Hai avviato la composizione negoziata della crisi ma le trattative non sono andate a buon fine? Ti stai chiedendo cosa succede se la procedura fallisce, se sei ancora protetto dai creditori o se rischi subito il fallimento?
Quando la composizione negoziata non porta a un accordo con i creditori, non tutto è perduto, ma è fondamentale sapere quali sono le conseguenze concrete e quali strade restano ancora percorribili.
Innanzitutto: cosa si intende per “fallimento” della composizione negoziata?
Significa che, dopo l’apertura della procedura, non si è riusciti a trovare un’intesa sostenibile con banche, fornitori o Fisco. In alcuni casi, sono gli stessi creditori a rifiutare le proposte; in altri, è l’esperto nominato dal sistema a constatare che non ci sono più margini per un risanamento.
Ma attenzione: il fallimento della composizione negoziata non è la fine dell’azienda.
Da quel momento in poi, si aprono diverse alternative, tra cui:
- il concordato minore, se ci sono ancora elementi di continuità o un patrimonio da gestire;
- la liquidazione giudiziale (ex fallimento), se l’impresa è insolvente e non può più proseguire;
- la liquidazione controllata, per imprenditori sotto soglia o ditte individuali;
- o, in certi casi, una nuova trattativa stragiudiziale con i creditori, più libera ma meno protetta.
E nel frattempo i creditori possono agire? Possono pignorare?
Dipende: se non viene attivata tempestivamente un’altra procedura (come il concordato o la liquidazione), i creditori possono riprendere le azioni esecutive, compresi pignoramenti e sequestri. Ecco perché è fondamentale non aspettare passivamente, ma farsi assistere da un avvocato per decidere subito come procedere.
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in composizione negoziata, crisi d’impresa e procedure concorsuali – ti spiega cosa accade se la composizione negoziata fallisce, quali scenari si aprono e cosa possiamo fare per aiutarti a gestire la crisi senza perdere il controllo.
Hai avviato la composizione negoziata ma le trattative sono ferme? Vuoi sapere se puoi ancora salvare l’azienda o evitare il fallimento?
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Introduzione
La composizione negoziata della crisi d’impresa è uno strumento introdotto nel 2021 per aiutare gli imprenditori in difficoltà a risanare l’azienda attraverso trattative assistite da un esperto indipendente, evitando ove possibile l’insolvenza. Si tratta di un percorso volontario, riservato e stragiudiziale, in cui l’imprenditore continua a gestire l’impresa con il supporto di un esperto, potendo anche beneficiare di misure protettive del patrimonio (come il blocco temporaneo delle azioni esecutive dei creditori) autorizzate dal tribunale. La composizione negoziata mira a trovare un accordo con i creditori o altre soluzioni di riequilibrio, al fine di evitare l’aggravarsi della crisi e scongiurare procedure concorsuali liquidatorie. Ma cosa accade se questo tentativo di composizione fallisce?
Quando le trattative non producono un accordo idoneo a salvare l’impresa, il debitore si trova a dover valutare rapidamente gli strumenti alternativi previsti dal Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII) e dalla normativa collegata. In questa guida analizziamo in dettaglio le conseguenze dell’insuccesso della composizione negoziata dal punto di vista del debitore, esaminando:
- il quadro normativo di riferimento aggiornato a giugno 2025 e le ultime novità legislative in materia;
- le diverse tipologie di debitori d’impresa interessate (dalle PMI individuali alle grandi società, cooperative e gruppi) e come le regole si applicano a ciascuna;
- i possibili sbocchi alternativi dopo l’esito negativo della composizione negoziata – ad esempio la liquidazione giudiziale (il “fallimento” nella nuova terminologia), il concordato preventivo, gli accordi di ristrutturazione dei debiti, i piani attestati di risanamento o il concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio – illustrandone presupposti e iter;
- le responsabilità che gravano sull’imprenditore in caso di fallimento del tentativo di composizione, sotto il profilo civilistico (responsabilità verso i creditori e verso la società), penalistico (eventuali reati fallimentari o altri illeciti) e tributario (sanzioni fiscali, obblighi verso l’Erario);
- i principali riflessi fiscali del mancato risanamento: destino di eventuali crediti IVA, trattamento delle perdite d’esercizio, decadenza delle agevolazioni tributarie (misure premiali) previste durante la composizione, impatto sulla continuità aziendale, ecc.;
- utili tabelle riepilogative per confrontare scenari, procedure e responsabilità in modo sintetico;
- una sezione Domande & Risposte che chiarisce i dubbi pratici più frequenti in materia;
- almeno due simulazioni pratiche ispirate a casi reali, per mostrare con esempi concreti gli effetti dell’esito negativo della composizione negoziata e le scelte compiute dall’imprenditore;
- un elenco finale di fonti normative e giurisprudenziali aggiornate, per chi desideri approfondire i riferimenti di legge e le sentenze citate.
Quadro normativo aggiornato
La disciplina della composizione negoziata e degli strumenti successivi al suo fallimento è contenuta nel Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII), emanato con D.lgs. 12 gennaio 2019 n. 14 e entrato in vigore definitivamente il 15 luglio 2022. Questo nuovo Codice ha organicamente riformato le procedure concorsuali, sostituendo la vecchia Legge Fallimentare del 1942, con l’obiettivo di privilegiare la prevenzione e il risanamento dell’impresa in crisi rispetto alla mera liquidazione. In particolare, già la legge delega n. 155/2017 e poi il recepimento della Direttiva UE 2019/1023 (cosiddetta Direttiva Insolvency) hanno orientato la riforma verso strumenti di allerta precoce e composizione stragiudiziale della crisi.
L’istituto della composizione negoziata è stato introdotto in via d’urgenza dal Decreto-Legge 24 agosto 2021 n. 118, convertito con modifiche dalla L. 147/2021, nel contesto della crisi economica scatenata dalla pandemia da Covid-19. Esso è stato poi incorporato nel Codice della Crisi agli artt. 12–25 CCII, che ne disciplinano l’accesso, la conduzione delle trattative e le possibili soluzioni concordate. Parallelamente, lo stesso D.L. 118/2021 (L. 147/2021) ha introdotto un nuovo tipo di concordato – il “concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio” – concepito appositamente come sbocco della composizione negoziata fallita. Come vedremo, questo concordato semplificato (ora previsto agli artt. 25-sexies e 25-septies CCII) può essere attivato solo se le trattative della composizione negoziata si concludono con esito negativo.
Negli anni successivi all’entrata in vigore, il Codice della Crisi è stato oggetto di vari interventi correttivi e integrativi per recepire meglio la normativa europea e affinare gli istituti introdotti. In particolare:
- Il D.Lgs. 17 giugno 2022 n. 83 ha adeguato il Codice alla Direttiva UE 2019/1023, introducendo tra l’altro il nuovo piano di ristrutturazione soggetto a omologazione (PRO) e chiarendo alcuni aspetti delle procedure di allerta e composizione negoziata.
- Ulteriori modifiche sono state apportate con il D.Lgs. 15 luglio 2022 n. 85 (primo correttivo) e con il D.Lgs. 28 settembre 2022 n. 149, in parte coordinate con la riforma del processo civile.
- Di rilievo per la composizione negoziata è il D.Lgs. 10 ottobre 2022 n. 173 (secondo correttivo), che ha inserito l’art. 25-bis CCII prevedendo specifiche misure premiali fiscali per le imprese che accedono tempestivamente alla composizione negoziata (ad esempio la riduzione degli interessi sui debiti tributari al tasso legale durante la procedura). Tali benefici vengono meno in caso di successiva apertura della liquidazione giudiziale o di accertamento dello stato d’insolvenza.
- Da ultimo, il D.Lgs. 28 marzo 2024 n. 136 (cosiddetto Correttivo-ter) ha ulteriormente perfezionato la disciplina della composizione negoziata per renderla più efficiente. In particolare, ha introdotto nella composizione negoziata l’istituto della transazione fiscale (art. 23 co.2-bis CCII) permettendo di includere i debiti tributari e contributivi nelle trattative. Ha anche chiarito che la pendenza di un’istanza di fallimento (liquidazione giudiziale) non preclude l’accesso o la prosecuzione della composizione negoziata, e viceversa che la domanda di composizione negoziata non sospende di diritto un’istanza di liquidazione (salvo ottenere misure protettive dal tribunale). Inoltre, il correttivo-ter ha migliorato la regolamentazione degli esperti (requisiti, incompatibilità, doveri) e rafforzato la partecipazione attiva delle banche alle trattative, stabilendo che l’accesso alla composizione non può di per sé giustificare revoche di fidi o classificazioni peggiorative dei crediti bancari.
Questo quadro normativo integrato del CCII (D.lgs. 14/2019 e successive modifiche) delinea dunque una gamma di strumenti da attivare in sequenza: dalla rilevazione tempestiva della “crisi” (intesa come squilibrio economico-finanziario che può precedere l’insolvenza conclamata) alle soluzioni negoziali e concorsuali per regolare la crisi o l’insolvenza dell’impresa. La composizione negoziata rappresenta la prima tappa, volontaria e stragiudiziale, di questo percorso di regolazione della crisi, finalizzata al risanamento quando l’impresa è ancora in grado di recuperare l’equilibrio. Se però tale tentativo non ha successo, subentrano le procedure concorsuali giudiziali classiche (concordati, accordi omologati, liquidazione giudiziale) atte a risolvere definitivamente lo stato di crisi o insolvenza. Nei prossimi paragrafi vedremo come tali procedure si innestano all’esito della composizione negoziata e quali conseguenze giuridiche ne derivano per l’imprenditore.
Soggetti a cui si applica la composizione negoziata (PMI, imprese individuali, società, gruppi)
Uno dei vantaggi della composizione negoziata è la sua ampia accessibilità: vi possono ricorrere tutte le imprese commerciali, di qualsiasi dimensione, incluse le piccole e medie imprese (PMI) e le imprese individuali, nonché le società di capitali, le società cooperative e perfino le imprese agricole. In altre parole, lo strumento è aperto sia all’imprenditore individuale (ad esempio il titolare di una ditta individuale) sia alle società, dalle micro-imprese familiari fino ai grandi gruppi societari, sebbene con alcuni adattamenti.
Di seguito riepiloghiamo le principali tipologie di debitori d’impresa e gli aspetti specifici che li riguardano nella composizione negoziata e nelle procedure successive:
- Imprese individuali e piccole imprese (PMI “sotto-soglia”): le ditte individuali e le società di persone di ridotte dimensioni beneficiano dell’accesso alla composizione negoziata alle stesse condizioni delle imprese maggiori. La differenza emerge in caso di insuccesso e insolvenza: molte piccole imprese non sono soggette a liquidazione giudiziale se non superano determinati parametri (attivo di €300.000, ricavi annui €200.000, debiti €500.000) – i cosiddetti limiti di non fallibilità previsti dall’art. 2 L.F. e ora dal Codice. Tali “imprese minori” non possono essere dichiarate fallite (liquidazione giudiziale), ma in caso di insolvenza possono accedere alle procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento, in particolare alla liquidazione controllata del patrimonio (artt. 268-277 CCII) in luogo della liquidazione giudiziale. Va notato che la composizione negoziata è aperta anche a queste imprese minori (non c’è una soglia minima), e anzi la L. 147/2021 ha previsto che esse possano accedere direttamente a un concordato semplificato liquidatorio senza necessariamente passare da trattative fallite. Resta però ferma, se insolventi, la possibilità per i creditori di chiedere la liquidazione controllata. In sintesi: un piccolo imprenditore che non raggiunge le soglie di fallibilità può comunque tentare la composizione negoziata e, se questa fallisce, evitare il fallimento utilizzando strumenti “minori” (concordato minore, liquidazione controllata) calibrati per le sue dimensioni.
- Società di capitali (S.r.l., S.p.A. etc.): le società di capitali, indipendentemente dalla dimensione, rientrano a pieno titolo nell’ambito del CCII. Per loro la composizione negoziata è un’opportunità di risanamento ante insolvenza; qualora non produca esiti positivi e l’impresa versi in stato di insolvenza, si applicano le procedure concorsuali ordinarie (concordato preventivo o liquidazione giudiziale). Le società di capitali insolventi sono soggette a liquidazione giudiziale (non valgono le esenzioni di soglia previste per le piccole imprese individuali). Inoltre, nelle società di capitali assume rilievo la posizione degli organi sociali (amministratori, sindaci): il Codice della Crisi impone agli amministratori il dovere di istituire assetti adeguati e rilevare tempestivamente la crisi (art. 3 CCII e art. 2086 c.c.) e di attivarsi senza indugio per la composizione negoziata o altre soluzioni. L’inosservanza di tali obblighi può costituire fonte di responsabilità per gli amministratori, come vedremo oltre. Per quanto riguarda i soci, essi non rispondono dei debiti sociali (tranne nelle ipotesi di sottocapitalizzazione o altri casi di abuso), ma potrebbero subire gli effetti indiretti del fallimento della composizione (perdita del valore aziendale, eventuali azioni di responsabilità promosse dal curatore in caso di fallimento, ecc.).
- Società cooperative: anche le cooperative rientrano tra i soggetti d’impresa cui si applica la disciplina della crisi. In caso di insolvenza, le cooperative possono essere assoggettate a liquidazione coatta amministrativa (procedura concorsuale amministrativa) oppure a concordato preventivo; la liquidazione giudiziale ordinaria è residuale. Tuttavia, ai fini della composizione negoziata, le cooperative possono accedervi al pari delle altre società. Se le trattative non hanno successo, una cooperativa insolvente di regola sarà posta in liquidazione coatta (su istanza dell’autorità di vigilanza), ma potrebbe anche proporre un concordato preventivo per evitare lo scioglimento. Le responsabilità degli amministratori di cooperative seguono le stesse regole generali delle società di capitali.
- Gruppi di imprese: il CCII dedica norme specifiche alla crisi dei gruppi (artt. 284-292 CCII). È consentito un approccio coordinato: più società appartenenti allo stesso gruppo possono presentare un’unica domanda congiunta di composizione negoziata di gruppo. In tal caso, la camera di commercio nomina un solo esperto o più esperti coordinati e le trattative coinvolgono congiuntamente le imprese del gruppo e i rispettivi creditori. Se le trattative falliscono, il gruppo può ricorrere a procedure concorsuali coordinate (ad esempio concordati preventivi di gruppo con piani interconnessi, o liquidazioni giudiziali aperte in parallelo presso tribunali competenti diversi ma con comunicazione reciproca). Il Codice incoraggia soluzioni di gruppo, prevedendo ad esempio la possibilità di presentare accordi di ristrutturazione ad effetti estesi a più società del gruppo, o concordati con unico piano diviso per società. Per il debitore (o meglio, per gli amministratori delle varie società) le difficoltà sono maggiori, perché occorre gestire la crisi in modo unitario rispettando però le distinte masse creditorie. In caso di esito negativo, vi è anche il rischio di contestazioni di responsabilità da direzione e coordinamento (art. 2497 c.c.) qualora la holding abbia aggravato la crisi delle controllate. Pertanto i gruppi devono muoversi con particolare attenzione: il fallimento della composizione negoziata di gruppo spesso sfocia in soluzioni di gruppo (come concordati di gruppo) oppure, nello scenario peggiore, in un collasso a catena con dichiarazioni di insolvenza di più società. Va segnalato che il legislatore, riconoscendo la complessità del fenomeno, permette comunque che singole società del gruppo trovino soluzioni differenziate (ad esempio alcune riescono a ristrutturarsi, altre vengono liquidate).
In generale, tutti i debitori d’impresa commerciali – dall’imprenditore agricolo alla multinazionale – sono tenuti a gestire la crisi in modo diligente, attivando gli strumenti offerti dal Codice. La composizione negoziata è uno strumento flessibile e volontario a disposizione di qualsiasi imprenditore commerciale in difficoltà (anche le imprese agricole vi hanno accesso, pur non essendo fallibili, così da poter trattare coi creditori ed evitare la cessazione). In caso di fallimento di tale tentativo, saranno poi le caratteristiche del debitore (dimensioni, natura giuridica, settore) a determinare quale procedura concorsuale verrà intrapresa e con quali modalità.
Caratteristiche essenziali della composizione negoziata
Prima di analizzare le conseguenze del suo fallimento, riassumiamo brevemente come funziona la composizione negoziata della crisi e quali sono i suoi possibili esiti. Ciò aiuterà a contestualizzare cosa accade quando l’esito è negativo.
Accesso alla procedura: Può accedere alla composizione negoziata qualsiasi imprenditore commerciale (in forma individuale o societaria) che si trovi in condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario tali da far presagire la crisi o l’insolvenza, ma che abbia concrete prospettive di risanamento. L’imprenditore presenta un’istanza tramite la piattaforma telematica gestita dalle Camere di Commercio, allegando informazioni economiche e un progetto di risanamento iniziale. Un’apposita commissione nomina quindi un esperto indipendente, scelto tra professionisti qualificati, che affiancherà il debitore nel tentativo di ristrutturare l’impresa (art. 17 CCII). La nomina dell’esperto avviene in pochi giorni e dà avvio ufficiale alla procedura di composizione negoziata.
Ruolo dell’esperto e svolgimento delle trattative: L’esperto, terzo e indipendente, ha il compito di facilitare le trattative tra l’imprenditore e i suoi creditori, per individuare soluzioni idonee a superare la crisi (art. 18 CCII). Egli convoca l’imprenditore e i principali creditori, esamina la documentazione contabile e il piano di risanamento proposto, e guida le negoziazioni cercando un accordo. Durante la procedura, l’imprenditore mantiene la gestione ordinaria dell’azienda; deve però astenersi da atti che possano pregiudicare la situazione e informare l’esperto su ogni sviluppo. Se necessario, l’imprenditore può chiedere al tribunale alcune autorizzazioni speciali, ad esempio per ottenere finanziamenti prededucibili (ripagati con priorità in caso di fallimento successivo) o per cedere l’azienda o rami di essa durante la composizione. Tali atti straordinari richiedono il via libera del giudice, che verifica siano funzionali al miglior soddisfacimento dei creditori e alla continuità aziendale. Inoltre, l’accesso alla composizione negoziata può essere accompagnato dalla richiesta di misure protettive (art. 20 CCII): su istanza del debitore, il tribunale può disporre la sospensione delle azioni esecutive e il divieto di acquisire titoli di prelazione sui beni del debitore per la durata delle trattative (normalmente 120 giorni prorogabili fino a 240). Queste misure creano un “periodo di respiro” durante il quale i creditori non possono aggredire il patrimonio, permettendo all’imprenditore di negoziare più serenamente.
Durata e conclusione: Le trattative della composizione negoziata hanno una durata massima di 6 mesi (prorogabili di ulteriori 6 in casi eccezionali, in base alle novità 2023/2024). Entro tale termine, l’esperto deve redigere una relazione finale che attesta l’esito: positivo se è stata individuata almeno una soluzione per regolare la crisi, negativo se invece non si è trovata alcuna intesa. L’esito positivo può concretizzarsi in diverse forme (art. 23 CCII):
- un contratto con uno o più creditori che assicuri la continuità aziendale per almeno 2 anni (es. accordi di standstill, aumento dei tempi di pagamento, nuovi apporti di capitale, cessione di assets ai creditori, ecc.), in tal caso l’esperto attesta la validità dell’accordo e ciò consente all’imprenditore di beneficiare delle misure premiali fiscali;
- una convenzione di moratoria ex art. 62 CCII, dove una pluralità di creditori (rappresentanti almeno il 75% di una certa categoria) accetta di dilazionare le scadenze o sospendere azioni esecutive;
- un accordo sottoscritto dall’imprenditore, dai creditori e dallo stesso esperto, avente contenuto vario, che viene pubblicato nel Registro delle Imprese e che produce gli effetti esonerativi di cui all’art. 67, co.3, lett. d) L.F. (ora art. 46, co.1, lett. c) CCII): in pratica, un accordo di ristrutturazione di fatto, non omologato dal tribunale ma certificato dall’esperto, le cui clausole di esdebitazione e i pagamenti eseguiti in attuazione sono protetti da revocatoria fallimentare e da eventuali reati di bancarotta preferenziale.
