Hai sentito parlare degli accordi di ristrutturazione dei debiti, ma non sai se fanno davvero al caso tuo? Ti stai chiedendo se possono aiutarti a salvare l’azienda, evitare il fallimento o liberarti da una situazione che non riesci più a gestire?
Quando un’impresa entra in crisi ma vuole evitare la liquidazione giudiziale, può tentare la strada degli accordi di ristrutturazione. Sono strumenti legali che permettono di negoziare direttamente con i creditori – banche, Fisco, fornitori – un piano per rientrare dal debito, in modo sostenibile e concordato.
Ma cosa sono, in concreto, questi accordi?
Si tratta di intese scritte tra l’imprenditore e una parte qualificata dei creditori, che prevedono il pagamento, anche parziale, dei debiti in tempi e modi compatibili con la situazione dell’impresa. L’accordo può essere omologato dal tribunale, e in alcuni casi diventa efficace anche per i creditori che non hanno firmato, se la maggioranza prevista dalla legge è stata raggiunta.
Non tutti gli accordi sono uguali. Esistono soluzioni personalizzabili in base al tipo di debito, al numero dei creditori e alla solidità del piano di rilancio. Ma tutti richiedono un piano ben costruito e documentato, supportato da un’attestazione di veridicità e fattibilità.
Vediamo qualche esempio pratico?
Un’azienda commerciale con debiti bancari e fiscali può proporre:
- il pagamento dilazionato del debito fiscale in accordo con l’Agenzia delle Entrate;
- un piano di rientro ridotto con gli istituti bancari, magari prevedendo la rinuncia a interessi moratori;
- una parziale conversione dei debiti in strumenti finanziari partecipativi, in cambio della continuità aziendale.
Oppure, un piccolo imprenditore artigiano può proporre:
- uno stralcio parziale dei debiti con i fornitori, con pagamento rateizzato;
- la chiusura concordata di contratti in perdita;
- la ripartenza con un nuovo assetto, più leggero e sostenibile.
E se l’accordo non viene accettato?
Non è necessariamente la fine. Si può valutare l’accesso a un concordato minore, oppure, in casi più complessi, alla liquidazione controllata. In ogni caso, è essenziale non restare immobili, perché nel frattempo i creditori possono attivare azioni esecutive, bloccare conti o aggredire beni aziendali e personali.
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in ristrutturazioni, crisi aziendali e procedure concorsuali – ti spiega come funzionano davvero gli accordi di ristrutturazione dei debiti, quando conviene usarli, e cosa possiamo fare per aiutarti a negoziare e salvare ciò che hai costruito.
La tua azienda è in crisi ma vuoi evitare il fallimento? Hai bisogno di un piano concreto per riprendere fiato e ristrutturare i debiti?
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Introduzione
Gli accordi di ristrutturazione dei debiti sono strumenti giuridici di risanamento mediante i quali un’impresa in difficoltà finanziaria negozia con i creditori un piano per ristrutturare le proprie esposizioni debitorie, evitando procedure concorsuali più gravose (come il fallimento, ora liquidazione giudiziale). Introdotti per la prima volta nel 2005 (art. 182-bis Legge Fallimentare) e profondamente innovati dal Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII) del 2019, gli accordi di ristrutturazione rappresentano oggi, per il debitore, un “salvagente” legislativo per affrontare la crisi aziendale in modo negoziato e relativamente flessibile.
Questa guida completa, scritta in un linguaggio giuridico ma divulgativo, fornisce un quadro avanzato e aggiornato a giugno 2025 degli accordi di ristrutturazione in Italia. L’obiettivo è di illustrare nel dettaglio come funzionano questi accordi dal punto di vista del debitore, evidenziando le opportunità e i rischi per imprenditori (incluse PMI, imprese individuali, società di capitali e cooperative) e privati che si trovino a fronteggiare un eccesso di debiti. Verranno trattate sia le ipotesi di accordo in continuità aziendale (con prosecuzione dell’attività) sia quelle di accordo a scopo liquidatorio (per la dismissione ordinata del patrimonio), con esempi concreti e simulazioni pratiche per comprenderne l’applicazione.
La guida è strutturata in modo professionale, con sezioni e sottosezioni chiare che esaminano in profondità i vari aspetti degli accordi di ristrutturazione: il quadro normativo di riferimento (inclusi gli aggiornamenti più recenti del CCII), i requisiti soggettivi e oggettivi per accedervi, le tipologie di accordo oggi previste (ordinario, “agevolato”, ad efficacia estesa, transazione fiscale con Erario/Enti previdenziali), il procedimento dalla negoziazione all’omologazione giudiziale e all’esecuzione, nonché un confronto con le altre procedure di gestione della crisi d’impresa (come concordato preventivo e piani di risanamento). Al fine di facilitare l’utilizzo pratico dello strumento, sono incluse tabelle riepilogative e un’ampia sezione FAQ (domande frequenti). Nella sezione finale, infine, si forniscono tutti i riferimenti normativi, giurisprudenziali e di dottrina citati nel testo, per consentire al lettore di approfondire ulteriormente.
In sintesi, l’accordo di ristrutturazione è un strumento negoziale assistito dall’autorità giudiziaria: il debitore elabora un piano di ristrutturazione del debito e lo sottopone ai creditori, ottenendo l’adesione di una maggioranza qualificata di essi (di regola almeno il 60% dei crediti). L’accordo, corredato da una relazione di un esperto indipendente, viene poi presentato al tribunale per l’omologazione (approvazione). Una volta omologato, vincola i creditori aderenti e consente di cristallizzare la posizione debitoria secondo i nuovi termini pattuiti. A differenza del concordato preventivo, che richiede il voto di tutti i creditori ammessi al voto, l’accordo di ristrutturazione coinvolge solo i creditori che decidono volontariamente di aderire – salvo alcune estensioni coattive previste per legge di cui diremo – offrendo quindi maggiore flessibilità contrattuale al debitore.
Questo istituto, definito anche come ADR – Accordo di ristrutturazione dei debiti, è stato potenziato negli ultimi anni per superare le resistenze dei creditori dissenzienti (holdout) e facilitare il risanamento di imprese ancora vitali ma sovraindebitate. Con le riforme introdotte in attuazione della Direttiva (UE) 2019/1023 sull’insolvenza, il legislatore italiano ha ampliato l’efficacia degli accordi, introducendo la possibilità di renderli vincolanti anche per alcuni creditori non aderenti (c.d. accordi ad efficacia estesa). Inoltre, sono stati creati percorsi agevolati (come l’accordo con adesione del 30% dei crediti) e strumenti ausiliari (come la convenzione di moratoria e la transazione fiscale) per incentivare l’utilizzo di tali accordi e scongiurare il ricorso immediato alla liquidazione giudiziale.
Nel prosieguo, dopo un inquadramento normativo e l’analisi delle varie tipologie di accordo, descriveremo passo dopo passo come un debitore può costruire e concludere un accordo di ristrutturazione di successo, mantenendo il controllo dell’impresa e salvaguardando la continuità aziendale ove possibile. Saranno messi in luce i vantaggi (snellezza, riservatezza, negoziabilità) e gli svantaggi (necessità di consenso dei creditori chiave, rischio di azioni dei non aderenti, ecc.) di questo strumento rispetto ad alternative come il concordato preventivo. Cominciamo dunque dal quadro normativo di riferimento e dai soggetti che possono accedere all’accordo di ristrutturazione.
Quadro Normativo ed Evoluzione degli Accordi di Ristrutturazione
Gli accordi di ristrutturazione dei debiti affondano le loro radici nella Legge Fallimentare (R.D. 267/1942) come modificata a metà anni 2000. Una prima versione dell’istituto è stata introdotta con la riforma del 2005, inserendo l’art. 182-bis L.F. che permetteva all’imprenditore in crisi di proporre un accordo ai creditori con il consenso di almeno il 60% dei crediti. Questo accordo “ordinario” veniva poi omologato dal tribunale, ma non vincolava i creditori non aderenti, i quali restavano liberi di agire per il recupero integrale dei loro crediti (salvo impegni del debitore a soddisfarli per intero a scadenza). La limitata efficacia nei confronti dei dissenzienti costituiva un punto debole dello strumento: un singolo creditore non aderente poteva infatti pregiudicare il successo del risanamento rifiutandosi di accettare dilazioni o decurtazioni, pretendendo il pagamento integrale e magari intraprendendo azioni esecutive individuali.
