Indebitamento Aziendale: La Differenza Tra Debiti Buoni E Cattivi

Hai sentito dire che l’indebitamento può essere una risorsa per l’azienda, ma ti stai chiedendo dove sia il confine tra un debito utile e uno pericoloso? Sei un imprenditore alle prese con finanziamenti, mutui o scoperti bancari e vuoi capire se la tua azienda sta sfruttando il credito in modo sano o se sta affondando sotto il peso dei debiti cattivi?

In ambito aziendale non tutti i debiti sono uguali. Esiste una differenza fondamentale tra debiti “buoni” e debiti “cattivi”, e riconoscerla in tempo può fare la differenza tra crescita e crisi.

Ma cosa si intende per debito buono?

Il debito buono è quello finalizzato a far crescere l’impresa. Serve per finanziare investimenti, ampliare la produzione, acquistare macchinari, sviluppare nuovi prodotti o entrare in nuovi mercati. È sostenibile nel tempo, perché genera un ritorno economico superiore al costo del finanziamento. In pratica: ti indebolisci oggi per diventare più forte domani.

E il debito cattivo? Quando diventa un problema?

Il debito è cattivo quando viene acceso solo per coprire perdite, tamponare emergenze o sopravvivere nel breve periodo, senza un piano di rientro credibile. Ad esempio: un prestito usato per pagare stipendi o vecchi debiti, un fido bancario sempre a limite, un leasing per beni non strategici.

Questi debiti non generano valore e, nel tempo, affossano i flussi di cassa, minano la fiducia dei fornitori, delle banche e, soprattutto, bloccano ogni possibilità di rilancio.

Come capire se nella tua azienda prevalgono i debiti buoni o quelli cattivi?

Bisogna guardare dove vanno i soldi presi a prestito e cosa generano: investimenti o sopravvivenza? Aumento del fatturato o nuove passività? Inoltre, è fondamentale monitorare il rapporto tra debiti e margini operativi, per evitare di imboccare una strada senza ritorno.

E se hai già troppi debiti cattivi?

Non tutto è perduto, ma serve agire subito. In certi casi si può:

  • rinegoziare con le banche;
  • attivare una composizione negoziata della crisi per evitare il collasso;
  • proporre un accordo di ristrutturazione del debito o, nei casi più gravi, valutare il concordato minore o la liquidazione controllata.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in gestione dell’indebitamento aziendale, diritto bancario e procedure di risanamento – ti spiega la differenza tra debito buono e cattivo, come valutare la salute finanziaria della tua impresa e come possiamo aiutarti a riequilibrare la situazione prima che sia troppo tardi.

Hai l’impressione che la tua azienda stia andando avanti solo grazie ai finanziamenti? Vuoi sapere se stai gestendo il credito nel modo giusto o se sei a rischio?

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Indebitamento aziendale: debiti “buoni” e “cattivi”

L’indebitamento aziendale include tutte le passività che un’impresa assume nei confronti di banche, fornitori, obbligazionisti, leasing, ecc. A livello contabile, il principio OIC 19 definisce i debiti come “passività di natura determinata ed esistenza certa, obbligazioni a pagare importi fissi o determinabili” nei confronti di finanziatori, fornitori e altri soggetti. Tuttavia, non tutti i debiti sono assimilabili: la prassi distingue tra “debito buono” e “debito cattivo” in base alla destinazione d’uso e alla sostenibilità economico-finanziaria. Un debito può ritenersi “buono” se finanzia investimenti produttivi che generano redditi e crescita (ad esempio nuovo impianto, ampliamento del ciclo produttivo), mentre è “cattivo” se serve a coprire spese correnti o beni che si deprezzano rapidamente, con costi di finanziamento elevati rispetto ai benefici. In termini tecnici, un debito “buono” tende ad aumentare il ritorno sul capitale investito (ROI) più del suo costo (ROD), garantendo un DSCR (Debt Service Coverage Ratio) positivo e un rapporto debito/patrimonio non eccessivo. Un “debito cattivo”, invece, non incrementa sostanzialmente la redditività aziendale e riduce i flussi di cassa, esponendo l’impresa al rischio di aumento del costo del capitale (WACC) e di rifinanziamento.

Questa guida – aggiornata a giugno 2025 – esamina in dettaglio le forme di indebitamento aziendale (bancario, commerciale, obbligazionario, leasing, factoring, ecc.), le differenze concettuali, contabili, fiscali e giuridiche tra debiti “buoni” e “cattivi”, e propone simulazioni pratiche (modelli finanziari, calcoli di costi/benefici, impatti di bilancio). Si considerano le diverse dimensioni aziendali (PMI, grandi imprese, startup) e i principali settori. Vengono citate la normativa italiana vigente (Codice della crisi e insolvenza, TUB, TUF, Codice civile, TUIR, ecc.) e la giurisprudenza recente. Il punto di vista è quello del debitore, con consigli per una gestione del debito consapevole e sostenibile.