In alternativa, se le parti trovano un’intesa più strutturata, l’esito della composizione negoziata può essere la presentazione di una procedura concorsuale “classica”: ad esempio l’imprenditore, grazie al dialogo con i creditori facilitato dall’esperto, può predisporre un piano concordatario e depositare domanda di concordato preventivo (in continuità o liquidatorio) oppure negoziare un accordo di ristrutturazione dei debiti da sottoporre a omologazione giudiziale. In tal caso, la composizione negoziata funge da “incubatore” di una soluzione concorsuale: le trattative private sfociano in una procedura giudiziale (con voto dei creditori nel concordato o con adesione del 60% nei piani di accordo ex art. 57 CCII). Se la domanda di concordato o di omologazione è presentata entro il termine, le misure protettive restano efficaci fino all’ammissione alla procedura.
Esito negativo: Se non si raggiunge alcuna soluzione, l’esperto nella relazione finale dà atto del fallimento delle trattative. Questa relazione viene comunicata all’imprenditore e – se erano state concesse misure protettive – anche al tribunale e ai creditori interessati. La composizione negoziata si chiude quindi con un nulla di fatto e cessa ogni effetto protettivo o dilatorio. A questo punto il debitore rimane esposto alle azioni dei creditori e deve decidere rapidamente il da farsi: il Codice prevede espressamente che, terminata senza successo la composizione negoziata, l’imprenditore possa accedere ad altri strumenti di regolazione della crisi o dell’insolvenza, oppure – extrema ratio – alla liquidazione giudiziale. In altre parole, fallita la soluzione negoziale, si aprono i seguenti scenari: o si attiva un’altra procedura concorsuale per cercare comunque di evitare il fallimento (concordato, accordo, piano attestato) oppure l’impresa sarà destinata alla dissoluzione tramite liquidazione (giudiziale o controllata). Nel prossimo paragrafo analizziamo dettagliatamente tali possibili conseguenze, focalizzandoci sulle implicazioni per il debitore.
(Di seguito, daremo particolare attenzione a ciò che comporta per l’imprenditore il passaggio da una composizione negoziata fallita a ciascuna delle opzioni alternative: procedure concorsuali, liquidazione, etc., e quali responsabilità e effetti fiscali ne derivano.)
Esito negativo della composizione negoziata: conseguenze e opzioni successive
Quando la composizione negoziata non riesce a risolvere la crisi, l’imprenditore si trova in una situazione critica: ha tentato la via negoziale ma resta in uno stato di difficoltà grave o di vera e propria insolvenza. A questo punto occorre attivare senza indugio una delle procedure previste dal nostro ordinamento per affrontare la crisi rimasta irrisolta. Le principali opzioni successive al fallimento della composizione negoziata sono:
- il ricorso a una procedura concorsuale giudiziale di regolazione della crisi (in continuità o liquidatoria), tipicamente il concordato preventivo oppure – qualora si debba liquidare l’azienda – il concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio (se ne ricorrono i presupposti) o direttamente la liquidazione giudiziale (fallimento);
- l’utilizzo di strumenti stragiudiziali ma con efficacia legale, come un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato o un piano di risanamento attestato (che in parte era già stato tentato in sede negoziale, ma potrebbe essere formalizzato a posteriori);
- per le imprese minori non soggette a fallimento, l’avvio delle procedure di soluzione della crisi da sovraindebitamento, in particolare il concordato minore o la liquidazione controllata del sovraindebitato.
Nel valutare queste opzioni, il debitore deve tenere conto dello stato di insolvenza dell’impresa, della disponibilità dei creditori a eventuali accordi e dei tempi stretti imposti dalla legge. Infatti, se l’impresa è insolvente e nessuna soluzione viene prontamente attivata, i creditori o il pubblico ministero potrebbero chiederne comunque il fallimento (liquidazione giudiziale) d’ufficio. Conviene quindi che sia lo stesso imprenditore, appena constatato l’esito negativo della composizione, a prendere l’iniziativa di imboccare la procedura più idonea (per quanto spesso dolorosa). Vediamo in dettaglio le varie strade percorribili:
Liquidazione giudiziale (il “fallimento” dell’impresa)
La liquidazione giudiziale è la procedura concorsuale liquidatoria che ha sostituito il fallimento dal 2022. Rappresenta l’opzione di chiusura in caso di insolvenza conclamata: l’impresa cessa la propria attività (salvo un esercizio provvisorio temporaneo) e un curatore nominato dal tribunale liquida tutti i beni per soddisfare, in modo ordinato e paritario, i creditori anteriori. Se la composizione negoziata fallisce e non emergono soluzioni alternative praticabili, la liquidazione giudiziale diventa spesso inevitabile, soprattutto se l’impresa è ormai decotta. Può essere richiesta dallo stesso debitore (in un’ottica di gestione ordinata della propria uscita dal mercato) oppure dai creditori o dal PM.
Presupposti: Occorre lo stato di insolvenza del debitore, cioè l’incapacità strutturale di adempiere regolarmente le proprie obbligazioni (art. 121 CCII). Nel contesto post-composizione negoziata, è probabile che l’insolvenza sussista, visto che la crisi non è stata risolta. Il CCII richiede inoltre per la liquidazione giudiziale delle imprese commerciali il superamento di soglie minime (debiti scaduti ≥ €30.000) e non si applica alle “imprese minori”, agli imprenditori agricoli e alle start-up innovative, che come detto seguono altre procedure. In pratica, una società di capitali o una medio-grande impresa individuale insolvente dopo la composizione negoziata può essere dichiarata in liquidazione giudiziale se esistono debiti scaduti non pagati di almeno 30.000 €. Nel valutare l’insolvenza, il tribunale terrà conto anche dell’esito negativo della composizione: la relazione finale dell’esperto, se evidenzia l’assenza di soluzioni e magari certifica l’aggravamento del dissesto, costituisce un serio indicatore di insolvenza.
Procedura: La domanda di liquidazione giudiziale (ricorso) viene presentata al tribunale competente (dove l’impresa ha il centro degli interessi principali) da parte del debitore stesso oppure di un creditore. Se pendono contemporaneamente un’istanza di fallimento e richieste di concordato o accordo, il tribunale le riunisce e dà priorità a quelle diverse dalla liquidazione giudiziale, per favorire il salvataggio. Ciò significa che, anche dopo la composizione negoziata fallita, l’imprenditore potrebbe presentare un ricorso di concordato in estremis e questo verrà esaminato prima della richiesta di fallimento, nel tentativo di evitare la fine liquidatoria. Tuttavia, se nessun’altra domanda è proposta, il tribunale – verificati i presupposti – dichiarerà aperta la liquidazione giudiziale con sentenza.
Gli effetti immediati della liquidazione giudiziale per il debitore sono drastici: egli perde la gestione e la disponibilità dei suoi beni, che passano al curatore (art. 144 CCII). Non può più compiere atti dispositivi validi verso i creditori (eventuali atti compiuti dopo l’apertura non hanno effetto). I creditori anteriori vengono bloccati: non possono iniziare o proseguire azioni esecutive individuali, ma devono far valere i propri crediti nella procedura concorsuale (par condicio tra creditori). Il curatore forma lo stato passivo, liquida l’attivo dell’impresa (vendendo beni, crediti, aziende) e distribuisce il ricavato ai creditori secondo l’ordine delle cause di prelazione. L’impresa normalmente cessa l’attività, salvo che il giudice autorizzi un esercizio provvisorio per evitare pregiudizi (ad es. per completare commesse in corso che aumentino il valore liquidabile). Al termine, la società viene cancellata e i debiti eventualmente insoddisfatti si estinguono nei confronti della società (non però verso eventuali coobbligati o garanti personali).
Implicazioni per l’imprenditore: La liquidazione giudiziale rappresenta ovviamente l’esito meno desiderabile per l’imprenditore, in quanto segna la perdita definitiva dell’azienda. Per un imprenditore individuale significa la spossessamento del patrimonio personale e la chiusura dell’attività; per una società, la fine dell’ente e la possibile attivazione di azioni di responsabilità verso gli amministratori (ne parliamo nella sezione successiva). Sotto il profilo giuridico, l’apertura della liquidazione giudiziale comporta una serie di conseguenze dirette per il debitore:
- scatta l’eventuale ineleggibilità o decadenza da cariche (per le società di capitali insolventi, gli amministratori perdono i poteri); se il debitore è una persona fisica, subisce le incapacità personali previste (non può gestire patrimoni altrui, perde temporaneamente alcuni diritti civili come l’elettorato attivo e passivo in alcune giurisdizioni, ecc. – anche se queste interdizioni possono essere ridotte nel nuovo codice rispetto alla vecchia infamia da fallimento).
- vengono esaminati dagli organi concorsuali gli atti compiuti prima del fallimento: se il debitore negli ultimi tempi ha effettuato pagamenti preferenziali o distratto beni, il curatore potrà esercitare azioni di revocatoria fallimentare per recuperarli. Inoltre, l’eventuale commissione di reati di bancarotta (ad es. distrazione di beni, documenti contabili irregolari, pagamenti preferenziali dolosi) verrà segnalata al pubblico ministero, con possibili conseguenze penali per l’imprenditore (vd. Responsabilità penali infra).
- dal lato fiscale, la procedura di liquidazione comporta la chiusura del periodo d’imposta in corso, la redazione di un bilancio di apertura della liquidazione e una gestione fiscale separata da parte del curatore (questi, ad esempio, presenterà la dichiarazione dei redditi per la frazione di anno pre-fallimentare e gestirà l’IVA maturata in procedura). I crediti IVA dell’impresa fallita diventano attivi della massa: il curatore potrà chiederne il rimborso all’Erario e distribuirli ai creditori. Le perdite fiscali pregresse della società non possono più essere utilizzate (restano “intrappolate” nella procedura e di fatto svaniscono con l’estinzione della società). I debiti tributari concorrono al passivo fallimentare come crediti privilegiati o chirografari a seconda della natura (IVA e ritenute sono chirografari privilegiati ex art. 2752 c.c.; imposte dirette, se non munite di privilegio speciale, sono chirografarie). Eventuali pendenze tributarie comportano inoltre che l’Erario possa insinuarsi al passivo per capitale, interessi e sanzioni: attenzione però, se l’imprenditore aveva avviato la composizione negoziata tempestivamente, durante quella fase gli interessi sui debiti tributari maturavano al tasso legale ridotto; con l’apertura della liquidazione giudiziale, tale beneficio cessa e gli interessi tornano a calcolarsi al tasso ordinario, comportando una “riespansione” del carico di interessi per il periodo in cui vigeva la composizione.
In pratica, se la composizione negoziata fallisce e si va in liquidazione giudiziale, l’imprenditore perde il controllo della vicenda: i creditori collettivamente e il tribunale, tramite il curatore, gestiranno la fine della sua impresa. Questo scenario comporta spesso, oltre al danno economico, un serio impatto reputazionale e personali strascichi legali (azioni dei creditori, indagini penali). Va ricordato tuttavia che, per l’imprenditore individuale onesto ma sfortunato, esiste la possibilità di chiedere l’esdebitazione a fine procedura (art. 278 CCII): ottenendo dal tribunale la cancellazione dei debiti residui non pagati nel fallimento, egli può ripartire senza quell’onere (fermi restando i debiti per obblighi alimentari, da risarcimento danni per fatto illecito e poche altre eccezioni). L’esdebitazione è concessa se il fallito ha collaborato e non ha commesso irregolarità gravi. Dunque, per un piccolo imprenditore persona fisica, il fallimento dell’impresa non segna necessariamente la condanna a vita: dopo la liquidazione e con l’esdebitazione, egli può avere una seconda opportunità imprenditoriale (principio del fresh start voluto anche dal legislatore UE).
In conclusione, la liquidazione giudiziale dopo composizione negoziata fallita è la prospettiva estrema e traumatica – talvolta inevitabile – che realizza la tutela dei creditori a scapito della sopravvivenza dell’azienda. Nella sezione Responsabilità vedremo come questo esito apre la strada a possibili azioni contro l’imprenditore e i suoi amministratori.
Concordato preventivo (continuità o liquidatorio)
Una via alternativa al fallimento, spesso percorsa se c’è ancora qualche chance di soddisfare i creditori in modo organizzato, è la presentazione di un concordato preventivo. Il concordato preventivo è una procedura concorsuale giudiziale che consente al debitore insolvente (o in crisi) di proporre ai creditori un piano per il soddisfacimento parziale dei loro crediti, in forma alternativa alla liquidazione fallimentare. Se i creditori approvano e il tribunale omologa, il concordato evita il fallimento e regola la crisi secondo le modalità proposte (che possono includere la prosecuzione dell’attività o la liquidazione dei beni sotto controllo del debitore stesso).
Dopo una composizione negoziata fallita, il concordato preventivo può costituire una ancora di salvezza finale: magari le trattative non hanno portato a un accordo stragiudiziale completo, ma l’imprenditore ha potuto delineare un progetto di concordato da sottoporre formalmente ai creditori e al tribunale. Oppure alcuni creditori potrebbero essere disposti a un accordo solo in sede concorsuale (per avere maggiori garanzie e un giudice che vigila).
Tipi di concordato: Il Codice della Crisi distingue due categorie principali:
- Concordato in continuità aziendale (art. 84 co.3 CCII): il piano prevede che l’attività d’impresa continui, direttamente da parte del debitore o indirettamente tramite un terzo (ad es. affitto o cessione a nuova società), e i creditori vengano soddisfatti in misura anche non prevalente dal ricavato della prosecuzione dell’attività. È il concordato “di risanamento”, volto a conservare i valori aziendali (es. concordato con ristrutturazione del debito e continuità operativa).
- Concordato con liquidazione del patrimonio (art. 84 co.4 CCII): il piano è a scopo liquidatorio, cioè l’azienda cessa e si liquidano i beni, però con alcune condizioni più favorevoli ai creditori rispetto al fallimento – ad esempio un apporto di risorse esterne pari ad almeno il 10% dell’attivo e un pagamento minimo del 20% ai creditori chirografari. È un concordato “liquidatorio” ma comunque diverso dal fallimento perché gestito dal debitore con maggiori garanzie di risultato per i creditori.
Nel contesto post-composizione negoziata, il concordato in continuità potrebbe essere percorribile se l’impresa ha prospettive di risanamento ancora valide ma necessita di un accordo formalizzato e magari di un cram-down sui creditori dissenzienti (cosa che la trattativa privata non poteva imporre). Ad esempio, l’imprenditore può presentare un piano in continuità in cui prevede la ristrutturazione dei debiti con pagamento parziale nell’arco di qualche anno, la cessione di rami d’azienda non strategici, l’ingresso di un investitore, ecc., offrendo ai creditori una soddisfazione migliore rispetto alla liquidazione fallimentare. I creditori voteranno su classi e, se il quorum sarà raggiunto, il tribunale omologherà il concordato in continuità, evitando la cessazione dell’impresa. Questo scenario preserva l’azienda, i posti di lavoro e l’avviamento, ma richiede un piano robusto e la fiducia di una parte significativa dei creditori.
Invece, il concordato liquidatorio tradizionale potrebbe essere scelto quando la continuità non è più possibile (azienda decotta), ma il debitore vuole comunque evitare la procedura fallimentare offrendo qualcosa in più ai creditori. Ad esempio, può proporre di liquidare tutto il patrimonio sotto il proprio controllo, però garantendo un contributo esterno (es. i soci versano dei fondi o rinunciano a crediti postergati) in modo da raggiungere quel minimo del 20% ai chirografari e 10% di attivo richiesto. I creditori, se convinti che nel fallimento prenderebbero meno, potrebbero votare a favore, e così la liquidazione avviene in modo concordatario (controllata dal commissario giudiziale e dal giudice) invece che fallimentare. Ciò può comportare minori costi e tempi più rapidi.
Procedura e rapporti con la composizione negoziata: Presentare un ricorso di concordato preventivo immediatamente dopo la composizione negoziata fallita è un’opzione concreta. La legge consente anzi di depositare un ricorso di concordato “in bianco” (con riserva ex art. 44 CCII) durante o subito dopo la composizione, ottenendo così ulteriori misure protettive ed eventualmente tempo (fino a 60-120 giorni) per completare il piano definitivo. Da notare che il concordato preventivo ordinario richiede il voto dei creditori: a differenza della composizione negoziata (che era volontaria e senza votazioni) e del concordato semplificato (dove non c’è voto, come vedremo), nel concordato standard serve l’approvazione delle classi di creditori con la maggioranza di legge (maggioranza dei crediti ammessi al voto per ciascuna classe). Quindi, se la composizione negoziata è fallita a causa dell’opposizione di troppi creditori, può darsi che neppure in concordato ordinario si trovi la maggioranza. Tuttavia, il CCII ha introdotto meccanismi di cram-down giudiziale se certe classi votano contro ma la proposta è comunque conveniente, quindi non è escluso che un piano rigettato informalmente possa invece essere omologato in sede concorsuale.
Dal punto di vista dell’imprenditore, la scelta del concordato preventivo comporta alcuni vantaggi rispetto al fallimento:
- Egli rimane formalmente “debitore in possesso” (DIP) almeno fino all’omologazione: durante la fase di concordato, può conservare l’amministrazione dei beni sotto la vigilanza di un commissario giudiziale, salvo che il tribunale disponga diversamente (nel liquidatorio puro spesso viene nominato un liquidatore giudiziale). Comunque c’è maggiore coinvolgimento del debitore nella soluzione.
- Il concordato, se omologato, produce l’esdebitazione della società dai debiti pregressi una volta eseguito (o subito per le persone fisiche, l’esdebitazione è integrata nell’omologa di concordato minore per i non fallibili). Quindi l’impresa ne esce “pulita” dai vecchi debiti (se continua) oppure la società si estingue senza strascichi per i soci.
- Niente reati di bancarotta: l’omologazione del concordato evita la dichiarazione di fallimento, che è presupposto dei reati fallimentari. Certo, restano eventualmente punibili altri reati societari o tributari commessi dall’imprenditore, ma non potrà essergli contestata la bancarotta fraudolenta o semplice in relazione ai fatti avvenuti prima (salvo la cosiddetta “bancarotta concordataria” in caso di dolo nell’esecuzione del concordato, reato comunque diverso). In sostanza, il concordato preventivo mette al riparo dagli effetti penal-fallimentari molte condotte (ad esempio gli atti di dissipazione compiuti prima non potranno essere oggetto di bancarotta fraudolenta patrimoniale se non c’è fallimento). Anche le azioni revocatorie fallimentari in capo al curatore vengono meno, perché nel concordato generalmente non è prevista analoga azione (salvo poteri del commissario di contestare atti in frode ai creditori in sede di omologa).
- Sul piano fiscale, il concordato preventivo consente la detassazione delle sopravvenienze attive da stralcio dei debiti: l’art. 88, co.4-ter TUIR stabilisce che le riduzioni dei debiti accordate ai debitori in sede di concordato preventivo omologato non sono imponibili ai fini delle imposte sui redditi. Ciò significa che, se ad esempio nel concordato il 50% dei debiti chirografari viene cancellato, quel 50% non verrà tassato come “ricavo” per la società (mentre in un accordo stragiudiziale non omologato sarebbe imponibile come sopravvenienza attiva). Questo è un importante incentivo fiscale a favore delle soluzioni concordatarie. Inoltre, l’IVA sui debiti non pagati viene anch’essa regolata: tipicamente l’Agenzia Entrate, dopo l’omologa, emette note di variazione IVA per i creditori, consentendo ai fornitori di recuperare l’IVA sui crediti falcidiati, senza impatto sul debitore. Le perdite fiscali pregresse della società in concordato in continuità restano utilizzabili se l’azienda prosegue (anche se ci sono norme anti-elusive se cambia la proprietà), mentre in caso di concordato liquidatorio la società poi si estingue e le perdite restano inutilizzate.
