al debitore di proporre direttamente al tribunale un piano di liquidazione dei propri beni, senza dover passare per il voto dei creditori. Il tribunale, sentiti i creditori in camera di consiglio, può omologare se reputa che i creditori ricevano non meno di quanto otterrebbero dalla liquidazione giudiziale. È “semplificato” perché manca la fase di voto e alcune formalità (non c’è commissario giudiziale se non su nomina per sorvegliare esecuzione). In esso l’azienda tipicamente viene ceduta o liquidata (non è per risanamento, è per chiudere). Questo strumento può essere visto come ultima chance per evitare il fallimento e vendere l’azienda in modo controllato ma rapido. Ad esempio, se in comp. negoziata un investitore ha fatto un’offerta per l’azienda, i creditori non hanno trovato accordo per un ADR, il debitore può riprendere quell’offerta e presentarla al giudice nel concordato semplificato. Se il giudice ritiene l’offerta adeguata per soddisfare i creditori meglio del fallimento, la omologa e dispone la cessione all’offerente, senza voto creditori. Ecco, il semplificato è dunque un’alternativa alla liquidazione giudiziale per accelerare la vendita, ma non preserva la proprietà al debitore (l’azienda viene comunque venduta). È però una via per avere l’esdebitazione concorsuale anche se i creditori sono ostili (basta convincere il giudice). La fattispecie è nuova e ancora poco sperimentata.
Concordato minore: per imprenditori sotto soglia o non fallibili (es. SNC piccola, professionisti), c’è un procedimento analogo ma semplificato chiamato concordato minore. Ha logiche simili, salvo che non vi è percentuale minima stabilita e la votazione si fa su maggioranze diverse (per teste forse). Comunque, il succo è: anche un piccolo imprenditore può accedere a un concordato (minore) con effetti di esdebitazione, e anzi con qualche vantaggio (possibile includere debiti personali?). È un’alternativa alla liquidazione controllata (la vecchia liquidazione del sovraindebitato).
Quando preferire il concordato: se l’obiettivo è salvare l’impresa nel suo complesso, mantenendo magari la proprietà attuale, e se c’è ancora redditività potenziale, allora il concordato in continuità è lo strumento principe. Oppure, se l’impresa deve essere venduta ma ha molti creditori, può convenire farlo attraverso un concordato (liquidatorio o in continuità indiretta) perché così si tagliano i debiti insoddisfatti e non ci saranno azioni postume contro l’acquirente. Ad esempio, un imprenditore può dire: “non voglio cedere a trattativa privata regalando asset e lasciando debiti in giro – preferisco mettere tutto in concordato, vendere l’azienda all’asta al migliore offerente e far sì che con quel ricavato pago i creditori pro quota e mi libero del resto”. Questa scelta è talvolta moralmente più accettabile per l’imprenditore (che mostra di voler pagare il più possibile entro un quadro legale), e giuridicamente più sicura per l’acquirente (compra free and clear). Naturalmente, serve che ci sia tempo e risorse per affrontare il percorso concorsuale.
Accordi di ristrutturazione dei debiti e piani attestati
Cosa sono: Gli accordi di ristrutturazione dei debiti (ARD) sono accordi tra il debitore e una parte significativa dei creditori (almeno il 60% dei crediti, art. 57 CCII) che vengono poi omologati dal tribunale. A differenza del concordato, qui non c’è un voto formale di tutti i creditori: il debitore negozia individualmente con i principali creditori un accordo (un patto contrattuale) che può prevedere dilazioni, stralci, conversioni di crediti, ecc. Se raggiunge l’adesione di creditori rappresentanti almeno il 60% dell’esposizione totale, può chiedere l’omologa giudiziale dell’accordo. L’omologa rende l’accordo efficace e permette al debitore di ottenere alcuni effetti protettivi (come la moratoria delle azioni dei creditori estranei per 90 giorni dal deposito dell’accordo omologato). I creditori non aderenti non sono coattivamente vincolati alla riduzione del loro credito (devono essere pagati per intero alla scadenza originaria, altrimenti l’accordo non si può omologare), ma beneficiano indirettamente del risanamento.
I piani attestati di risanamento (detti anche piani art. 56 CCII, ex art. 67 L.F.) invece sono piani di risanamento predisposti dal debitore e asseverati da un professionista indipendente, che però non richiedono alcuna omologazione o approvazione giudiziale. Sono accordi completamente stragiudiziali con i creditori, ma che la legge riconosce con alcuni effetti agevolativi (in primis, esenzione da revocatoria fallimentare per gli atti compiuti in esecuzione del piano). Non c’è una soglia minima di adesioni da dimostrare (in teoria, un piano attestato potrebbe coinvolgere anche solo alcuni creditori e altri vengono pagati regolarmente). È uno strumento flessibile ma privo di effetti erga omnes: vincola solo i creditori che volontariamente lo accettano.
Perché considerarli come alternativa: ARD e piani attestati offrono un approccio meno invasivo e più rapido rispetto a procedure concorsuali formali. Vantaggi:
- Riservatezza: l’accordo di ristrutturazione diventa pubblico solo al momento dell’omologazione (quindi a cose fatte), e il debitore può richiedere che certi allegati restino riservati. Il piano attestato può addirittura essere tenuto riservato (se non lo si pubblica al Registro Imprese ai fini esenzione revocatoria, non c’è pubblicità). Ciò riduce il danno reputazionale e l’allarme presso clienti e fornitori.
- Nessun voto, nessun tribunale (o poco): nell’ARD serve l’omologa, quindi un giudice deve verificare legalità e che i creditori estranei siano pagati o depositato il dovuto, ma non c’è un commissario né un voto. Il debitore rimane in pieno controllo e negozia liberamente condizioni con i creditori cruciali (tipicamente banche). Il tribunale non entra nel merito economico (salvo appunto il controllo dell’attestazione di fattibilità e di non peggior favore per creditori estranei). Idem per il piano attestato: zero intervento giudiziario, è un accordo privato con la stampella di un attestatore indipendente.
- Certezza e velocità: se si hanno pochi creditori chiave (es. banche, fornitori principali) e si trova un’intesa, l’ARD consente di vincolarli rapidamente e in maniera vincolante. Si evita la lunga e incerta trafila del concordato (dove magari i creditori possono votare contro). Un ARD omologato blocca le azioni esecutive finché il debitore rispetta l’accordo. La legge consente anche di chiedere misure protettive provvisorie (stay temporaneo) mentre si negozia, per un massimo di 4 mesi prorogabili a 6, evitando pignoramenti durante la trattativa.
- Modularità: un ARD può essere accompagnato da accordi ulteriori (es: transazione fiscale per i debiti erariali, ora possibile integrarla nell’ARD). Ci sono vari sottotipi: ARD agevolati (soglia 30% se si pagano integralmente creditori piccoli), ARD ad efficacia estesa (si possono estendere agli dissentienti finanziari se certi requisiti), etc., introdotti dal recepimento direttiva UE. Questo li rende strumenti sofisticati, capaci di includere anche il fisco e INPS entro certi limiti, e di piegare eventuali banche dissenzienti se la maggior parte è d’accordo.
Limiti degli accordi di ristrutturazione:
- Necessità di risorse per soddisfare estranei: l’ARD non consente di imporre perdite ai creditori che non aderiscono. Significa che se il 70% creditori (per valore) accetta uno stralcio del 30%, il rimanente 30% (che non ha aderito) deve essere pagato integralmente. Ciò richiede che il piano finanziario abbia risorse immediate per loro – spesso ciò è possibile solo se il numero di estranei è basso o i loro crediti sono modesti/in contestazione. Se invece l’insolvenza coinvolge tanti piccoli creditori difficili da contattare uno a uno, un ARD è impraticabile (conviene un concordato, dove li “forzi” con il voto di maggioranza). L’ARD è tipicamente usato quando ci sono pochi creditori rilevanti (es. banche) e tanti trade creditors di importo ridotto che comunque verranno pagati per intero.
- Consenso qualificato richiesto: serve il 60% dei crediti, e non per teste ma per valore. Se hai una banca grossa contraria che da sola rappresenta 45% dell’esposizione, non raggiungi la soglia. Quindi il potere di veto di grandi creditori è forte. Bisogna cercare di convincerli, magari offrendo garanzie aggiuntive o trattamenti di favore (conservando regola par condicio? essendo accordo contrattuale, si può modulare contributi diversi per diversi creditori, purché attestatore dica che è sostenibile).
- Mancanza di vincolo sui dissenzienti (salvo alcune eccezioni nuove): come detto, i dissenzienti non sono obbligati ad accettare uno stralcio – vanno pagati. Ci sono però delle innovazioni (recepimento direttiva Insolvency) nel CCII: ad esempio, l’art. 61 CCII consente l’estensione degli effetti di un ARD omologato anche ai creditori finanziari non aderenti, purché siano omogenei e si raggiungano percentuali più alte (75% di quella categoria). È un meccanismo di cram-down settoriale. Ma in generale, rimane vero che un ARD non può tagliare chirurgicamente i debiti di un creditore che non voglia (salvo quell’ipotesi di classi finanziatori). Quindi, se il problema è un creditore ostile, l’ARD potrebbe non risolverlo a meno di persuaderlo con pagamento integrale (o attendere scadenza se lontana).
- Effetto limitato sulle garanzie di terzi: se i soci o terzi hanno prestato fideiussioni ai creditori, un accordo di ristrutturazione fra debitore e creditori (salvo patto esplicito) non libera i coobbligati. Questo vale anche per il concordato in realtà (nel concordato i garanti non sono liberati salvo contraria volontà creditori). Però nel concordato c’è la cram-down anche sui garanti a volte (i creditori garantiti da terzi se soddisfatti parzialmente in concordato, possono comunque agire sul garante per il resto; la legge prevede però che se un terzo paga il creditore, subentra nelle sue ragioni in concorso). Insomma, in un ARD il socio che ha garantito un debito potrebbe poi dover comunque pagare la parte non pagata dall’accordo, a meno che anch’egli negozi la propria liberazione. Spesso nelle ristrutturazioni bancarie, i piani includono la liberazione (o parziale) delle garanzie personali per facilitare la vita ai garanti e convincerli a magari fare apporti di capitale. Ma è contrattazione pura.