Per ovviare a questo problema, il legislatore è intervenuto con il D.L. 83/2015 (conv. in L. 132/2015), introducendo nella legge fallimentare l’art. 182-septies L.F. che delineava i primi accordi ad efficacia estesa limitata ai creditori finanziari. In sostanza, se l’indebitamento verso banche e intermediari finanziari costituiva la metà o più del totale dei debiti, ed almeno il 75% dei crediti finanziari di una categoria omogenea (es. banche) aderiva all’accordo, il tribunale poteva estenderne gli effetti anche alle banche dissenzienti di quella categoria. Questa normativa consentiva quindi di “forzare” la minoranza di banche non aderenti, purché informate e coinvolte nelle trattative, superando il loro potere di veto. Contestualmente, con la stessa riforma, fu introdotta la convenzione di moratoria: un accordo temporaneo di standstill con i soli creditori finanziari per sospendere le azioni di recupero durante le trattative, anch’esso estendibile alle banche dissenzienti se approvato da almeno il 75% degli istituti. Queste innovazioni miravano a incentivare la ricerca di soluzioni negoziali della crisi d’impresa, riducendo i comportamenti opportunistici dei creditori (holdout) e preservando il valore aziendale grazie a una gestione concordata del periodo di crisi.
Il Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII), emanato con D.lgs. 14/2019 e pubblicato il 14 febbraio 2019, ha poi riorganizzato sistematicamente la disciplina. Entrato in vigore definitivamente il 15 luglio 2022 dopo vari rinvii, il Codice ha consolidato gli istituti preesistenti e dato attuazione alla citata Direttiva UE 2019/1023 sulla ristrutturazione preventiva. In tema di accordi di ristrutturazione, il CCII:
- Conferma l’“accordo ordinario” con soglia del 60% dei crediti (artt. 57-60 CCII) e l’assenza di effetti diretti sui creditori estranei (se non per le protezioni temporanee). I creditori non aderenti devono infatti essere pagati integralmente alle scadenze pattuite o entro determinati termini dall’omologa, secondo quanto attestato nel piano.
- Introduce un “accordo agevolato” con requisito ridotto al 30% dei crediti (art. 60 CCII) qualora il debitore non richieda misure protettive e si impegni a pagare tempestivamente i creditori estranei. Questa forma semplificata consente al debitore di perfezionare un accordo con una minoranza qualificata di creditori (30%) evitando il ricorso al concordato preventivo, a condizione che i creditori non aderenti vengano soddisfatti regolarmente fuori dall’accordo (senza moratorie imposte). In pratica, l’accordo agevolato è utile quando il debitore ha già la disponibilità per adempiere i debiti verso i dissenzienti o questi ultimi sono poco rilevanti, mentre necessita di una ristrutturazione pattizia con una parte dei creditori. Se invece il debitore richiede una protezione delle azioni esecutive (stay) o intende pagare i creditori estranei in maniera dilazionata, torna necessaria la soglia ordinaria del 60%.
- Estende gli accordi ad efficacia estesa al di là del solo settore finanziario, generalizzando la possibilità di vincolare anche i creditori non aderenti appartenenti a determinate categorie, se ricorrono precisi presupposti (art. 61 CCII). In altre parole, nel CCII l’accordo di ristrutturazione ad efficacia estesa non è più limitato alle banche, ma può riguardare qualunque categoria omogenea di creditori (finanziari, fornitori, bondholder, ecc.), purché i creditori aderenti di quella categoria rappresentino almeno il 75% dei crediti del gruppo e siano stati rispettati stringenti obblighi di informazione e correttezza nelle trattative. Il tribunale, in sede di omologazione, può quindi estendere le medesime condizioni dell’accordo ai creditori dissenzienti appartenenti alla categoria, eliminando il vantaggio del free rider per chi non partecipa. Questa innovazione attua i principi della Direttiva Insolvency 2019/1023, che incoraggia strumenti per superare le opposizioni indebite dei creditori minoritari e facilitare il risanamento di imprese sane ma appesantite dai debiti.
- Mantiene e rafforza la “transazione fiscale e contributiva” all’interno degli accordi (ora disciplinata dall’art. 63 CCII), prevedendo la possibilità che il tribunale omologhi l’accordo anche senza il consenso dell’Agenzia delle Entrate o degli enti previdenziali (INPS) se la loro adesione sarebbe determinante per il quorum e la proposta è più conveniente della liquidazione. Tale meccanismo, noto come cram-down fiscale, era stato introdotto in via temporanea nel 2020 e poi recepito nel Codice: in sostanza, se il Fisco o l’INPS rifiutano irragionevolmente una proposta di stralcio o dilazione che garantisce loro un recupero superiore a quello ipotizzabile in caso di fallimento, il giudice può omologare ugualmente l’accordo, rendendolo efficace anche nei loro confronti. Nel contempo, è stato imposto agli enti pubblici l’obbligo di esaminare entro 90 giorni le proposte di transazione fiscale e di non rifiutarle in modo immotivato quando risultino più vantaggiose della liquidazione. Questi principi, sanciti dalla L. 159/2020, sono confluiti nel CCII rafforzando la responsabilizzazione della Pubblica Amministrazione nel favorire soluzioni concordate.
Successivamente all’entrata in vigore del Codice (luglio 2022), vi sono stati ulteriori interventi legislativi per affinare l’istituto degli accordi di ristrutturazione e adeguarlo al mutato contesto economico e normativo. In particolare:
- Il D.Lgs. 147/2020 (cosiddetto primo correttivo del CCII) ha introdotto alcune modifiche puntuali ancor prima dell’operatività del Codice, recependo anche misure urgenti legate alla pandemia. Tra queste, si segnalano le disposizioni transitorie che hanno ritardato l’entrata in vigore delle procedure di allerta e composizione assistita della crisi, nonché alcuni adeguamenti in materia di transazione fiscale.
- Il D.L. 118/2021, convertito con L. 147/2021, ha portato importanti novità: da un lato ha introdotto la composizione negoziata della crisi (strumento stragiudiziale volontario in cui un esperto indipendente assiste l’imprenditore nelle trattative), dall’altro ha modificato il CCII prima che entrasse in vigore, inserendo proprio la figura dell’accordo di ristrutturazione agevolato al 30% e posticipando al 15 luglio 2022 l’effettiva efficacia di gran parte del Codice. Grazie a queste modifiche, il nostro ordinamento ha potuto recepire anticipatamente alcune istanze di flessibilità: ad esempio, se l’accordo di ristrutturazione risulta dalla composizione negoziata conclusa con successo, la soglia per l’efficacia estesa intra-categoria può scendere dal 75% al 60%; parimenti, un debitore che abbia esperito la composizione negoziata ottiene benefici anche in sede di concordato (riduzione dal 30% al 20% della soglia di voto per proposte concorrenti). Tali incentivi mirano a premiare l’utilizzo di strumenti stragiudiziali prima di ricorrere al tribunale.
- Il D.Lgs. 83/2022 (cosiddetto secondo correttivo del CCII), emanato a giugno 2022 in attuazione della direttiva europea, ha ulteriormente ritoccato la disciplina. In tema di accordi di ristrutturazione, ha rafforzato le condizioni del cram-down fiscale inserendo l’obbligo di una pluralità di creditori aderenti per poter ottenere l’omologazione forzosa contro il Fisco (art. 63, comma 2-bis CCII). Ciò per evitare accordi “monocreditori” rivolti unicamente all’Erario. Inoltre, il correttivo ha chiarito alcuni aspetti procedurali, armonizzando le norme sull’omologa con quelle del concordato preventivo e introducendo un nuovo strumento, il piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione (PRO), di cui si dirà più avanti.
- Il D.L. 13 giugno 2023, n. 69 (convertito con L. 103/2023, noto anche come decreto “Salva-infrazioni PNRR 2”) è intervenuto per la terza volta sulla materia, imponendo forti limitazioni al cram-down fiscale negli accordi. In particolare, è stato sospeso l’originario meccanismo dell’art. 63 CCII per introdurre in via temporanea (fino all’emanazione di un ulteriore correttivo) nuovi requisiti stringenti: (a) che all’accordo aderiscano altri creditori rappresentanti almeno il 25% dei debiti complessivi dell’impresa, in modo da escludere accordi che coinvolgano il solo Fisco; (b) che, se i creditori pubblici costituiscono la maggior parte dell’indebitamento, la proposta garantisca loro un soddisfacimento minimo non inferiore al 30% dei rispettivi crediti (comprensivi di interessi e sanzioni), soglia che sale al 40% nel caso in cui gli altri creditori aderenti siano meno del 25% o assenti del tutto. Inoltre la dilazione di pagamento al Fisco/enti non può eccedere 10 anni in assenza di un’adeguata platea di altri creditori concorrenti. In pratica, con questa novella il legislatore ha voluto impedire che imprese con debiti quasi esclusivamente fiscali utilizzassero l’accordo di ristrutturazione per imporre all’Erario un recupero esiguo, magari dopo aver già pagato gli altri creditori. Tali condizioni (note come art. 1-bis D.L. 69/2023) rendono più difficile l’omologazione forzosa quando il debito erariale prevale, bilanciando l’efficacia estesa con la tutela dell’interesse pubblico. Ad esempio, se un’azienda ha 10 milioni di debiti di cui 6 milioni verso il Fisco/INPS, per ottenere il cram-down dovrà pagare almeno il 30% di ciascun credito fiscale/previdenziale se altri creditori con almeno 2,5 milioni aderiscono, altrimenti almeno il 40%. Nonché dovrà provare che vi è un accordo genuino con creditori diversi dall’Erario (come sottolineato dalla giurisprudenza: “l’operatività del cram down fiscale richiede un preventivo accordo con altri creditori”).