Di contro, il concordato preventivo richiede tempi e adempimenti: va predisposto un piano dettagliato e una proposta, nominato un commissario, convocati i creditori in adunanza e raccolto il voto – tutto ciò può durare diversi mesi. In situazioni di emergenza, l’imprenditore deve considerare se c’è tempo sufficiente o se i creditori (ad esempio le banche) sono disposti a sostenere l’iter. Spesso, se la composizione negoziata è fallita per mancanza di accordo, convincere poi gli stessi creditori a votare un concordato può essere difficile. Non di rado però il tribunale funge da arbitro e i creditori si fidano di più di una procedura trasparente: per esempio, alcuni creditori pubblici (Agenzia Entrate, enti previdenziali) potrebbero non aderire a un accordo privato, ma partecipare a un concordato con transazione fiscale (artt. 63-64 CCII) in cui, sotto controllo giudiziario, accettano una riduzione dei crediti fiscali.
Concordato preventivo semplificato (concordato “semplificato” liquidatorio): Prima di passare ad altre opzioni, merita un cenno il concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio, introdotto – come detto – nel 2021 quale via d’uscita rapida se la composizione negoziata fallisce. Ne parliamo meglio nel prossimo paragrafo dedicato, ma anticipiamo che è una procedura speciale: accessibile solo se la composizione negoziata si conclude con esito negativo, consente di ottenere l’omologazione di un concordato liquidatorio senza voto dei creditori. In pratica, il debitore propone al tribunale un piano di liquidazione dei beni (magari con un’offerta già individuata per l’azienda o asset principali), e il tribunale può omologarlo nonostante il dissenso dei creditori, purché ritenga che la proposta non li pregiudichi rispetto alla alternativa del fallimento. Il concordato semplificato è pensato come extrema ratio se le trattative sono fallite ma c’è l’opportunità di liquidare l’attivo in modo efficiente (es. un compratore disponibile ad acquisire l’azienda per un valore che soddisfa meglio i creditori di quanto farebbe il curatore fallimentare). Lo approfondiremo a breve.
In definitiva, in caso di composizione negoziata fallita, il concordato preventivo ordinario rappresenta la soluzione concorsuale “classica” di salvataggio o liquidazione controllata. Esso richiede l’attivazione da parte del debitore (o eventualmente dei creditori con concordato “di gruppo” ex art. 40 CCII, ipotesi rara) e comporta costi e formalità, ma se approvato ed omologato consente di evitare la ben più gravosa procedura di liquidazione giudiziale. Dal punto di vista del debitore, è preferibile optare per il concordato quando: (a) si ha ancora la fiducia di una quota rilevante di creditori; (b) c’è un piano credibile che dia ai creditori più valore di un fallimento; (c) si vuole sfruttare la cornice giudiziale per dare certezza e stabilità all’accordo (imponendolo anche ai dissenzienti se necessario); (d) si intendono evitare conseguenze penali e civili derivanti da un fallimento. I professionisti (avvocati, commercialisti) affiancheranno l’imprenditore nella predisposizione del piano e nella trattativa con commissario e creditori. In molti casi, il passaggio dal tavolo negoziale informale al tavolo del concordato è quasi naturale: la composizione negoziata fallita spesso produce già un’analisi della situazione e magari una bozza di piano che può essere raffinata in concordato preventivo.
Va infine osservato che esiste anche il “concordato minore”, una particolare procedura di concordato riservata ai debitori non fallibili (imprese sotto-soglia e soggetti non commerciali sovraindebitati). Il concordato minore (artt. 74-83 CCII) è analogo al concordato preventivo ma semplificato, senza necessità di attestazione iniziale e con soglie di adesione più flessibili, e inteso soprattutto per professionisti, start-up, piccoli imprenditori che non possono accedere al concordato preventivo ordinario. Dunque, se la composizione negoziata fallisce per un piccolo imprenditore non fallibile, costui può proporre un concordato minore davanti al tribunale competente per sovraindebitamento. Il meccanismo è simile: proposta ai creditori (con o senza continuità, solitamente liquidatoria), eventuale votazione (anche se spesso non richiesta se la percentuale di soddisfazione è molto alta), e omologa. Il concordato minore, se omologato, evita la liquidazione controllata e libera il debitore dai debiti residui. È quindi un ulteriore strumento da considerare nel novero delle procedure post-composizione fallita, limitatamente a quelle imprese micro che non “falliscono” in senso tecnico.
Concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio
Una delle novità di maggior rilievo degli ultimi anni è stata l’introduzione, da parte del D.L. 118/2021, del concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio (art. 18 D.L. 118/2021, confluito negli artt. 25-sexies e 25-septies CCII). Questo strumento – come già accennato – è stato concepito espressamente per dare uno sbocco rapido alla composizione negoziata quando le trattative non abbiano portato a soluzioni di risanamento. In pratica, se la composizione negoziata fallisce, il debitore può proporre entro 60 giorni una domanda di concordato semplificato al tribunale. Vediamo le caratteristiche chiave:
- Presupposto di ammissibilità esclusivo: la procedura di concordato semplificato è accessibile solo in caso di esito negativo della composizione negoziata. Ciò significa che l’imprenditore deve aver prima seguito l’iter della composizione con un esperto e non essere riuscito a risanare l’azienda. La relazione finale negativa dell’esperto è il “lasciapassare” per avviare il concordato semplificato. Non è possibile per un debitore saltare la composizione e andare direttamente al concordato semplificato: il legislatore lo ha voluto come ponte di collegamento tra i due istituti.
- Finalità esclusivamente liquidatoria: a differenza del concordato preventivo ordinario, quello semplificato è solo liquidatorio. Significa che il piano deve prevedere la cessione o liquidazione di tutto il patrimonio dell’imprenditore a beneficio dei creditori (non è ammessa la continuità aziendale diretta). L’obiettivo è liquidare rapidamente l’azienda o i suoi beni, magari individuando già durante la composizione un possibile acquirente. In tal senso, la norma prevede che se il piano include l’offerta di acquisto dell’azienda (o rami o specifici beni) da parte di un soggetto individuato, il liquidatore giudiziale – nominato nel concordato semplificato – potrà dare esecuzione a tale offerta una volta verificato che sul mercato non vi siano soluzioni migliori. Questa previsione agevola la vendita celere dell’azienda “in blocco” per salvaguardare gli avviamenti e i livelli occupazionali, in coerenza con la logica di continuità indiretta perseguita dalla composizione negoziata.
- Assenza di voto dei creditori: è l’aspetto dirompente. Nel concordato semplificato non è prevista la votazione dei creditori sulla proposta. Il tribunale decide sull’omologazione ascoltati debitore, creditori ed eventuali opposizioni, ma senza passare per un’assemblea con voto. Questo elemento “semplifica” (da cui il nome) e velocizza la procedura, evitando che uno scarso consenso dei creditori blocchi tutto. Tuttavia, l’omologazione non è automatica: il giudice deve verificare che la proposta non arrechi pregiudizio ai creditori rispetto all’alternativa della liquidazione giudiziale. In altri termini, il tribunale svolge una sorta di cram-down: se ritiene che quello che i creditori otterranno col concordato semplificato è almeno pari (o superiore) a quanto avrebbero in un fallimento, può omologare il concordato anche se i creditori (o alcuni di essi) sono contrari. Questo è un forte incentivo per i creditori: sanno che non possono “far fallire” l’azienda bocciando la proposta, a meno di dimostrare che sarebbe per loro più vantaggioso il fallimento stesso.
- Iter procedurale rapido: il debitore presenta ricorso con il piano e la relazione dell’esperto. Il tribunale, verificata l’ammissibilità, nomina un commissario giudiziale (di regola coincidente con l’esperto precedente, per continuità informativa) e un liquidatore giudiziale che curerà la vendita dei beni una volta omologato il concordato. Segue un’udienza di comparizione delle parti e dei creditori, i quali possono svolgere osservazioni o proporre opposizione. Dopodiché il tribunale emette decreto di omologazione (o diniego). Non essendoci voto, i tempi dipendono solo dalle scadenze processuali (nel 2022 si sono viste omologhe in pochi mesi). Una volta omologato, il liquidatore esegue il piano liquidando l’attivo secondo le indicazioni e distribuendo il ricavato ai creditori sotto la vigilanza del giudice delegato.
- Ruolo dell’esperto: anche dopo la chiusura della composizione negoziata, l’esperto rimane figura chiave: egli infatti può essere chiamato a coadiuvare l’imprenditore nella predisposizione della proposta di concordato semplificato. Il correttivo 2024 ha chiarito che l’esperto può continuare ad assistere il debitore anche dopo l’archiviazione della composizione, se tale attività rientra nel naturale seguito delle trattative svolte. Ad esempio, l’esperto che ha trovato un potenziale investitore potrà poi, come professionista, aiutarne l’ingresso nel concordato semplificato senza attendere due anni (deroga alle incompatibilità). Inoltre, la relazione finale dell’esperto funge in pratica da relazione “attestativa” nella domanda di concordato semplificato, nel senso che l’esperto può attestare il valore dell’azienda e la capienza del piano rispetto al fallimento. Non c’è un’attestazione di fattibilità formale come nel concordato ordinario, ma di fatto l’esperto deve esprimersi sul valore liquidabile e sull’assenza di pregiudizio per i creditori.
- Condizioni di convenienza: come detto, per omologare il concordato semplificato il tribunale verifica il “test di convenienza” rispetto al fallimento. Inoltre, vi sono alcuni requisiti legali simili a quelli del concordato liquidatorio ordinario: ad esempio, la proposta non deve discriminare ingiustificatamente i creditori, vanno rispettate le cause legittime di prelazione (salvo accordo dei privilegiati alla rinuncia parziale), ecc. Non è espressamente richiesto l’apporto esterno del 10% (quello vale per il concordato ordinario), ma certamente se c’è un soggetto terzo disposto a mettere fondi, la proposta diventa più appetibile e facile da omologare. Importante: anche nel concordato semplificato, i crediti fiscali e contributivi possono essere falcidiati solo se è assicurato il soddisfacimento non inferiore a quanto otterrebbero in liquidazione fallimentare (come da regole generali sulla transazione fiscale applicabili in concordato, ora estese anche a questo istituto dal D.Lgs. 83/2022).
Vantaggi e svantaggi per il debitore: Il concordato semplificato presenta evidenti vantaggi: rapidità, niente votazioni né rischio di bocciatura da parte di minoranze, maggiore certezza di portare a termine la liquidazione in breve tempo. Permette all’imprenditore di evitare le lungaggini e i costi di un fallimento, di gestire la vendita dell’azienda magari a un partner scelto (sotto controllo del giudice) e soprattutto di evitare la dichiarazione di fallimento, con tutto ciò che ne consegue in termini di stigmatizzazione e procedimenti penali fallimentari. Di fatto, nessuna sentenza dichiarativa di fallimento viene emessa; si ha invece un decreto di omologazione di concordato. Per l’imprenditore persona fisica questo significa, ad esempio, che non subirà le incapacità personali del fallito e potrà continuare eventualmente altra attività (purché abbia liquidato quella in crisi). Anche per gli amministratori di società, non vi sarà “sostituzione” da parte del curatore: il liquidatore nominato agirà solo per vendere i beni, ma la società rimane in bonis fino alla chiusura del concordato.
Gli svantaggi o rischi: il tribunale potrebbe negare l’omologa se ritiene che i creditori sarebbero trattati meglio da un curatore fallimentare. Ad esempio, se appare che il debitore propone di vendere l’azienda a un prezzo non adeguato, il giudice potrebbe non fidarsi, specie se i creditori lamentano potenziali offerte migliori. Inoltre, i creditori, sebbene privati del voto, possono comunque opporsi e far presente eventuali atti in frode (es. che il debitore ha favorito qualcuno, nascosto beni, etc.). Se il tribunale ravvisa atti in frode ai creditori, deve rigettare l’omologazione (come nel concordato ordinario). Quindi il debitore deve aver agito in massima trasparenza durante la composizione negoziata e non aver compiuto sottrazioni di asset, altrimenti il concordato semplificato non passerà. In caso di diniego di omologa, si torna al punto di partenza: molto probabilmente verrà aperto il fallimento (anche d’ufficio).
Va sottolineato che il concordato semplificato è ancora un istituto giovane (in vigore solo da novembre 2021) e utilizzato in numero limitato di casi, principalmente per PMI. Tuttavia, rappresenta un importante strumento di chiusura rapida che il debitore deve considerare seriamente all’indomani di una composizione negoziata fallita. In pratica, se durante le trattative ci si rende conto che non c’è accordo ma c’è un soggetto interessato a rilevare l’azienda (o se stesso imprenditore vuole liquidare tutto ordinatamente), conviene preparare il terreno per il concordato semplificato: ad esempio, l’esperto può redigere una relazione che quantifica il presumibile attivo in fallimento e quel valore può essere la soglia minima per qualsiasi offerta nel concordato semplificato. Così il giudice potrà apprezzare che i creditori non siano pregiudicati.
Conclusione sul concordato semplificato: Questo istituto incarna lo spirito di compromesso del legislatore: “se non riesci a risanare, almeno liquida subito senza passare dal fallimento”. Dal punto di vista dell’imprenditore, è un modo per chiudere dignitosamente la crisi: non salva l’azienda (che viene comunque ceduta o chiusa), ma evita la dichiarazione di fallimento e consente una migliore tutela dei creditori in tempi contenuti. È aperto anche alle piccole imprese e imprese sotto soglia (a differenza del fallimento), e anzi in quel caso è utilizzabile pure senza necessità di un procedimento di sovraindebitamento, quindi semplifica molto il percorso.
Va rimarcato che il concordato semplificato non richiede la soglia minima del 20% di pagamento ai chirografari prevista per i concordati liquidatori ordinari, proprio perché non c’è voto: quindi, se il valore di realizzo dei beni è basso, i creditori potrebbero prendere anche meno del 20%, purché sia comunque il massimo ottenibile. Questo lo rende fruibile anche in situazioni di dissesto grave, dove un concordato ordinario non passerebbe. Naturalmente però, se ciò che si offre è misero, il tribunale scrutinerà con rigore la condotta del debitore, per evitare abusi.
Accordo di ristrutturazione dei debiti (ex art. 57 CCII)
Un’altra possibile via, qualora la composizione negoziata non produca un accordo completo ma vi siano margini con la maggioranza dei creditori, è la formalizzazione di un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato dal tribunale. Si tratta di un istituto a metà strada tra il concordato e l’accordo privato: il debitore raggiunge un accordo con una parte significativa dei creditori (almeno il 60% dei crediti, secondo l’art. 60 CCII), lo deposita in tribunale per l’omologazione e, una volta omologato, l’accordo diventa vincolante anche per i creditori aderenti (mentre i non aderenti restano estranei, ma vige per loro uno stay temporaneo).
Dopo la composizione negoziata, un accordo di ristrutturazione può rivelarsi utile se ad esempio non tutti i creditori erano disposti a firmare un contratto stragiudiziale, ma una buona parte sì. Con l’omologazione, l’accordo acquista alcuni benefici legali: consente l’esenzione da revocatoria per gli atti eseguiti in sua attuazione (come i pagamenti e le garanzie concesse, ex art. 46, co. 1, lett. a) CCII), e consente l’accesso alle misure protettive durante la fase di omologa, analogamente al concordato (art. 61 CCII). Inoltre, recentemente è stata introdotta la possibilità di chiedere l’estensione degli effetti ai creditori dissenzienti appartenenti a categorie omogenee (i cosiddetti accordi ad efficacia estesa per banche e finanziari, art. 61 CCII).
Nella pratica post-composizione: supponiamo che nelle trattative guidate dall’esperto si sia riusciti a convincere, ad esempio, le banche (che rappresentano il 70% del debito) a ristrutturare esposizioni (allungando scadenze, rinunciando a quota di credito) e i fornitori principali a uno stralcio parziale, ma restino fuori taluni creditori minori o l’Erario. In tal caso, il debitore può stipulare un accordo formale con i creditori aderenti (devono rappresentare ≥ 60% dei crediti totali), depositarlo al tribunale con le attestazioni di legge (fattibilità e convenienza per i creditori esclusi), e ottenere un decreto di omologazione che rende efficace l’accordo. I creditori che hanno firmato saranno vincolati a quanto concordato (per es: pagamento del 80% del loro credito in 5 anni); i creditori non firmatari restano liberi di agire per il loro credito, ma beneficiano spesso di un pagamento integrale secondo i tempi previsti dall’accordo (non possono però essere obbligati ad accettare riduzioni salvo meccanismi speciali per banche). Durante l’omologazione, il tribunale può concedere il blocco delle azioni esecutive anche dei non aderenti fino a 120 giorni, per evitare aggressioni che farebbero saltare l’accordo (questo è importante perché i creditori estranei non votano ma almeno sono temporaneamente sospesi). Se tutto va bene, l’accordo viene omologato e pubblicato, e l’impresa prosegue la sua attività attuando i patti presi.
Pro e contro rispetto al concordato: L’accordo di ristrutturazione è più flessibile e riservato: non c’è voto pubblico, si può trattare individualmente con ciascun creditore per ottenere il 60%, e i dettagli restano riservati (anche se l’elenco creditori e l’accordo vengono comunque depositati). I creditori aderenti spesso preferiscono un accordo extra-fallimentare piuttosto che un concordato, perché mantengono più controllo e spesso ottengono condizioni a loro misura. D’altro canto, l’accordo non coinvolge i dissenzienti: quindi se un 40% di creditori non è d’accordo, essi non sono crammed down (salvo la specifica ipotesi di accordo agevolato per banche in categoria omogenea con ≥75% di adesione, che consente di estendere l’accordo anche alle minoranze bancarie). Nel nostro scenario di composizione fallita, l’accordo può essere la scelta giusta quando c’è una chiara maggioranza consenziente (banche, grandi fornitori) e solo pochi piccoli creditori o qualche ente pubblico che non aderiscono. In tal caso, l’accordo consente di vincolare i principali, e i piccoli estranei potranno essere pagati a parte (magari integralmente, subito dopo l’omologa, visto che di solito la legge impone loro il pagamento integrale se non aderiscono per evitare il pregiudizio).
Importante: come per il concordato, anche l’accordo di ristrutturazione omologato dà luogo a detassazione delle sopravvenienze attive da riduzione dei debiti (art. 88 TUIR equipara le riduzioni accordate in sede di accordi ex art. 182-bis L.F. – oggi art. 60 CCII – alle procedure concorsuali ai fini dell’esenzione fiscale). Quindi, se i creditori aderenti tagliano parte dei crediti, quella parte non sarà imponibile. Inoltre, l’accordo protegge gli atti esecutivi compiuti: ad esempio, se l’imprenditore paga subito un fornitore aderente come da accordo, quel pagamento non potrà essergli revocato nel caso malaugurato in cui entro 2 anni si apra comunque un fallimento (purché l’accordo sia omologato). Si noti però che l’accordo omologato non esonera dai reati di bancarotta in caso di successivo fallimento: se dopo l’accordo comunque si fallisce (ad esempio perché l’accordo non risolve del tutto la situazione), i pagamenti preferenziali fatti prima dell’accordo e non funzionali ad esso possono essere incriminati. Invece, quelli fatti in esecuzione dell’accordo omologato sono protetti (esenzione ex art. 324 CCII).
Quando scegliere l’accordo? L’accordo di ristrutturazione dei debiti è preferibile al concordato quando:
- il numero dei creditori è limitato e negoziabile (tipicamente se vi sono poche banche che detengono la maggior parte del debito);
- si vuole evitare la rigidità del concordato (classi, voto, etc.) e si è in grado di convincere individualmente i creditori principali;
- l’impresa ha prospettive di continuare e necessita di consolidare il nuovo piano senza la percezione pubblica di un “fallimento” (il concordato ha comunque eco pubblica più negativa, mentre l’accordo sembra più vicino a un accordo privato);
- alcuni creditori strategici non vogliono subire riduzioni forzate (ad es. lo Stato su IVA di regola non può subire stralcio salvo transazione fiscale in concordato con continuità, invece potrebbe aderire a un accordo per rateizzare senza stralciare).