- Minor forza di esdebitazione: l’ARD una volta eseguito dà pace al debitore sui creditori aderenti (che hanno accettato decurtazioni), e sui non aderenti perché li ha pagati. Quindi di fatto raggiunge l’esdebitazione de facto. Però, se per caso il debitore poi fallisce, quegli atti potrebbero teoricamente essere rivisti? Fortunatamente, la legge prevede che un ARD omologato non è soggetto a revocatoria (art. 166 CCII esclude revocatoria per atti in esecuzione di accordo omologato). Quindi le remissioni concesse non verranno attaccate. Questo dà stabilità. Tuttavia, se il debitore non riesce a rispettare l’accordo, i creditori tornano liberi di agire (possono chiedere risoluzione dell’accordo e procedere a fallimento). Non c’è un “giudice commissario” che segue l’esecuzione come nel concordato, tutto dipende dal business plan del debitore.
Quando preferirli: L’ARD è preferibile quando l’impresa è sostanzialmente sana ma troppo indebitata in particolare verso creditori istituzionali (banche, obbligazionisti) con cui si può ragionare. Spesso si usa per ristrutturazioni finanziarie (ad esempio trasformare debiti bancari a breve in mutui a lungo, ridurre interessi, convertire parte in partecipazioni). I creditori finanziari hanno interesse a evitare di portare il debitore a default conclamato se vedono prospettive di recupero migliore via accordo. L’ARD consente di disinteressarsi dei piccoli creditori (che saranno pagati regolarmente) e concentrarsi sui maggiori, riducendo costi e formalità. Per dire: se ho 5 banche esposte per l’80% e 50 fornitori col 20%, posso fare un ARD con le banche (che tagliano interessi e allungano scadenze e forse stralciano qualcosina di capitale) e pago i fornitori normalmente, evitando un concordato che aggraverebbe tutti.
Il piano attestato è utile per situazioni incipienti, dove la crisi non è ancora sfociata in insolvenza conclamata e si può con qualche accordo privato e un serio piano industriale uscirne. Ad esempio, l’imprenditore ottiene da alcune banche la moratoria di 1 anno e linee di cassa, dai soci un apporto di capitale, e redige un piano di risanamento triennale certificato da un esperto che dice “è ragionevole, se fanno così ce la fanno”. Pubblica il piano al Registro Imprese per darsi protezione da revocatoria (i pagamenti fatti secondo piano non saranno revocati se poi fallisce). Se tutto va bene, nessuno ne saprà troppo in giro e l’azienda si risana “in silenzio”. Se va male e fallisce, almeno i contratti e pagamenti fatti in esecuzione del piano non verranno toccati, e si potrà dire di averci provato. È un tipico strumento “early stage”.
Esempio pratico di accordo di ristrutturazione: Delta Srl ha debiti bancari per €5 milioni (con 4 banche) e debiti verso fornitori €1 milione. Incassa circa €3 milioni/anno. La crisi le impedisce di rimborsare nei termini i finanziamenti in scadenza. Delta negozia con le 4 banche questo accordo: due banche convertono complessivi 1 milione di credito in una quota di partecipazione (diventando socie 30% in totale); tutte e 4 accettano di rinunciare a 500k di interessi maturati e di allungare di 5 anni i piani di rimborso del resto capitale (4,5M residuo), a tasso ridotto. I fornitori saranno pagati per intero in 6 mesi (Delta ottiene che le banche le lascino liquidità per farlo). Un professionista attesta che l’accordo è fattibile e i creditori estranei (fornitori) sono pagati integralmente. Le banche rappresentano l’100% del credito finanziario e 83% del totale (5M su 6), quindi ben oltre 60%. Delta deposita l’accordo e il tribunale omologa rapidamente (nessun oppositore, fornitori contenti perché pagati). Delta esce dall’accordo con debiti bancari ridotti (4,5M, scadenze più lunghe), nuove risorse dai soci-banche, e la fiducia del mercato perché formalmente non è “fallita” né stata in procedura pubblica (a parte l’omologa, che qualche rivista finanziaria magari nota, ma è limitato). Se Delta eseguirà quell’accordo, tornerà in bonis entro l’orizzonte.
Liquidazione volontaria (liquidazione ordinaria della società)
Cos’è: La liquidazione volontaria è il procedimento di scioglimento e liquidazione di una società disposto dai soci in base alle norme civilistiche (artt. 2484-2496 c.c. per le società di capitali, simili per persone). Si verifica una causa di scioglimento (es. decisione dell’assemblea di sciogliere la società per cessazione attività) e la società nomina uno o più liquidatori che hanno il compito di vendere gli asset, incassare crediti, pagare i debiti sociali e ripartire l’eventuale residuo tra i soci. È un processo fuori dalle procedure concorsuali, che presuppone tecnicamente che la società sia in grado di soddisfare tutti i creditori (liquidazione in bonis). Se durante la liquidazione ordinaria emerge invece l’insolvenza (incapacità di pagare tutti i debiti), i liquidatori devono richiedere la liquidazione giudiziale (fallimento) al tribunale.
Quando e perché utilizzarla: La liquidazione volontaria può essere un’alternativa alla cessione “in blocco” dell’azienda se i soci preferiscono smembrare l’impresa e venderne i beni pezzo per pezzo, oppure se non trovano acquirenti per l’intera azienda ma ritengono di poter saldare i debiti vendendo gradualmente beni e crediti. Spesso è adottata da società che cessano l’attività senza essere formalmente insolventi: ad esempio, i soci decidono di chiudere e liquidano asset per pagare i debiti residui. In contesti di crisi vera e propria, la liquidazione volontaria può essere pericolosa: se i debiti superano i beni, i liquidatori rischiano responsabilità se non portano la società in tribunale. Comunque, ipotizziamo un caso di “crisi risolta con liquidazione”: una piccola impresa familiare vede calare il lavoro, i figli non vogliono proseguire, la società è gravata di debiti gestibili vendendo i macchinari e capannone. Allora i soci scelgono di liquidare volontariamente: nominano un liquidatore di fiducia, costui vende beni e pagherà man mano i creditori, auspicando di riuscirci. Se al termine tutti i creditori sono pagati, ok; se avanza qualcosa, va ai soci; se non bastano i beni, come detto, deve fermarsi e far dichiarare il fallimento.
Vantaggi:
- Controllo e flessibilità: sono i soci (o ex amministratori) a gestire la chiusura, tramite una persona di loro fiducia. Non c’è ingerenza del tribunale o di curatori terzi. Si può cercare di vendere alle migliori condizioni di mercato (magari più tempo per vendere un immobile al giusto valore, piuttosto che all’asta deprezzata). Si può anche seguire un percorso personalizzato con i creditori: se qualcuno è disponibile a uno sconto, bene; se serve tempo per realizzare, si chiede pazienza. Finché i creditori collaborano, la liquidazione volontaria è ottimale e meno dispendiosa di una concorsuale.
- Minore stigma: non essendo un fallimento né un concordato, la liquidazione volontaria suona come “chiusura ordinata” e non come insolvenza, sebbene di fatto la differenza sostanziale spesso è sfumata. Questo può essere meglio per la reputazione dei soci imprenditori.
- Possibile soddisfazione migliore dei creditori: se i liquidatori operano bene, evitano costi concorsuali e svendite affrettate, i creditori potrebbero essere pagati in misura maggiore. Ovviamente, ciò implica che la situazione non sia di insolvenza grave.
Svantaggi e rischi:
- Nessuna protezione legale dal recupero crediti: a differenza di un concordato o ARD, la liquidazione volontaria non blocca i creditori. Qualunque creditore, temendo di non essere pagato completamente, può precipitare la situazione notificando decreti ingiuntivi, pignorando beni sociali, o istando per il fallimento. Non c’è una moratoria automatica. Quindi la riuscita di una liquidazione volontaria dipende dalla collaborazione dei creditori o dalla loro inerzia. Spesso è questione di fiducia: se i creditori si fidano che il liquidatore li pagherà, attendono; se non si fidano, partono le cause.
- Pericolo di aggravamento insolvenza e responsabilità: se in realtà la società è insolvente e i liquidatori continuano a pagare alcuni e non altri, rischiano azioni di responsabilità (favorire certi creditori può essere contestato come atto in frode ad altri se poi c’è fallimento). Dal punto di vista legale, quando i liquidatori percepiscono che non tutti i creditori saranno soddisfatti, dovrebbero stoppare e chiedere una procedura concorsuale. Continuare oltre quell’istante espone a possibili accuse di colpa grave o peggio. Ci sono esempi di liquidatori che hanno pagato integralmente le banche (perché pressanti) consumando le risorse, e poi i fornitori rimasti a bocca asciutta li hanno citati per danni. Il liquidatore volontario ha doveri analoghi all’amministratore: se vede insolvenza, non può tardare la richiesta di fallimento (art. 2485 c.c.).
- Impossibilità di riduzione concordata del debito: in liquidazione volontaria i creditori devono essere pagati integralmente salvo accordi individuali. Non c’è meccanismo per imporre ai creditori un taglio. Quindi se il deficit è 30% e uno solo non vuole rinunciare, la liquidazione finirebbe per doverlo pagare e lasciare altri senza niente, il che preluderebbe al fallimento su istanza di questi ultimi.
- Durata incerta: una liquidazione può trascinarsi per anni (ad esempio per vendere immobili o definire contenziosi). Senza la spinta di scadenze procedurali, a volte i liquidatori impiegano molto a chiudere tutto. Ciò può significare che i creditori aspettano a lungo i loro soldi, e alcuni potrebbero spazientirsi e agire.