Tipi di indebitamento aziendale

L’azienda può indebitarsi in molte forme, a seconda della sorgente di finanziamento:

  • Debiti bancari: finanziamenti erogati da banche e intermediari finanziari (mutui, finanziamenti a medio-lungo termine, aperture di credito, scoperti di conto). Ad esempio, un mutuo ipotecario per l’acquisto di un immobile operativo, o un prestito a medio termine per un nuovo macchinario. Tali debiti sono regolati dal Testo Unico Bancario (D.lgs. 385/1993) e dai contratti bancari. I finanziamenti bancari generano oneri finanziari (interessi) deducibili fiscamente, ma comportano scadenze precise e garanzie (ipoteche, fideiussioni). In caso di insolvenza, sono soggetti a procedure concorsuali (concorrenza con altri crediti bancari e privilegiati).
  • Debiti commerciali: obbligazioni verso fornitori di beni e servizi. Derivano da acquisti in ragione o a credito; sono passività correnti a breve termine. Secondo l’OIC 19 sono debiti a “data di regolamento determinata o determinabile”. Ad esempio, un’azienda che riceve materie prime e salda la fattura a 60 giorni. Il debito commerciale non comporta interessi (se non dilazioni) ma incide sul capitale circolante netto. Se pagato con ritardo può generare interessi di mora (art. 1282 c.c.) o contenziosi.
  • Obbligazioni societarie (titoli di debito): le grandi imprese possono emettere obbligazioni o titoli di debito quotati o non, seguendo la disciplina del Codice Civile (art. 2412 e ss.) e del TUF (D.lgs. 58/1998). Ad esempio, un’azienda può raccogliere capitali tramite una emissione di bond; i tassi d’interesse sono stabiliti nel prospetto. Le obbligazioni comportano oneri finanziari fissi e scadenze prestabilite. Sono spesso garantite (ipoteca, pegno) se eccedono i limiti di emissione previsti (art. 2412 c.c.: obbligazioni per un importo complessivo non superiore al doppio del capitale sociale, salvo garanzie). Questa forma è tipica di grandi imprese quotate o di società veicolo.
  • Leasing: contratto di locazione finanziaria, con cui un’azienda (utilizzatore) affitta un bene strumentale da un locatore (società di leasing) con opzione di riscatto finale. Fiscalmente, la quota di canone imputata a interessi è deducibile, mentre il bene viene ammortizzato dall’utilizzatore (la pratica contabile varia in base agli schemi OIC/IFRS e alla natura dell’accordo). Esempio: leasing di un macchinario al 5% di interesse. Il leasing agisce da debito finanziario fuori bilancio fino all’entrata in vigore di IFRS 16 (oggi iscritto come passività).
  • Factoring: finanziamento attraverso la cessione dei crediti commerciali ad un factor. L’azienda vende i propri crediti verso clienti a una società di factoring, ottenendo subito liquidità. Tecnicalmente, il factoring pro soluto funge da indebitamento (il factor assume il rischio di insolvenza), mentre il factoring pro solvendo è più simile a un prestito garantito dai crediti. Normativa di riferimento: Legge 52/1991 (cfr. art. 1260 c.c.) e succ. modifiche. Impatto sul bilancio: riduce il credito verso clienti e incrementa la liquidità (o il debito verso factor); introduce oneri finanziari e commissioni. Il factoring può aiutare a migliorare il capitale circolante, ma ha costo in commissioni e interessi.
  • Altre forme: linee di credito rotativo, prestiti infruttiferi (soci, finanziatori di ricerca e sviluppo, bandi agevolati), contratti di finanziamento convertibili in capitale, obbligazioni convertibili ecc. Ogni forma ha regole proprie: i finanziamenti soci, ad esempio, sono passività nei confronti dei soci (normati dall’art. 2467 c.c., rischi di nullità se la società è sottocapitalizzata). Le fattispecie specifiche (debiti verso erario o enti previdenziali) seguono regole fiscali e di privilegio diverse.

Panoramica settoriale e dimensionale: le PMI italiane fanno tipicamente ampio uso di debiti bancari a breve termine (fidi bancari, anticipi su fatture) e leasing per investimenti, oltre a debiti commerciali elevati se il ciclo produttivo è lungo (es. costruzione, manifattura). Le grandi imprese, soprattutto quotate, accedono anche a mercati dei capitali tramite obbligazioni, commercial paper, linee di credito syndicated. Le startup, invece, raramente usano debito bancario oneroso (spesso non hanno garanzie), preferendo capitale di rischio o finanziamenti “soft” (ad es. finanziamenti agevolati, mini-bond sotto soglie esentasse, prestiti d’onore). Tuttavia, anche le startup innovative possono emettere mini-bond sotto il codice della crisi se hanno requisiti. Nei vari settori industriali si nota che imprese ad alta intensità di capitale (edilizia, produzione industriale) assumono debiti elevati per macchinari e impianti, mentre servizi e tech tendono a indebitarsi meno (più orientate su capitale umano e meno su asset tangibili). In tutti i casi, l’equilibrio tra fonti proprie e di terzi varia con il modello di business e la storia finanziaria: ad es. le aziende esportatrici tendono a finanziarsi con crediti all’esportazione (garantiti da SACE-Assicurazioni), le cooperative sociali spesso ottengono finanziamenti regionali o agevolati.