- Da ultimo, il D.Lgs. 13 settembre 2024, n. 136 (terzo correttivo del CCII) ha apportato ulteriori aggiustamenti, tenendo conto proprio dell’esperienza applicativa del 2022-2023 e del confronto con l’Europa. In particolare, sono state integrate in via permanente le norme sul cram-down fiscale (confermando le soglie del 30-40% e il requisito della pluralità di creditori), ed è stata rivista la disciplina del concordato preventivo dopo le prime prassi applicative. Tali modifiche puntano a rendere il quadro normativo più organico e a chiudere la fase di continue “correzioni” emergenziali, consolidando la disciplina destinata a regime per gli anni a venire.
In conclusione, l’evoluzione normativa ha trasformato gli accordi di ristrutturazione da strumento “contrattuale” limitato (com’era nel 2005) a un istituto maturo, ibrido tra contratto e procedura concorsuale, considerato oggi uno dei fiori all’occhiello del Codice della crisi. La logica attuale è di offrire al debitore un ventaglio di opzioni modulabili: dall’accordo “snello” con pochi creditori (accordo agevolato senza stay) all’accordo tradizionale con protezione e 60%, fino all’accordo complesso con classi e forzatura delle minoranze dissenzienti (efficacia estesa), nonché strumenti affini come i piani attestati di risanamento (meramente privati) e i piani di ristrutturazione soggetti a omologazione (che consentono il cram-down trasversale sul modello del concordato). Nel prossimo paragrafo vedremo innanzitutto chi può accedere a tali accordi e in quali condizioni, per poi approfondire le diverse tipologie di accordo oggi previste dalla legge.
Soggetti Ammessi e Presupposti di Accesso
Dal punto di vista soggettivo, gli accordi di ristrutturazione dei debiti sono generalmente riservati agli imprenditori commerciali assoggettabili a fallimento (ora liquidazione giudiziale), dunque alle imprese di dimensioni non minime. Il Codice della crisi ha infatti distinto nettamente tra gli strumenti per le imprese medio-grandi e quelli per i debitori di minori dimensioni o non fallibili (disciplinati dalle procedure di sovraindebitamento, ora “composizione della crisi per i soggetti non fallibili”). In particolare:
- Imprese individuali e società commerciali sopra soglia: l’imprenditore commerciale che superi i parametri dell’impresa minore può accedere a tutti gli strumenti di regolazione della crisi del Titolo IV CCII, tra cui gli accordi di ristrutturazione ex artt. 57-64, il concordato preventivo e il nuovo piano di ristrutturazione omologato (PRO). Questi soggetti – tipicamente società di capitali, società di persone e ditte individuali con un certo volume di affari – sono i destinatari “canonici” degli accordi di ristrutturazione dei debiti. Nel caso di società cooperative, esse rientrano anch’esse tra gli imprenditori collettivi commerciali; se versano in insolvenza possono essere sottoposte a liquidazione coatta amministrativa secondo le leggi speciali, ma nulla vieta che possano ricorrere ad un accordo di ristrutturazione per evitare la dissoluzione, sempreché ne rispettino i requisiti.
- Imprese minori: il CCII definisce impresa minore quella che, negli esercizi precedenti, non ha superato determinati limiti dimensionali (attivi, ricavi, debiti) indicati dall’art. 2 CCII. Tali imprese – analoghe ai “piccoli imprenditori” non fallibili del vecchio ordinamento – non possono accedere alle procedure maggiori come il concordato preventivo o il PRO. Per loro, il Codice prevede strumenti dedicati, in particolare il concordato minore e gli accordi di ristrutturazione dei debiti previsti per i sovraindebitati (procedura ispirata alla L. 3/2012). Tecnicamente, un’impresa minore non potrebbe omologare un accordo ex art. 57 CCII, ma dovrebbe piuttosto utilizzare l’accordo di composizione della crisi (ex L. 3/2012) ora inserito nel Capo II del Titolo IV. Vi è però dibattito in dottrina: taluni ritengono che l’impresa minore, pur esclusa dalle procedure maggiori, possa comunque predisporre un piano attestato di risanamento ex art. 56 CCII o un accordo stragiudiziale, beneficiando di alcune esenzioni (ad es. esenzione da revocatoria ex art. 166 c.3 lett. d CCII). Resta fermo che, per un accordo con efficacia erga omnes, l’imprenditore minore dovrebbe inquadrarsi nella disciplina del sovraindebitamento.
- Imprenditori agricoli: tradizionalmente esclusi dal fallimento, gli imprenditori agricoli avevano accesso soltanto alle procedure di sovraindebitamento. Il CCII ha parzialmente modificato questo scenario, prevedendo che l’imprenditore agricolo di sufficienti dimensioni (“non minore”) possa accedere agli accordi di ristrutturazione (oltre che al piano attestato). Ciò consente alle imprese agricole medio-grandi di ristrutturare i propri debiti attraverso un accordo omologato, pur restando escluse dal concordato preventivo e dalla liquidazione giudiziale (potranno al più essere soggette a liquidazione controllata in caso di insolvenza). È un’apertura importante: basti pensare alle aziende vitivinicole, agroalimentari o zootecniche di grandi dimensioni, che in passato non avevano strumenti concorsuali ad hoc se non l’accordo di composizione da sovraindebitamento. Oggi, un agricoltore non di piccole dimensioni potrà negoziare con le banche e i fornitori un accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 57 CCII e sottoporlo all’omologazione del tribunale, esattamente come farebbe un’impresa industriale. Resta inteso che i privilegi agrari su beni e prodotti potranno essere oggetto di trattamento nell’accordo, rispettando le regole sui crediti privilegiati.
- Enti non commerciali e privati non imprenditori: se il debitore è una persona fisica consumatore, un professionista, una start-up innovativa o altro soggetto non fallibile, l’accordo di ristrutturazione in senso tecnico non è applicabile. Tali debitori possono però utilizzare gli strumenti della composizione negoziata (se imprenditori iscritti) e soprattutto le procedure di sovraindebitamento (accordo di composizione, piano del consumatore, ecc.). Questa guida, tuttavia, è focalizzata sui debitori d’impresa, per cui non approfondiremo oltre le soluzioni per i privati non imprenditori.
Oltre ai requisiti soggettivi legati alla categoria di debitore, occorre la presenza di determinati presupposti oggettivi di natura economico-finanziaria per accedere a un accordo di ristrutturazione. Il debitore deve trovarsi in uno stato di crisi o insolvenza (anche solo probabile o imminente) e avere la concreta prospettiva di risanare la propria posizione attraverso l’accordo. Più precisamente, il CCII distingue:
- Stato di pre-crisi: condizioni di squilibrio economico-finanziario iniziali che rendono probabile una futura crisi o insolvenza, ma con l’impresa ancora in grado di reggere (early warning).
- Stato di crisi: difficoltà non transitorie che pregiudicano l’equilibrio finanziario, pur senza sfociare in insolvenza conclamata (ad esempio tensioni di liquidità, inizio di arretrati, ma azienda ancora operativa). Il CCII lo definisce come “lo stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza”.
- Stato di insolvenza: incapacità attuale e non temporanea di far fronte regolarmente alle obbligazioni, manifestata con inadempimenti o altri fattori esteriori (definizione mutuata dall’art. 2, co.1, lett. b, CCII).
Gli accordi di ristrutturazione possono essere utilizzati sia in caso di crisi incipiente sia quando l’impresa è già insolvente, purché vi sia la possibilità concreta di un risanamento (anche parziale). Contrariamente a un equivoco diffuso, l’insolvenza non preclude l’accesso a un accordo di ristrutturazione: se l’azienda, pur insolvente, è ancora recuperabile attraverso il piano (ad esempio grazie a ristrutturazioni del debito, nuove finanze, cessione di rami d’azienda, ecc.), l’accordo è ammissibile. Ciò è coerente con l’idea moderna di ristrutturazione preventiva: intervenire prima che sia troppo tardi, ma anche permettere accordi in extremis se possono evitare la liquidazione distruttiva del valore. Tuttavia, va da sé che se l’insolvenza è irreversibile (azienda priva di prospettive, attività ferma, patrimonio incapiente), un accordo in continuità non sarebbe fattibile – in tal caso l’unica strada è una procedura liquidatoria (liquidazione giudiziale o concordato liquidatorio). Un perito attestatore indipendente dovrà sempre certificare, nel caso di accordo, che il piano è fattibile e che i creditori non aderenti riceveranno almeno quanto otterrebbero in caso di liquidazione forzata, pena la mancata omologazione.