In sintesi, la liquidazione volontaria è un percorso utile soprattutto quando:
- I creditori sono pochi e consenzienti (magari istituti che preferiscono evitare spese legali).
- Esiste un ragionevole convincimento che il patrimonio basterà a pagarli tutti o quasi.
- La crisi non è frutto di irregolarità gravi (per cui i creditori vogliono punire gli amministratori, in quel caso spingono per fallimento e azioni di responsabilità).
Esempio: Alfa Snc (società di persone) decide di cessare attività dopo una serie di perdite. Ha debiti verso banche €100k e fornitori €50k, attivo liquidabile (macchinari, scorte, furgone) stimato €120k. I soci (illimitatamente responsabili) preferirebbero evitare il fallimento che implicherebbe anche il loro fallimento personale. Parlano con banca e fornitori, prospettando la vendita degli asset entro 6 mesi e l’impegno a coprire eventuale differenza coi risparmi personali. Ottenuto assenso informale, mettono la società in liquidazione. Il liquidatore vende tutto ricavando €110k, i soci aggiungono €40k propri per pagare interamente i debiti (€150k totali). I creditori sono soddisfatti al 100%. La società viene cancellata. I soci hanno speso di tasca, ma hanno evitato il disonore del fallimento e chiuso la vicenda discretamente.
Se i soci non avessero potuto o voluto mettere soldi per colmare il buco, quell’esempio rischiava di finire in fallimento: con €110k ricavo, €150k debiti, i fornitori avrebbero preso solo 2/3. Qualcuno di essi quasi certamente avrebbe depositato istanza di fallimento (specie essendo snc, confidando di aggredire anche i soci poi). Dunque, la liquidazione volontaria senza risorse aggiuntive dei soci sarebbe fallita (in tutti i sensi).
Ditte individuali e liquidazione: Se il soggetto è un imprenditore individuale, non c’è una procedura formalizzata di liquidazione: semplicemente l’imprenditore può cessare l’attività, vendere i beni e cercare di pagare i debiti. Questo è ancora più aleatorio: se l’imprenditore è sovraindebitato e chiude bottega, i creditori restanti possono inseguire i suoi beni personali. Se non riesce a pagarli, o si rivolge a procedure da sovraindebitamento (piano del consumatore, liquidazione controllata) o rimane esposto indefinitamente. Quindi per le ditte, cessare e vendere tutto è una soluzione solo se con il ricavato pagano tutto o quasi: altrimenti conviene direttamente percorrere l’iter di composizione della crisi da sovraindebitamento per liberarsi dei debiti residui legalmente.
Liquidazione giudiziale (ex fallimento)
Cos’è: La liquidazione giudiziale è la procedura concorsuale classica (erede del “fallimento”), in cui un tribunale accerta l’insolvenza di un imprenditore e nomina un curatore che prende in mano l’azienda, la chiude o la gestisce provvisoriamente, liquida tutti i beni e distribuisce il ricavato ai creditori secondo le regole di graduazione (privilegi, ipoteche, chirografi). È un procedimento coattivo e totalitario: i singoli creditori non possono più agire autonomamente, devono insinuarsi nello stato passivo. La finalità non è salvare l’impresa (che di solito cessa), ma soddisfare i creditori equamente e possibilmente rimuovere l’impresa insolvente dal mercato (a meno che si faccia un esercizio provvisorio per vendere l’azienda in funzione going concern).
Quando interviene: Quando l’insolvenza è conclamata e nessuno strumento di regolazione concordata è attivato in tempo. Può essere richiesta da un creditore, dal debitore stesso o disposta d’ufficio a seguito ad esempio di conversione di un concordato non ammesso. Per società, comporta lo scioglimento e la perdita dei poteri degli amministratori (sostituiti dal curatore). Per imprenditori individuali e soci illimitatamente responsabili, implica possibili restrizioni personali (divieti di assumere cariche per periodi, ecc.) e lo stigma del “fallito” – sebbene oggi la legge parli di liquidazione giudiziale, il concetto rimane.
Impatti su azienda: Spesso la dichiarazione di liquidazione giudiziale porta all’immediata cessazione dell’attività (specie se non c’è cassa per proseguirla). Il curatore comunque valuta se conviene esercitare provvisoriamente l’impresa (con autorizzazione giudice delegato) per evitare perdita di valore. Ad esempio, se l’azienda può essere venduta a un prezzo migliore da funzionante, il curatore può continuare l’esercizio per qualche mese e bandire un’asta per cederla come azienda in esercizio. Se però l’attività è palesemente anti-economica, preferirà chiudere subito, licenziare il personale (che andrà in NASpI e fondo di garanzia per TFR/salari) e vendere singoli cespiti.
Vantaggi (dal punto di vista della collettività e dei creditori):
- Parità di trattamento e ordine: il fallimento impone la regola della par condicio. Ciò evita la corsa disordinata alle esecuzioni, dove magari il più lesto pignora tutto e altri restano a mani vuote. In liquidazione giudiziale, l’attivo viene ripartito tra tutti proporzionalmente dopo aver soddisfatto prelazioni legittime. Questo è più equo.
- Indagine su cause e responsabilità: il curatore e il tribunale esaminano la condotta dell’imprenditore. Se emergono ipotesi di reato (bancarotta) o mala gestio, ci saranno conseguenze (azioni di responsabilità, penali). In un concordato mal fatto magari certe malefatte potevano restare coperte, nel fallimento saltano fuori. Ciò ha effetto deterrente e sanzionatorio.
- Possibile vendita efficiente dell’azienda o beni: il curatore è un soggetto terzo professionale che organizza la vendita dei beni. Tramite procedure competitive trasparenti (aste telematiche, ecc.), in teoria massimizza il ricavo. Ha inoltre il potere di vendere anche beni gravati da ipoteche liberandoli dai vincoli (il privilegio del creditore ipotecario si sposta su prezzo), e vendere l’azienda senza i debiti a corredo (fatto salvo il rilevare di contratti e dipendenti se la vendita è di azienda in esercizio). Questo free and clear sale è attraente per gli acquirenti, come sottolineato: un’azienda comprata dal fallimento è purgata dai debiti precedenti. Quindi a volte in fallimento si riesce a vendere quell’impresa che il debitore insolvente non era riuscito a vendere spontaneamente (magari perché i potenziali acquirenti confidavano di prenderla più a buon mercato dal curatore!).
- Esdebitazione della persona fisica: dopo la chiusura del fallimento, l’imprenditore persona fisica (o socio illimitatamente responsabile) può chiedere l’esdebitazione di tutti i debiti non soddisfatti, se ha cooperato e non ha commesso irregolarità gravi. Questa è la fresh start introdotta ormai dal 2006 e confermata dal CCII (art. 278 e ss.). Dunque il fallito onesto ha comunque una prospettiva di liberazione dai debiti residui (non immediata come nel concordato, ma in tempi brevi post chiusura). Per le società, invece, l’esdebitazione non serve in quanto si estinguono con la chiusura.
Svantaggi (dal punto di vista del debitore):
- Perdita totale di controllo e spesso fine dell’impresa: il fallimento è per definizione la spossessamento del patrimonio dell’imprenditore. Il debitore non può più condurre la propria impresa, la vede venduta a terzi a spezzatino o intera, ma comunque la perde. Per molti imprenditori (specie piccoli) ciò è traumatico, al di là delle conseguenze economiche. Anche l’apertura della procedura comporta spesso la decadenza da eventuali appalti, la revoca di licenze, etc., quindi l’azienda quasi sempre muore.
- Danni reputazionali e personali: benché superati gli aspetti più infamanti (un tempo il fallito subiva pubblica affissione, interdizioni civili per anni), ancora oggi il fallimento porta discredito. I nominativi dei falliti sono in registri pubblici, e c’è il rischio di dover affrontare procedimenti penali se emergono condotte scorrette. Anche senza reati, c’è il seccante obbligo di presentarsi al curatore per l’inventario, di fornire informazioni, di subire eventuali perquisizioni in caso di sospetti. Insomma, è un processo stressante.
- Liquidazione spesso inefficiente per il debitore e i soci: il curatore non ha l’interesse del debitore a massimizzare oltre il dovuto (certo, massimizza per i creditori, ma se i crediti sono inferiori agli asset, la differenza andrebbe al debitore – comunque rarissimo scenario). Per i soci di società fallita, un eventuale attivo residuo dopo i creditori va a loro (in teoria), ma succede di rado; più facile invece che i soci subiscano azioni di responsabilità o revocatorie dal curatore, aggravando la loro posizione.
- Costi concorsuali elevati: in un fallimento, prima di arrivare a distribuire ai chirografari passano in priorità tutti i costi di procedura (spese legali, compenso curatore, periti, ecc.) come crediti prededucibili. Ciò riduce inevitabilmente la percentuale che i creditori incassano. Ad esempio, su un attivo di 100, se 20 se ne vanno in spese, i creditori concorsuali dividono 80. In un concordato, anche ci sono costi, ma la gestione in proprio a volte li contiene di più (anche se ormai pure lì ci sono commissari con compensi).
- Tempi lunghi e incertezza sul risultato: alcuni fallimenti durano svariati anni (anche se il CCII impone di chiudere in 3 anni la liquidazione giudiziale, prorogabile in casi complessi). I creditori possono ricevere acconti, ma è spesso un’attesa lunga. Se spuntano contenziosi (revocatorie, cause attive o passive), la chiusura si allontana. Il debitore in tutto questo periodo rimane sotto esame, non può liberamente intraprendere nuove attività (o meglio, può farlo ma con lo stigma e con eventuali restrizioni se soggetto a procedura).
Quando è inevitabile/preferibile: se l’impresa è irrimediabilmente insolvente e non c’è accordo fattibile, il fallimento diventa inevitabile (anche per iniziativa dei creditori). A volte può perfino essere considerato “preferibile” dal debitore quando:
- La situazione è talmente grave che un concordato porterebbe comunque zero ai chirografari, quindi tanto vale fallire subito evitando ulteriori spese.