A valle di una composizione negoziata fallita, l’accordo di ristrutturazione può essere facilitato dal lavoro già svolto dall’esperto: spesso l’esperto avrà predisposto una bozza di piano e avrà individuato quali creditori sono collaborativi. Magari l’accordo era vicino, ma non si è raggiunta l’unanimità: in tal caso, formalizzare un accordo ex art. 57 CCII con il 60-70% dei creditori può essere la soluzione, lasciando fuori chi non voleva aderire.
Un esempio pratico: la società Alfa ha 5 banche esposte per l’80% dei debiti e 50 fornitori per il restante 20%. Durante la composizione, le banche trovano un’intesa di ristrutturazione (proroga mutui, rinuncia interessi) ma alcuni fornitori non accettano sconti. Si può allora chiudere la composizione e procedere con un accordo di ristrutturazione firmato dalle 5 banche e magari da alcuni fornitori maggiori, raggiungendo poniamo il 65% dei crediti. L’accordo prevede pagamento integrale dei fornitori estranei entro tot mesi dall’omologa (così da evitare loro pregiudizio). Il tribunale omologa: l’azienda continua, le banche rispettano il nuovo piano, i fornitori estranei vengono pagati come promesso. L’azienda è salva senza passare dal fallimento né dal concordato. Questo strumento dunque permette di replicare l’esito di una composizione negoziata fallita per poco, formalizzando però quell’accordo parziale in tribunale per dargli certezza e protezione legale.
Naturalmente occorre predisporre la relazione di un esperto indipendente che attesti la veridicità dei dati aziendali e l’attuabilità dell’accordo (requisito di legge per il deposito). Spesso lo stesso professionista che fu esperto nella composizione può assumere questo ruolo, avendo già contezza della situazione (purché sia indipendente rispetto ai creditori coinvolti).
Piano attestato di risanamento (art. 56 CCII) e altre soluzioni stragiudiziali
Un ulteriore esito possibile, benché del tutto privatistico, è la predisposizione di un piano di risanamento attestato a norma dell’art. 56 CCII (già art. 67, co.3, lett. d) L.F.). Si tratta di un piano predisposto dall’imprenditore e asseverato da un professionista indipendente, idoneo a risanare l’esposizione debitoria dell’impresa e a garantirne l’equilibrio. Il vantaggio di tale piano, se pubblicato nel Registro delle Imprese, è che gli atti, i pagamenti e le garanzie posti in essere in esecuzione di esso sono esenti da revocatoria fallimentare ed esclusi dai reati di bancarotta preferenziale. In altri termini, il legislatore offre una protezione a chi, fuori dalle procedure concorsuali, esegue un piano serio di risanamento: i creditori non potranno poi far annullare quei pagamenti se la società dovesse fallire successivamente.
Nel contesto di una composizione negoziata non riuscita, il piano attestato può rappresentare uno sbocco se l’imprenditore riesce a ottenere adesioni spontanee dai creditori principali senza bisogno di omologazione. Magari durante la composizione è stato abbozzato un piano e alcuni creditori chiave hanno detto di sì (ma non abbastanza per l’accordo ex art. 57). L’imprenditore può dunque decidere di procedere comunque a implementare quel piano su base volontaria: fa redigere a un esperto indipendente (diverso dall’esperto facilitatore, perché questi era mediatore e non può “attestare” un suo stesso operato, di solito) un’attestazione sull’attendibilità del piano di risanamento e sulla sua idoneità a superare la crisi. Poi esegue il piano, ad esempio pagando parzialmente alcuni creditori con risorse fresche, vendendo cespiti per pagare altri, rinegoziando linee di credito – il tutto in base a intese private con i creditori (contratti bilaterali, transazioni, dilazioni).
Se malauguratamente entro 2 anni quell’impresa dovesse comunque fallire, i pagamenti effettuati in coerenza col piano attestato e pubblicato non potranno essere revocati né considerati atti di bancarotta preferenziale, proprio grazie all’esenzione prevista (purché ovviamente il piano non fosse fraudolento). Questo scudo rende i creditori più disponibili a collaborare, sapendo che non dovranno restituire quanto incassato se poi il debitore fallisce – condizione che altrimenti li renderebbe timorosi di accordi privati.
In sintesi, il piano attestato di risanamento è uno strumento che consente di formalizzare privatamente una soluzione, evitando procedure giudiziali. È utilissimo quando:
- la platea dei creditori è contenuta e si riesce a ottenere il consenso informale di quasi tutti, pur senza la rigidità di quorum;
- il debitore ha prospettive di sopravvivenza e magari l’apporto di nuovi fondi (soci o finanziatori) ma preferisce non passare da tribunale (es. per questione di reputazione, o per evitare pubblicità);
- si vuole la massima flessibilità contrattuale (l’accordo di ristrutturazione deve rispettare certe maggioranze, il concordato le regole di formazione classi etc., il piano attestato invece è libero: basta che sia idoneo al risanamento e attestato sinceramente).
Va però considerato che il piano attestato non vincola i creditori dissenzienti in alcun modo. Quindi se anche uno importante rifiuta, può teoricamente agire per farsi pagare integralmente. Per questo spesso il piano attestato funziona in situazioni di pre-crisi più che di insolvenza avanzata: richiede un certo grado di fiducia reciproca. Dopo una composizione negoziata fallita, può darsi che questa fiducia sia venuta meno in alcuni stakeholder, dunque il piano attestato sarebbe inefficace. Diversamente, se la composizione non ha prodotto l’accordo solo per problemi tecnici o perché serviva un’attestazione, allora il piano attestato è la prosecuzione naturale del lavoro: l’esperto dice “non c’è accordo definitivo”, ma l’imprenditore può trasformare il quasi-accordo in un piano attestato, pubblicarlo e agire.
Attenzione: per usufruire delle esenzioni revocatoria/bancarotta, il piano attestato deve essere completato e pubblicato prima di eventuale fallimento. Se l’azienda precipita in insolvenza peggiorativa e qualcuno chiede il fallimento prima che il piano sia pronto, l’imprenditore rischia comunque il fallimento con revocatorie annesse. In pratica occorre essere celeri e anche un po’ fortunati che i creditori attendano. Spesso, infatti, se la composizione negoziata finisce male, i creditori perdono pazienza e potrebbero attivarsi subito per decreti ingiuntivi o istanze di fallimento. Ecco perché molti preferiscono depositare subito almeno un concordato “in bianco” per congelare la situazione e poi magari convertire il ricorso in una domanda di omologa di accordo ex art. 57 (soluzione ibrida possibile per guadagnare tempo).
Altre soluzioni possibili: oltre a quelle citate, vale la pena menzionare:
- La liquidazione volontaria societaria: l’imprenditore (società) potrebbe decidere spontaneamente di mettere in liquidazione la società nominando un proprio liquidatore, senza aspettare un fallimento. Questa soluzione, però, se c’è insolvenza, difficilmente reggerà: il liquidatore sociale dovrà poi comunque eventualmente portare i libri in tribunale se vede che non paga tutti i creditori. Dunque non è un’alternativa reale per insolvenze, ma solo per chi è in crisi reversibile o vuole cessare pagandoli tutti (non era il nostro caso).
- La liquidazione coatta amministrativa: applicabile a cooperative, banche, assicurazioni e altri enti speciali. Se la nostra impresa in crisi rientra in questi settori, il fallimento della composizione negoziata potrebbe portare l’autorità di vigilanza (es. Banca d’Italia per banche, MiSE per coop) a disporre la LCA. È una procedura concorsuale di diritto pubblico, simile per effetti al fallimento ma gestita da commissari nominati dalla PA. L’imprenditore in questi casi ha meno controllo: non è una procedura attivabile su sua domanda (tranne casi di richiesta congiunta per coop). Quindi, poco da fare se scatta: rassegnarsi alla LCA. In chiave penalistica, la LCA equivale al fallimento (stessi reati applicabili).
- L’amministrazione straordinaria per grandi imprese: se l’impresa insolvente supera certi indici dimensionali (200 dipendenti, debiti oltre €300M ecc.), potrebbe attivarsi la procedura di amministrazione straordinaria (leggi Prodi-bis o Marzano), volta a ristrutturare o liquidare le grandi imprese insolventi di rilevanza pubblica. Anche questa non è su istanza del debitore semplice, ma su decreto ministeriale. Dopo una composizione negoziata fallita, un gruppo di grandi dimensioni insolvente potrebbe passare in A.S. anziché fallire, se ricorrono i presupposti. Per l’imprenditore/direzione, l’effetto è simile a un fallimento pilotato dallo Stato, quindi qui non approfondiamo oltre perché esula dal focus PMI.
Riassumendo, se la composizione negoziata non risolve la crisi, l’imprenditore può – e deve – ricorrere a uno degli strumenti concorsuali o para-concorsuali per evitare il collasso disordinato. La Tabella 1 seguente confronta in sintesi le principali caratteristiche di queste soluzioni alternative:
Tabella 1 – Strumenti alternativi dopo l’insuccesso della composizione negoziata
Procedura/Strumento | Natura e attivazione | Ruolo dell’imprenditore | Coinvolgimento creditori | Esiti e tutele per il debitore |
---|---|---|---|---|
Liquidazione Giudiziale (fallimento) | Giudiziale liquidatorio; istanza di debitore/creditori/PM se insolvenza conclamata. | Debitore spossessato; gestione al curatore. | Creditori insinuano i crediti; nessun voto, par condicio. | Azienda chiusa; possibile esdebitazione persona fisica; reati fallimentari applicabili. |
Concordato Preventivo (continuità o liquidatorio) | Giudiziale di regolazione crisi; istanza debitore (anche “in bianco”) se crisi/insolvenza. | Debitore rimane in possesso sotto controllo (salvo liquidatore in piano liquida.); propone un piano. | Creditori votano per classi; serve maggioranza per omologa; transazione fiscale su tributari. | Può salvare l’azienda (in continuità) o liquidare con condizioni migliori (apporto 10%, pagamento ≥20%); nessun fallimento, no bancarotta; debiti stralciati non imponibili. |
Concordato “semplificato” (liquidatorio) | Giudiziale speciale; solo post-composizione fallita; istanza debitore entro 60 gg. | Debitore propone piano di liquidazione beni; nominato liquidatore giudiziale post-omologa. | Nessun voto; creditori possono opporsi; giudice omologa se nessun pregiudizio rispetto fallimento. | Liquidazione rapida sotto controllo debitore-liquidatore; niente fallimento, no voto creditori; tutela da revocatoria e reati per atti eseguiti. Creditori soddisfatti con ricavato vendita; debitore evita stigma fallimentare. |
Accordo di ristrutturazione ex art.57 CCII | Stragiudiziale con omologa; accordo con ≥60% crediti. | Debitore mantiene gestione; accordo negoziato privatamente con creditori principali. | Solo creditori aderenti vincolati; no voto formale, omologazione tribunale; misure protettive temporanee. | Impresa continua; atti esecutivi protetti da revocatoria; crediti non aderenti da pagare per intero salvo accordi. Debiti ridotti non tassati. |
Piano attestato di risanamento art.56 CCII | Stragiudiziale puro; piano con attestazione esperto e pubblicazione. | Debitore esegue il piano volontariamente con accordi individuali. | Nessun coinvolgimento coatto; accordi privati con chi aderisce; nessun giudice. | Se il piano ha successo, impresa risanata privatamente. Se fallisce dopo, atti/pagamenti eseguiti secondo piano non revocabili né penalmente rilevanti come bancarotta preferenziale. |
Liquidazione controllata (sovraindebitamento) | Giudiziale liquidatorio minori; istanza debitore non fallibile se insolvente. | Debitore spossessato; nominato liquidatore dal tribunale. | Creditori partecipano al passivo; no voto. | Simile a fallimento ma per piccoli: liquidazione patrimonio, possibile esdebitazione a fine (più rapida). |
(Legenda: transazione fiscale = possibilità di includere debiti fiscali e previdenziali con stralcio/interessi in concordato o accordo; par condicio = parità trattamento creditori; revocatoria = azione per revocare atti pregiudizievoli precedenti; stigma fallimentare = effetti negativi reputazionali/legali del fallimento.)
Come si evince dalla tabella, le opzioni variano per grado di coinvolgimento del giudice e dei creditori, ma l’obiettivo comune è regolare la crisi in modo ordinato evitando il caos derivante dal semplice fallimento delle trattative. Nel prossimo capitolo analizzeremo le responsabilità dell’imprenditore nelle diverse ipotesi sopra descritte: infatti, la scelta di come procedere (concordato, accordo, fallimento, ecc.) incide notevolmente sulle possibili azioni di responsabilità civile, penale e sugli obblighi verso il Fisco che il debitore e gli amministratori dovranno affrontare.
Responsabilità dell’imprenditore dopo l’insuccesso della composizione (profili civili, penali, tributari)
Il fallimento della composizione negoziata, di per sé, non costituisce un illecito per l’imprenditore: la legge incoraggia a tentare il risanamento e non punisce certo chi vi abbia provato senza successo. Tuttavia, l’esito negativo segna l’ingresso in una fase di crisi conclamata o insolvenza che comporta una serie di doveri legali per l’imprenditore e potenziali responsabilità in caso di inadempimento. Inoltre, a seconda del percorso successivo intrapreso (concordato, fallimento, ecc.), si attivano meccanismi di controllo che possono far emergere eventuali condotte illecite tenute prima o durante la composizione. Di seguito distinguiamo tre profili: responsabilità civilistiche verso i creditori o la società; responsabilità penali (reati fallimentari e altri reati eventualmente configurabili); e responsabilità/obblighi tributari.
Responsabilità civile e obblighi verso i creditori
Obbligo di conservazione del patrimonio e tempestività: Già durante la composizione negoziata, l’imprenditore ha il dovere (previsto dall’art. 20 CCII) di gestire l’impresa senza pregiudicare i creditori, evitando atti di straordinaria amministrazione non autorizzati e in generale astenendosi da condotte che possano aggravare il dissesto. Questo rientra in un più ampio principio di corretta gestione conservativa che grava sull’imprenditore in crisi. Se la composizione fallisce ed emerge l’insolvenza, scatta l’ulteriore obbligo (implicito negli artt. 6 e 24 CCII) di attivarsi immediatamente per una procedura concorsuale: indugiare senza motivo potrebbe configurare una colpa grave dell’imprenditore o degli amministratori, con responsabilità per aggravamento del passivo. In altri termini, l’imprenditore che, fallita la composizione, tarda indebitamente a presentare concordato o istanza di liquidazione e lascia che i debiti aumentino, potrebbe essere chiamato a rispondere dei danni causati ai creditori per il ritardo.
Azione di responsabilità per aggravamento del dissesto: Nelle società, il Codice ha rafforzato gli strumenti per colpire la mala gestio nella crisi. In particolare, l’art. 378 CCII ha modificato l’art. 2486 c.c. introducendo criteri presuntivi di quantificazione del danno a carico degli amministratori che abbiano violato il dovere di preservare il patrimonio sociale dopo il manifestarsi di una causa di scioglimento (tipicamente: perdita del capitale sociale per oltre 1/3). Se una società poi fallisce (liquidazione giudiziale), il curatore può esercitare l’azione di responsabilità verso gli amministratori per atti o omissioni che abbiano peggiorato la situazione finanziaria. E grazie alla riforma, il danno risarcibile può essere quantificato in via presuntiva come la differenza tra il patrimonio netto alla data in cui doveva essere adottata la gestione conservativa (o doveva cessare l’attività) e il patrimonio netto al momento del fallimento, oppure – se non è possibile determinare i netti patrimoniali – come l’intero deficit fallimentare (differenza tra attivo e passivo accertati). In parole semplici: se gli amministratori hanno tirato avanti l’impresa in crisi senza agire per risanarla o liquidarla, il legislatore presume che il danno corrisponda all’aggravamento del buco patrimoniale in quel periodo. Saranno loro a dover provare eventualmente che il danno è inferiore o che non vi è nesso causale.
Nel caso concreto di una composizione negoziata fallita, gli amministratori (o l’imprenditore individuale, col proprio patrimonio) potrebbero essere chiamati a rispondere se risulta che abbiano indebitamente procrastinato l’emersione della crisi o dissipato risorse nel tentativo (magari sconsiderato) di salvarsi. Ad esempio, se durante le trattative l’imprenditore ha continuato a contrarre debiti sapendo di non poterli pagare, o ha privilegiato taluni creditori a scapito di altri, e poi l’azienda fallisce, il curatore del fallimento potrà agire contro di lui per recuperare il danno arrecato alla massa.
Responsabilità verso i creditori sociali (azione dei creditori): Al di fuori del fallimento, se l’impresa non va in liquidazione giudiziale ma si trova con debiti insoddisfatti, i creditori possono tentare un’azione risarcitoria individuale verso amministratori o soci colpevoli di atti di mala gestio che abbiano leso il loro credito (ex art. 2394 c.c. per le società di capitali). Ad esempio, un creditore che vede sfumare il proprio credito perché l’amministratore ha perso tempo potrebbe sostenere che questo ritardo colposo costituisce un inadempimento del dovere legale di conservazione del patrimonio sociale, chiedendone il risarcimento. Va detto che queste azioni individuali sono spesso assorbite poi dall’azione del curatore se c’è fallimento, ma se l’impresa evita il fallimento (es. va in concordato o accordo) alcuni creditori insoddisfatti potrebbero comunque agire contro l’imprenditore per condotte anteriori.
Violazione degli obblighi informativi e di leale collaborazione: Durante la composizione negoziata, l’imprenditore è contrattualmente e legalmente obbligato a fornire all’esperto e ai creditori informazioni veritiere e complete. Se avesse occultato dati, falsificato documenti o reticenze per indurre i creditori a fare concessioni, e poi la cosa viene scoperta in sede concorsuale o giudiziale, ciò può integrare profili di responsabilità. Dal lato civile, potrebbe invalidare eventuali accordi transattivi raggiunti (per dolo) e far perdere all’imprenditore benefici (ad esempio decadenza delle misure premiali se l’esperto rileva mancanza di buona fede). Inoltre, una grave violazione dell’obbligo di lealtà potrebbe essere considerata “frode ai creditori” in sede di eventuale omologazione di concordato, portando al rigetto.
Garanzie personali e patrimonio personale: Un aspetto pratico ma rilevante è la responsabilità patrimoniale diretta dell’imprenditore o dei soci per alcuni debiti. Ad esempio, molti imprenditori hanno rilasciato fideiussioni personali alle banche per i debiti della società. Se la composizione negoziata fallisce e la società non paga le banche, queste (anche se partecipano a un concordato) spesso manterranno l’azione verso il fideiussore. Dunque l’imprenditore rischia il proprio patrimonio privato. Procedure concorsuali come il concordato non estinguono automaticamente le garanzie dei terzi se non previsto; l’accordo di ristrutturazione potrebbe includere patti sulle fideiussioni (es. esonero parziale), ma se ciò non accade, il garante ne risponde. Quindi, dalla prospettiva del titolare, fallire il risanamento può significare dover onorare personalmente alcuni debiti. Non è una responsabilità “giuridica” intesa come illecito, ma certamente un onere che discende dal diritto civile.