Le principali fonti normative per i vari tipi di debito sono: Codice Civile (art. 2412 e segg. sulle obbligazioni societarie; art. 180 c.c. sul leasing; art. 1260 c.c. sul factoring; artt. 2462-2467 su capitale e riserve), il Testo Unico Bancario (per imprese di credito e leasing finanziario), il TUF (per emissioni di titoli), il TUIR e la normativa fiscale (deduzioni di interessi), oltre a leggi speciali su minibond, finanziamenti agevolati (es. Legge Sabatini, Horizon 2020, ecc.).


Differenze tra debiti buoni e debiti cattivi

Concetti generali

La distinzione tra debiti “buoni” e “cattivi” dipende dall’uso del capitale preso a prestito e dalla sostenibilità dei rimborsi. Un debito buono è essenzialmente un finanziamento da investimento: viene utilizzato per acquisire un asset che produce valore nel tempo, migliorando la redditività aziendale. Ad esempio, un prestito per finanziare una nuova linea produttiva o un ampliamento della rete commerciale (che generano maggiori ricavi futuri) è considerato “buono”. In termini finanziari, il debito è buono quando l’aumento del ROI (redditività operativa sul capitale investito) che ne deriva supera l’incremento del costo del debito (ROD – oneri finanziari). In altri termini, il tasso d’interesse effettivo deve essere inferiore al tasso di rendimento del progetto d’investimento. Inoltre, un debito buono è sostenibile nel tempo: il DSCR (rapporto tra i flussi di cassa operativi disponibili e le uscite per interessi e rimborso capitale) rimane positivo, e il mix finanziario non altera troppo il leverage (rapporto debito/patrimonio) in modo eccessivo. In tal senso, Francesco Renne osserva che i debiti buoni sono associati a “condizioni di crescita di efficienza finanziaria (incremento di ROI maggiore di quello di ROD) e a sostenibilità dei rimborsi nel tempo”. Un buon debito riduce nel lungo periodo il WACC (costo medio ponderato del capitale), aumentando il valore aziendale.

Al contrario, un debito cattivo è un finanziamento che non genera un incremento reale di produttività o redditualità, ma anzi tende a peggiorare gli indicatori finanziari. Può trattarsi di un finanziamento utilizzato per scopi di consumo (coprire spese correnti, pagare dividendi, saldare vecchi debiti senza nuovi investimenti) oppure di situazioni di “thin capitalization” (sostituzione di capitale proprio con indebitamento solo per benefici fiscali). Questi debiti aumentano il peso degli oneri finanziari (ROD) senza accrescere il margine operativo lordo (ROI stazionario o decrescente), spesso provocando un DSCR prossimo allo zero o negativo. In tali casi si crea un rischio tassi (aumenti di interessi futuri incidono pesantemente) e un rischio rinnovo (difficoltà a rifinanziare i debiti in scadenza), esponendo l’azienda a un crescente costo del capitale. Renne definisce il debito cattivo come “da sostituzione”, perché in passato era usato per sostituire capitale proprio con debito a fini fiscali, mentre oggi spesso finanzia obsolescenza o nuove passività senza nuovi asset. In sintesi, un debito è “cattivo” quando finanzia beni deperibili, non produce flussi aggiuntivi o genera oneri superiori ai benefici.

Esempio comparativo: due investimenti di pari entità (es. 100.000€). Se l’investimento A è finanziato con un prestito al 5% che porta un ritorno del 10%, l’utile netto operativo aumenta (ROI>ROD): il progetto crea valore, rendendo il debito produttivo. Se invece un prestito simile serve a finanziare costi di struttura che non creano ricavi (o a pagare dividendi), l’utile si riduce ed il debito diventa oneroso e “cattivo”. In termini finanziari, se il rendimento atteso non supera il costo del debito, l’intervento è sbilanciato. In ogni caso, la distinzione può sfumare: come osserva un articolo divulgativo, “il debito non è intrinsecamente buono o cattivo – è uno strumento finanziario… La chiave sta nel saperlo utilizzare con consapevolezza e strategia”.

Aspetti contabili

Dal punto di vista contabile, tutti i debiti – buoni o cattivi – sono iscritti nel passivo di bilancio secondo le regole del Codice Civile (libro V, titolo V) e dell’OIC 19, rifacendosi ai principi contabili internazionali (IFRS). L’art. 2426 c.c. fissa i criteri di valutazione: i debiti sono generalmente rilevati al valore nominale (importo contrattuale) a meno che non siano soggetti a ristrutturazioni. Dal 2015, la legge ha introdotto (D.Lgs. 139/2015) il riferimento ai principi IFRS: in particolare, le definizioni di “passività finanziaria” seguono l’IFRS9 (passività al costo ammortizzato o a fair value). In pratica, un finanziamento bancario o un’obbligazione sono classificati come strumenti finanziari al costo ammortizzato (si ammortizza la differenza tra valore di incasso e valore di rimborso) se sono detenuti fino alla scadenza. Se invece il debito è strutturato con covenants complessi o convertibilità, può essere parzialmente valutato a fair value. I debiti commerciali (fornitori) sono iscritti fra i debiti correnti.