In pratica, dal punto di vista del debitore, i passaggi preliminari per valutare l’accesso a un accordo di ristrutturazione sono:
- Analisi della propria situazione: valutare l’entità del dissesto, la composizione del debito (quanti creditori, tipologia, importi), e se esistono prospettive di riequilibrio (es. nuovi investitori, asset cedibili, ritorno all’utile). Se il debito è concentrato in pochi creditori rilevanti, l’accordo è più agevole; se frammentato in molti piccoli creditori, è più complesso ottenere adesioni.
- Verifica dei requisiti legali: assicurarsi di rientrare tra i soggetti ammessi (non essere “impresa minore” se si vuol fare un accordo ex art.57; in caso contrario considerare l’accordo di composizione sovraindebitamento). Inoltre, valutare se lo stato di crisi/insolvenza è reversibile con misure adeguate: se si prospetta solo la liquidazione, considerare un accordo con finalità liquidatoria o altre procedure.
- Valutazione delle alternative: comparare l’accordo con altre soluzioni (piano attestato puro, concordato preventivo, cessione dell’azienda, liquidazione giudiziale). L’accordo è preferibile se si desidera evitare la pubblicità e la complessità del concordato, mantenendo rapporti più consensuali con i creditori. Viceversa, se servono effetti che solo il concordato dà (es. moratoria sui privilegiati senza consenso, liberazione da contratti onerosi, sacrificio di creditori dissenzienti oltre le categorie del 61 CCII), forse l’accordo non basta.
In generale, l’accordo di ristrutturazione è consigliabile per imprese ancora operative e con buone possibilità di ripresa, ma temporaneamente appesantite dai debiti, che vogliono evitare la paralisi aziendale e conservare il controllo. PMI industriali o commerciali frequentemente ricorrono a questo strumento quando hanno forte esposizione con banche o Erario e necessitano di rinegoziare tempi di pagamento e ridurre il carico debitorio mantenendo la fiducia di clienti e fornitori. Anche aziende più grandi lo usano come alternativa più rapida al concordato, specie in presenza di un numero contenuto di creditori chiave.
Nei prossimi paragrafi analizzeremo nel dettaglio le tipologie di accordi di ristrutturazione previste dalla normativa vigente, evidenziandone caratteristiche, requisiti e differenze. Successivamente, illustreremo il procedimento pratico per negoziare, concludere e far omologare un accordo, dal deposito in tribunale fino all’esecuzione finale.
Tipologie di Accordi di Ristrutturazione dei Debiti
Il Codice della crisi disciplina varie forme di accordo di ristrutturazione, che possiamo distinguere in base alle soglie di adesione richieste e agli effetti prodotti verso i creditori estranei. Le principali tipologie sono:
- Accordo di ristrutturazione “ordinario” – Richiede il consenso di almeno il 60% dei crediti. Non consente di imporre modifiche ai creditori non aderenti, se non nei limiti di una breve moratoria legale. È l’erede dell’art. 182-bis L.F. ed è il modello “base” di accordo.
- Accordo di ristrutturazione “agevolato” – Introdotto dal 2021 (art. 60 CCII), consente l’omologa con adesioni pari ad almeno il 30% dei crediti, ma solo a determinate condizioni restrittive (assenza di stay, pagamento integrale e tempestivo dei non aderenti). È uno strumento pensato per facilitare accordi parziali e veloci.
- Accordo di ristrutturazione ad efficacia estesa – Previsto dagli artt. 61 e 62 CCII, permette di estendere gli effetti dell’accordo anche ai creditori dissenzienti appartenenti a determinate categorie omogenee, purché vi aderiscano i creditori di quella categoria in misura qualificata (in genere almeno 75% dei crediti della categoria). È un meccanismo di “cram down” intraclasse che ibrida l’accordo con logiche da concordato preventivo.
- Accordo con transazione fiscale e contributiva – Non è una categoria a sé stante, ma una componente spesso presente negli accordi: riguarda il trattamento dei debiti verso il Fisco e gli enti previdenziali. Può prevedere stralci o dilazioni su tali crediti, ed è soggetto a una disciplina particolare (art. 63 CCII) con possibili omologazioni forzose in caso di diniego degli enti pubblici, alle condizioni di legge.
- Convenzione di moratoria – Anch’essa disciplinata in Capo I (art. 62 CCII), è un accordo limitato a sospendere le azioni dei creditori finanziari per un periodo, in attesa di una più ampia ristrutturazione. Può essere autonomo o preludio di un accordo di ristrutturazione completo, ed è estendibile ai dissenzienti se approvata da una forte maggioranza di banche.
Di seguito esaminiamo in dettaglio le prime tre categorie (ordinario, agevolato, efficacia estesa) e, in separato paragrafo, la transazione fiscale, data la sua importanza pratica.
Accordo di Ristrutturazione Ordinario (60%)
L’accordo ordinario è la forma “standard” di accordo di ristrutturazione. Prevede che il debitore raggiunga e sottoscriva un accordo con una parte consistente dei suoi creditori, rappresentante almeno il 60% dell’ammontare totale dei crediti verso l’impresa. Questa percentuale si calcola sui crediti complessivi risultanti dall’elenco depositato in tribunale, includendo tutti i creditori chirografari e privilegiati per l’intero valore del loro credito (non sono invece conteggiati i crediti subordinati). Il quorum del 60% va riferito ai crediti aderenti all’accordo, indipendentemente dal numero di creditori: ad esempio, se un debitore ha 10 milioni di debiti, occorre l’adesione di creditori per almeno 6 milioni. Non conta la natura dei crediti (chirografari, privilegiati, ecc.) ai fini del computo, ma soltanto il loro importo nominale. Ciò può favorire il debitore: il voto (o meglio, l’adesione) di un grande creditore ipotecario capiente vale di più nel calcolo del 60% rispetto al meccanismo del concordato, dove quel creditore ipotecario potrebbe non incidere sulle classi di chirografari. In altri termini, ai fini del quorum negli accordi si sommano tutti i crediti aderenti, creando un effetto “per teste ponderate per importo” che può agevolare il raggiungimento della soglia se il passivo è concentrato.
Effetti sui creditori non aderenti: i creditori che non aderiscono all’accordo ordinario restano giuridicamente estranei e non vincolati dalle modifiche proposte. Ciò significa che conservano il diritto di essere pagati integralmente secondo le condizioni originarie dei loro crediti (scadenze, interessi, garanzie, ecc.), come se l’accordo non esistesse. Tuttavia, l’omologazione dell’accordo produce alcuni effetti indiretti anche verso di loro: innanzitutto, la legge richiede che il piano allegato all’accordo preveda misure idonee ad assicurare che essi vengano comunque soddisfatti per intero entro certi termini (art. 57, comma 3, CCII). In particolare, se un creditore estraneo ha già il credito scaduto, dovrà essere pagato al più tardi entro 120 giorni dall’omologazione; se ha credito a termine non scaduto, entro 120 giorni dalla scadenza originaria. L’attestatore indipendente deve espressamente dichiarare nella sua relazione che il piano è idoneo ad assicurare il pagamento integrale dei creditori estranei nei termini di legge. Questo vincolo tutela i non aderenti, impedendo che l’accordo sia omologato se pregiudica le loro aspettative di recupero. Inoltre, dopo il deposito dell’accordo in tribunale, scatta una protezione temporanea: il debitore può chiedere al giudice misure protettive (stay) che sospendono o vietano azioni esecutive individuali di tutti i creditori (o di alcuni) durante la pendenza dell’omologa. Tali misure protettive, se concesse, valgono anche nei confronti dei creditori non aderenti, impedendo loro di intraprendere pignoramenti o sequestri e congelando di fatto le loro pretese per la durata dello stay (inizialmente fino a 4 mesi, prorogabili). Al termine, se l’accordo è omologato, i non aderenti saranno pagati come previsto; se l’omologa non arriva, potranno riprendere le azioni. Infine, l’omologa comporta che i pagamenti eseguiti in esecuzione dell’accordo non siano soggetti a revocatoria fallimentare in caso di successivo fallimento del debitore. Questo beneficio si estende a tutti i pagamenti effettuati in attuazione del piano omologato, anche verso i creditori estranei pagati fuori accordo: tali pagamenti non potranno essere revocati dal curatore se il debitore fallisce dopo, e il debitore stesso non sarà perseguibile per bancarotta preferenziale per aver favorito alcuni creditori in esecuzione dell’accordo. È un incentivo importante per i creditori estranei ad accettare pagamenti nel contesto dell’accordo senza temere azioni future.