Conclusione parte civile: L’imprenditore dopo l’insuccesso della composizione deve agire con la massima correttezza e diligenza per evitare di incorrere in responsabilità civili. Ciò significa: evitare di tardare la richiesta di procedure concorsuali; non favorire creditori a detrimento di altri al di fuori di un quadro legale; conservare e consegnare tutta la documentazione (bilanci, conti) in ordine; collaborare con eventuali organi delle procedure (commissari, curatori) fornendo informazioni e beni; non aggravare il passivo con spese inutili o nuove obbligazioni se non strettamente necessarie e potenzialmente prededucibili. Se l’imprenditore rispetta questi criteri, difficilmente gli si potrà imputare una responsabilità civile. Diversamente, comportamenti di gestione scriteriata nel post-composizione (es. tentare manovre disperate con denaro di creditori, oppure “tirare a campare” aumentando il buco) possono generare azioni legali pesanti che, in caso di fallimento, il curatore sarà quasi obbligato a intraprendere, e in caso di concordato i creditori potranno richiedere come condizione (talvolta nei concordati si prevede esplicitamente una futura azione risarcitoria contro i precedenti amministratori a beneficio dei creditori stessi).
Profili penali (reati fallimentari e altri illeciti)
Sotto il profilo penale, il fallimento della composizione negoziata può far emergere o concretizzare diversi tipi di reati, principalmente collegati all’eventuale apertura di una procedura concorsuale. In questa sede ci concentreremo sui reati fallimentari (bancarotta fraudolenta, bancarotta semplice, preferenziale, ecc.) che potrebbero interessare l’imprenditore se l’impresa viene dichiarata in liquidazione giudiziale, nonché su alcuni reati specifici previsti nel Codice della Crisi e in leggi speciali.
Bancarotta fraudolenta e semplice: Sono i classici reati previsti dagli artt. 322-323 CCII (corrispondenti agli artt. 216-217 L.Fall.). Si realizzano in caso di fallimento (liquidazione giudiziale) quando l’imprenditore, prima o durante la procedura:
- ha distratto, occultato, dissipato o sottratto beni del patrimonio (bancarotta fraudolenta patrimoniale);
- ovvero ha esposto passività inesistenti o omesso dolosamente di indicare attività per frodare i creditori (bancarotta fraudolenta patrimoniale, condotta di falsa rappresentazione);
- ovvero ha tenuto i libri e le scritture contabili in modo da non rendere ricostruibile il patrimonio o il movimento degli affari (bancarotta fraudolenta documentale, se dolosa, o semplice se solo negligente);
- oppure, senza frode ma con colpa grave, ha aggravato il dissesto o ritardato la dichiarazione di insolvenza (bancarotta semplice, es. ha continuato ad assumere debiti manifestamente sproporzionati alle possibilità).
Se la composizione negoziata fallisce e si approda al fallimento, il curatore e il PM esamineranno attentamente la condotta dell’imprenditore negli anni e mesi precedenti. Qualsiasi atto distrattivo (es. bonifici a sé stesso o a familiari senza giusta causa), anomalia contabile (libri non aggiornati, bilanci falsificati), pagamento preferenziale a taluni creditori nel periodo sospetto (di regola l’anno prima per atti fraudolenti, 6 mesi per pagamenti preferenziali), ecc., può originare una notizia di reato. L’imprenditore rischia quindi incriminazioni per bancarotta fraudolenta (che è un reato grave, punito con pena detentiva sino a 6-10 anni) o bancarotta semplice (meno grave, pena fino a 2 anni) a seconda della natura delle violazioni. Ad esempio, se durante la composizione (in cui manteneva la gestione) ha venduto sottocosto alcuni macchinari a un amico per sottrarli ai creditori, ciò integrerà una distrazione punibile. Se ha pagato sotto banco un fornitore mentre gli altri restavano a secco, configurerebbe una bancarotta preferenziale se poi fallisce.
Esenzioni penali “scudo” durante la composizione: C’è però un aspetto importante: il legislatore, nel promuovere la composizione negoziata, ha introdotto un “scudo penale” per certi atti compiuti in funzione del risanamento. In particolare, l’art. 324 CCII (Esenzioni dai reati di bancarotta) dispone che non sono punibili come bancarotta gli atti, i pagamenti e le garanzie legalmente autorizzati dal giudice o compiuti in esecuzione di un concordato preventivo omologato, di un accordo di ristrutturazione omologato o di un piano attestato pubblicato. Nel contesto della composizione negoziata, questo significa:
- Se l’imprenditore, su autorizzazione del tribunale durante le trattative, ha ottenuto un finanziamento prededucibile o ha ceduto l’azienda in continuità a un terzo (operazioni possibili ex art. 22 CCII), tali atti non potranno costituire bancarotta fraudolenta o preferenziale successivamente. La legge infatti li considera leciti e li esenta: ad esempio, la vendita dell’azienda autorizzata anche se fatta a prezzo basso (ma funzionale alla continuità) non è distrazione punibile, e il pagamento dei fornitori strategici effettuato con l’avallo del giudice non è bancarotta preferenziale.
- Se la composizione ha condotto a un accordo controfirmato dall’esperto ex art. 23 co.1 lett. c) CCII (il famoso accordo con effetti di piano attestato), i pagamenti ivi previsti ed eseguiti sono parimenti esenti da bancarotta preferenziale. Il ragionamento è: lo Stato premia chi ha seguito le regole e ha tentato il risanamento in buona fede, dunque non punirà come reati fallimentari gli atti coerenti con quel tentativo.
- Se poi l’impresa va in concordato preventivo invece del fallimento, come già detto, la bancarotta non si pone perché manca il fallimento. Caso diverso: se va in concordato e poi per qualche ragione il concordato fallisce e sfocia in fallimento (ipotesi remota ma possibile se il concordato viene revocato), allora valgono in gran parte le stesse esenzioni ex art. 324: i fatti compiuti durante l’esecuzione del concordato omologato non sono punibili (concetto di bancarotta concordataria, art. 341 CCII).
Riassumendo, l’imprenditore che abbia operato lecitamente durante la composizione negoziata – attenendosi a quanto consentito dall’esperto e dal tribunale – ha uno scudo penale per quelle condotte. Invece, comportamenti occulti o non consentiti restano a rischio di sanzione. Ad esempio:
- L’esperto non autorizza e il tribunale non è coinvolto, ma l’imprenditore decide da solo di pagare un creditore fuori dalla trattativa: se poi fallisce, quel pagamento potrebbe costargli un’accusa di bancarotta preferenziale (avendo favorito un creditore a detrimento degli altri).
- Oppure l’imprenditore durante la composizione sottrae merce dal magazzino e la porta a casa: nessuna autorizzazione ovviamente, e se fallisce sarà bancarotta fraudolenta patrimoniale.
Reato di ricorso abusivo al credito: Altro reato tipico nelle crisi è il ricorso abusivo al credito (art. 325 CCII, ex art. 218 L.Fall.). Si configura quando l’imprenditore insolvente continua a ottenere crediti (prestiti, forniture) pur sapendo di non poterli onorare, aggravando il dissesto. Se dopo la composizione fallita emergono situazioni in cui l’imprenditore ha, ad esempio, ordinato merce a fornitori tacendo la sua disperata situazione o ottenuto finanziamenti con artifizi, ciò potrebbe integrare tale reato (punito con la bancarotta semplice). Anche in assenza di artifizi, la persistenza nell’indebitarsi sapendo di essere insolventi può costituire bancarotta semplice per aggravamento.
Falsità e altri reati societari: La fase di composizione negoziata è caratterizzata da una valutazione della situazione aziendale. Se l’imprenditore ha redatto bilanci falsi negli anni precedenti per coprire le perdite, la scoperta successiva (magari da parte dell’esperto o del curatore) può portare a denunce per false comunicazioni sociali (il “falso in bilancio”), reato societario rilevante per gli amministratori di società. Anche ostacolo alla vigilanza (se è un ente vigilato) o omessa tenuta delle scritture contabili possono emergere: ad esempio, se i libri non si trovano e l’esperto lo segnala, e poi la società fallisce, l’amministratore potrà essere imputato di bancarotta documentale.
Responsabilità penale per reati tributari: Da non dimenticare, indipendentemente dal fallimento, vi sono reati tributari (D.lgs. 74/2000) che spesso si manifestano nelle crisi: ad esempio omesso versamento IVA (art. 10-ter) se supera €250.000, omesso versamento ritenute > €150.000 (art. 10-bis), dichiarazione fraudolenta se hanno usato fatture false, etc. La composizione negoziata fallita in sé non estingue tali reati se già integrati (l’imprenditore rimane perseguibile per l’IVA non versata o le ritenute non versate negli anni di crisi). Tuttavia, la normativa prevede cause di non punibilità qualora i debiti tributari relativi vengano poi estinti prima del dibattimento. Ad esempio, se nel concordato l’imprenditore paga integralmente l’IVA dovuta, non incorrerà nel reato. Se invece l’azienda fallisce, l’imprenditore non può più sanare e quei reati faranno il loro corso. Quindi, il fallimento della composizione negoziata che esita in un fallimento giudiziale peggiora anche la posizione dell’imprenditore riguardo a reati tributari: in un concordato o accordo avrebbe potuto trattare le pendenze tributarie e magari evitare conseguenze penali (il Codice della Crisi consente nei concordati con continuità di falcidiare anche l’IVA con transazione fiscale omologata, il che estingue il debito e di riflesso esclude il reato). Nel fallimento, quell’IVA non pagata rimane insoluta e quindi il reato risulta integrato.
Ricapitolando sul penale: L’imprenditore, se la sua impresa viene poi dichiarata insolvente e assoggettata a procedura concorsuale, rischia di rispondere penalmente di tutte le irregolarità pregresse (durante e prima della composizione) che abbiano danneggiato i creditori o alterato la par condicio. Il fallimento in sé è il fattore scatenante per l’azione penale di bancarotta. Viceversa, se riesce a evitare il fallimento attraverso concordato o accordo, si salva dalla bancarotta – non c’è dichiarazione di insolvenza giudiziale, dunque i reati di bancarotta non si materializzano. Questo spiega perché spesso gli amministratori hanno un forte incentivo personale a cercare un concordato: è anche per mettere in sicurezza se stessi da possibili accuse penali (fermo restando che condotte fraudolente gravissime possono trovare altri sbocchi, ma in genere no). Ad ogni modo, il legislatore ha voluto incoraggiare comportamenti virtuosi durante la composizione negoziata garantendo quell’esenzione: gli atti autorizzati o conseguenti a un serio tentativo di risanamento non saranno puniti come bancarotta. Questa è una rassicurazione per l’imprenditore onesto: ad esempio, non deve temere di essere incriminato per aver acceso un finanziamento prededucibile in composizione che poi non è riuscito a restituire – la legge esclude la bancarotta per quel mancato pagamento.
Un ultimo punto: se la composizione negoziata fallisce per colpa grave del debitore (ad es. non ha collaborato, ha aggravato la crisi), l’esperto lo evidenzierà nella relazione finale. Tale relazione potrebbe essere messa a disposizione del tribunale fallimentare o del PM (soprattutto se l’esperto ravvisa situazioni di possibili reati, ha un obbligo morale e talora legale di segnalarle). Quindi, paradossalmente, la stessa procedura negoziata può portare alla luce condotte penalmente rilevanti. Ad esempio, l’esperto scopre che mancano all’appello beni inventariati: lo scriverà e, a fallimento dichiarato, il curatore avrà già un filo da seguire per la bancarotta distrattiva. Pertanto, l’imprenditore deve vivere la composizione negoziata come un momento di massima trasparenza: nascondere le magagne in questa fase è difficile e, se scoperto, peggiora le conseguenze.
In conclusione, per ridurre il rischio penale l’imprenditore dovrebbe:
- attenersi scrupolosamente alle regole e autorizzazioni durante la composizione;
- evitare qualunque atto occulto di favore verso se stesso o terzi una volta che la situazione è compromessa;
- tenere contabilità ordinata e consegnarla regolarmente;
- se possibile, far sì che la crisi sia risolta con concordato/accordo, evitando la dichiarazione di insolvenza giudiziale;
- adempiere (per quanto fattibile) agli obblighi fiscali cruciali durante la crisi per non incorrere in reati tributari; oppure gestire la crisi in modo da includerli in una transazione fiscale.
Obblighi e riflessi tributari (IVA, perdite, continuità aziendale, ecc.)
Il fallimento della composizione negoziata comporta anche diverse conseguenze sul piano fiscale per l’impresa e per l’imprenditore. Molte di queste conseguenze le abbiamo accennate trattando delle procedure specifiche; qui le riassumiamo e integriamo in un quadro unitario, toccando:
- gli effetti sui crediti e debiti tributari dell’impresa in crisi;
- la questione della deducibilità delle perdite e la valutazione della continuità aziendale ai fini fiscali;
- la decadenza o il mantenimento delle misure premiali fiscali connesse alla composizione negoziata;
- eventuali responsabilità tributarie personali dell’imprenditore.
Crediti IVA e imposte a credito: Se l’impresa, al momento dell’insuccesso della composizione, presenta un credito IVA (ad esempio perché ha maturato più IVA a credito che a debito), la strada che si aprirà influenzerà l’utilizzo di tale credito:
- In caso di liquidazione giudiziale, il credito IVA diventa parte dell’attivo fallimentare. Sarà il curatore a subentrare e a poter chiedere il rimborso all’Agenzia delle Entrate, poi distribuendolo ai creditori. Quindi l’imprenditore di per sé perde la disponibilità di quel credito (non può più usarlo per compensare propri debiti), ma almeno esso va ad alimentare la massa a vantaggio dei creditori. Nella pratica, se c’è un credito IVA rilevante, il curatore farà istanza di rimborso; i tempi possono essere lunghi ma prima o poi l’Erario lo restituisce (in prededuzione, poi si distribuisce).
- In caso di concordato preventivo in continuità, la società continua ad esistere e può mantenere il suo credito IVA per usarlo in compensazione con debiti IVA futuri o chiederne rimborso al termine di ogni anno. Dunque il credito IVA è un’attività disponibile per far fronte anche ai pagamenti proposti nel piano. Spesso, nei concordati, si prevede l’utilizzo dei crediti fiscali come risorsa finanziaria del piano (ad esempio: “useremo il credito IVA di €50k per pagare parzialmente l’Erario”). Da notare: se nel concordato l’IVA dovuta viene falcidiata, il credito IVA eventualmente esistente potrebbe essere parzialmente compensato d’ufficio con quell’IVA dovuta in riduzione, a seconda di come l’Agenzia Entrate gestisce la transazione fiscale (di solito, nel calcolo della soddisfazione Erario, si tiene conto di eventuali crediti in compensazione).
- In caso di accordo di ristrutturazione o piano attestato, l’impresa rimane in bonis e mantiene i suoi crediti tributari. Potrà quindi portarli avanti secondo le regole ordinarie. Ad esempio, se aveva un credito IVA, può compensarlo con contributi o imposte future. Non ci sono decadimenti automatici, a patto che continui l’attività.
- In caso di liquidazione controllata (per imprenditore minore), il liquidatore nominato nella procedura potrà similmente chiedere rimborso del credito IVA e usarlo per pagare i creditori concorsuali.
Debiti tributari e contributivi: Innanzitutto, la composizione negoziata offriva al debitore alcuni vantaggi temporanei:
- Interessi ridotti al tasso legale sui debiti tributari durante la composizione (art. 25-bis CCII): ciò significava che, dall’accettazione dell’incarico dell’esperto fino alla conclusione delle trattative, i debiti fiscali maturavano interessi minori rispetto al normale. Questo beneficio però viene meno se la procedura si conclude senza un esito positivo omologato. Infatti, la legge dice che la riduzione degli interessi si annulla retroattivamente se dopo la composizione si apre la liquidazione giudiziale o controllata, oppure si accerta lo stato d’insolvenza. Ciò implica che l’Erario ricalcolerà gli interessi come se non ci fosse stata la parentesi di tasso legale e pretenderà la differenza. Esempio: durante i 6 mesi di composizione, invece del 4% annuo di interessi per ritardata iscrizione a ruolo, i debiti fiscali maturavano allo 0,5% (ipotizziamo tasso legale), grazie alla premialità. Se l’azienda poi fallisce, quei 6 mesi di interessi verranno ricalcolati al tasso pieno e aggiunti al passivo. In pratica il vantaggio si riduce al differenziale di interessi solo nel caso in cui poi la crisi si risolve in bonis; se finisce male, quell’“omaggio” di interessi si perde.
- Sanzioni ridotte su tributi: un’altra misura premiale era la riduzione al 50% di alcune sanzioni tributarie se la composizione aveva esito positivo (con accordo ex art. 23 CCII) – ad esempio, per violazioni IVA e ritenute non versate dichiarate. Tali riduzioni spettano solo se la composizione si conclude con uno degli strumenti di regolazione previsti (accordo idoneo a garantire continuità almeno due anni, convenzione, omologa accordo). In assenza di ciò (esito negativo), il debitore non ottiene alcun sconto sulle sanzioni e anzi, se interviene fallimento, le sanzioni tributarie concorsuali (che in fallimento sono chirografarie postergate) rimangono dovute e semplicemente verranno pagate solo se avanza qualcosa dopo aver soddisfatto tutti i creditori di grado superiore. In concordato, di solito le sanzioni sono falcidiate come i crediti chirografari e l’Erario accetta di stralciarle tramite transazione fiscale (in quanto le sanzioni possono essere ridotte senza particolari limiti).
- Transazione fiscale e contributiva mancata: Nella composizione negoziata non c’è omologa giudiziale, quindi non esiste formalmente una “transazione fiscale” omologata. Se la composizione sfocia in concordato o accordo, in quelle sedi il debitore può includere un accordo con il Fisco: ad esempio, proporre di pagare solo il 30% di IVA e azzerare sanzioni, cosa possibile se il concordato è liquidatorio (ora è ammesso purché i creditori chirografari non fiscali non abbiano trattamento migliore dei fiscali) o in continuità. Se invece si finisce in fallimento, ogni debito fiscale segue il suo corso: l’IVA, come detto, è un credito privilegiato di grado inferiore (chirografo privilegiato), altre imposte chirografarie. Lo Stato prenderà solo quello che il curatore riuscirà a distribuire (spesso poco o nulla ai chirografari). Le sanzioni non sono esigibili (non prendono nulla perché postergate). Tuttavia, attenzione: questo non esime l’imprenditore persona fisica da possibili implicazioni post-fallimentari. Ad esempio, le sanzioni fiscali amministrative per l’imprenditore individuale non si estinguono con il fallimento: formalmente restano a carico suo, anche se non soddisfatte (ma di fatto irrecuperabili se era persona fisica). Invece, se la persona è giuridica, con l’estinzione società anche le sanzioni muoiono (salvo responsabilità personale di amministratori in caso di frodi, che però è un altro discorso).
- IVA su crediti inesigibili dei fornitori: Un riflesso fiscale indiretto: quando un’azienda fallisce, i suoi fornitori che non hanno incassato possono emettere nota di variazione IVA e recuperare l’IVA sulle fatture non pagate (ex art. 26 DPR 633/72). Questo non impatta l’imprenditore fallito direttamente (è un diritto dei creditori), ma è parte del quadro: i fornitori, se vedevano la composizione fallire e aprirsi il fallimento, almeno possono rifarsi dell’IVA. Se invece l’azienda avesse fatto un concordato pagando magari anche parzialmente i fornitori, i fornitori recuperano IVA solo sulla parte non incassata (ma in concordato l’art. 26 consente la nota di variazione al momento in cui l’accordo diviene definitivo). Nulla di direttamente oneroso per il debitore, ma menzioniamo per completezza.
Perdite d’esercizio e continuità aziendale: La fine della composizione negoziata implica spesso il venir meno della continuità aziendale. Ciò ha effetti contabili e fiscali:
- Sul piano contabile, se l’impresa entra in liquidazione (fallimentare o volontaria), i bilanci vanno redatti non più in ottica going concern, ma in ottica di realizzo. Questo di per sé non è un fatto fiscale, ma influenza la valutazione di attivi e passivi. Ad esempio, crediti che prima erano iscritti a valore nominale, in liquidazione vengono svalutati a valore di presunto realizzo. Queste svalutazioni generano perdite contabilì che possono essere dedotte fiscalmente, in genere, se rispettano i criteri del TUIR (es. perdite su crediti deducibili se debitore in procedura concorsuale – e qui sì, se l’azienda è in fallimento, i creditori deducono i loro crediti inesigibili).