Nei bilanci delle PMI italiane redatti secondo OIC, si distingue tra debiti vs fornitori (Voce D.II.3 di stato patrimoniale), debiti verso banche a breve (D.II.6-bis), a medio-lungo termine (D.II.6-ter), debiti verso altri finanziatori (D.II.6-quater, come i leasing). Le quote di leasing finanziario fino al 2019 potevano essere classificate al netto dei canoni futuri (fuori bilancio), ma con l’adozione dei principi IFRS 16 su leasing (in Italia volontari dal 2019 o obbligatori per bilanci IAS) il leasing finanziario entra nello Stato Patrimoniale come “Passività da leasing” e bene strumentale come attività.

In sintesi, il debito buono e quello cattivo non si differenziano nella rilevazione di bilancio, ma nei flussi economici sottostanti: entrambi iscritti come passività, ma l’utile netto complessivo aumenterà se il debito è produttivo (debito buono), e si ridurrà se paga solo costi (debito cattivo). Dal lato patrimoniale, l’aumento dell’indebitamento incide sulla struttura finanziaria (liquidità disponibile e patrimonio netto) indipendentemente dalla “bontà” del debito. Ad esempio, un progetto finanziato con debito accumula interessi passivi (aumento del debito) e ammortamenti (usura il patrimonio netto): la contabilità rispetta le stesse regole, ma l’effetto economico si valuta con indicatori quali ROI, ROE, e rapporti di indebitamento. Un debito cattivo può portare a note di svalutazione se legato a operazioni infruttuose (ad es. finanziamenti infruttosi a consociate), mentre un debito buono migliora il ROE nel tempo.

Aspetti fiscali

Sotto il profilo fiscale, il principale aspetto è la deducibilità degli interessi passivi. In linea generale, gli interessi pagati sono costo deducibile dal reddito di impresa, a patto che il finanziamento sia legato all’esercizio dell’attività. Il TUIR (DPR 917/1986) disciplina la deduzione con regole complesse: l’art. 61 prevede che “non costituiscono costi deducibili” per i soci o associati (thin cap). Dal 2016 si è superata la regola anti-thin cap con limiti di deducibilità (fino al 30% del EBITDA fiscale anziché basarsi sul grado di capitalizzazione). In sostanza, per PMI la quota di interessi deducibile è oggi limitata al 30% del reddito operativo lordo (art. 96 comma 1-bis). Per le imprese di grandi dimensioni si applica la regola (cd. ACE transitorio) con parametri differenti, ma dal 2020 il criterio unico è il 30% dell’EBITDA. Ciò significa che, sebbene il debito buono generi maggiori ricavi, le imposte pagate cresceranno in proporzione maggiore di quanto salva in interessi rispetto a un debito cattivo; tuttavia, i benefici fiscali del debito buono restano nel risparmio di imposta sugli interessi (fiscal shield) e sulla maggiore base imponibile dovuta all’investimento produttivo. Il debito cattivo, pur generando anch’esso interessi deducibili, riduce il reddito operativo, potenzialmente azzerando la base imponibile e utilizzando interessi come fattore limitante.

Altri aspetti fiscali: i canoni di leasing finanziario sono deducibili al 100% per beni nuovi (max 5/6 anni per beni mobili) o al 100% per i canoni di leasing di immobili (art. 102, 103 TUIR). Quindi un leasing di un bene strumentale viene considerato fiscalmente efficiente se il macchinario ha vita utile allineata. In generale, un debito buono permette di sfruttare l’effetto leva fiscale (deduzione interessi + ammortamenti), mentre un debito cattivo può generare eccessive perdite fiscali che non producono reddito imponibile da compensare. Inoltre, un debito oneroso può determinare quote non deducibili se si superano i limiti (ad es. interessi superiori al 30% del ROL fiscalizzato), impedendo di usufruire appieno dello scudo fiscale.

Aspetti giuridici e normativi

Dal punto di vista legale, tutti i debiti sono contratti che obbligano l’azienda debitrice al rimborso con capitale più interessi (art. 1218 c.c. sulle obbligazioni in generale). Le differenze tra debito buono e cattivo emergono nelle conseguenze di inadempimento e insolvenza. Un debito cattivo spesso è correlato a un peggioramento degli indici di liquidità e patrimoniali: se l’azienda non genera flussi sufficienti, si attivano gli obblighi del Codice della Crisi (D.Lgs. 14/2019). In particolare, gli squilibri economico-finanziari (es. continue perdite, costante disavanzo di tesoreria, capitale proprio negativo) sono indicatori di crisi. Il legislatore prevede che amministratori e sindaci segnalino tempestivamente tali segnali (artt. 375-378 Cod. Crisi) e adottino misure. Un debito eccessivo in rapporto al capitale (thin cap) può addirittura comportare responsabilità se la società è sottocapitalizzata (art. 2467 c.c.) o addirittura la chiusura coatta se il patrimonio netto si azzera (art. 2482 c.c.).

Per la gran parte dei debiti (bancari, obbligazionari, ecc.) la normativa italiana si rifà al TUB e al TUF: ad esempio, l’art. 106 TUB regola il tasso soglia per l’usura bancaria. Se un debito ha interessi abusivi (oltre la soglia di usura pubblicata trimestralmente dalla Banca d’Italia), il contratto è nullo e il debitore è liberato dal pagamento degli interessi, con conseguenti azioni di restituzione. Ciò si applica in particolare a debiti concesso a tasso variabile usuraio (es. mutui), considerati “cattivi” per il carico eccessivo. Per i leasing esistono regole analoghe (D.lgs. 342/1999 ha equiparato alcuni contratti al credito al consumo).