- Il debitore persona fisica mira ad ottenere l’esdebitazione tramite fallimento, piuttosto che tentare piani parziali e restare poi con debiti.
- Ci sono molti atti anomali pregressi: in concordato resterebbero forse nascosti, ma potrebbero poi rispuntare (in responsabilità post-omologa); con il fallimento vengono a galla e il debitore subisce le relative sanzioni – chiaramente non è preferibile dal suo punto di vista, quindi di solito il fallimento non è preferibile per il debitore onesto, semmai per i creditori).
In sostanza, la liquidazione giudiziale è l’extrema ratio quando ogni altra strada è impercorribile o già fallita. Ha la funzione di “chiudere la partita” in modo ordinato e con autorità pubblica.
Effetti su contratti e rapporti pendenti: Il curatore può sciogliersi da contratti in corso d’esecuzione o subentrarvi (art. 172 CCII). Ciò gli dà flessibilità: p.es. può chiudere un contratto di leasing oneroso restituendo il bene (il creditore leasing avrà danno emergente insinuandosi). I dipendenti: se il curatore intende cessare l’attività, li licenzia con l’autorizzazione del giudice e possono accedere subito agli ammortizzatori; se intende vendere l’azienda in esercizio, può mantenerli per il periodo necessario e poi col trasferimento passano all’acquirente (con art. 2112 se cessione con continuità). La legge consente anche, in caso di cessione di azienda in fallimento, di effettuare deroghe a tutela dei lavoratori previa consultazione sindacale (ex art. 368 CCII, recependo la Direttiva UE: si può concordare con i sindacati che l’acquirente non assume tutti i dipendenti o li assume con trattamenti diversi, cosa altrimenti vietata da 2112). Questo per facilitare le vendite d’azienda di imprese fallite.
Panorama speciale: Esistono procedure di insolvenza particolari per grandi imprese (amministrazione straordinaria) orientate al salvataggio, ma rientrano meno in questa discussione richiesta (non citate dall’utente). Sono comunque da menzionare per completezza: l’Amministrazione Straordinaria delle Grandi Imprese in Crisi (leggi Prodi, Marzano), dove un commissario gestisce l’impresa insolvente (>200 dipendenti) con l’obiettivo di salvaguardare i livelli produttivi, spesso vendendo rami o ristrutturando. È un ibrido tra continuazione e liquidazione, riservato a casi di interesse nazionale (tipo Alitalia). Non è applicabile a PMI normali.
Confronto sintetico tra le soluzioni
Per dare una visione d’insieme, forniamo di seguito una tabella comparativa dei principali strumenti, evidenziandone alcune caratteristiche chiave (procedura, soggetti coinvolti, effetti sui debiti, tempistiche, ecc.):
Confronto tra i principali strumenti di gestione della crisi d’impresa dal punto di vista del debitore
Come si evince dalla tabella, ogni opzione presenta vantaggi e criticità molto differenti. Ad esempio, la cessione immediata dell’azienda porta liquidità subito ma lascia al cedente l’onere di gestire i debiti residui (salvo che avvenga in sede concorsuale); il concordato preventivo consente di ridurre legalmente i debiti ma richiede tempi e adempimenti complessi; l’affitto d’azienda è utile come misura-ponte, ma da solo non risolve l’indebitamento; la liquidazione volontaria funziona solo per crisi marginali e con collaborazione dei creditori; la liquidazione giudiziale garantisce l’ordinata soddisfazione secondo legge, ma al prezzo della perdita totale del controllo da parte dell’imprenditore e della dissoluzione dell’impresa.
In conclusione di questa disamina, il debitore in crisi – assistito dai suoi consulenti – dovrà scegliere la strada più adeguata in base alla gravità della crisi, alla disponibilità dei creditori a negoziare, alla presenza di eventuali investitori interessati e alla propria priorità (mantenere l’azienda in vita? Uscire dal mercato senza strascichi penali? Massimizzare la soddisfazione dei creditori?). Non di rado, i percorsi si combinano: ad esempio, affitto d’azienda seguito da concordato con cessione; oppure accordo di ristrutturazione per i grandi creditori e contestuale liquidazione di asset minori; o ancora concordato preventivo convertito in liquidazione giudiziale se fallisce.
Nel prossimo paragrafo affronteremo alcune domande frequenti, che ricapitoleranno in forma Q&A i dubbi che spesso sorgono quando si parla di cedere un’azienda in crisi.
FAQ – Domande frequenti sulla cessione d’azienda in crisi
D: Vendendo la mia azienda in crisi, mi libero automaticamente dei debiti?
R: No. La vendita dell’azienda di per sé non fa sparire i debiti. In base al codice civile, il cedente rimane obbligato per tutti i debiti antecedenti la cessione, a meno che i creditori acconsentano espressamente a liberarlo. Inoltre, l’acquirente dell’azienda può divenire co-obbligato in solido per i debiti dell’azienda, ma solo per quelli che risultano dai libri contabili obbligatori (art. 2560 c.c.). Quindi, se lei vende l’azienda, i creditori potranno comunque rivalersi su di lei per i debiti pregressi (salvo che li soddisfi col ricavato della vendita o ottenga liberatorie). Il compratore potrà essere chiamato a pagare solo i debiti aziendali registrati in contabilità – e comunque questo non libera lei, aggiunge solo un altro soggetto obbligato. In sintesi: vendere l’azienda non equivale a “cedere i debiti” a qualcun altro, a meno che la vendita avvenga nell’ambito di una procedura concorsuale omologata che prevede l’esonero del cessionario (come un concordato, ecc.).
D: L’acquirente rischia di dover pagare i debiti della mia azienda?
R: Sì, è un rischio concreto, ma limitato dalla legge a circostanze specifiche. In base all’art. 2560 c.c., l’acquirente risponde dei debiti dell’azienda ceduta solo se tali debiti risultano dai libri contabili obbligatori. Ciò significa che, ad esempio, se nei bilanci e nei registri contabili della mia azienda è iscritto un debito verso un fornitore, quel fornitore potrà chiedere il pagamento anche al nuovo titolare dell’azienda dopo la cessione. Se invece un debito non è formalmente contabilizzato, il cessionario in genere non ne risponde (anche se ne era a conoscenza per altri canali). Inoltre, per alcuni debiti particolari la legge estende la responsabilità dell’acquirente: debiti di lavoro (stipendi, TFR) verso i dipendenti – il cessionario ne risponde in solido ex art. 2112 c.c. – e debiti tributari verso l’Erario – l’art. 14 D.lgs. 472/97 prevede che l’acquirente sia obbligato in solido per imposte e sanzioni degli ultimi 3 anni, salvo certi limiti e se non ottiene il certificato liberatorio. Dunque, un potenziale compratore ben informato prenderà precauzioni: vorrà visionare i libri contabili per conoscere tutti i debiti iscritti, richiederà un certificato dell’Agenzia Entrate sui debiti fiscali, e probabilmente includerà nel contratto clausole di garanzia/indennizzo in caso emergano passività occulte. Per tranquillizzare un acquirente, spesso conviene strutturare la vendita all’interno di una procedura concorsuale (concordato, ecc.) omologata, perché in tal caso la legge esclude espressamente la responsabilità del compratore per i debiti antecedenti.
D: Posso escludere i debiti dal perimetro della cessione d’azienda?
R: In parte. Nel contratto di cessione, venditore e acquirente sono liberi di accordarsi su chi “si farà carico” dei debiti aziendali – ad esempio si può pattuire che taluni passivi restino a carico del cedente e che il prezzo di vendita ne tenga conto (o viceversa, che l’acquirente ne assuma alcuni specifici, spesso col meccanismo di accollo). Tuttavia, queste pattuizioni hanno efficacia solo interna tra le parti, non vincolano i creditori senza il loro consenso. Il creditore è un terzo rispetto al vostro contratto: continuerà a poter pretendere il pagamento secondo la legge (dal cedente e, se art. 2560 c.c. lo consente, anche dal cessionario), a prescindere da come vi siete divisi i debiti con l’acquirente. In pratica, inserire in contratto clausole come “tutti i debiti restano a carico del venditore” o “nessun debito è trasferito all’acquirente” serve a tutelare l’acquirente nei confronti del venditore (perché se poi paga qualche creditore, potrà rivalersi sul venditore), ma non impedisce ai creditori di agire contro l’acquirente nelle ipotesi in cui la legge lo permette. Per “escludere” efficacemente i debiti dall’azienda, l’unica via è pagarli prima della cessione, oppure ottenere dai creditori una liberatoria (spesso formalizzata in un “atto di assenso alla liberazione ex art. 2560 c.1 c.c.”). Va inoltre ricordato che persino una clausola contrattuale indicante i debiti accollati dall’acquirente non può essere usata dai creditori per chiamarlo in causa se tali debiti non risultavano dai libri contabili. Quindi l’allocazione contrattuale dei debiti è un aspetto importante tra venditore e compratore, ma non modifica la legittimazione dei creditori verso l’uno o l’altro. L’acquirente prudentemente vi chiederà una lista completa dei debiti e probabilmente pretenderà di trattenere parte del prezzo in garanzia, o di depositarlo in escrow per un certo periodo, proprio per coprirsi da eventuali debiti non voluti.
D: Cosa succede ai debiti fiscali e ai debiti bancari se cedo l’azienda?