- Per la società debitrice fallita, la questione delle perdite fiscali pregresse è spesso accademica, perché la società verrà estinta. Tuttavia, se invece l’azienda prosegue (concordato in continuità), mantiene le sue posizioni fiscali: quindi potrà usufruire delle perdite pregresse come da regole ordinarie (in Italia le perdite sono riportabili illimitatamente ma solo entro l’80% del reddito imponibile annuo, salvo primi €5 milioni integrali). Attenzione: se c’è un cambio di proprietà o attività, le perdite potrebbero decadere per norme anti-elusive (art. 172 TUIR in caso di fusioni, ecc.). Comunque, un vantaggio di evitare il fallimento è anche poter utilizzare le perdite a fini fiscali in futuro. Laddove, invece, in caso di liquidazione giudiziale, quelle perdite in dichiarazione finale del fallito rimangono inutilizzate (salvo rarissimo caso di prosecuzione attività da altro soggetto con affitto d’azienda).
- Deduzione delle perdite su crediti per i creditori: Un altro riflesso: se la composizione negoziata fallisce e l’azienda viene liquidata, i creditori dell’azienda (es. fornitori) potranno dedurre fiscalmente le perdite su crediti corrispondenti ai crediti rimasti insoluti, poiché l’apertura di una procedura concorsuale è uno dei eventi che consentono la deducibilità immediata (art. 101 TUIR). Se invece ci fosse stato un semplice accordo stragiudiziale non omologato, alcuni creditori in passato faticavano a dedurre lo stralcio se non dimostravano l’irrecuperabilità. Col codice attuale e le ultime norme, anche un accordo ex 57 CCII omologato consente deducibilità (equiparato a procedura concorsuale), e un piano attestato pubblicato pure dà evidenza dell’insolvenza, quindi in genere i creditori possono dedurre. Comunque, è un aspetto dal lato creditori, ma che indirettamente facilita la chiusura di accordi: i creditori sanno che se accettano uno stralcio in concorsuale, la parte che non incassano la portano a perdita deducibile. Questo può renderli più disponibili durante un concordato ad esempio.
Responsabilità fiscale personale dell’imprenditore: In linea generale, il socio o amministratore di società non risponde personalmente dei debiti tributari sociali (principio di personalità tributaria). Ci sono eccezioni: ad esempio, negli ultimi anni l’Agenzia delle Entrate ha talvolta contestato a amministratori di fatto o soci che hanno distratto attivi la responsabilità per il mancato pagamento di imposte in caso di condotte fraudolente (ma si tratta più di revocatoria fiscale o di sequestro per reati tributari che di obbligazione tributaria diretta). Per l’imprenditore individuale, naturalmente, egli è unico soggetto giuridico, dunque se resta un debito IVA nel fallimento non pagato, dopo la chiusura (e l’esdebitazione esclude i debiti tributari? La legge 3/2012 escludeva alcune categorie dal beneficio, ma la CCII li include tra i debiti perdonabili ad eccezione di quelli per risarcimenti danni e alimentari mi pare; per sicurezza, l’esdebitazione ex art. 278 CCII esclude le sole obbligazioni di mantenimento, alimentari, da illecito nonché le multe e sanzioni pecuniarie penali, non menziona i tributi, quindi anche i tributi residui vengono esdebitati a favore del fallito persona fisica, confermando la tendenza a dare fresh start completo anche su debiti fiscali). Dunque l’imprenditore persona fisica può sperare, con l’esdebitazione, di liberarsi anche dei debiti fiscali non soddisfatti nel fallimento (cosa prima non chiarissima, ma sembra di sì col CCII). Invece, se va in concordato e non paga per intero i tributi, l’omologa del concordato li taglia e chiude la partita (nessuna rivalsa futura).
Tuttavia, come menzionato, il profilo penale tributario resta: se ha omesso di versare IVA > soglia e poi paga solo una parte in concordato, penalmente è perseguibile a meno che non rientri nella causa di non punibilità (che di solito richiede pagamento integrale del dovuto prima del processo). E il concordato con stralcio IVA non è considerato pagamento integrale spontaneo, quindi c’è dibattito se estingue il reato: attualmente la Cassazione ha posizioni controverse su se l’omologa transazione fiscale estingua o meno il reato di omesso versamento IVA. Una risposta 201/2022 dell’Agenzia Entrate sostiene che la detassazione delle sopravvenienze non incide sul reato; penalmente, alcune sentenze hanno ritenuto che l’accordo col fisco in sede concorsuale non esonera il contribuente da responsabilità penale pregressa (perché il reato di omesso versamento si consuma al momento del mancato versamento, successivi eventi non lo cancellano, a meno del pagamento integrale). Quindi, in pratica, se la composizione fallisce e uno va in concordato liquidatorio tagliando IVA, quell’imprenditore rischia comunque la condanna per omesso versamento IVA per l’anno X. Paradossale, ma vero. Mentre se avesse pagato integralmente l’IVA nel concordato (magari tagliando solo interessi e sanzioni), eviterebbe la condanna.
In conclusione, i riflessi fiscali della composizione negoziata fallita si riassumono così:
- Si perdono i benefici fiscali “premiali” (interessi ridotti, sconti sanzioni) perché non c’è conclusione positiva.
- Se segue liquidazione concorsuale, i crediti fiscali dell’impresa diventano attivo fallimentare e i debiti fiscali diventano passivo; il fisco parteciperà come creditore privilegiato o chirografo, recuperando in base alla liquidazione attivo. L’imprenditore esce (se persona fisica) con possibili debiti residuali verso il fisco ma probabilmente esdebitabili (salvo sanzioni penali).
- Se segue concordato o accordo, l’Erario può essere coinvolto in una transazione: i debiti tributari possono essere ridotti secondo legge e l’omologa li cristallizza; l’impresa prosegue liberata in parte dal fisco; l’imprenditore però resta esposto a eventuali reati tributari per la parte non versata originariamente (omessi versamenti).
- Per i creditori dell’impresa, il fallimento consente di recuperare l’IVA dei crediti inesigibili e dedurre le perdite; il concordato pure consente deduzione e note IVA a omologa (grazie all’art. 26 DPR 633/72 modificato nel 2021 che permette nota di variazione IVA già all’omologa del concordato, senza attendere pagamento).
- La continuità aziendale incerta influisce sulle valutazioni fiscali: un’impresa “going concern” può ad esempio mantenere la deducibilità piena degli ammortamenti, mentre se cessa anticipa il realizzo delle plusvalenze latenti (in concordato liquidatorio o fallimento, la vendita dei beni genera plus/minusvalenze tassate diversamente: nel fallimento le plusvalenze confluiscono nel reddito della massa, di solito il curatore dovrà fare una dichiarazione fiscale per il cosiddetto “maxi-periodo” fallimentare, anche se spesso l’imponibile è zero per perdite).
In definitiva, dal punto di vista fiscale l’imprenditore dovrebbe preferire, se possibile, soluzioni che mantengano l’operatività e l’integrità aziendale (concordati in continuità) perché ciò permette di conservare attivi fiscali (crediti, perdite) e di modulare il pagamento dei debiti fiscali con eventuali sconti. Il fallimento, invece, risolve “manu militari” la questione fiscale: l’Erario prende il suo dividendo e per il resto addio – il che può sembrare vantaggioso (lo Stato non può più pretendere nulla da una società estinta), ma come visto per l’imprenditore persona fisica alcuni aspetti penali restano, e comunque la perdita dell’azienda è la conseguenza più grave.
Domande frequenti (FAQ) su composizione negoziata fallita e scenari successivi
D1. Se la composizione negoziata fallisce, sono obbligato a portare i libri in tribunale e chiedere il fallimento della mia impresa?
R1. Non automaticamente – ma se l’impresa si trova in stato di insolvenza, vi è in capo all’imprenditore (o agli amministratori) il dovere legale di attivarsi tempestivamente per una procedura concorsuale. Ciò non significa sempre e solo chiedere la liquidazione giudiziale (fallimento); anzi, la legge gli consente di presentare una domanda di concordato preventivo oppure di trovare un accordo di ristrutturazione omologato entro pochi mesi. Tuttavia, qualora nessuna di queste soluzioni sia percorribile e l’impresa sia insolvente, sì, è dovere del debitore (specie se società) richiedere l’apertura della liquidazione giudiziale. Non farlo, attendendo magari l’initiative dei creditori, espone gli amministratori a responsabilità per aggravamento del dissesto. In pratica: conclusa senza esito la composizione, l’imprenditore deve scegliere immediatamente un’alternativa (concordato, accordo o liquidazione) e depositare il relativo ricorso. La legge (art. 24 CCII) non fissa un termine rigido, ma richiede la massima celerità. Dunque non esiste un automatismo per cui fallita la composizione scatta subito il fallimento, ma è come se scattasse un “semaforo rosso”: o imbocchi un’altra strada di salvataggio, o il fallimento sarà l’esito inevitabile, magari su istanza altrui. Il Tribunale terrà conto del comportamento del debitore: se questi non ha chiesto nulla e lascia passare il tempo, sarà più incline a dichiarare il fallimento su istanza dei creditori.
D2. Posso richiedere un’altra composizione negoziata dopo che la prima è fallita?
R2. In linea teorica, la normativa non vieta espressamente una seconda composizione negoziata, ma nella pratica ciò è altamente improbabile e sconsigliabile. La piattaforma di composizione negoziata accetterebbe una nuova istanza solo se l’imprenditore può dimostrare il sopravvenire di elementi nuovi che rendano plausibile un risanamento prima non raggiunto. Considera che la nomina di un esperto è subordinata a criteri di meritevolezza e prospettive di risanamento: se un primo tentativo è fallito perché non c’erano soluzioni, difficilmente se ne aprirà un secondo a breve termine salvo mutamenti radicali (es. arrivo di un investitore esterno non disponibile prima). Inoltre, all’atto pratico c’è il tempo: la composizione dura max 12 mesi (6+6), dopo i quali i creditori non staranno fermi ad aspettare un nuovo giro di giostra. Più realistica è la sequenza: composizione negoziata fallita → altra procedura concorsuale (es. concordato) oppure liquidazione. Va anche aggiunto che un abuso dell’istituto (richieste reiterate solo per perdere tempo) potrebbe essere censurato dal Tribunale, che può negare misure protettive se ritiene la domanda strumentale. Quindi, salvo circostanze eccezionali, no, non si fa una “seconda composizione”: bisogna passare ad altro.
D3. Durante la composizione negoziata mi ero fatto autorizzare dal Tribunale a contrarre un finanziamento in prededuzione e a vendere un ramo d’azienda. Ora la procedura è fallita e temo che nel fallimento questi atti mi siano contestati: corro rischi di azioni revocatorie o penali?
R3. In linea di massima no, non corri rischi su quegli atti autorizzati. La legge infatti prevede che tutti gli atti compiuti con l’autorizzazione del Tribunale durante la composizione negoziata conservano i loro effetti anche se successivamente si apre il fallimento (liquidazione giudiziale). Inoltre, tali atti non integrano reati di bancarotta. Ciò significa che:
- Il finanziamento prededucibile che hai ottenuto e magari non hai potuto restituire per il fallimento: il curatore lo dovrà pagare con priorità (prededuzione) prima di altri debiti; nessuno potrà revocarlo o invalidarlo. Non sarà considerato un danno ai creditori, anzi la legge lo tutela per incoraggiare banche a finanziare chi tenta il risanamento. Ovviamente, se hai usato quei soldi in modo lecito (pagare dipendenti, materie prime etc.), nulla ti sarà imputato. Se li avessi distratti a fini personali, quello sarebbe un abuso fuori dal perimetro dell’autorizzazione e potrebbe costituire reato a parte.
- La vendita del ramo d’azienda autorizzata in composizione: non è soggetta a revocatoria fallimentare (perché considerata atto lecito e opportuno per la continuità). Il compratore dunque conserva il ramo acquistato. Neanche tu verrai accusato di aver depauperato l’azienda, essendo stata una vendita approvata dal giudice in funzione di salvaguardia dei creditori. L’unica eccezione sarebbe se emergesse che la vendita era truffaldina (es. simulata a prezzo fittizio in conflitto d’interessi non dichiarato); in tal caso potrebbero profilarsi reati comuni (truffa, falso) ma non la bancarotta in sé su quell’atto.
- In sintesi, la presenza dell’autorizzazione giudiziale funge da “vaccino” contro azioni e sanzioni. L’art. 22 CCII richiede che il giudice abbia valutato la funzionalità dell’atto alla continuità e al miglior soddisfacimento dei creditori: avendolo fatto, quell’atto ora è blindato. Quindi dormi relativamente tranquillo su quel fronte.
D4. Cosa succede alle misure protettive (blocco dei creditori) ottenute durante la composizione, se questa si chiude senza accordo?
R4. Le misure protettive – tipicamente il divieto per i creditori di iniziare o proseguire azioni esecutive e di acquisire privilegi sui beni del debitore – decadono automaticamente alla conclusione della composizione negoziata, salvo che nel frattempo il debitore abbia depositato una domanda di concordato preventivo o di altra procedura che le mantenga attive (nel qual caso proseguono sotto l’egida di quella procedura). In pratica:
- Se al momento della chiusura della composizione non hai presentato alcuna domanda di concordato/omologa accordo, allora dalla data di archiviazione (pubblicazione della relazione finale negativa) i creditori riacquistano piena libertà di azione. Possono notificarti decreti ingiuntivi, riattivare pignoramenti che erano sospesi, iscrivere ipoteche giudiziali se hanno sentenze (se il divieto di ipoteche era stato emanato, decade pure quello). Quindi il tuo “scudo” protettivo scompare.
- Se invece depositi immediatamente un ricorso per concordato preventivo con riserva o un accordo di ristrutturazione, puoi chiedere al Tribunale di concedere la continuazione o la rinnovazione delle misure protettive senza soluzione di continuità. La legge prevede infatti che, in caso di domande concorrenti, il tribunale esamini prima quelle diverse dal fallimento e può estendere le protezioni. Ad esempio: hai ottenuto lo stay per 120 giorni in composizione, al giorno 100 presenti un concordato in bianco; il giudice della composizione può prorogare le misure giusto fino al subentro di quelle previste nel concordato, evitando vuoti. Ma sono tecnicalità.
In sostanza, se la composizione finisce e non fai nulla, i creditori possono subito aggredire. Questo è uno dei motivi per cui è cruciale pianificare prima: molti depositano un ricorso “prenotativo” di concordato pochi giorni prima che scada il termine finale della composizione, proprio per non restare scoperti. - Nota: se un creditore aveva iniziato un pignoramento prima della composizione e l’aveva sospeso per via del tuo stay, quando lo stay decade può riprenderlo dal punto in cui era (non deve ricominciare da capo). Quindi potrebbero esserci effetti immediati (es. vendite già fissate che ripartono).
D5. L’imprenditore rischia sanzioni o pene perché la composizione negoziata non è riuscita?
R5. Il semplice fatto che la composizione negoziata non abbia portato a un accordo non è in sé sanzionato. Non esiste “reato di fallita composizione” né multe per chi non riesce nel risanamento. Le uniche sanzioni eventualmente applicabili sarebbero indirette: ad esempio, la decadenza dai benefici premiali (come detto, se la composizione non produce esito, perdi lo sconto interessi e sanzioni fiscali, ma quella non è propriamente una sanzione, è la cessazione di un beneficio). Tuttavia, attenzione: se l’insuccesso è dipeso da atti o omissioni colpevoli dell’imprenditore, questi atti/omissioni potrebbero costituire violazioni di obblighi legali e dar luogo a conseguenze. Per esempio:
- Se durante la composizione l’imprenditore ha nascosto deliberatamente informazioni, sviando le trattative, e ciò ha portato al fallimento delle stesse, i creditori potrebbero far valere civilmente di essere stati danneggiati dalla condotta (ma è scenario raro, dovrebbero provare nesso causale fra reticenza e danno).
- Oppure, come dicevamo, se l’imprenditore commette reati (tipo distrae soldi) durante la composizione, a quel punto di certo verrà perseguito, ma per il reato in sé, non per aver fallito la composizione.
In conclusione, non vieni punito perché non hai trovato l’accordo, ma potresti subire le normali conseguenze di legge di una crisi non risolta: fallimento (con relative possibili accuse di bancarotta se emergono illeciti passati) e azioni di responsabilità dai creditori. Pensiamo al caso di un concordato semplificato non omologato: la legge non punisce il debitore perché il giudice non l’ha omologato, però a quel punto verrà dichiarato fallito e se aveva compiuto atti in frode (la ragione magari del diniego di omologa) ne risponderà come bancarotta fraudolenta. In sintesi: nessuna pena per l’insuccesso in sé, ma attenzione ai comportamenti scorretti connessi.
D6. Dopo il fallimento della composizione, la mia azienda va in liquidazione giudiziale. Potrò avviare una nuova attività d’impresa in futuro o sarò interdetto?
R6. Se sei un imprenditore individuale dichiarato fallito (liquidazione giudiziale), durante la procedura subirai alcune incapacità personali (es. non puoi ricoprire cariche di amministratore in società, sei sospeso dall’albo se sei professionista, non puoi avere procura generale, ecc.). Queste interdizioni però cessano con la chiusura della procedura (o anche prima, se ottieni l’esdebitazione). Il CCII, rispetto alla vecchia legge, ha alleggerito molto queste conseguenze: ad esempio, il vecchio divieto di intraprendere una nuova attività commerciale senza autorizzazione per tutta la procedura ora mi pare non sia più previsto in modo stringente, ma permane il fatto che il fallito non ha la disponibilità del patrimonio, per cui iniziare un’altra attività è di fatto complicato finché il fallimento è aperto. Dopo la chiusura, comunque, puoi tornare a fare l’imprenditore. Anzi, l’istituto dell’esdebitazione post-fallimentare mira proprio a darti la chance di ripartire pulito dai debiti pregressi. Tieni presente però un fatto: se mai dovessi fallire di nuovo, il tribunale considererà se sei incapace cronico o se c’è frode. Non c’è un divieto legale di “secondo fallimento”, ma chiaramente le circostanze contano (e per certi reati, recidiva aggraverebbe).
Se invece sei un amministratore/socio di società fallita, tu personalmente non sei fallito (lo è la società), quindi nulla ti vieta di avviare un’altra impresa immediatamente. Attenzione però: per alcune attività regolamentate (es. appalti pubblici, settore finanziario) il fatto di essere stato amministratore di società fallita può avere implicazioni (ad esempio, le centrali rischi bancarie segnalano i nominativi dei fallimenti, e potresti avere difficoltà ad ottenere credito; oppure per partecipare a gare pubbliche spesso si chiede dichiarazione di non aver causato dissesti precedenti). Dal punto di vista strettamente giuridico, una volta chiusa la procedura, anche come ex amministratore hai campo libero. Durante la procedura potresti incorrere in interdizione dai pubblici uffici se condannato per bancarotta fraudolenta, ma sono eventualità penali specifiche. In generale: non c’è ergastolo dei falliti nel nostro ordinamento economico, si può ricominciare. Il Codice anzi incoraggia a dare una “seconda opportunità agli imprenditori onesti”.
D7. Quali sono le conseguenze fiscali se la mia impresa esce dalla composizione negoziata senza accordo e poi chiude l’attività?
R7. Le principali conseguenze sul piano fiscale sono:
- Decadenza delle misure premiali fiscali: gli eventuali benefici di legge di cui avevi usufruito durante la composizione (interessi ridotti sui debiti tributari, sospensione di alcune sanzioni) vengono meno se non c’è un esito positivo. Quindi, ad esempio, i debiti tributari torneranno a maturare interessi al tasso ordinario per il periodo delle trattative, e dovrai corrispondere la differenza all’Erario (nei limiti in cui i crediti fiscali verranno pagati).