Dal punto di vista del diritto concorsuale, non fa differenza se un debito è “buono” o “cattivo”: in caso di concordato, fallimento o altri procedimenti, tutti i creditori sono ammessi con un determinato rango (chirografari, privilegiati, ecc.). Tuttavia, nella composizione negoziata della crisi (concordato preventivo, accordo di ristrutturazione dei debiti), debiti con interessi elevati e incapaci di redditività (debiti cattivi) rendono più difficile raggiungere un piano di rientro sostenibile. Ad esempio, un accordo di ristrutturazione che mira a ridurre del 50% un debito elevato è più probabile se quel debito non è destinato a generare valore aggiunto. Viene comunque applicato il principio di “parità di trattamento” tra creditori omogenei (L.F. art. 7), ma un debitore consapevole deve privilegiare operazioni di ristrutturazione che trasformano o riprogrammano i debiti cattivi in impegni sostenibili.

Provvedimenti recenti: La giurisprudenza italiana non usa la terminologia “debiti buoni/cattivi” in modo formale, ma conferma principi affini. Ad es., la Cassazione ha più volte affermato che gli oneri finanziari sono deducibili quando “strettamente funzionali” all’esercizio dell’attività, implicando che un indebitamento non finalizzato a produzione di ricchezza può essere contestato dall’Amministrazione finanziaria (Cass. n. 15552/2018). In ambito bancario, la Corte Suprema ha ricordato che la garanzia reale (es. ipoteca) non esime la banca dall’accertamento del merito creditizio del cliente, segnalando che un eccesso di garanzie non trasforma il rischio di credito intrinseco (concetto collegato alla valutazione di “rischioso” o “meno rischioso” nell’indebitamento).


Simulazioni e modelli finanziari

Esempio 1 – Investimento produttivo con prestito: Un’impresa valuta l’acquisto di un macchinario da 100.000 € che porta un rendimento lordo atteso del 10% annuo. Due opzioni:

  • Finanziamento tramite prestito bancario: Mutuo di 100.000 € al 5% annuo su 5 anni (rata annua costante ~23.097 €). Gli interessi totali sono circa 15.490 €. Ogni anno l’azienda riceve 10.000 € di ricavi dal macchinario. Nel conto economico: ricavo +10.000, ammortamento (20.000 €/anno su 5 anni), interessi variabili (da 5.000 a 1.100 €/anno nel piano), porta a EBIT negativo o limitato, ma il flusso di cassa operativo (ricavi meno interessi, a cui si somma l’ammortamento non in cassa) rimane positivo. L’utile netto resta negativo nei primi anni, ma l’investimento aumenta il patrimonio tecnico. Il valore attuale netto (NPV) del progetto, calcolato a tasso di sconto del 5%, è approssimativamente nullo (pari al capitale preso) perché il rendimento esatto eguaglia il costo del debito.
  • Finanziamento con risorse proprie: Pagando cash l’intero costo, l’impresa estrae 100.000 € di liquidità nel periodo iniziale, ma incassa poi 10.000 €/anno dal macchinario. Il NPV calcolato allo stesso tasso (5%) dà un risultato analogo. La differenza principale è nel profilo di cassa: con prestito, l’impresa conserva 100.000 € oggi ma deve pagare rate di 23.097 € annui; senza prestito paga subito 100.000 € e poi incassa 10.000 €/anno. Dal punto di vista del debito buono, entrambe le opzioni sono sostenibili se il rendimento dell’investimento rimane superiore al tasso di interesse. Con il debito, l’impresa beneficia di leva finanziaria (non immobilizza subito il capitale) e di uno scudo fiscale sugli interessi, ma assume il rischio di cambiare la struttura finanziaria. Con capitali propri, rischia meno ma sacrifica liquidità iniziale. In entrambe le scelte qui l’investimento è redditizio (ROI=10%, ROD=5%), perciò il debito risulta “buono” perché crea valore aggiunto netti.
VariabilePrestito 5 anni 5%Finanziato in proprio
Investimento iniziale0 € (finanziato 100%)-100.000 € (tutto cash)
Ricavo annuale+10.000 €+10.000 €
Pagamento rata (cap+int)-23.097 €/anno (costante)0 €
Interessi primo anno-5.000 €
Ammortamento annuo (b.d.c.)-20.000 €-20.000 €
EBIT (anno 1)-15.000 €-10.000 €
Imposte (24%)0 (perdita fiscale)0 (perdita fiscale)
Flusso cassa netto (anno 1)+5.000 € (10.000 ricavo – 5.000 int)+10.000 € (ricavo)
NPV @5% (5 anni)≈0 €≈-56.705 € (costo opportunità)

Calcolo semplificato: tasso di sconto 5%. Entrambe le opzioni hanno NPV simile perché ROI=ROD. In realtà, il caso senza prestito presenta un NPV negativo pari al costo di opportunità del capitale (56.705 €), mentre con prestito il NPV è circa nullo poiché l’investimento si autofinanzia.