R: Per i debiti fiscali, come accennato, la legge tutela in primis il Fisco: il compratore risponde in solido delle imposte (e relative sanzioni) dovute dall’azienda ceduta nell’anno in corso e nei due precedenti, entro il valore dell’azienda acquistata. Tuttavia, può proteggersi ottenendo un certificato dei carichi fiscali pendenti: se il certificato risulta “pulito” (nessun debito noto), l’acquirente è liberato da responsabilità. Se evidenzia debiti, l’acquirente subentrerà nei limiti di essi (fino concorrenza valore azienda) a titolo di coobbligato sussidiario. Ad esempio, se l’azienda ha €50k di debiti IVA non pagati nell’ultimo biennio e ciò risulta dal certificato, il compratore acquistando si espone fino a €50k verso l’Erario (salvo ovviamente patto con il venditore per trattenerre €50k dal prezzo e saldarli). Una cosa molto importante: se la cessione d’azienda avviene nell’ambito di una procedura concorsuale o di un piano di risanamento omologato, la legge esonera il compratore dalla responsabilità per i debiti tributari del cedente (salvo frode fiscale). Questo esonero, introdotto nel 2020, copre vendite in concordato preventivo, in liquidazione giudiziale, composizione negoziata, ecc., e persino vendite fatte da società controllate per risanare la controllante. Quindi se vendete l’azienda come parte di un concordato, il Fisco non potrà chiedere le vostre vecchie tasse al nuovo acquirente. – Per i debiti bancari: qui non esiste una norma analoga al 2560, perché i rapporti con banche (prestiti, mutui, fidi) in genere non seguono l’azienda salvo accordi specifici. Di solito, quando vendete l’azienda, i debiti finanziari restano a voi (cedente) e dovete estinguerli (spesso le banche chiedono il rimborso anticipato se cedete l’attività). L’acquirente semmai dovrà reperire proprie fonti di finanziamento. Può succedere che come parte della trattativa, l’acquirente decida di accollarsi un mutuo o subentrare in un leasing strumentale, ma serve l’ok della banca/finanziaria (che spesso lo concede valutando la solvibilità del compratore). Senza liberazione della banca, il venditore resta garante. Dunque, in linea generale, i debiti verso banche non “passano” automaticamente all’acquirente dell’azienda (le banche non sono creditori dell’azienda intesa come complesso, ma della società o persona che aveva firmato il contratto). Il consiglio è: prima di cedere, negoziate con le banche la chiusura delle esposizioni (magari usando parte del prezzo di vendita). Se l’acquirente è interessato a mantenere linee di credito, potrà chiedere nuove aperture a suo nome, ma quelle vecchie vanno chiuse o volturate con consenso. Infine, occhio a eventuali garanzie personali: se voi (o un socio) avete garantito un debito bancario ceduto all’acquirente, assicuratevi di farvi liberare formalmente da tale garanzia, altrimenti la banca potrebbe rivalersi su di voi se il nuovo debitore non paga – la cessione dell’azienda di per sé non libera il fideiussore, serve l’atto di liberazione della banca.
D: E i dipendenti? Chi paga gli stipendi arretrati e il TFR se vendo l’azienda?
R: I lavoratori sono una categoria con tutela speciale. In caso di trasferimento d’azienda, l’art. 2112 c.c. dispone che i rapporti di lavoro proseguono automaticamente con il cessionario, mantenendo tutti i diritti in essere. Ciò significa che il nuovo titolare dell’azienda diventa datore di lavoro di tutti i dipendenti in forza e deve applicare lo stesso contratto collettivo, rispettare anzianità, livelli retributivi ecc. Inoltre – punto cruciale – il cessionario è obbligato in solido con il cedente per i crediti che i lavoratori avevano già maturato al tempo della cessione. Ad esempio, se al momento del trasferimento ci sono due mensilità non pagate e tot. ferie arretrate, i dipendenti potranno chiederle sia a voi (ex datore) sia al nuovo (nuovo datore). Quindi gli stipendi arretrati e il TFR maturato viaggiano insieme ai lavoratori e diventano un onere anche per l’acquirente. Tuttavia – attenzione – la Cassazione ha chiarito che questo riguarda solo i crediti diretti dei lavoratori: i contributi previdenziali non versati al fondo pensione, ad esempio, non rientrano nella solidarietà ex 2112 (perché il credito contributivo è dell’ente previdenziale, non “del lavoratore”). Quindi l’INPS per contributi arretrati dovrà rifarsi semmai con l’art. 2560 (se quel debito era a bilancio). In pratica: gli arretrati di retribuzione e il TFR sì (solidarietà), i contributi no (restano a carico del cedente salvo 2560). Cosa succede dunque in concreto? Spesso, in sede di closing, parte del prezzo di vendita viene accantonato per pagare immediatamente i dipendenti per questi arretrati, oppure il cessionario se ne fa carico defalcandoli dal prezzo. È molto importante definire nell’accordo di cessione chi paga cosa e quando: ad esempio potreste convenire che il venditore paga fino alla data di cessione e si accolla eventuali arretrati, mentre il compratore subentra “pulito” e paga d’ora in poi. Ma ripeto, di fronte al lavoratore, siete entrambi responsabili: se uno non paga, potrà essere chiamato l’altro. Dal punto di vista del lavoratore è una garanzia in più; dal punto di vista vostro e del compratore, è un rischio da considerare e gestire contrattualmente. Infine, e se il compratore non vuole prendere qualche dipendente? In linea di massima non può scegliere: se è un trasferimento d’azienda ai sensi di legge, deve assorbire tutti i dipendenti addetti a quell’azienda. Licenziamenti motivati solo dal trasferimento sono nulli. L’unica eccezione è se il trasferimento avviene in contesto di procedura concorsuale: ad esempio, nel fallimento si può concordare con i sindacati il passaggio solo di parte dei lavoratori (c.d. “esame congiunto” ex art. 368 CCII). Oppure il venditore potrebbe attuare egli stesso una riduzione di personale prima della cessione (seguendo le procedure di legge per licenziamenti collettivi), cosicché al momento del trasferimento rimangano solo quelli che l’acquirente è disposto a prendere. Questo però va pianificato con attenzione e trasparenza, perché i licenziamenti pre-cessione se fatti in frode al 2112 sono nulli. In conclusione, vendendo l’azienda voi e l’acquirente dovrete garantire la tutela dei dipendenti, pagando quanto a loro dovuto e rispettandone i contratti – diversamente vi esporreste a cause di lavoro e ad interventi sindacali.
D: Conviene vendere l’azienda in crisi o fare un concordato preventivo?
R: Dipende dalle prospettive dell’azienda e dagli obiettivi del debitore. Una vendita “pulita” dell’azienda realizza subito liquidità e vi consente forse di soddisfare una parte dei creditori rapidamente, ma vi lascia addosso tutti i debiti residui non coperti dal prezzo. Se questi debiti sono ingenti, dopo la vendita rischiate comunque il fallimento o altre azioni (specie se avete garanzie personali prestate). In un concordato preventivo, invece, voi proponete ai creditori un pagamento parziale e ottenete – se la maggioranza approva – la cancellazione del debito residuo all’omologa. Quindi il concordato porta a una liberazione definitiva dalle obbligazioni (per la società, che si estinguerà, e anche per voi eventualmente come socio illimitatamente responsabile se c’è esdebitazione). Dal lato dei creditori, però, un concordato di solito li soddisfa meno di una vendita al 100% (perché per definizione c’è uno stralcio). Quindi la scelta dipende dalla convenienza comparata:
- Se la vostra azienda ha un buon mercato e potete spuntare un prezzo tale da pagare la maggior parte dei debiti, forse conviene vendere e poi cercare di risolvere i restanti debiti con accordi o, se siete persona fisica, con un procedimento di esdebitazione del sovraindebitato.
- Se l’azienda in sé ha poco valore di mercato (nessuno la compra a un prezzo sufficiente) ma l’attività può generare utili futuri, allora conviene il concordato in continuità: mantenete l’azienda, continuate a lavorare, e pagate i creditori col tempo in percentuale, salvando l’impresa.
- Se l’azienda va venduta, ma la somma ricavabile non basterà comunque a soddisfare tutti, spesso la soluzione ottimale è fare un concordato preventivo liquidatorio dove l’azienda viene venduta all’interno del concordato e i creditori accettano una percentuale sui loro crediti. Così voi eseguite la vendita in modo trasparente (magari tramite gara supervisionata dal tribunale, spuntando il miglior prezzo) e, grazie all’omologa del concordato, nessuno potrà aggredirvi per la differenza non pagata. Inoltre, il compratore dell’azienda concordataria la prende senza dover rispondere dei vostri debiti passati, e spesso ottiene pure la non applicazione dell’IVA (cessione di azienda) e la continuità dei contratti. In pratica è come se combinaste i vantaggi della vendita e del concordato: l’azienda viene ceduta a valorizzare l’attivo, e il debito eccedente viene cancellato legalmente.
Tuttavia, il concordato è complicato, lungo e costoso – va intrapreso se c’è sufficiente attivo o prospettiva di realizzo, altrimenti il rischio è di fallire comunque dopo aver speso tempo e denaro. Per concludere: se trovate un acquirente valido e con un’offerta buona, spesso conviene integrarlo in un percorso concordatario o negoziale. Se invece non c’è acquirente, il concordato (con eventuale affitto d’azienda in attesa) può servire a guadagnare tempo per trovarlo mantenendo l’impresa in esercizio. Valutate anche la vostra posizione personale: in concordato le eventuali garanzie personali che avete dato ai creditori rimangono attive (non sono protette se non pagate i garantiti al 100%), mentre in un fallimento seguito da esdebitazione potreste liberarvi anche di quelle (ma subendo il fallimento personale). È una decisione da ponderare con consulenti legali e finanziari, simulando gli scenari.
D: Posso continuare l’attività affittando o vendendo l’azienda a una nuova società creata da me, così da lasciare i debiti nella vecchia?