Flessibilità dell’accordo ordinario: dal lato del debitore, l’accordo ordinario offre ampia flessibilità di contenuti. Non c’è un rigido obbligo di parità di trattamento se non tra creditori di identica posizione giuridica, e comunque i creditori aderenti possono concordare trattamenti differenziati caso per caso. Ad esempio, il debitore può convenire con un creditore chirografo il pagamento al 50% in 12 mesi e con un altro il pagamento al 30% in 6 mesi; oppure garantire ad alcuni la conversione del debito in quote societarie, ad altri il rilascio di garanzie reali, etc. Non vi è neppure l’obbligo di formare classi di voto omogenee (come nel concordato), anche se – come vedremo – può essere opportuno classificare i creditori in categorie per l’eventuale richiesta di efficacia estesa. L’importante è che l’accordo sia sottoscritto individualmente da ciascun creditore aderente per accettazione delle proprie condizioni. Il debitore dunque gode di maggiore libertà negoziale rispetto a un concordato: può derogare all’ordine delle cause di prelazione con il consenso del singolo creditore privilegiato (ad esempio pagando parzialmente un ipotecario che accetti di rinunciare in parte alla garanzia) e non deve necessariamente assicurare lo stesso trattamento a tutti i chirografari. Questo consente soluzioni “tagliate su misura” per ciascun creditore chiave. Ad esempio, in un accordo si potrebbe prevedere: pagamento integrale di fornitori strategici; stralcio del 40% ai restanti chirografari; mantenimento delle linee bancarie con allungamento piano di rientro; conversione in capitale dei debiti verso la società controllante, ecc. Ciò sarebbe più arduo in concordato a causa dei vincoli di formazione classi e par condicio intra-classe.
D’altro canto, l’accordo ordinario soffre dei medesimi limiti originari: la difficoltà pratica di ottenerlo quando i creditori sono numerosi e non coordinati, nonché il fatto che i creditori estranei rimangono liberi. Se il passivo dell’impresa è diffuso tra centinaia di creditori (come piccoli fornitori, clienti con acconti, lavoratori, ecc.), arrivare al 60% di adesioni può essere proibitivo: basta che molti non rispondano o pretendano il 100% per non aderire, per far fallire l’iniziativa. In tali casi spesso è preferibile ricorrere al concordato preventivo, dove il silenzio si traduce in voto favorevole o in non voto non computato (quorum calcolato solo sui votanti). Inoltre, la posizione dei creditori “essenziali” può creare una rendita: se uno o pochi creditori detengono crediti sufficienti a bloccare il raggiungimento del 60%, essi sapranno di avere un potere negoziale enorme e potrebbero pretendere condizioni di favore per concedere l’adesione (il che può finire per discriminare altri creditori).
Resta comunque che l’accordo ordinario, quando attuabile, presenta notevoli vantaggi per il debitore: economicità (non vi è un commissario giudiziale, la procedura di omologa è più snella e rapida di un concordato); riservatezza relativa (anche se l’accordo si pubblica presso il Registro Imprese, non c’è la stessa pubblicità di un fallimento e l’imprenditore mantiene la gestione); salvaguardia del controllo (nessuno spossessamento: l’imprenditore rimane amministratore con piene funzioni, sotto la sola vigilanza eventuale del tribunale in caso di atti straordinari); flessibilità di soluzioni come detto. Pertanto, per PMI o società in cui i creditori principali sono pochi (ad esempio solo banche e qualche grande fornitore), l’accordo ordinario è spesso il primo tentativo di risanamento. Qualora però risulti impossibile ottenerne le adesioni richieste, il debitore potrà valutare di alzare l’asticella: o cercando la via dell’accordo “esteso” (se ha almeno una categoria di creditori omogenea a larga maggioranza) o passare a una procedura concorsuale votata.
Accordo di Ristrutturazione Agevolato (30%)
L’accordo agevolato (art. 60 CCII) è una variante semplificata dell’accordo di ristrutturazione, pensata per i casi in cui il debitore non riesce a conseguire il consenso del 60% dei creditori, ma può contare su un nucleo di adesioni significative pari ad almeno il 30% del totale debiti. Introdotto con il D.L. 118/2021, questo strumento consente di omologare un accordo con una soglia ridotta al 30%, a condizione però che tutti i creditori non aderenti vengano soddisfatti integralmente e puntualmente al di fuori dell’accordo e che non sia necessario attivare le misure protettive giudiziali. In pratica, è un accordo “light” destinato a quei debitori che:
- Hanno già pagato (o sono in grado di pagare) una parte dei creditori e vogliono trattare solo con alcuni creditori specifici; oppure
- Intendono lasciare estranei gli altri creditori (pagandoli normalmente) e ristrutturare solo il debito verso un gruppo di creditori con i quali hanno concordato condizioni diverse.
I requisiti per l’accordo agevolato sono tassativi:
- Adesioni ≥ 30%: i creditori che sottoscrivono l’accordo devono rappresentare almeno il 30% dell’indebitamento dell’impresa. Ad esempio, se il totale debiti è 10 milioni, occorrono adesioni per almeno 3 milioni.
- Nessuna richiesta di misure protettive: il debitore rinuncia a chiedere al tribunale lo stay delle azioni esecutive. Ciò implica che, durante le trattative e fino all’omologa, eventuali creditori estranei potrebbero avviare pignoramenti. Il debitore sceglie consapevolmente di non avvalersi della protezione giudiziale per poter sfruttare la soglia ridotta.
- Pagamento integrale e tempestivo dei creditori estranei: l’accordo e il piano devono prevedere che i creditori non aderenti siano pagati per intero alle loro scadenze originarie (o al massimo immediatamente dopo l’omologa, se già scaduti). In sostanza, i non aderenti non subiscono alcuna modifica nei loro diritti: ricevono il 100% di quanto dovuto, nei tempi contrattuali. Questa clausola garantisce che l’accordo al 30% non arrechi pregiudizio agli “estranei”, i quali quindi non avrebbero ragione di opporsi (essendo indifferenti o soddisfatti integralmente).
Se queste condizioni sono rispettate, il tribunale può omologare l’accordo anche se la percentuale di consensi è solo il 30%. È chiaro che tale strumento si rivolge a situazioni particolari. Un caso tipico è il seguente: un imprenditore ha numerosi piccoli debiti ma anche pochi grandi debiti verso banche; decide di saldare tutti i piccoli fornitori e i dipendenti (magari grazie a un finanziamento ponte o all’incasso di crediti), rimanendo con debiti principalmente verso due banche che rappresentano il 35% del passivo. A quel punto, negozia con queste due banche un accordo per ristrutturare il loro credito (es. allungare le scadenze, ridurre tassi, ecc.) e ottiene l’adesione di entrambe: ha così il 35% del passivo che aderisce, e nessun altro creditore rilevante. Può depositare l’accordo agevolato, senza chiedere misure protettive (non servono, avendo già pagato gli altri) e il tribunale lo omologherà perché i rimanenti creditori estranei sono stati soddisfatti fuori dall’accordo.
L’assenza dello stay e la tutela integrale degli estranei rendono l’accordo agevolato molto appetibile per i creditori non aderenti – di fatto sono come spettatori passivi che ricevono comunque il 100%. Per il debitore, invece, l’impegno è gravoso: deve essere in condizione di reggere eventuali azioni esecutive (non avendo protezione) e di reperire la liquidità per pagare tutti i non aderenti a scadenza. Pertanto, l’accordo agevolato è possibile soprattutto quando il monte dei creditori non aderenti è relativamente esiguo o comunque gestibile con la cassa aziendale o con supporto di terzi.
Un vantaggio importante dell’accordo agevolato, dal punto di vista del debitore, è di evitare la formalità e il possibile stigma di un concordato preventivo nel caso in cui i consensi disponibili siano inferiori al 60% ma superiori al 30%. In circostanze normali, un debitore col 30-40% di adesioni non potrebbe omologare un 182-bis (quorum mancante) e sarebbe costretto a tentare un concordato preventivo, con incertezza dell’esito della votazione. Invece, grazie all’art. 60 CCII, può chiudere la partita con quel 30-40% di creditori, a patto che gli altri siano estranei pagati. In un certo senso, l’accordo agevolato scorpora l’elemento concordatario: non serve convincere tutti i creditori, basta trattare con alcuni e “sistemare” gli altri in parallelo.
Di contro, la rinuncia alle misure protettive comporta dei rischi: se anche un solo creditore estraneo di peso decidesse di iniziare azioni esecutive o cautelari (pignoramenti, ipoteche, decreto ingiuntivo con sequestro) durante le trattative o prima dell’omologa, potrebbe mettere in difficoltà l’impresa. Il debitore quindi deve valutare attentamente se i suoi creditori estranei sono collaborativi o comunque soddisfatti (ad esempio, perché in bonis o già pagati parzialmente). Nella prassi, spesso l’accordo agevolato viene utilizzato dopo aver usato la composizione negoziata: l’esperto negoziale aiuta l’imprenditore a ottenere una moratoria di fatto e a convincere alcuni creditori strategici, dopodiché si formalizza un accordo con il 30% e si pagano gli altri con eventuali nuove risorse. Proprio il CCII incentiva questo percorso prevedendo la riduzione dei quorum in caso di esito positivo della negoziazione assistita.