Esempio 2 – Debito non produttivo: Stessa impresa prende a prestito 100.000 € al 5% per 5 anni, ma spende questi soldi in spese correnti (pagamento di forniture, bollette, costi commerciali) senza alcun incremento dei ricavi. Ogni anno paga i 23.097 € di rata ma non ricava nulla in più. In tal caso, il debito è chiaramente “cattivo”: il rapporto richiesta di cassa/beneficio è negativo (si paga ma non si guadagna). Il flusso di cassa operativo è molto negativo, il DSCR è nullo o negativo, e l’azienda deve attingere a riserve o prestiti aggiuntivi. Contabilmente, gli interessi e le spese risultano in perdita, e fiscalmente non c’è scudo (il reddito rimane zero o negativo). Un simile indebitamento rischia di far scattare gli allarmi del Codice della Crisi e portare a tensioni con i creditori.

Questi esempi mostrano come modelli finanziari semplici (NPV, ROI vs ROD, DSCR) aiutino a distinguere debito buono da cattivo. In pratica, un’azienda dovrebbe simulare i flussi di cassa prospettici di un investimento, confrontando il tasso di rendimento atteso con il costo effettivo del debito, e verificare la sostenibilità delle rate rispetto ai flussi operativi (ad esempio con un piano di ammortamento).

Tabelle riassuntive

Debiti AziendaliCaratteristicheFonti normativeAspetti contabili/fiscali
Bancari (mutui, fidi)Prestiti con interessi, scadenze fisse, garanzie (ipoteca, fideiussioni).TUB (D.lgs. 385/93), art. 106 (usura)Interessi deducibili, piani di ammortamento in bilancio
Commerciali (fornitori)Debiti a breve (30-120gg) senza interessi, legati al ciclo operativo.Cod. Civ. art. 1218-1219Gestione capitale circolante, nessun costo finanziario esplicito
Obbligazionari (bond)Titoli di debito emessi dall’azienda, interessi fissi o variabili, regolati da contratto.Cod. Civ. art. 2412 ss., TUF (D.lgs.58/98)Passività finanziaria a M/L termine, onerosa come un mutuo
LeasingContratto di locazione finanziaria con opzione di riscatto.Cod. Civ. art. 155/167, D.lgs. 16/2015Passività da leasing, canoni deducibili (quota interessi)
FactoringCessione crediti a società factor, miglior liquidità, commissioni/interest.L. 52/1991 (factoring), Cod. Civ. art. 1260Liquidità immediata, costo in commissioni, può ridurre NPL bancari
Socio finanziamentoPrestiti dei soci alla società, spesso infruttiferi.Cod. Civ. art. 2467 (capitalizz. sottolimite)Debito infruttifero o con modestissimo interesse, rischi di equità
Tributi e contributiDebiti verso Fisco e INPS, con privilegi particolari.Cod. Crisi (D.lgs.14/2019), art. 120 TUIRDebiti privilegiati in concorso, soggetti a transazioni fiscali in crisi
CaratteristicaDebito “buono”Debito “cattivo”
FinalitàInvestimenti produttivi (macchinari, R&S, espansione)Consumo corrente, ricapitalizzazione passiva, spese non produttive
Return on InvestmentROI (margine su capitale investito) > costo del debito (ROD)ROI ≤ ROD (spesso ROI stabile o in calo)
SostenibilitàDSCR > 1 (flussi di cassa coprono oneri e rate)DSCR ≤ 1 (problemi nel coprire rate, rischio default)
Effetto fiscaleRisparmio fiscale su interessi, sinergia con ammortamenti (scudo fiscale)Limitata utilità fiscale (utile basso o assente per dedurre interessi)
Rischio finanziarioRischio tassi contenuto (affidabilità creditizia), WACC diminuisceRischio tassi e rifinanziamento elevato, WACC aumenta
Impatto bilancioIncremento positività ROI, valore dell’impresa cresceAumento passività senza redditività, peggiora rating aziendale

Consigli per una gestione sostenibile dell’indebitamento

  • Pianificazione e analisi finanziaria: Prima di indebitarsi, valutare la redditività del progetto: creare un modello finanziario con flussi di cassa attesi, confrontando ROI e costo del debito. Verificare la capacità di servizio del debito (DSCR) e l’impatto sul rapporto di indebitamento (Debiti/Patrimonio netto).
  • Diversificazione delle fonti: Equilibrare debito “buono” e “cattivo”: ridurre al minimo i debiti onerosi non produttivi. Ad esempio, finanziamenti a tassi elevati per spese correnti vanno evitati. Privilegiare linee di credito a tasso variabile (meno costose in basso), o mezzi alternativi (leasing operativo, noleggio) se più adatti.
  • Monitoraggio continuo: Tenere sotto controllo gli indici finanziari (leverage, livelli di indebitamento, margine operativo) e i limiti imposti dalla normativa (ad es. limiti TUIR sugli interessi deducibili). In situazioni di crisi, attivare tempestivamente gli strumenti di allerta del Codice della Crisi (artt. 375-378 D.lgs.14/2019).
  • Ristrutturazione anticipata: In caso di difficoltà, valutare la rinegoziazione con i creditori (modifica tassi, allungamento scadenze) prima di incorrere in insolvenza formale. Il Codice della Crisi prevede la composizione negoziata del debito (concordato preventivo, accordi di ristrutturazione) che permettono di ridefinire i debiti onerosi in piani sostenibili, includendo possibili stralci o dilazioni e ammortizzando le passività sulle nuove prospettive di business. Spesso un piano credibile che distingue debiti produttivi da improduttivi agevola l’ottenimento dell’accordo.
  • Uso delle garanzie: Le garanzie reali o fideiussorie possono abbassare il costo del finanziamento (minor rischio per la banca, minori accantonamenti), ma non risolvono i problemi di debito cattivo: come osserva Renne, una garanzia riduce il danno in caso di default, ma non riduce il rischio intrinseco che il debito sia insostenibile. Dunque, costruire garanzie deve servire a ottenere condizioni migliori (es. minori tassi), non semplicemente a “convincere” a concedere il prestito.
  • Attenzione alla normativa: Conoscere i limiti legali: prestiti al 10% potrebbero diventare nulli se superano il tasso usurario (calcolato su base annua effettiva, D.M. 25/08/2015); i finanziamenti soci infruttiferi possono essere riqualificati e ridotti dal fisco se violano l’art. 61 TUIR. In presenza di debiti elevati verso Fisco e INPS, studiare gli istituti introdotti dal Codice della Crisi per la transazione fiscale o il ritenimento privilegiato.