R: Questo schema (a volte chiamato “Newco” o “bad company/good company”) è molto delicato e può facilmente configurare atti in frode ai creditori. Dal punto di vista legale, non è illecito costituire una nuova società e trasferirle l’azienda della vecchia, lasciando i debiti nella vecchia entità – purché ciò avvenga a valori di mercato e non pregiudichi i creditori. Se però l’operazione è fatta sottocosto, con la vecchia società che poi fallisce e i creditori non trovano i beni (perché li avete spostati nella newco), i tribunali vedono questo come un abuso. La Cassazione ha più volte condannato tali manovre: la vendita o il conferimento d’azienda a una Newco posseduta dalle stesse persone, al solo scopo di liberarsi dei debiti, può portare: (a) in sede civile, alla dichiarazione che l’art. 2560 c.c. non si applica (perché non c’è “alterità soggettiva” vera, è solo un travaso) e dunque la nuova società risponde comunque di tutti i debiti; (b) in sede concorsuale, all’azione revocatoria del trasferimento e al recupero dei beni alla massa fallimentare; (c) in sede penale, all’accusa di bancarotta fraudolenta patrimoniale (distrazione di beni) e/o di sottrazione fraudolenta al pagamento d’imposte. Insomma, se Lei affitta o cede l’azienda a una sua società di famiglia, ricevendo un corrispettivo irrisorio e lasciando i creditori insoddisfatti, rischia grosso: i creditori potranno reagire chiedendo il fallimento e la revocatoria dell’atto, e la Procura potrebbe aprire un’indagine penale. Ci sono modi legittimi di “isolare” la parte sana dell’attività: ad esempio, attraverso un concordato con continuità indiretta, dove si costituisce una Newco e il piano concordatario prevede la cessione dell’azienda a tale Newco controllata dai medesimi soci, ma con l’approvazione del tribunale e salvaguardie per i creditori. In quel caso, i creditori vengono soddisfatti in concordato col denaro (o strumenti finanziari) fornito dalla Newco, e l’azienda prosegue in mano alla Newco libera dai debiti concordatariamente stralciati. Questo è fattibile (è capitato in diversi concordati noti) ma deve essere fatto alla luce del sole, coinvolgendo i creditori nel piano. Farlo “sottobanco” senza procedure concorsuali è invece estremamente rischioso. Quindi, attenzione: trasferire l’azienda a una sua nuova società è scenario tipico di contestazioni se i debiti restano insoluti. Se la finalità è salvare l’avviamento e regolare i debiti, meglio utilizzare gli strumenti come la composizione negoziata (dove può chiedere al giudice l’autorizzazione a cedere l’azienda a una Newco senza responsabilità ex 2560) o un concordato preventivo. In breve, si può “spezzare” un’impresa in crisi in due soggetti (buona e cattiva), ma serve trasparenza e che i creditori ricevano un trattamento non pregiudizievole rispetto a un fallimento – altrimenti è illecito.
D: Il curatore fallimentare può annullare la vendita d’azienda che ho fatto prima del fallimento?
R: Sì, può succedere tramite l’azione revocatoria fallimentare, se la vendita è avvenuta in un certo periodo antecedente al fallimento e ricorrono le condizioni di legge. Il Codice della Crisi (artt. 163-166) prevede che il curatore possa far dichiarare inefficaci gli atti compiuti dal debitore prima del fallimento che abbiano pregiudicato la par condicio. Nel caso di vendita d’azienda, si distingue:
- Se avete ceduto l’azienda a titolo gratuito (o a un prezzo simbolico molto basso), l’atto è revocabile se fatto entro due anni da quando eravate insolventi.
- Se l’avete venduta a un prezzo inadeguato (inferiore di oltre 1/4 al valore di mercato), è revocabile se conclusa entro un anno prima. In altre parole, il curatore può sostenere che avete svenduto l’azienda a danno dei creditori e chiedere al tribunale di annullare la vendita: in caso di esito positivo, l’azienda (o il suo controvalore) rientra nel fallimento e l’acquirente può solo insinuare un credito di restituzione del prezzo. Esistono però difese: se la vendita è avvenuta a condizioni di mercato e prima di uno stato d’insolvenza conclamata, il curatore non avrà facile gioco a revocarla (dovrebbe provare la vostra dolosa preordinazione di pregiudicare i creditori e la malafede del compratore, cosa non scontata fuori dalle presunzioni temporali).
- Va ricordato che sono esenti da revocatoria le cessioni d’azienda fatte in esecuzione di un piano di risanamento attestato o di un concordato preventivo omologato. Quindi, se la vendita l’avete fatta come parte di un concordato, il curatore non potrà attaccarla (né il giudice dichiarerà il fallimento a concordato in corso se l’avete presentato seriamente). Se l’avete fatta privatamente e poi fallite entro 6 mesi – 1 anno, c’è un’alta probabilità che il curatore la impugni per recuperare valore nella massa fallimentare.
In sintesi: sì, una vendita d’azienda “sospetta” (gratuita o sottocosto a ridosso del fallimento) viene tipicamente revocata. Se l’avete venduta a prezzo equo e magari usato il ricavato per pagare debiti, il curatore può ancora tentare ma è meno sicuro che il tribunale accolga (dovrebbe provare che comunque quell’atto ha leso i creditori). Per precauzione, chi compra da un’impresa in crisi preferisce spesso farlo in sede di procedura concorsuale (vendita autorizzata dal giudice), proprio per evitare il rischio di revocatoria.
D: In caso di fallimento dopo la cessione, i creditori possono ancora pretendere qualcosa dall’acquirente dell’azienda?
R: I creditori individualmente no (perché con la dichiarazione di fallimento perdono la legittimazione individuale e devono sottostare alle regole concorsuali), e comunque l’azione ex art. 2560 c.c. è di competenza del curatore e non può essere esercitata dal singolo dopo la sentenza di fallimento. Questo è un punto interessante: supponiamo che lei venda l’azienda, poi la sua società fallisca; a quel punto i creditori non possono più far cause a chi vogliono, deve pensarci il curatore. E come abbiamo detto, il curatore al massimo può agire in revocatoria (per riprendersi il bene) ma non può agire ex art. 2560 per dichiarare la responsabilità del cessionario verso i creditori della fallita – la Cassazione ha escluso che il curatore abbia interesse a farlo, perché anche se ottenesse che l’acquirente è coobbligato, ciò non porterebbe benefici alla massa (l’acquirente pagando i creditori avrebbe diritto di regresso sul fallimento). Quindi, i creditori ammessi al passivo del fallimento dovranno accontentarsi delle ripartizioni fallimentari; non possono, durante il fallimento, andare dall’acquirente a chiedere il saldo dovuto. Possono farlo invece se la sua azienda non fallisce ma semplicemente non li paga: in quel caso rimane in piedi la loro azione diretta ex 2560 c.c. contro il compratore. Ma col fallimento, tale azione individuale è preclusa e pure il curatore, come detto, generalmente non la esercita perché ritenuta non nell’interesse del ceto creditorio. Faccio notare che questo scenario (vendita, poi fallimento) è pessimo per i creditori: perdono l’azienda quale garanzia patrimoniale e non ottengono nemmeno una coobbligazione efficace del compratore (nel fallimento, come detto, il compratore se volesse pagare i creditori poi verrebbe surrogato, generando un credito concorsuale a sua volta). E infatti la giurisprudenza ha sviluppato quell’orientamento di cui sopra: per evitare esiti così frustranti, se la cessione appare fraudolenta, i giudici talvolta dichiarano che l’acquirente risponde comunque verso i creditori fuori dal fallimento (facendo leva sull’abuso del diritto e sulla carenza di alterità soggettiva). In conclusione: durante la procedura fallimentare, l’unica via per colpire l’acquirente è la revocatoria (far tornare l’azienda nell’attivo fallimentare). Una volta chiuso il fallimento, i creditori chirografari per la parte non soddisfatta vengono “discaricati” (società estinta) e non potrebbero più agire su quell’azienda a meno di situazioni particolari (se l’acquirente avesse assunto formale impegno di pagare quei debiti – accollo – e i creditori lo avessero accettato, allora avrebbero potuto agire in base all’accollo). Ma sto ipotizzando casi rari. Diciamo che, proprio perché con il fallimento i creditori vengono bloccati e rischiano di non poter agire efficacemente sul cessionario, essi cercheranno di far dichiarare inefficace la vendita (revocatoria) o di prevenirla (chiedendo fallimento immediato prima che vendiate). Quindi uno scenario in cui lei riesce a vendere l’azienda e poi far fallire la società e i creditori rimangono a mani vuote, è possibile solo se i creditori vengono colti di sorpresa e non c’è patrimonio da recuperare – scenario che può portare lei come amministratore a conseguenze di responsabilità e penali, come già detto.
D: Ho sentito parlare di transazione fiscale e stralcio di cartelle: valgono qualcosa per chi cede l’azienda?
R: La transazione fiscale è uno strumento all’interno di un concordato preventivo o di un accordo di ristrutturazione, che consente di trattare con Agenzia Entrate e INPS un pagamento parziale dei tributi e contributi dovuti (cosa normalmente non ammessa al di fuori). Se lei sta valutando un concordato e la sua azienda ha forti debiti fiscali, la transazione fiscale (ora disciplinata dagli artt. 63-64 CCII) è essenziale per ottenere il voto favorevole dell’Erario. Fuori dalle procedure, invece, non esiste un meccanismo di stralcio generalizzato delle cartelle esattoriali se non per via legislativa (condoni o rottamazioni periodiche). Cedere l’azienda in crisi non le fa accedere ad alcuno “sconto” fiscale automatico: dovrà comunque pagare le cartelle residue o includerle in un piano. Attenzione che vendere l’azienda senza regolarizzare la sua posizione col Fisco può esporla a sanzioni penali (se la cessione impedisce il pagamento di imposte > €150k, scatta il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento imposte). Quindi valuti con i suoi consulenti un eventuale accordo con l’Erario prima/durante la cessione: a volte l’Agenzia Entrate, in sede di concordato o ristrutturazione, accetta di ridurre le pretese (soprattutto sanzioni e interessi) se vede un serio piano. Nel merito di “stralcio cartelle”: periodicamente escono norme (da ultimo Legge di Bilancio 2023) che cancellano cartelle sotto certi importi o interessi. Verifichi se i suoi debiti rientrano in condoni attivi. Ma in generale, per importi significativi, l’unica via è una procedura concorsuale con transazione fiscale. Ad esempio, in un accordo di ristrutturazione dei debiti può includere l’Agenzia Entrate offrendo almeno il 30% del dovuto e l’AdE può accordarsi (dal 2021 c’è più flessibilità). In sede di cessione azienda classica, invece, l’Erario vorrà essere pagato integralmente (dal prezzo ricavato, di solito pretende il suo credito privilegiato). Lato compratore, come detto, c’è quell’esonero se la vendita è concorsuale. Quindi, vendere in concordato conviene anche per poter “transare” col Fisco all’interno del piano e non lasciare conti aperti.