In sintesi, l’accordo agevolato amplia le opzioni del debitore in crisi: rappresenta un compromesso tra un piano attestato (dove non c’è omologa né vincolo per nessuno, ma solo accordi bilaterali) e un accordo ordinario. Consente di concludere accordi anche con minoranze più esigue di creditori, a patto di non “toccare” gli altri. In tal senso, è uno strumento dal carattere spiccatamente contrattuale, con minima interferenza del giudice (che di fatto controlla solo che siano rispettate le condizioni di legge e che i dati siano veritieri). Ovviamente anche qui serve la relazione dell’attestatore, che garantirà che il piano è fattibile e che i creditori estranei sono pagati regolarmente.
Per fare un esempio concreto: la società Alfa S.r.l. ha debiti totali per 5 milioni (2 mln verso fornitori vari, 1 mln verso dipendenti e TFR, 2 mln verso una banca). Grazie a un aumento di capitale dei soci, Alfa dispone di liquidità per pagare integralmente i dipendenti e i piccoli fornitori (per un totale di 2 mln). Decide così di proporre un accordo solo alla banca: la banca (che da sola detiene il 40% del debito) accetta di ristrutturare i 2 mln facendosi rimborsare 1,5 mln in 5 anni con interessi ridotti, rinunciando a 0,5 mln. La banca firma l’accordo (abbiamo il 40%). Tutti gli altri creditori sono stati pagati o verranno pagati normalmente. Alfa deposita l’accordo con la banca entro 30 giorni dalla firma, allegando il piano attestato che dimostra la capacità di pagare la banca nei 5 anni e che già i fornitori/dipendenti sono stati soddisfatti. Non chiede misure protettive (non servono, non ci sono crediti scaduti). Trascorsi 30 giorni senza opposizioni (nessun creditore ha motivo di opporsi, essendo tutti pagati salvo la banca consenziente), il tribunale omologa l’accordo. Risultato: Alfa ha ridotto il suo debito del 10% (da 5 a 4,5 mln), con stralcio ottenuto dalla banca, e dilazionato il resto senza dover passare per un concordato, mantenendo buoni rapporti con fornitori e staff (che hanno ricevuto tutto). La banca peraltro non correva il rischio di meglio di così in un fallimento, quindi ha accettato volentieri. Questo scenario illustra la logica win-win che può emergere in un accordo agevolato ben orchestrato.
Accordo di Ristrutturazione a Efficacia Estesa
L’accordo ad efficacia estesa rappresenta l’evoluzione più sofisticata degli accordi di ristrutturazione, poiché consente di vincolare anche taluni creditori dissenzienti. Esso si basa sul meccanismo delle categorie di creditori omogenei: il debitore raggruppa i propri creditori in classi secondo posizione giuridica e interessi comuni (ad esempio: banche chirografarie in una categoria, obbligazionisti in un’altra, fornitori trade in un’altra ancora). Se all’interno di una di queste categorie, i creditori che aderiscono all’accordo rappresentano almeno il 75% dei crediti della categoria stessa, il debitore può chiedere al tribunale di estendere gli effetti dell’accordo anche ai creditori appartenenti a quella categoria che non hanno aderito. In pratica, la minoranza dissenziente di quella classe viene “trascinata” nell’accordo: perderà il diritto di agire per il pagamento integrale secondo le condizioni originarie e dovrà accettare il trattamento previsto nell’accordo per la categoria, al pari dei colleghi aderenti.
Questo istituto, già sperimentato in forma ristretta per le banche nell’art. 182-septies L.F., è stato generalizzato dall’art. 61 CCII per qualunque tipologia di creditori. Condizioni chiave per l’efficacia estesa intra-categoria sono:
- La categorie devono essere formate da creditori con posizione giuridica ed economica omogenea (tipicamente tutti chirografari, oppure tutti privilegiati dello stesso grado, o comunque con interessi similari). Non si può estendere l’accordo a creditori che non siano stati inclusi in alcuna categoria o che appartengano a categorie senza il quorum. Dunque la classificazione iniziale è fondamentale.
- I creditori non aderenti della categoria siano stati informati delle trattative e posti in condizione di partecipare ad esse in buona fede. Questo requisito viene verificato rigorosamente: occorre provare di aver coinvolto tutti i membri della classe nelle negoziazioni (es. inviando comunicazioni, condividendo il piano, invitandoli a incontri). L’art. 61, co.2 lett. a, CCII richiede espressamente la prova che ai creditori dissenzienti sia stata data informativa leale e possibilità di discutere. Ciò per evitare che il debitore accordi condizioni con alcuni creditori “di nascosto” escludendone altri, per poi imporle con l’estensione.
- All’interno della categoria, l’accordo deve essere stato approvato da almeno il 75% dei crediti. Questa è una maggioranza qualificata superiore a quella ordinaria del 60% (che si riferisce al totale crediti). Si tratta di replicare, su base volontaria, il concetto del voto di maggioranza qualificata tipico dei concordati, ma limitato al perimetro di una classe di creditori omogenei. Se il quorum è raggiunto, la minoranza (25% o meno) può essere assoggettata. Se non è raggiunto, niente efficacia estesa per quella categoria: i dissenzienti restano fuori.
- Best interest test e parità di trattamento: i creditori non aderenti che si vuole vincolare non devono ricevere un trattamento deteriore rispetto agli altri della stessa categoria e non devono essere pregiudicati rispetto all’alternativa liquidatoria. In altre parole, l’estensione può avvenire solo se: a) ai dissenzienti è offerto esattamente lo stesso trattamento (in termini di percentuale, tempistiche, garanzie) che hanno accettato i consenzienti di quella classe; b) tale trattamento è almeno pari (come valore attuale) a quanto otterrebbero in un fallimento o liquidazione giudiziale del debitore. Questi principi garantiscono equità e ragionevolezza: un creditore dissenziente non potrà lamentare di essere messo peggio di altri pari grado o di essere forzato a subire perdite maggiori di quelle inevitabili nella liquidazione.
- Relazione attestatore ad hoc: l’esperto indipendente nella sua relazione deve evidenziare l’esistenza delle condizioni per l’efficacia estesa, attestando la corretta formazione delle categorie, l’omogeneità dei trattamenti e la convenienza per i dissenzienti vincolati.
Se tutte queste condizioni sono soddisfatte, in sede di omologazione il tribunale potrà emanare un decreto che estende gli effetti dell’accordo ai creditori dissenzienti indicati (specificandoli nominalmente). Da quel momento, quei creditori saranno considerati alla stregua di aderenti: ad esempio, se l’accordo prevede per la categoria “fornitori chirografari” un pagamento del 50% in 24 mesi, anche il fornitore X che non ha firmato dovrà accontentarsi del 50% in 24 mesi e non potrà agire per il 100% subito. Naturalmente, se tentasse un’azione esecutiva, il debitore opporrebbe l’intervenuta omologazione e il giudice dell’esecuzione la dichiarerebbe improcedibile per effetto dell’accordo omologato.
Esempio pratico di efficacia estesa: si supponga che Beta S.p.A. abbia 5 banche finanziatrici esposte per importi diversi, ma appartenenti tutte alla categoria “banche chirografarie”. Beta negozia un accordo dove propone alle banche la conversione del 20% dei loro crediti in partecipazioni e la dilazione del rimanente 80% in 6 anni al tasso X. 4 banche su 5 aderiscono, rappresentando l’85% del totale crediti bancari; la quinta banca, titolare del 15%, rifiuta perché spera di ottenere di più facendo azione esecutiva. Beta, avendo superato il quorum del 75% nella categoria “banche”, può chiedere l’omologa con efficacia estesa: dimostrerà che tutte le banche erano informate e che alla dissenziente offre comunque 100% (tra equity e rientro) in 6 anni, probabilmente più di quanto recupererebbe subito vendendo garanzie (supponiamo creditore chirografo puro, quindi in fallimento avrebbe avuto il 30%). Il tribunale verifica e omologa estendendo l’accordo anche alla banca dissenziente, la quale dunque sarà obbligata ad accettare la conversione del 20% e l’incasso dell’80% in 6 anni, perdendo ogni titolo per pretendere subito il 100%. Beta S.p.A. ha così evitato che una sola banca (magari speculativa) mandasse a monte il piano di risanamento.