Modello di calcolo (esemplificativo): per valutare la sostenibilità di un debito, si possono calcolare indicatori come il Debt Service Coverage Ratio: DSCR=Flussi di cassa operativi netti (CFADS)Pagamenti di interessi + quota capitale\text{DSCR} = \frac{\text{Flussi di cassa operativi netti (CFADS)}}{\text{Pagamenti di interessi + quota capitale}}

Un DSCR > 1 indica che i flussi generati coprono i pagamenti del debito (condizione di sostenibilità). Analogamente, il Debt-to-Equity ratio (PFN/PN) va mantenuto entro livelli accettabili per il settore. Strumenti come l’EBITDA (margine operativo lordo) possono servire per misurare la capacità di generare cash flow per il servizio del debito (rapporto EBITDA/Interessi). Le tabelle sopra forniscono esempi di calcolo semplificati. In fase di pianificazione è utile simulare vari scenari (es. aumento tassi di interesse, variazione di fatturato) per valutare l’impatto sui flussi e individuare il livello di indebitamento massimo sostenibile.


FAQ – Domande frequenti

1. Come si distingue in pratica un debito buono da uno cattivo?
Si valuta principalmente la destinazione d’uso e il rendimento associato. Un debito buono finanzia un investimento produttivo (migliori ricavi/profitto futuri) e resta gestibile (tassi moderati, piano di rientro sostenibile). Un debito cattivo serve a scopi non produttivi (ad es. spese generiche) o ha un costo eccessivo rispetto al beneficio. In ogni caso si calcola il ROI (redditività del capitale aggiuntivo) e lo si confronta con il costo del debito. Se ROI > costo, il debito aiuta a creare valore; altrimenti ne erode.

2. Il leasing è un debito buono o cattivo?
Dipende dall’uso del bene preso in leasing. Se il bene è produttivo e genera flussi (ad es. un macchinario o un immobile industriale), il leasing può essere considerato “buono” perché permette di operare senza immobilizzare capitale iniziale. Gli interessi sul leasing sono deducibili come per un mutuo, e il canone include il costo del capitale. Tuttavia, un leasing diventa “cattivo” se financia un bene di cui l’azienda non ha bisogno produttivamente o se il tasso è molto alto; in quel caso è preferibile ridurre il leasing. La contabilizzazione IFRS 16 obbliga a iscrivere il leasing come debito finanziario, ma il giudizio di bontà rimane economico e fiscale.

3. Come influiscono i debiti sul bilancio e sul rating aziendale?
Un incremento eccessivo dei debiti (soprattutto a medio-lungo termine) riduce il patrimonio netto relativo e può allarmare investitori e banche. Indici di indebitamento elevati (es. PFN/EBITDA, PFN/PN) peggiorano il rating creditizio. I debiti buoni, se ben gestiti, tendono a far crescere l’EBITDA e il patrimonio netto grazie all’investimento realizzato, compensando l’aumento dei debiti. I debiti cattivi diminuiscono il patrimonio netto senza creare nuovi ricavi, deteriorando il rating. In ogni caso, su bilancio tutte le passività aumentano le uscite di cassa future: è il rapporto costi/benefici a fare la differenza.

4. Quali regole fiscali devo rispettare per gli interessi passivi?
Dal 2017 la deducibilità degli interessi passivi è regolata in modo forfettario (30% dell’EBITDA fiscale massimo deducibile). Se gli interessi superano tale soglia, la parte in eccedenza non è deducibile (salvo riporto a nuovo degli interessi non dedotti per 5 anni). Ciò significa che anche un debito buono deve essere proporzionato ai flussi generati: interessi e ammortamenti aumentano il reddito imponibile ma sono dedotti solo entro i limiti. In passato (ante 2017) esisteva una disciplina più rigida (thin capitalization), oggi sostituita dai limiti suddetti. È opportuno consultare il commercialista per ottimizzare la strutturazione del debito (ad es. asset swap, leasing vs mutuo) in base alle regole fiscali attuali.