D: Ci sono incentivi per chi acquista aziende da concordati o fallimenti?
R: Sì, in un certo senso: l’acquirente di un’azienda da procedura concorsuale gode di diversi vantaggi di legge, pur non essendo chiamati “incentivi” nel senso di contributi, ma di esenzioni e flessibilità. Ad esempio:
- L’acquisto da fallimento o concordato avviene free debts – l’azienda è liberata dai debiti anteriori. Nel fallimento ciò è insito (il curatore vende beni e i debiti restano nel fallimento); nel concordato è normato (art. 118 e 214 CCII escludono l’art. 2560). Questo è un enorme incentivo a comprare un’azienda che viene da una crisi, perché il compratore non si fa carico del vecchio indebitamento (salvo dover garantire i lavoratori ex 2112 come visto, ma può avere ridotto organico pattuito).
- Spesso, quando vendi un’azienda in concordato o fallimento, non si applica l’IVA ma solo imposta di registro – ma questo è generale per cessioni d’azienda. C’è anche un’agevolazione: gli atti compiuti in esecuzione di concordato preventivo sono esentati da tasse come bollo, registro e altri, per favorire la soluzione (art. 120 CCII di coordinamento). Ad esempio, la cessione d’azienda disposta nel concordato potrebbe pagare solo €200 fissi di registro anziché il 3% – su ciò c’è legislazione speciale (nel “Decreto Rilancio” 2020 c’era l’esenzione di imposte per atti relativi a concordati e ADR omologati). Anche nelle amministrazioni straordinarie spesso il D.Lgs. 270/99 prevede esenzioni tributi sulle cessioni. L’obiettivo è non aggravare i costi per il compratore.
- Sul versante del diritto del lavoro, come accennato, nelle vendite concorsuali il compratore può ridurre l’organico o rinegoziare condizioni con il benestare sindacale (cosa che in vendita normale non sarebbe possibile causa art. 2112). Ciò avviene tramite la procedura di consultazione sindacale: il Tribunale di Milano, per es., ha autorizzato cessioni fallimentari con passaggio solo di parte dei dipendenti. Dunque, chi compra da fallimento può dire: “prendo solo 50 dipendenti su 80, gli altri restano in capo al fallimento e saranno licenziati lì”. Questo rende più appetibile rilevare aziende decotte, e infatti è una deroga concessa proprio per incentivare acquisizioni e salvare almeno parte dei posti di lavoro.
- Infine, l’acquirente di azienda fallita spesso la ottiene a prezzi inferiori rispetto a un going concern in bonis, il che di per sé è un incentivo economico (anche se non legislativo). Naturalmente il rovescio è che un’azienda passata per un fallimento può aver perso valore di mercato (clienti e reputazione), però se il compratore è strategico (es. un concorrente) può integrare quell’azienda e trarne vantaggi. Non a caso molte acquisizioni di asset industriali avvengono da procedure concorsuali, dove il compratore sa di prendere “pulito” e a prezzo scontato.
Quindi, pur non essendoci un bonus monetario dallo Stato, l’ambiente legale concorsuale è costruito per favorire e semplificare le cessioni d’azienda in crisi a chi subentra. Perciò, se lei cerca un acquirente, comunicargli che l’operazione avverrà in concordato preventivo o in composizione negoziata con autorizzazione può rassicurarlo molto (niente debiti pregressi, flessibilità su manodopera, ecc.). Nella mia esperienza, molti investitori preferiscono rilevare un’attività attraverso una procedura giudiziale proprio per questa “bonifica” legale che ottengono, piuttosto che trattare privatamente con il rischio di grane future.
Conclusioni
Cedere un’azienda in crisi richiede un approccio multidisciplinare che coniughi gli aspetti giuridici, fiscali e gestionali. In questa guida abbiamo esaminato in dettaglio le tutele previste dalla legge (per creditori, acquirenti, lavoratori), le responsabilità che gravano sul cedente, nonché le alternative alla vendita immediata. Possiamo trarre alcune conclusioni di principio utili per orientarsi:
- Pianificazione e trasparenza: prima di avviare qualunque cessione, è fondamentale avere un quadro preciso dell’esposizione debitoria e dello stato dell’azienda. Un check-up contabile-legale consente di evitare passi falsi (come dimenticare un debito non contabilizzato che poi ricade sull’acquirente). Bisogna inoltre valutare gli impatti fiscali e predisporre documentazione chiara da mostrare ai potenziali acquirenti (due diligence). Massima trasparenza non solo è corretta, ma evita future contestazioni o liti post-vendita.
- Valutare le procedure concorsuali come opportunità: se il passivo eccede sensibilmente l’attivo, la vendita tout court non risolve la posizione del debitore. In questi casi, strumenti come il concordato preventivo, gli accordi di ristrutturazione o la composizione negoziata dovrebbero essere considerati. Possono sembrare complessi, ma offrono vantaggi unici: ad esempio, la vendita dell’azienda in concordato libera l’acquirente dai debiti pregressi e consente al cedente di essere esdebitato dal residuo, cosa impossibile con la sola vendita privata. Ogni situazione è unica: spesso il percorso migliore è ibrido (es. affitto ponte + concordato con cessione, oppure accordo di ristrutturazione + liquidazione di asset non strategici). Conviene farsi assistere da professionisti esperti di crisi d’impresa per disegnare la strategia ottimale.
- Attenzione alle responsabilità personali: l’imprenditore (amministratore, socio) in crisi è tentato di “salvare il salvabile” – ma deve farlo nei confini di legge. Operazioni come distrarre beni ai danni dei creditori o fare pagamenti preferenziali possono innescare responsabilità civili e penali (azione revocatoria, azione di responsabilità, bancarotta). Meglio dunque agire in modo concordato con i creditori – anche se ciò significa ammettere perdite – piuttosto che rischiare sanzioni ben peggiori. La normativa della crisi (Codice della Crisi) incoraggia l’imprenditore ad affrontare per tempo le difficoltà (art. 3 e 24 CCII prevedono obblighi di segnalazione e doveri organizzativi) e offre strumenti di allerta e composizione negoziata per intervenire prima dell’insolvenza conclamata. Muoversi per tempo consente più opzioni (es. piano attestato di risanamento) e riduce il rischio di dover poi ricorrere al fallimento.
- Tutela degli interessi in gioco: nella cessione di un’azienda in crisi, non c’è una parte “vincente” e una “perdente” – la migliore operazione è quella in cui tutti gli stakeholder ottengono il massimo possibile date le circostanze. Ciò significa considerare i diritti dei lavoratori (assicurandosi che ricevano il dovuto, o che possano ricorrere al Fondo di Garanzia Inps se necessario), informare e trattare con i creditori per ottenere il loro supporto (spesso un creditore chiave preferisce rinunciare a qualcosa pur di evitare il peggio, ma va coinvolto attivamente), e porre l’acquirente in condizione di rilanciare l’azienda (non affossarlo trasferendogli magari passività occulte). Un esempio virtuoso è il concordato con continuità aziendale: i creditori accettano una falcidia ma l’azienda non chiude e può continuare a generare valore e occupazione – uno scenario generalmente migliore del fallimento disgregativo.
- Importanza delle fonti normative e giurisprudenziali aggiornate: il campo del diritto della crisi d’impresa è in continua evoluzione. Dal 2019 ad oggi (giugno 2025) abbiamo visto entrare in vigore il nuovo Codice della Crisi con relativi correttivi (D.lgs. 83/2022 e 147/2023) e recepimento di direttive UE. Questo ha introdotto novità come la composizione negoziata, il concordato semplificato, l’estensione dell’esonero di responsabilità fiscale al cessionario, ecc. Anche la Cassazione ha prodotto pronunce innovative (come quelle del 2023 citate, che ampliano la responsabilità del cessionario in caso di abuso). Pertanto, chi si accinge a cedere o acquisire un’azienda in crisi deve basare le proprie mosse sulle fonti aggiornate (leggi e ultime sentenze) e farsi guidare da esse, non su vecchie prassi o “sentito dire”. Nelle sezioni seguenti elenchiamo le principali fonti normative, giurisprudenziali e di prassi citate in questa guida, che potranno servire per approfondimenti e verifica.
In definitiva, “cedere la propria azienda in crisi” è un passaggio delicato ma, se gestito con competenza, può trasformarsi da atto di resa a soluzione strategica sia per il debitore che per il sistema dei creditori. Conoscere a fondo “a cosa stare attenti” – come recita il titolo – consente di evitare errori fatali e di massimizzare le chances di un esito positivo: salvare il salvabile dell’azienda (o consentirne la prosecuzione sotto altre guide) e affrontare i debiti in modo sostenibile e definitivo.
Fonti e riferimenti
Di seguito raccogliamo le principali fonti normative, giurisprudenziali e dottrinali richiamate nel testo, suddivise per categorie, a beneficio di chi volesse consultarle direttamente:
Legislazione (Codici e leggi):
- Codice Civile: artt. 2555-2560 c.c. (disciplina generale cessione d’azienda: definizione, forma, crediti e debiti aziendali, divieto di concorrenza); art. 2112 c.c. (trasferimento dei rapporti di lavoro); artt. 2214, 2215 c.c. (obbligo di tenuta delle scritture contabili, rilevanti per art. 2560); artt. 2498-2499, 2501 c.c. (trasformazione e conferimento d’azienda – alterità soggettiva); artt. 2484-2496 c.c. (scioglimento e liquidazione volontaria delle società).