Profili particolari e novità normative: l’accordo ad efficacia estesa per sua natura solleva questioni delicate, perché incide sul principio della volontarietà contrattuale. Il legislatore ha dunque predisposto alcune cautele aggiuntive. Una è quella già citata della buona fede nelle trattative. Un’altra, inserita nel 2022 e 2023, è l’obbligo che l’accordo coinvolga più creditori e non sia costruito ad hoc con un solo creditore da “forzare”. Ciò deriva dal concetto di “interesse concorsuale”: la Cassazione ha affermato che il cram-down (anche intraclasse) trova giustificazione solo se c’è un accordo di ristrutturazione genuino con una platea di creditori, e non quando si cerca di imporre la volontà del debitore a un unico creditore isolato. È quindi richiesto che vi sia uno “spirito di accordo” con almeno una parte del ceto creditorio: l’art. 63 CCII dopo le modifiche 2022/23 prevede espressamente che l’omologazione forzosa fiscale (come caso particolare di efficacia estesa) sia inammissibile se l’Erario è l’unico creditore coinvolto. Analogamente, possiamo dedurre che un accordo ad efficacia estesa in cui si tentasse di formare una classe con un solo creditore dissenziente non troverebbe accoglimento (manca proprio il concetto di maggioranza).
Ulteriore novità: inizialmente la legge prevedeva per il cram down fiscale un limite del 30%/40% (già illustrato), ma solo se l’accordo non aveva carattere liquidatorio. Questo accenno introduce un tema: è possibile un accordo ad efficacia estesa che sia liquidatorio? In teoria sì (ad esempio un accordo per vendere i beni e pagare i creditori in percentuale), ma il legislatore sembra scoraggiare l’uso dell’efficacia estesa in contesti meramente liquidatori, riservando tali situazioni al concordato preventivo liquidatorio. Infatti tra le condizioni di quell’art. 1-bis D.L.69/2023 vi era: “gli accordi di ristrutturazione non hanno carattere liquidatorio” quale condizione per il cram-down fiscale facilitato al 30%. La ratio potrebbe essere: se l’impresa è destinata a cessare, tanto vale utilizzare il concordato (che coinvolge tutti i creditori) piuttosto che cercare di forzare pochi creditori in un accordo. Ad ogni modo, un accordo liquidatorio puro sarebbe difficile da conciliare con la necessità di pagare per intero gli estranei (se si vuole efficacia estesa su qualcuno, quell’altro qualcuno deve essere in una classe pagata parzialmente… ma allora quell’accordo è concettualmente simile a un concordato). Approfondiremo più avanti i profili degli accordi liquidatori.
In sintesi, l’accordo ad efficacia estesa è un potente strumento per il debitore: lo mette in grado di superare il veto di minoranze e di dare all’accordo un effetto erga omnes quasi come un concordato, pur restando in ambito negoziale. È stato definito la “punta di diamante” della riforma. Ovviamente, presenta anche criticità: richiede notevole preparazione del terreno (informare tutti i creditori, predisporre un piano convincente, ottenere almeno il 75% di adesioni in categoria, soglia alta), e potrebbe essere soggetto a contenziosi in sede di omologa (le opposizioni dei dissenzienti saranno agguerrite, magari contestando la categoria o la valutazione di convenienza). Il giudice esercita un controllo di legalità e merito molto attento in questi casi, verificando non solo i numeri ma anche la correttezza sostanziale dell’accordo. Se un creditore opponente prova che riceverebbe meno del valore di liquidazione, il tribunale dovrà negare l’omologa, oppure – come previsto dal nuovo art. 48 co.5 CCII – escludere quel creditore dall’accordo. Quest’ultima possibilità (omologa parziale con esclusione del dissenziente) è un’altra novità: il tribunale può decidere di omologare ugualmente l’accordo efficacia estesa ma, accogliendo l’opposizione del singolo creditore, lasciare quel creditore fuori dagli effetti, in modo da non penalizzarlo e al contempo non affossare l’accordo per tutti gli altri. In pratica l’accordo varrà per tutti salvo che per Tizio, che resta libero (e da pagare a parte). È un’opzione estrema, utilizzata se l’estromissione di quel credito non compromette la fattibilità generale e se il debitore è comunque in grado di farvi fronte separatamente.
Convenzione di moratoria: merita qui un breve cenno la convenzione di moratoria, disciplinata dall’art. 62 CCII. Si tratta di un accordo stipulato tra l’imprenditore e uno o più creditori (tipicamente istituti finanziari) con cui essi convengono di sospendere o rinviare le azioni di recupero dei crediti per un certo periodo, in attesa di un piano di ristrutturazione. È quindi un accordo “ponte”, spesso propedeutico a un accordo di ristrutturazione pieno o a un concordato. La convenzione di moratoria è generalmente sottoscritta dai creditori finanziari che rappresentano almeno il 75% dei crediti di quella categoria e, se raggiunge tale soglia, può essere estesa ai creditori finanziari dissenzienti analogamente a quanto avviene per l’accordo di ristrutturazione. Tuttavia, ha una durata limitata (di solito pochi mesi) e un contenuto circoscritto: semplicemente congelare i pagamenti dovuti (ad esempio sospendere rate di mutui, leasing, etc.) e impegnarsi a non iniziare o proseguire azioni esecutive in quel frattempo. La convenzione di moratoria viene omologata dal tribunale e consente all’impresa di guadagnare tempo prezioso per definire un piano definitivo, contando su una tregua da parte delle banche. È stata introdotta nel 2015 per facilitare gli standstill agreements e ridurre il rischio che un singolo finanziatore rovini la trattativa collettiva. Nella pratica post-2022, la convenzione di moratoria potrebbe risultare meno utilizzata perché la composizione negoziata offre strumenti simili (le misure protettive su richiesta dell’esperto) senza bisogno di accordi formali; rimane però utile nei casi in cui si voglia coinvolgere solo il ceto bancario e formalizzare una moratoria con efficacia erga omnes fra di essi.
Trattamento dei Debiti Fiscali e Previdenziali negli Accordi (Transazione Fiscale)
Un capitolo cruciale degli accordi di ristrutturazione riguarda i debiti verso l’Erario (Agenzia Entrate) e gli enti previdenziali (INPS). Questi crediti – IVA, ritenute, imposte, contributi – spesso costituiscono una parte significativa del passivo delle imprese in crisi, godono di privilegi e regole proprie, e la loro gestione è delicata perché tocca interessi pubblici. La normativa consente di includerli negli accordi attraverso la cosiddetta transazione fiscale e contributiva (ora regolata dall’art. 63 CCII). Vediamo i punti salienti:
- Proposta di transazione fiscale: il debitore, nel piano di ristrutturazione allegato all’accordo, può formulare una proposta specifica all’Agenzia delle Entrate e agli enti previdenziali per il pagamento (anche parziale) dei loro crediti. Può offrire un stralcio (riduzione dell’importo dovuto per interessi e sanzioni, e in certi casi anche sul tributo, ad es. sull’IVA solo parte non coperta da garanzia) oppure una dilazione (rateizzazione fino a un massimo di 10 anni, se del caso). Può anche combinare le due cose: ad esempio, pagare l’80% del debito IVA in 5 anni e il 50% dei contributi in 3 anni, con azzeramento delle sanzioni. Importante: la legge vieta di falcidiare l’IVA e le ritenute se non per la parte che risulterebbe incapiente rispetto ai beni su cui hanno privilegio (si deve garantire almeno l’importo che avrebbe copertura in sede di realizzo).
- Adesione o diniego degli enti: l’Agenzia Entrate (per imposte) e l’INPS/enti (per contributi) sono chiamati a valutare la proposta. Hanno 90 giorni di tempo per rispondere (termine perentorio introdotto per evitare lungaggini burocratiche). La normativa stabilisce che tali enti non dovrebbero rifiutare la proposta quando risulta più conveniente della liquidazione giudiziale del debitore. In altri termini, se dal piano risulta che in caso di fallimento il Fisco recupererebbe 0 (perché crediti chirografari) mentre con l’accordo incasserebbe, ad esempio, il 20%, l’Agenzia dovrebbe aderire, a meno che non vi siano altri motivi ostativi. Questo principio di “ragionevolezza del diniego” è stato affermato sia in norme emergenziali (L.159/2020) che dalla Cassazione, e ora integrato nel CCII: la PA deve motivare l’eventuale rifiuto dimostrando che la proposta non conviene o è contraria a norme. In caso di mancata risposta entro 90 giorni, la legge considera il silenzio come assenza di adesione (non un’accettazione tacita, purtroppo): pertanto si configura come diniego implicito che apre al possibile cram-down in sede di omologa.