- Trattamento dei debiti fiscali e contributivi nella procedura successiva: se finisci in liquidazione giudiziale, i debiti verso il fisco/contributi diventeranno crediti concorrenti. L’Erario si insinuerà al passivo e verrà soddisfatto in base alle regole: IVA e ritenute come crediti privilegiati di grado generale (di solito prendono qualcosa dopo i privilegiati sul particolare, se c’è attivo; spesso in PMI arriva poco al fisco alla fine), imposte dirette perlopiù chirografarie (che in fallimento spesso rimangono insoddisfatte), sanzioni postergate (praticamente non pagate). Se invece fai un concordato o accordo, lì definirai quanto paghi al fisco: potresti dover pagare almeno il 100% di IVA/ritenute (a meno che il concordato sia liquidatorio, ora la legge consente di degradare IVA al chirografo per la parte incapiente, ma comunque devi offrire ai chirografari almeno il 20%, e quell’offerta varrebbe anche per l’IVA se degrade).
- Crediti fiscali dell’azienda: eventuali crediti d’imposta (es. credito IVA) potrai usarli solo se l’azienda prosegue. Se chiudi e liquidi, come detto, il curatore/liquidatore cercherà di monetizzarli. Tu personalmente non puoi compensarli con tuoi debiti personali, ovviamente. Quindi quel valore fiscale andrà disperso a meno di procedura concorsuale attenta.
- Perdite fiscali: se l’attività chiude definitivamente (liquidazione), le perdite fiscali accumulate non potranno essere usate. Si chiude un maxi-periodo d’imposta dalla fine dell’ultimo esercizio regolare all’evento liquidativo (fallimento, ecc.) e lì le perdite si “azzerano” con l’estinzione soggetto. Diverso se c’è continuità: in un concordato in continuità potresti utilizzare le perdite per abbattere utili futuri (se torni in utile).
- IVA sui crediti non incassati dai fornitori: come effetto collaterale, se chiudi insolvente, i tuoi fornitori potranno emettere note di accredito IVA e recuperare l’IVA delle tue fatture non pagate. Questo non ti tocca direttamente, ma è un effetto rilevante: non comparirai come debitore d’imposta per quell’IVA (lo Stato rinuncia a riscuoterla da te perché non l’hai mai versata e consente ai fornitori di recuperarla; di solito l’Agenzia Entrate però tenterà di insinuarsi per l’IVA a debito non versata se c’è attivo).
- Accertamenti e controlli: Un’azienda in grave crisi che chiude spesso attira controlli fiscali finali. Aspettati che, se c’erano irregolarità (dichiarazioni omesse, ecc.), possano emergere in fase di chiusura. Ad esempio, se non hai presentato la dichiarazione IVA nell’anno del tracollo, il fisco la richiederà al curatore e potrà sanzionare quell’omissione. Tuttavia, molte sanzioni amministrative restano inesigibili se la società non ha attivo e viene estinta.
- L’imprenditore individuale risanabile? Se sei ditta individuale e ottieni l’esdebitazione, essa comprende i debiti fiscali (non essendo più esclusi espressamente). Ciò significherebbe che l’Agenzia Entrate non potrebbe più pretendere da te persona fisica i tributi rimasti insoluti. Questo è un enorme sollievo se confermato (e parrebbe di sì con il CCII).
- Reati tributari: come già detto, la chiusura dell’attività senza aver versato alcune imposte può lasciarti esposto penalmente. Ad esempio, se non hai versato l’IVA dell’ultimo anno per 300.000 €, chiudere la ditta non ti salva dall’eventuale processo per omesso versamento IVA. Otterrai l’esdebitazione civile, ma penalmente potresti comunque essere perseguito e condannato (anche se con pena sospesa magari). L’unico modo per estinguere quei reati è pagare integralmente il dovuto prima del giudizio.
In parole semplici: fiscalmente fallire la composizione e chiudere l’azienda comporta la perdita di eventuali asset fiscali e l’imposizione dei carichi tributari residui al netto di ciò che paga il curatore. Dopo la chiusura, l’azienda non esiste più e con essa i suoi debiti verso il fisco (che se non recuperati diventano perdite per l’Erario). La persona fisica può essere liberata tramite esdebitazione. Resteranno eventuali sanzioni personali (penali) se il comportamento lo integrava. In sintesi, l’insuccesso non genera nuove tasse, ma fa decadere sconti e lascia che la situazione fiscale segua il suo corso, nel bene e nel male.
D8. In caso di fallimento (liquidazione giudiziale), quali azioni di responsabilità possono essere promosse contro l’imprenditore o i suoi amministratori?
R8. Nel fallimento, il curatore ha la legittimazione ad esercitare diverse azioni di responsabilità:
- L’azione sociale di responsabilità contro gli amministratori o i liquidatori della società (artt. 2393 e 2394 c.c.), se hanno violato i doveri verso la società causando danni al patrimonio sociale. Questa viene esercitata “per conto della società” fallita e l’eventuale risarcimento va a beneficio della massa creditoria. Tipicamente, viene intentata per mala gestio: ad es., se gli amministratori hanno aggravato la situazione non adottando gli assetti adeguati o hanno proseguito l’attività in perdita dopo che era chiaro che serviva liquidare. Si quantifica il danno spesso col criterio della differenza di patrimonio netto (art. 2486 c.c. terzo comma presunzione). È un’azione molto frequente.
- L’azione verso i sindaci o revisori se c’è stato omesso controllo, anche questa di natura sociale (ex art. 2407 c.c.).
- L’azione dei creditori sociali ex art. 2394 c.c.: in realtà nel fallimento confluisce nell’azione del curatore. Serve a sanzionare la lesione del patrimonio sociale insufficiente a soddisfarli. Il curatore la può cumulare con l’azione sociale (spesso le si confonde; ma il CCII consente cumulabilità).
- L’azione contro i soci: se la società era di persone, i creditori potranno agire illimitatamente contro i soci illimitatamente responsabili; il curatore può anche escuterli per pagare i debiti sociali. Se era di capitali, soci di SRL possono rispondere per versamenti ancora dovuti o per responsabilità ex art. 2476 (ingerenza illecita). I soci di fatto che hanno diretto la società possono essere oggetto di azione come amministratori di fatto.
- Specifica: se emergono atti di distrazione compiuti dall’amministratore a proprio vantaggio, il curatore può agire con azione di restituzione del bene (azione in revocatoria se è andato a terzi, o azione di Mala gestio per fargli rifondere il controvalore). Esempio: l’amministratore ha prelevato cassa senza giustificazione, il curatore gli chiederà di restituire quei soldi.
- Azione contrattuale di curatore contro ex amministratori: se c’erano contratti pendenti o atti contestabili (es. vendita a prezzo vile a un ex amministratore), il curatore può farli annullare e chiedere risarcimento.
- Importante: qualora l’imprenditore avesse violato l’obbligo di chiedere tempestivamente il fallimento, potrebbe configurarsi un concorso in responsabilità con eventuali tardive iniziative (ma qui rientra nell’aggravamento già detto).
Queste azioni vengono decise caso per caso. Nella prassi italiana, i curatori promuovono spesso l’azione ex art. 2486 c.c. per differenza patrimoni, perché è facilitata dalla presunzione introdotta nel 2019. Quindi se sei amministratore di una Srl fallita, ti devi aspettare che il curatore faccia i conti: “capitale netto al momento in cui dovevi sottoporti a procedura” vs “capitale netto al fallimento” = danno presunto. E ti chiederà quei soldi, salvo tu provi di non aver colpa o che il danno è minore. Idem se hai pagato preferenzialmente qualcuno pre-fallimento, il curatore può farti causa come azione di massa (tutti i creditori insieme) per danno da pagamento preferenziale (ma in genere preferiscono la revocatoria per riprendere i soldi da chi li ha ricevuti). - Se l’impresa era individuale, non c’è personalità giuridica distinta: tu sei il fallito. Il curatore non ti farà causa di responsabilità (saresti causa a te stesso), ma potrebbe agire contro coobbligati o contro terzi che hanno concorso in frodi con te.
- Una volta chiuso il fallimento con esdebitazione, tu come persona fisica sei libero dai debiti residui ma rimangono potenzialmente eseguibili le obbligazioni risarcitorie derivanti da reato (in esdebitazione se hai provocato danni a terzi per reato non è esdebitabile, ma qui entriamo nel penale).
Riassumendo: nel fallimento, il curatore sicuramente valuterà azioni di responsabilità; se la crisi è stata mal gestita, quasi certamente ne promuoverà. Nel concordato preventivo, invece, di norma non c’è curatore (a meno di concordato con cessione, dove c’è liquidatore che potrebbe su mandato dei creditori promuovere azioni; giuridicamente nel concordato la società rimane in bonis e decide se fare azioni sociali contro i vecchi amministratori – spesso però i creditori chiedono come condizione di concordato che i nuovi amministratori facciano causa ai vecchi; può capitare). Quindi paradossalmente, fallire la composizione e finire in concordato potrebbe risparmiare all’imprenditore alcune azioni risarcitorie formali, mentre finire in fallimento quasi certamente lo espone a esse. È un incentivo in più a preferire concordato se possibile.
D9. Cosa succede se, durante la composizione negoziata, l’imprenditore ha aggravato volutamente la posizione di alcuni creditori (ad esempio continuando a rifornirsi da un fornitore sapendo che non l’avrebbe mai pagato)?
R9. Una condotta del genere può avere conseguenze sia civili che penali nel seguito. Dal lato penale, come già spiegato, ciò potrebbe configurare una bancarotta semplice per aggravamento del dissesto o addirittura un ricorso abusivo al credito (se il fornitore ti dava merce a credito e tu, sapendo di essere spacciato, l’hai presa lo stesso, facendogli perdere quel credito). Al momento del fallimento, il curatore e il PM analizzano proprio queste situazioni: se vedono che hai continuato ad accumulare debiti ingiustificatamente, potrebbero segnalare la bancarotta semplice (art. 323 CCII punisce l’imprenditore che ha aggravato il dissesto per grave imprudenza o per aver ritardato la dichiarazione di insolvenza). La fornitura continua senza pagare può rientrare in questa descrizione. Dal lato civile, il singolo fornitore potrebbe anche fare causa (extraconcorsuale, se no in concorso aspetta) per dolo nel contratto: sostenendo che tu l’hai ingannato proseguendo gli ordini pur sapendo che non avresti potuto pagare. Potrebbe chiedere l’annullamento delle vendite e il risarcimento dei danni. Queste cause però in pratica sono rare perché confluiscono nel fallimento: il fornitore insoddisfatto proverà a insinuarsi e basta, difficilmente si avventura in cause di dolo contrattuale, a meno che ci siano evidenze (es. tu dicevi “tranquillo pagherò settimana prossima, ho un investitore” e era falso – qui si sconfinerebbe nel penale: truffa).
In sintesi: aggravare la posizione di creditori durante la composizione è un comportamento pericoloso. Il fatto che tu fossi in composizione non ti autorizza a non pagare quelli estranei e continuare come nulla fosse: la legge implicitamente dice che devi comportarti come un “buon padre di famiglia in crisi”. Se tu sfrutti la situazione per aumentare il buco, ne risponderai.
D10. I contratti pendenti durante la composizione negoziata (es. un leasing, un contratto di affitto) cosa subiscono se la composizione fallisce e si va in un’altra procedura?
R10. Durante la composizione negoziata, l’imprenditore non è sollevato dall’adempiere i contratti in corso (salvo chieda la sospensione di alcuni per 90 giorni, prorogabili di 90, secondo l’art. 20 co. 1 lett. c CCII, che consente al giudice di autorizzare la sospensione di alcuni contratti). Se hai beneficiato di una sospensione, alla fine della composizione quella sospensione cessa: quindi il contratto riprende la sua efficacia normale, a meno che nel frattempo tu acceda a concordato o fallimento:
- In un concordato, potrai decidere tu nel piano quali contratti risolvere e quali mantenere, con l’autorizzazione del tribunale (art. 95 CCII). Ad esempio, se il leasing è troppo oneroso, nel piano di concordato puoi prevedere la risoluzione e la restituzione del bene; i danni del lessor entreranno come credito al passivo concordatario. Stessa cosa per affitti ecc.
- In fallimento, i contratti pendenti alla data della sentenza possono essere sciolti dal curatore (con autorizzazione del comitato) se non funzionali, o mantenuti se c’è esercizio provvisorio. Spesso i leasing e affitti vengono sciolti se l’azienda cessa.
Dunque, se la composizione finisce e immediatamente tu dichiari che andrai in concordato o fallimento, di fatto la sorte dei contratti verrà decisa in quelle sedi. Nel frattempo, dal giorno successivo alla fine delle trattative, i contraenti possono agire: ad esempio, se avevi sospeso un leasing con l’ok del giudice e la composizione si archivia, la società di leasing potrebbe subito pretendere i canoni scaduti e magari risolvere il contratto per inadempimento. Però se tu depositi concordato entro quei pochi giorni, la situazione rimane congelata e la decisione passa al giudice concorsuale.
In sostanza: i contratti pendenti sono voci delicate. Un consiglio pratico: durante la composizione, in vista di possibili esiti negativi, cerca di negoziare con i contraenti chiave (ad es. locatore dell’immobile) soluzioni transitorie. A volte, l’esperto vi aiuta a ottenere moratorie anche extragiudiziali sui contratti. Se poi fallisce il tutto, verosimilmente il contratto sarà sciolto e il creditore contratto (tipo locatore) insinuerà il danno emergente (canoni mancanti). Un affittuario insolvente per fine attività dovrà liberare l’immobile; se non lo fa, con l’avvio liquidazione giudiziale il curatore deciderà di proseguire o sciogliere: tipicamente scioglierà e restituirà l’immobile, pagando eventuali canoni per i mesi di occupazione in prededuzione.
Insomma: contratti pendenti = segui le regole della procedura successiva. La composizione in sé, terminando, li lascia come erano salvo eventuali sospensioni temporanee decise dal tribunale che, decadute, rimettono in moto le clausole contrattuali normali.
Simulazioni pratiche
Per comprendere meglio le dinamiche descritte, presentiamo due casi pratici (di fantasia ma verosimili) in cui una composizione negoziata della crisi non raggiunge l’accordo sperato, illustrando le decisioni prese dall’imprenditore e le conseguenze legali ed economiche in ciascuna situazione.
Caso 1: PMI manifatturiera verso la liquidazione fallimentare
Scenario: La ALFA S.r.l. è un’azienda manifatturiera (30 dipendenti) che produce componenti meccanici. Negli ultimi anni ha accumulato debiti per circa 2 milioni di euro (fornitori €800.000, banche €900.000, fisco €300.000, altri €) a causa del calo ordini e di alcuni investimenti sbagliati. A metà 2024 la società presenta istanza di composizione negoziata in quanto si trova in squilibrio finanziario: non riesce più a pagare regolarmente fornitori e rate dei mutui, pur avendo ancora un buon portafoglio clienti (crisi da liquidità). Viene nominato l’esperto e ALFA ottiene misure protettive dal Tribunale (blocco delle azioni esecutive).
Durante le trattative, emergono queste informazioni: il valore di realizzo degli asset di ALFA (macchinari, magazzino, capannone) è stimato in €1,2 milioni; l’impresa però avrebbe chance di riprendersi se ottenesse nuova finanza per €500.000 per completare un progetto innovativo. L’esperto tratta con le banche per un accordo: propone una moratoria di 12 mesi sui mutui e un nuovo finanziamento garantito dallo Stato. Le banche però, scottate da precedenti inadempienze di ALFA, non concedono ulteriore credito. Nel frattempo alcuni fornitori strategici, pur protetti dallo stay, minacciano di interrompere le forniture se non vengono pagati almeno in parte (ALFA, per continuare a produrre, inizia a pagare in anticipo i nuovi ordini ma ovviamente non può saldare l’arretrato). Dopo 4 mesi di sforzi, l’esperto conclude che non si vede un accordo globalmente sostenibile: i creditori finanziari non aderiscono a riduzioni significative e l’Erario ha rifiutato la proposta di diluire il debito IVA in 5 anni. L’esperto redige quindi relazione finale negativa, attestando che “le trattative non hanno condotto a una soluzione idonea al risanamento” e segnalando che il patrimonio di ALFA è inferiore ai debiti e l’azienda è di fatto insolvente.
Dopo la composizione: Siamo ora a fine 2024, ALFA è in stato di insolvenza conclamata (ha smesso di pagare la maggior parte dei debiti). Il CdA di ALFA, seguendo il consiglio dei legali, decide di non attendere ulteriormente: deposita presso il Tribunale un’istanza di apertura della liquidazione giudiziale (fallimento) allegando la relazione dell’esperto come prova dello stato d’insolvenza. Nel frattempo, uno dei fornitori aveva depositato anch’egli ricorso per fallimento. Il Tribunale riunisce le istanze e, constatata l’insolvenza e l’assenza di alternative, dichiara aperta la liquidazione giudiziale di ALFA S.r.l. nel gennaio 2025.
Svolgimento della procedura concorsuale: Viene nominato un curatore fallimentare. Questi assume l’amministrazione dell’azienda, che tuttavia cessa l’attività perché non ci sono fondi per proseguirla (nessun esercizio provvisorio). I dipendenti sono licenziati con autorizzazione del giudice delegato e accedono al Fondo di Garanzia INPS per TFR e stipendi arretrati. Il curatore organizza la vendita in blocco degli asset: fortunatamente, una ditta concorrente si fa avanti e offre €1,0 milione per acquistare i macchinari, il capannone e i brevetti di ALFA (di fatto rileva l’intera struttura produttiva, escludendo però debiti). Il curatore, dopo autorizzazione, accetta l’offerta e realizza quella somma. Nel frattempo il curatore verifica le scritture contabili: i libri di ALFA sono tenuti discretamente, anche grazie alla supervisione avuta nella composizione, ma emergono perdite ingenti che avevano eroso il capitale già da un anno (ALFA avrebbe dovuto ridurre il capitale o sciogliersi ai sensi art.2482-ter c.c., cosa non fatta).
Ripartizione dell’attivo: Con €1,0 milione in cassa da liquidazione e alcune somme minori (crediti incassati, etc.), il curatore predispone lo stato passivo. I crediti vengono ammessi: privilegiati (stipendi, TFR, INPS, Erario per IVA/ritenute, banca ipotecaria su capannone) e chirografari (banche per la parte scoperta dopo ipoteca, fornitori, fisco per imposte non privilegiate). Dopo verifiche, risulta:
- Crediti privilegiati complessivi: €600.000 (di cui €100k dipendenti/INPS, €200k banca ipotecaria residua, €150k Erario IVA e ritenute, €150k altri privilegi).
- Crediti chirografari: €1,400.000 (fornitori, banche per la parte non coperta da garanzie, sanzioni fiscali, penali contrattuali, ecc.).
Il curatore redige il piano di riparto: con €1,0 milione attivo netto, riesce a pagare integralmente i creditori privilegiati (€600k) e rimangono €400k per i chirografari, pari a un dividendo del 28,5% sui loro crediti. Ciò significa che, ad esempio, un fornitore che aveva €50k di fatture ne incasserà circa €14,25k; una banca chirografa su €200k credito ne prende ~€57k. Il fisco, sul suo credito chirografo (ipotizziamo €100k imposte), ne incassa €28,5k; le sanzioni €50k restano impagate (postergate, non contano).
Conseguenze per l’imprenditore e amministratori ALFA: Il fallimento comporta – come visto – la perdita totale dell’azienda. La ALFA S.r.l. sarà poi cancellata a fine procedura. I creditori insoddisfatti per la parte residua (es. fornitori per il restante 71,5%) non potranno agire oltre contro ALFA né contro i soci (trattandosi di società di capitali). Tuttavia, il curatore esamina la condotta degli amministratori (due soci che gestivano). Dalla relazione dell’esperto e dall’analisi contabile emerge che:
- La crisi era evidente già a inizio 2024, quando il patrimonio netto era divenuto negativo per €200k. Eppure gli amministratori non avevano convocato l’assemblea per ricapitalizzare o liquidare, come richiesto dalla legge, ed hanno anzi continuato l’attività aumentando i debiti.