- Codice della Crisi d’impresa e dell’insolvenza (D.lgs. 14/2019, aggiornato): art. 2 (definizioni di crisi e insolvenza); art. 22 co.1 lett. d) e art. 24 (composizione negoziata: autorizzazione tribunale a cessione d’azienda senza art. 2560 c.c., i cui effetti permangono in procedure successive); art. 56 (piano attestato di risanamento); art. 57 (accordo di ristrutturazione dei debiti omologato); art. 63-64 (contenuto transazione fiscale e trattamento crediti pubblici nei piani); art. 84 (requisiti concordato preventivo, continuità aziendale diretta/indiretta); art. 88 e 90 (concordato in continuità indiretta, affitto d’azienda pregresso ammesso); art. 118 co.6-8 (effetti omologazione concordato, esonero responsabilità cessionario per debiti azienda ceduta in concordato); art. 120 (esenzione da bollo e registro per atti in esecuzione concordato preventivo e ADR omologati – norma di coordinamento); art. 124 (conversione concordato in liquidazione giudiziale se esecuzione inadempiuta); art. 163-166 (azione revocatoria liquidazione giudiziale: atti a titolo oneroso revocabili a 1 anno se sotto prezzo; atti gratuiti 2 anni; esenzione per atti in esecuzione piani e concordati); art. 172 (scioglimento o prosecuzione contratti pendenti in liquidazione giudiziale); art. 189 (passaggio dipendenti in caso di esercizio provvisorio o cessione – rinvio all’art. 2112 e possibilità di accordi sindacali ex art. 368); art. 212 (affitto d’azienda in liquidazione giudiziale: poteri del curatore di recesso entro 60 giorni con equo indennizzo, clausole di salvaguardia); art. 214 co.3 (liquidazione giudiziale: esonero art. 2560 c.c. per cessioni d’azienda in procedura); art. 216 (vendita dell’azienda nel fallimento: procedure competitive); art. 240 (concordato nella liquidazione giudiziale); art. 25-sexies (concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio, post composizione negoziata); art. 277-278 (esdebitazione del debitore civile e condizioni) .
- Legge Fallimentare (R.D. 267/1942) – abrogata ma utile per riferimenti storici: art. 67 (revocatoria fallimentare); art. 105 (vendita di azienda nel fallimento – l’acquirente non assume debiti, c.d. effetto purgativo). Molti concetti sono confluiti nel CCII.
- D.P.R. 917/1986 (TUIR): art. 86 (plusvalenze e rateizzazione 5 anni se azienda posseduta >3 anni); art. 88 co.4-ter (detassazione sopravvenienze attive da riduzione debiti in procedure concorsuali: totale per concordato liquidatorio, parziale con utilizzo perdite per concordato in continuità/accordi/piani); art. 88 co.4-quater (esenzione anche per sovraindebitamento); art. 94 (riporto perdite 80% utilizzate per esdebitazione).
- D.P.R. 633/1972 (IVA): art. 2 co.3 lett.b) (cessione di azienda esclusa dal campo IVA, soggetta a registro 3%).
- D.P.R. 131/1986 (Testo Unico Registro): art. 23 (atto con più beni: se non si separano i corrispettivi, si applica aliquota più alta sull’intero); Tariffa Parte Prima art. 9 (imposta registro 3% su trasferimento di azienda, 0,5% su cessione crediti, esenzioni in caso di procedure concorsuali – variano per normative emergenziali).
- D.Lgs. 472/1997: art. 14 (responsabilità solidale acquirente per debiti tributari del cedente: 3 anni, limite valore, beneficio escussione cedente; esonero con certificato; 5-bis introdotto dal DL 124/2019 e mod. da DL 118/2021: esclude responsabilità cessionario per debiti tributari se cessione avviene in crisi o insolvenza concorsuale o accordo/piano omologato, salvo frode).
- D.Lgs. 74/2000 (Reati tributari): art. 11 (sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte: trasferimento di beni per evadere coattiva, soglia punibilità €50k, condotta anche solo pericolo – casi es. conferimento azienda e cessione per frodare Erario sanzionati da Cass.).
- Legge 147/2021 (conv. D.L. 118/2021): ha introdotto composizione negoziata e il concordato semplificato; delega fiscale L. 111/2023 ha previsto estensione esonero fiscale cessioni in comp. negoziata e PRO (attuata con D.Lgs. 83/2022 e D.Lgs. 136/2023).
Giurisprudenza (sentenze):
- Cassazione Civile – responsabilità cessionario e abusi:
- Cass. civ. Sez. Un. 28/02/2017 n. 5054: presupposto applicazione art. 2560 c.c. è effettiva alterità soggettiva – se trasferimento solo formale con stessi soci/organi, 2560 non opera.
- Cass. civ. Sez. I, 26/09/2017 n. 22418: onere su creditore di provare iscrizione del debito nei libri (conferma orientamento).
- Cass. civ. Sez. I, 26/09/2019 n. 24101: conoscenza aliunde del debito non vale, serve iscrizione formale.
- Cass. civ. Sez. I, 12/07/2023 n. 19806: funzione art. 2560 c.c. tutela creditori e acquirente; curatore fallimentare non legittimato a far dichiarare coobbligazione acquirente, perché inutile per massa.
- Cass. civ. Sez. I, 13/09/2023 n. 2548: caso di cessione ramo d’azienda infragruppo con stessi amministratori – art. 2560 non applicabile, cessionario risponde di tutti i debiti ramo, anche non risultanti (orientamento anti-abuso).
- Cass. civ. Sez. I, 06/06/2023 n. 16311: vendita azienda in fallimento – conferma che acquirente non risponde debiti, effetto purgativo art. 105 L.F..
- Cass. civ. Sez. III, 21/12/2012 n. 23828: se debito iscritto in modo generico o incompleto (es. mancante nome creditore), cessionario non risponde.
- Cass. civ. Sez. III, 17/12/2019 n. 32134: ribadisce requisiti di iscrizione obbligatoria e irrilevanza conoscenza informale (simile a 24101/2019, conferma giurisprudenza).
- Cass. civ. Sez. Lavoro, 24/02/2016 n. 3646: contributi INPS arretrati – non rientrano in “crediti che il lavoratore aveva” ex art. 2112, quindi niente solidarietà cessionario su contributi, resta art. 2560 per quelli (se in libri).
- Cass. civ. Sez. I, 22/03/2023 n. 8272: cessione azienda bancaria – particolarità per debiti bancari (art. 58 TUB su successione nei rapporti, non c’entra con 2560, ma menzionata da dottrina).
- Cassazione Penale – reati concorsuali e fiscali connessi a cessione:
- Cass. pen. Sez. V, 10/01/2023 n. 509: cedente aveva ceduto ramo a prezzo irrisorio poco prima di fallimento – configura bancarotta fraudolenta patrimoniale, irrilevante che art. 2560 renderebbe cessionario obbligato, perché comunque distrazione di patrimonio.
- Cass. pen. Sez. V, 20/07/2018 n. 34464: conferma principi su bancarotta fraudolenta per cessioni sotto valore (continua orientamento).
- Cass. pen. Sez. V, 19/03/2012 n. 10778: bancarotta impropria (dir. banc.?) – cessione che impedisce prosecuzione attività = danno.
- Cass. pen. Sez. III, 06/10/2017 n. 44451: conferimento azienda in newco e cessione rami a familiari – reato di sottrazione fraudolenta al pagamento imposte (art. 11 D.Lgs. 74/2000) configurato.
- Cass. pen. Sez. III, 17/12/2021 n. 46182: sul reato di sottrazione imposte – basta pericolo potenziale, non serve atti esecutivi in corso.
- Merito e dottrina rilevante:
- Tribunale Parma ord. 30/07/2024: ha affermato esonero cessionario ex art. 14 5-bis D.Lgs.472/97 anche in composizione negoziata (prassi giurisprudenziale).
- Corte d’Appello L’Aquila 31/05/2024: responsabilità cessionario per debiti – conferma orientamenti Cass. (non reperita ma citata da dottrina).
- Studio del CNN (Consiglio Naz. Notariato) n. 41-2024/PC: analisi vendita di azienda in liquidazione giudiziale, artt. 214 e 216 CCII, debiti assistiti da garanzie reali – evidenzia che art. 214 co.3 CCII esclude responsabilità acquirente per debiti sorti prima (salva diversa pattuizione).
- Relazione Illustrativa al CCII (2018) e Relazione ministeriale al correttivo 2021: spiegano ratio esonero respons. cessionario per incentivare cessione unità produttive e conservazione avviamento.
Prassi amministrativa (Agenzia Entrate circolari, ecc.):
- Circolare AE n. 18/E del 10/05/2013: chiarisce regime imposta registro 3% su cessione azienda “in assenza di immobili” e non applicabilità art. 23 T.U.R. – quindi se atto senza immobili, registro 3% su tutto. Ha anche definito aspetti di calcolo base imponibile cessione con beni eterogenei.
- Risoluzione AE n. 68/E del 16/10/2013: sul regime di rateizzazione plusvalenza art. 86 comma 4 TUIR (come computare il triennio di possesso e casi particolari).
- Circolare AE n. 34/E del 29/12/2020: ha commentato modifiche su transazione fiscale e detassazione sopravvenienze da concordato (sopravv. attive escluse da imponibile oltre perdite e interessi indeducibili).
- Risposta interpello AE n. 183/2023: ha chiarito modalità di utilizzo perdite in applicazione art. 88 co.4-ter TUIR post concordato (come calcolare l’80% ecc.).
- Circolare AE n. 16/E del 2023: linee guida su composizione negoziata e trattamento fiscale (presumibile riferimento a esonero art. 14 5-bis e certificati carichi pendenti, etc.).
- Assonime circolare n. 17/2016: commenta ratio art. 88 4-ter TUIR e conferma interpretazione per utilizzo perdite contro sopravvenienze esdebitazione.
- Nota della Direzione Regionale Entrate Lombardia 2012 (richiamata da dottrina): su qualificazione cessione quote Newco vs cessione azienda ai fini registro (operazione Cass. definita non abusiva).
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