5. Quando un indebitamento può causare problemi di insolvenza?
Se l’azienda non è in grado di adempiere alle scadenze (remunerazione debiti, pagamento interessi, rate, contributi fiscali), è in “stato di crisi” secondo il Codice della Crisi (D.Lgs. 14/2019). Indicatori tipici sono perdite continuative, capitale circolante negativo prolungato, indebitamento finanziario oltre certi limiti in rapporto alla redditività e patrimonio (ad es. capitale proprio negativo). In questi casi è obbligatorio attivare gli strumenti di allerta e le procedure di composizione della crisi (artt. 375-380, 113 Codice Crisi). Un debito “cattivo” può accelerare il superamento di tali soglie se conduce a una situazione di insolvenza finanziaria; al contrario, un debito “buono” ben pianificato può aiutare il risanamento prima che diventi critica. Ad ogni modo, la tempestività di azione (rinnegazione dei debiti onerosi e rinegoziazione) è fondamentale per evitare il dissesto.

6. Quali fonti normative disciplinano i diversi debiti?
Vedasi la sezione Normativa, in fondo alla guida. Sinteticamente: il Codice Civile disciplina le obbligazioni generali e specifiche (contratti, obbligazioni, leasing, emissione di obbligazioni sociali), il TUB regola gli intermediari creditizi (mutui, leasing, usura), il TUF regola l’emissione di titoli obbligazionari da parte delle società, il Codice della Crisi e dell’Insolvenza aggiorna le regole di vigilanza e allerta aziendale, il TUIR le norme fiscali (deduzioni interessi), e leggi speciali (es. 52/1991 per il factoring, 166/2008 per il leasing). La normativa viene costantemente aggiornata: ad esempio, nel 2023 sono entrati in vigore emendamenti sul trattamento dei crediti fiscali nel concordato (D.L. 51/2023) e sulla deducibilità fiscale degli interessi (L. di Bilancio 2024).


Riferimenti normativi, dottrinali e giurisprudenziali

Normativa italiana rilevante (aggiornata al 2025):

  • Codice Civile: art. 1218-1223 (fonti delle obbligazioni), art. 1276 (debito di restituzione), art. 1342 (condizioni generali di finanziamento). Sez. V T. V° Libro V (società): art. 2412 e ss. (limitazioni e requisiti emissione obbligazioni), art. 2423-2426 (principi di redazione del bilancio), art. 2462 e 2467 (sottocapitalizzazione e conferimenti), art. 2482 (scioglimento società per perdite), art. 155-167 (leasing e noleggio, anche D.Lgs. 55/2014).
  • Codice della Crisi d’Impresa (D.lgs. 14/2019): artt. 2, 5-6 (definizioni crisi e indicatori economico-finanziari, inclusi eccesso indebitamento), artt. 64, 66 (concordato preventivo), artt. 125-130 (accordo di ristrutturazione dei debiti, procedure di allerta), artt. 182-bis, 182-ter L.F. (transazione fiscale in concordato). Novellato da L. 22/2023 e L. 64/2024.
  • Testo Unico Bancario (D.lgs. 385/1993): Titolo III (intermediari creditizi), Titolo VI (sistemi di garanzia), Titolo IX (usura e antiriciclaggio, art. 644 c.p. per la legge 108/1996), art. 106 (tassi usurari per finanziamenti bancari e leasing), Titolo VI-bis (leasing), Titolo VI-quater (credito alle imprese), art. 117 (garanzie bancarie, fideiussioni).
  • Testo Unico della Finanza (D.lgs. 58/1998): Titolo V (mercati mobiliari) disciplina l’offerta di titoli (obbligazioni, prestiti obbligazionari), obblighi informativi, prospetti (Regolamento Emittenti), nonché IFRS/IAS transizione contabile.
  • TUIR (DPR 917/1986): art. 61 (redefinizione thin cap – dal 2017), art. 96 (limiti di deducibilità interessi: 30% ROL), art. 102 (riconoscimento fiscalità di leasing), art. 103 (agevolazioni leasing beni strumentali), art. 109 (reddito imponibile), art. 109-octies (R&S).
  • Leggi e decreti speciali: L. 52/1991 (factoring), L. 166/2008 (leasing finanziario), D.M. 370/2003 (Garanzia nazionale SACE su mutui a PMI), D.M. 25/08/2015 (tassi soglia usura). Disposizioni europee (IV Direttiva contabile recepita D.lgs. 139/2015, IFRS 9 e 16 recepiti obbligatoriamente).

Giurisprudenza italiana recente:

  • Cass. Civ., sez. trib., 15 giugno 2018, n. 15552 (costi di finanziamento e funzionalità economica – deducibilità degli interessi).
  • Cass. Civ., sez. I, 27 marzo 2023, n. 8557 (eccesso di garanzie non elimina responsabilità di valutazione del merito creditizio).
  • Cass. Civ., sez. VI, 17 luglio 2019, n. 19166 (contratto di leasing e IMU – principi di trattamento fiscale del leasing).
  • Cass. Civ., sez. un., 28 marzo 2024, n. 8445 (effetti della transazione fiscale nel concordato preventivo).

Le fonti normative, dottrinali e giurisprudenziali sopra indicate forniscono i riferimenti completi per approfondimenti.

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