- Nei 6 mesi di composizione, ALFA aveva accumulato ulteriori €100k di debiti verso fornitori estranei (nonostante lo stay, alcuni piccoli fornitori erano rimasti impagati per forniture correnti).
- Non risultano distrazioni fraudolente né operazioni anomale, ma c’è stata una continuazione dell’attività in perdita che ha peggiorato il deficit.
Il curatore decide di promuovere l’azione di responsabilità ex art. 2486 c.c. contro gli ex amministratori: chiede un risarcimento pari alla differenza tra patrimonio netto stimato al momento in cui avrebbero dovuto fermarsi e patrimonio netto al fallimento. Stima: ad agosto 2023 PN = –€200k; a gennaio 2025, calcolando attivo/passivo, PN = –€600k. Danno presunto €400k. Gli amministratori in loro difesa argomentano che hanno attivato tempestivamente la composizione negoziata nel 2024 e speravano in una soluzione, dunque la continuazione era giustificata dall’attesa dell’esito negoziale. Il giudizio è pendente, ma potrebbe concludersi con una transazione: gli amministratori (assistiti da assicurazione D&O) pagano €100k al fallimento per chiudere la causa, evitando una condanna più alta e complicazioni (il curatore e i creditori accettano per non allungare i tempi).
Sul versante penale, il fallimento di ALFA innesca l’azione della Procura. Dalle indagini, però, non emergono frodi: i beni venduti erano genuini (no distrazioni), i libri tenuti (solo tardiva la rilevazione perdite). L’amministratore viene comunque imputato per bancarotta semplice per non aver richiesto il fallimento tempestivamente e per aver aggravato il dissesto (pena potenziale: qualche mese di reclusione). Viene anche contestato l’omesso versamento IVA per €80k relativo all’anno 2023 (reato tributario). In giudizio, considerando che l’amministratore ha agito con leggerezza ma non dolo, e che ha collaborato (consegnato documenti, ecc.), la bancarotta semplice viene riconosciuta con pena di 6 mesi, condonata (indulto) o altrimenti sospesa condizionalmente. Per l’omesso versamento IVA, purtroppo, la condotta integra il reato e non essendo stato pagato alcunché (in fallimento l’Erario ha avuto solo 28%), l’imprenditore patteggia una pena di 8 mesi (anch’essa sospesa). Non avrà menzione sul casellario per la sospensione, ma comunque è una condanna.
Riepilogo caso 1: la composizione negoziata fallita di ALFA S.r.l. ha condotto alla liquidazione giudiziale. I creditori hanno recuperato ~30% dei loro crediti. L’azienda è stata liquidata e cessata. Gli amministratori hanno subìto:
- un’azione di responsabilità civile, transatta pagando una somma (parziale sollievo ai creditori chirografari che quindi potrebbero alla fine ricevere, grazie a ciò, un ulteriore 5% di dividendo extra);
- procedimenti penali minori (bancarotta semplice, reato IVA) conclusi senza carcere effettivo ma con condanna formale.
L’imprenditore persona fisica dietro ALFA ha visto sfumare i suoi investimenti (capitale azzerato) e la sua reputazione ne esce offuscata, ma grazie alla collaborazione in composizione ha evitato accuse peggiori (nessuna bancarotta fraudolenta). Questo caso evidenzia l’importanza, per l’imprenditore, di prendere atto in tempo dell’insuccesso del risanamento e di non ostinarsi a protrarre un’attività irrimediabilmente insolvente – poiché ciò mitiga le responsabilità (il tribunale vede che ha chiesto lui il fallimento, evitando eventuale bancarotta fraudolenta per distrazioni tardive). Evidenzia anche che la composizione negoziata non garantisce il salvataggio ma può aver aiutato a vendere l’azienda ordinatamente (l’esperto aveva individuato il potenziale acquirente poi concretizzatosi in fallimento).
Caso 2: Azienda commerciale verso concordato semplificato e rilancio parziale
Scenario: La BETA S.p.A. è un’impresa del settore commercio all’ingrosso di prodotti alimentari. Ha circa 50 dipendenti e opera su un mercato in calo. Nel 2024 accumula debiti per €5 milioni (banche €2M, fornitori €2M, fisco €0,5M, altri €0,5M) a fronte di attivo corrente €3M (magazzino, crediti) più un immobile valutato €1M. La crisi di liquidità la porta a richiedere la composizione negoziata a settembre 2024.
L’esperto nominato constata che la situazione è grave: BETA è in insolvenza (inadempienze diffuse verso fornitori da oltre 6 mesi). Tuttavia, c’è un possibile acquirente interessato a rilevare l’attività di BETA (uno dei competitor), ma solo se libera dai debiti. In sostanza, l’unica via è vendere l’azienda in blocco per salvare l’avviamento e i dipendenti, liquidando poi i creditori con il ricavato. Il potenziale acquirente offre €2,5 milioni per l’azienda funzionante (marchio, magazzino, rete clienti, ecc.), ma non intende farsi carico dei debiti pregressi.
L’esperto elabora con BETA e l’acquirente una proposta: la vendita dovrebbe avvenire nell’ambito di un “concordato semplificato” post-composizione. Infatti, i creditori non sembrano poter essere convinti tutti a un accordo (alcuni fornitori minacciano azioni legali immediate); inoltre, BETA non ha tempo né margine per un concordato preventivo classico (le banche suggeriscono il fallimento per chiudere). Il CdA di BETA, su suggerimento legale, comunica all’esperto che intende sfruttare l’art. 25-sexies CCII: proporre al Tribunale la vendita al competitor nell’ambito di un concordato semplificato liquidatorio.
Percorso seguito: Dopo 3 mesi di trattative, non essendo stato raggiunto un accordo con i creditori (banche indisponibili a stralci fuori procedura), l’esperto redige relazione finale negativa (dicembre 2024). Tuttavia, contestualmente, l’imprenditore BETA deposita in Tribunale un ricorso per concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio, allegando:
- la relazione negativa dell’esperto (requisito di ammissibilità);
- un piano di liquidazione che prevede la vendita dell’intera azienda a XYZ S.r.l. (il competitor) per €2,5M entro 30 giorni dall’omologa; più la liquidazione di alcuni immobili separati (il magazzino di proprietà) per ulteriori €1M stimati; il ricavato totale (€3,5M) sarà distribuito ai creditori, prevedendo un soddisfacimento di circa il 70% ai privilegiati e 40% ai chirografari;
- l’esperto viene indicato come possibile ausiliario per assistere il futuro liquidatore nella verifica del prezzo (già valutato congruo rispetto al mercato, come attestato in allegato).
Il Tribunale ammette la procedura e fissa udienza. Non essendoci voto, si acquisiscono solo le posizioni: le banche depositano memorie opponendosi (ritengono che l’azienda valga di più e che €2,5M sia sottostimato; temono di perdere parte dei crediti). Tuttavia, il giudice delegato aveva nominato un commissario giudiziale (lo stesso esperto) che presenta una relazione: la proposta di BETA darà ai creditori un ritorno stimato del 50% (media ponderata), mentre in caso di fallimento il commissario stima un ritorno appena del 30% (perché l’azienda venduta dopo il fallimento varrebbe molto meno, e i tempi sarebbero più lunghi causando deterioramento del magazzino). Pertanto, la proposta appare più conveniente del fallimento.
All’udienza, alcuni fornitori minori si lamentano ma capiscono che è l’unica strada. L’Agenzia delle Entrate, che ha €0,5M di IVA e tasse da recuperare, non si oppone formalmente (sa che in fallimento forse prenderebbe ancora meno, e almeno qui incasserà in tempi brevi, presumibilmente 40%). Le banche ipotecarie ottengono rassicurazione che l’immobile sarà venduto con gara competitiva se possibile (in realtà c’è già un’offerta d’asta pari al valore).
Esito: Il Tribunale, valutati gli atti, omologa il concordato semplificato di BETA S.p.A. nel marzo 2025, ritenendo la proposta non pregiudizievole per i creditori rispetto all’alternativa liquidatoria. Contesta alle banche opponenti che la loro opposizione non dimostra affatto che in fallimento avrebbero esito migliore; la perizia depositata dal commissario e l’offerta vincolante per l’azienda suffragano la convenienza. Dunque il giudice dà il via libera.
Attuazione: Viene nominato un liquidatore giudiziale, come da normativa. Subito dopo l’omologa:
- Si stipula l’atto di cessione d’azienda a XYZ S.r.l. per €2,5M: l’azienda BETA passa interamente a XYZ, che assume anche 45 dei 50 dipendenti (5 scelgono di non transitare e restano creditori per TFR). L’importo viene versato su un conto della procedura.
- Si mette all’asta l’immobile: viene aggiudicato a €1,1M (un po’ meglio del previsto).
- Il liquidatore incassa anche circa €0,3M da crediti verso clienti che sono stati ceduti pro-solvendo: in realtà l’accordo con XYZ prevedeva che i crediti incassati fino al giorno X restassero a BETA, così BETA/il liquidatore ne recupera una parte nei mesi seguenti.
Dopo 6 mesi, la liquidazione ha in cassa circa €3,9M. Viene predisposto il piano di riparto:
- Creditori privilegiati (dipendenti, Erario per IVA, Inps, banca ipotecaria): soddisfatti 100% (circa €1,5M).
- Creditori chirografari (banche chirografe per crediti scoperti, fornitori, fisco per interessi/sanzioni ecc): c’è €2,4M disponibile su €3,5M di crediti chirografari totali, quindi ricevono circa 68%.
Si noti: il piano iniziale stimava 40% ai chirografari, ma poiché l’immobile è stato venduto meglio e alcuni costi procedura risparmiati, il risultato è più alto. Questo ovviamente soddisfa maggiormente i creditori.
Chiusura: A fine 2025, BETA S.p.A. viene dichiarata estinta per completamento del concordato semplificato (non c’è bisogno di ulteriore tribunale in teoria: il liquidatore deposita rendiconto e se nessuno obietta, la società si scioglie). I creditori incassano i loro riparti in autunno 2025 (circa 100% i privilegiati e 68% i chirografari come detto).
Conseguenze per l’imprenditore: L’azienda BETA di fatto è stata venduta come ramo in continuità a XYZ S.r.l. che la integra. Molti dipendenti conservano il posto. Il nome BETA sparisce, ma il business prosegue in altra veste. Dal punto di vista del fondatore di BETA (che era anche maggiore azionista e AD):
- Egli evita la dichiarazione di fallimento e le relative conseguenze di spossessamento traumatico. Ha potuto, nel periodo della procedura semplificata (60 gg circa), ancora gestire insieme al commissario per preparare il terreno alla cessione.
- Non vi sarà alcun procedimento per bancarotta, perché non c’è stato fallimento. Eventuali sue condotte potenzialmente censurabili (ad esempio, negli anni aveva pagato qualche fornitore in tensione di cassa) non emergono come reato, proprio perché la procedura è concorsuale ma non prevede reati di bancarotta per definizione.
- I pagamenti urgenti fatti durante la composizione per mantenere operativa l’azienda (es. pagamento di forniture essenziali) sono stati fatti su autorizzazione del tribunale e comunque rientrano nel piano, quindi non potranno essere attaccati da nessuno.
- Le banche inizialmente minacciose non hanno spazio per azioni di responsabilità: avendo ricevuto il 68% in pochi mesi anziché forse 30% in anni di fallimento, non hanno convenienza né base a citare gli amministratori. Nessun curatore si costituisce (non c’è curatore, c’è il liquidatore che ha portato a termine con successo la liquidazione).
- Il fisco incassa una percentuale buona e, grazie al concordato, le eventuali sanzioni tributarie sono state stralciate e non perseguibili ulteriormente. Ad esempio: c’era una sanzione di €50k per 770 tardivo, col concordato viene falcidiata come gli altri chirografari al 68%, poi con la chiusura quella parte non pagata è persa per l’Erario ma nessuno la può chiedere a posteriori.
- Resta però un nodo: BETA S.p.A. non ha versato per intero l’IVA 2023 (ha pagato 68% via concordato). L’amministratore rischierebbe il reato di omesso versamento IVA. Tuttavia, essendo stata omologata una procedura concorsuale che include transazione fiscale, c’è dibattito giuridico: alcune pronunce dicono che la transazione non estingue il reato, altre che l’assenza di danno erariale significativo e la causa di forza maggiore concorsuale potrebbero escludare dolo. Potenzialmente il PM potrebbe ancora procedere per quell’omesso versamento antecedente (non c’è fallimento ma il reato di per sé non richiede fallimento). In realtà, l’Agenzia Entrate in sede di concordato spesso rinuncia a querela (dove necessaria) o comunque è meno motivata a perseguitare se ha incassato buona parte. Possiamo supporre che questo punto rimane un rischio aperto per l’ex AD di BETA, ma con ottime chance di archiviazione (magari potrà invocare che il pagamento parziale concordatario valga come ravvedimento operoso sui generis).
- Dal punto di vista della reputazione, il fondatore di BETA passa per aver gestito una crisi con un certo successo: ha evitato il fallimento, ha garantito continuità ai dipendenti e pagato i creditori in misura ben maggiore del fallimento. Questo potrebbe permettergli, se volesse, di rimanere nel settore (magari come dirigente presso XYZ S.r.l. che ha rilevato, o aprire una nuova attività più piccola).
Riepilogo caso 2: la composizione negoziata fallita di BETA ha fatto da preludio a un utilizzo efficace del concordato semplificato, col quale si è salvato il valore aziendale attraverso la cessione e si è ottenuto un soddisfacimento migliore per i creditori. L’imprenditore ha limitato i danni: niente procedura fallimentare, niente azioni risarcitorie, e penalmente solo rischi marginali (reati tributari eventualmente contestabili). Questo caso mostra come, pur non trovando un accordo con i creditori, la composizione negoziata può spianare la strada a una soluzione concorsuale più rapida e mirata. Senza la composizione, probabilmente BETA sarebbe finita in fallimento con spezzatino dell’attivo e dispersione dell’avviamento; invece, grazie al nuovo istituto, si è ottenuto un esito win-win relativo: il competitor acquisisce un business avviato, i creditori ricevono una parte consistente in breve tempo, i dipendenti mantengono il lavoro, l’imprenditore chiude dignitosamente. Certo, BETA S.p.A. in sé è sparita e i soci hanno perso il capitale, ma nelle crisi gravi questo è quasi inevitabile; almeno però non c’è stato strascico di contenziosi e procedure infinite.
Fonti normative e giurisprudenziali (aggiornate a giugno 2025)
- Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza – D.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, e successive modifiche (D.lgs. 17 giugno 2022 n. 83; D.lgs. 10 ottobre 2022 n. 173; D.lgs. 28 marzo 2024 n. 136, ecc.). In particolare, rilevanti: artt. 12-25 (Composizione negoziata della crisi); art. 23 (Soluzioni negoziali e misure premiali); art. 25-sexies e 25-septies (Concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio); artt. 57-64 (Accordi di ristrutturazione e transazione fiscale); artt. 56 (Piani attestati di risanamento); artt. 84-88 (Concordato preventivo in continuità e liquidatorio); artt. 268-277 (Liquidazione controllata per sovraindebitati).
- Decreto-Legge 24 agosto 2021 n. 118, conv. in L. 147/2021 – Normativa istitutiva della Composizione negoziata e del Concordato semplificato. In particolare, art. 2 DL 118/21 (condizioni di accesso CNC) e art. 18 DL 118/21 (concordato semplificato), confluiti nel CCII.
- Codice Civile, disposizioni rilevanti modificate dalla riforma crisi: art. 2086, co.2 c.c. (dovere di assetti adeguati e rilevazione tempestiva della crisi); art. 2486 c.c. (gestione nella fase di scioglimento e criteri di quantificazione del danno); art. 2560 c.c. (cessione d’azienda e debiti).
- Legge Fallimentare (R.D. 16 marzo 1942 n. 267) – per i profili penal-fallimentari ancora rilevanti transitoriamente: art. 216 (Bancarotta fraudolenta); art. 217 (Bancarotta semplice); art. 218 (Ricorso abusivo al credito); art. 67, co.3, lett. d) (Piani attestati esimenti da revocatoria) – corrispondenti rispettivamente agli artt. 322, 323, 325 CCII e art. 46, co.1, lett. c) CCII.
- D.Lgs. 74/2000 (Reati tributari) – artt. 10-bis (Omesso versamento ritenute certificate); 10-ter (Omesso versamento IVA); 10-quater (Indebita compensazione); 11 (Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte), rilevanti in caso di crisi d’impresa e possibili accordi fiscali.
- Direttiva (UE) 2019/1023 (Direttiva Insolvency) – Considerando e disposizioni recepite, che ispirano le norme italiane sulla ristrutturazione precoce e seconde opportunità.
- Giurisprudenza:
- Cassazione Civile, Sez. Unite, 06/05/2015 n. 9100: ha definito i principi in tema di quantificazione del danno da tardiva dissociazione degli amministratori, anticipando criteri poi recepiti nell’art. 2486 c.c. novellato.
- Cassazione Civile, Sez. I, 04/04/2017 n. 8672: sull’onere degli amministratori di provare l’assenza di aggravamento dannoso e sull’operatività retroattiva dei criteri di cui all’art. 2486 c.c. (confermando applicabilità anche a gestioni precedenti).
- Cassazione Penale, Sez. V, 17/03/2021 n. 10651: in tema di omesso versamento IVA e concordato preventivo, ha escluso che l’omologazione di un concordato con falcidia IVA estingua il reato di cui all’art. 10-ter D.Lgs.74/2000 (il pagamento parziale concordatario non equivale a integrale estinzione del debito tributario).
- Tribunale di Milano, Sez. Fall., 28/03/2023: (fattispecie di concordato semplificato) ha omologato un concordato semplificato ritenendo soddisfatto il test di convenienza per i creditori chirografari, specificando che nel giudizio di omologa del concordato ex art. 25-sexies CCII il tribunale svolge un controllo di merito sulla non pregiudizievolezza rispetto all’alternativa liquidatoria.
- Tribunale di Venezia, 26/04/2023: ha affermato l’applicabilità del criterio dei netti patrimoniali (art. 2486 c.c.) anche nei casi di azione di responsabilità per ritardata dichiarazione di fallimento, confermando che il differenziale di patrimonio netto può presumersi come danno sofferto dai creditori.
- Corte di Cassazione, Sez. I, 07/06/2023 n. 16092: in materia di accordi di ristrutturazione, ha ritenuto che l’omologazione di un accordo ex art. 182-bis L.F. (ora art. 57 CCII) determina la inesigibilità nei confronti del debitore delle obbligazioni rimodulate secondo accordo, ma non impedisce ai creditori non aderenti di agire per la parte eccedente (salvo efficacia estesa prevista per legge). (Conferma la natura contrattuale volontaria dell’accordo omologato).
- Cassazione Penale, Sez. V, 05/10/2022 n. 37330: ha evidenziato la portata dell’art. 324 CCII (esenzioni bancarotta) affermando che gli atti compiuti in esecuzione di un piano attestato pubblicato non costituiscono reato di bancarotta preferenziale, anche se il fallimento interviene successivamente, purché il piano fosse idoneo e genuino.
- Altre fonti:
- Relazione Illustrativa al D.Lgs. 83/2022 (recepimento direttiva) – chiarisce ratio delle novità come la transazione fiscale nella composizione negoziata.
- Relazione Illustrativa al D.Lgs. 136/2024 (terzo correttivo) – in particolare sul ruolo dell’esperto post-archiviazione e sulle modifiche alle tutele per banche durante CNC.
- Circolare Agenzia Entrate 34/E-2020: linee guida su trattamenti fiscali nelle procedure da crisi, in cui si affrontano le sopravvenienze attive da concordato e accordo (conferma non imposizione ex art. 88 c.4-ter TUIR).
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Conclusione
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