- Omologazione forzosa (cram-down fiscale): se l’Agenzia o l’ente previdenziale non aderiscono all’accordo (esprimendo diniego o tacendo) ma la loro adesione sarebbe stata necessaria per raggiungere il 60% dei crediti, il tribunale può comunque omologare l’accordo come se avessero aderito, a patto che alcune condizioni siano soddisfatte. Queste condizioni, prima stabilite dall’art. 182-bis co.4 L.F. e ora trasfuse nell’art. 63 CCII, sono: (1) che con l’adesione di Fisco/INPS si sarebbe superata la soglia (ossia il loro credito ha un peso determinante); (2) che la proposta rivolta a questi enti è conveniente rispetto alla liquidazione (cioè offre almeno quanto il Fisco otterrebbe in un fallimento del debitore); (3) che la proposta rispetta il divieto di trattamento deteriore rispetto agli altri creditori di pari grado (in pratica, non si può offrire al Fisco percentuali inferiori a quelle offerte ad altri chirografari se il Fisco è anch’esso chirografario, etc.; questo per evitare disparità a danno dell’Erario). Se queste condizioni ci sono, il tribunale può confermare l’accordo anche senza il “sì” del Fisco. Si tratta di una vera e propria imposizione giudiziale dell’accordo al posto dell’assenso dell’ente, giustificata dal fatto che l’interesse pubblico a incassare qualcosa è comunque tutelato dalla convenienza della proposta. La giurisprudenza ha chiarito che in tal caso eventuali contestazioni del Fisco sul merito dell’accordo (es. sul perché abbia detto no) sono di competenza del giudice concorsuale e non tributario. In altre parole, la scelta del Fisco di rifiutare viene “sindacata” dal tribunale fallimentare sotto il profilo della convenienza economica e della correttezza.
- Nuovi limiti introdotti nel 2023: come già discusso, nel 2023 il legislatore ha reso più difficile ottenere l’omologa forzosa nei confronti del Fisco/INPS. Le ulteriori condizioni introdotte (temporaneamente ma poi stabilizzate) sono: (a) devono esistere altri creditori aderenti all’accordo oltre al Fisco, ossia l’accordo non dev’essere rivolto unicamente ai crediti pubblici; (b) se i crediti tributari/previdenziali sono molto rilevanti (oltre metà del debito, o comunque se gli altri aderenti sono meno del 25% del debito totale), la proposta a Fisco/enti deve garantire un pagamento di almeno il 40% di ciascun credito (inclusi sanzioni e interessi), con dilazione non oltre 10 anni; (c) negli altri casi (se il Fisco è meno dominante e ci sono abbastanza altri creditori aderenti ≥25%), va comunque garantito almeno il 30% di ciascun credito fiscale/previdenziale, e la dilazione può anche superare i 10 anni. Dunque, ad esempio, se l’impresa ha debiti 80% col Fisco e 20% altri, per forzare l’accordo senza l’adesione del Fisco bisognerà offrirgli almeno il 40%. Se invece il Fisco è il 30% e altri creditori (che aderiscono) sono il 70%, può bastare offrire al Fisco il 30% (purché comunque conveniente rispetto al fallimento). Oltre a ciò, è stato come detto sancito che se il Fisco è l’unico creditore rilevante da ristrutturare, l’accordo non è proprio configurabile: la Corte d’Appello di Roma ha affermato che non c’è un vero accordo di ristrutturazione se non c’è almeno una parte di creditori con cui l’intesa è raggiunta. In quel caso, l’istanza di cram-down fiscale è inammissibile e l’alternativa rimane magari un concordato preventivo in cui il giudice può ugualmente superare il no del Fisco ma in un contesto più ampio di voto.
- Effetti per il debitore e per gli enti: dal lato pratico, includere la transazione fiscale nell’accordo è spesso indispensabile per un risanamento completo, ma al contempo è uno degli aspetti più intricati. Il vantaggio per il debitore è di poter ridurre drasticamente sanzioni e interessi, e talvolta anche parte dell’imposta (specie IVA “inesigibile”), e di dilazionare nel tempo il pagamento fiscale, liberandosi dal peso immediato del fisco sul collo dell’impresa. Inoltre, l’omologa anche senza adesione del Fisco, quando concessa, consente di proseguire nonostante un eventuale rigore iniziale dell’Amministrazione. Per il Fisco, il cram-down è una pillola amara da mandar giù: significa subire la decisione giudiziale. Per questo l’Agenzia delle Entrate negli ultimi tempi si è dotata di linee guida interne (Circolare 34/E 2020) per valutare attentamente le proposte e aderire quando c’è convenienza, cercando di evitare il giudizio. In ogni caso, quando un accordo è omologato con cram-down, il credito erariale viene falcidiato e l’ente dovrà accontentarsi di quanto previsto: non potrà iscrivere ruoli ulteriori se non per la parte eventualmente esclusa dall’accordo (es. se il piano prevedeva di pagare 50 su 100, il residuo 50 viene definitivamente stralciato e l’ente non può riprenderlo se l’accordo si adempie).
Considerazioni finali sul Fisco negli accordi: statisticamente, molti concordati e accordi falliscono di essere attuati proprio per l’incapacità di gestire il debito fiscale. Il CCII, recependo la direttiva europea, ha cercato di creare un equilibrio: stimolare l’adesione del Fisco con il vincolo di convenienza (così da non costringerlo a dire sempre no) e permettere comunque di procedere in casi di rifiuto ingiustificato (cram-down), ma allo stesso tempo evitare abusi (imprese che per anni non pagano tasse e poi offrono percentuali irrisorie) imponendo soglie minime e una platea più ampia di consensi. Come commentato da un autore, le nuove norme non sono un fulmine a ciel sereno ma la conclusione di un dibattito su come frenare l’uso distorto della transazione fiscale. Ad esempio, in passato alcune società presentavano accordi in cui proponevano di pagare il Fisco al 5% dopo aver magari saldato altri creditori prima (magari proprio non pagando le imposte), e alcuni tribunali li omologavano in nome della convenienza comparativa. Ora questo sarà molto più difficile: con la soglia del 30-40%, l’Erario ha una base minima garantita, e con l’obbligo di altri creditori coinvolti si scoraggiano operazioni mirate solo a scaricare le imposte.
Dal punto di vista del debitore che prepara l’accordo, le implicazioni pratiche sono: dovrà presentare un chiaro confronto di convenienza per il Fisco (mostrando ad es. che in liquidazione il Fisco prenderebbe zero, mentre col piano prende 30% in tot anni); se possibile, dovrà cercare di coinvolgere anche creditori privati nel piano, in modo da dimostrare una condivisione dello sforzo (es. far aderire banche, fornitori, ecc., non focalizzarsi solo sul Fisco); e dovrà assicurarsi di offrire almeno le soglie minime di legge. Un trucco spesso usato è offrire all’IVA il pagamento integrale della sola parte protetta da privilegio generale mobiliare (che normalmente copre una parte del debito per beni presenti) e stralciare il resto come chirografo, dimostrando che si rispetta la regola UE che vieta di trattare meglio altri chirografari rispetto all’IVA falcidiata. Le FAQ più avanti includeranno una domanda specifica sulla transazione fiscale.
Procedura: Fasi dell’Accordo di Ristrutturazione
Passiamo ora a descrivere come si svolge in concreto il procedimento per giungere a un accordo di ristrutturazione omologato, dal momento in cui l’imprenditore decide di intraprendere questa strada fino all’esecuzione finale del piano. Si possono distinguere quattro macro-fasi: (A) preparazione e negoziazione dell’accordo; (B) deposito della domanda di omologazione e misure protettive; (C) istruttoria giudiziale e decreto di omologazione; (D) esecuzione del piano e adempimento degli obblighi.
A. Negoziazione e Sottoscrizione dell’Accordo
Preparazione del piano e apertura delle trattative: una volta presa la decisione di tentare un accordo di ristrutturazione, il debitore (con l’ausilio dei suoi consulenti legali e finanziari) deve innanzitutto elaborare un piano di risanamento dettagliato, che includa l’analisi della situazione aziendale e le misure previste per superare la crisi. Parallelamente, andrà predisposta una proposta di accordo da sottoporre ai creditori. In questa fase, è cruciale individuare i creditori chiave da coinvolgere e studiare un’offerta che possa risultare accettabile per loro. Il debitore dovrebbe anche valutare la suddivisione dei creditori in eventuali categorie omogenee (specie se mira a un accordo ad efficacia estesa), e iniziare a raccogliere i dati e documenti che serviranno poi per l’omologazione (bilanci, elenco creditori, business plan, ecc.).
Composizione negoziata (facoltativa ma utile): la legge non richiede obbligatoriamente di passare per la composizione negoziata, ma lo consente. Se il debitore accede alla piattaforma di composizione negoziata e ottiene la nomina di un esperto indipendente, potrà condurre le trattative con i creditori sotto l’egida di tale esperto. Ciò offre diversi vantaggi: consente di usufruire di eventuali misure protettive già in fase di negoziazione (richiedibili ex art. 18 CCII), di ottenere finanziamenti prededucibili autorizzati dall’esperto (art. 22 CCII) per sostenere l’attività durante le trattative, e soprattutto di godere delle misure premiali (fiscali e civili) previste se la composizione negoziata è avviata tempestivamente. Inoltre, come visto, l’esito positivo delle trattative con l’esperto permette di ridurre talune soglie (75%→60%, 30%→20%) in successive procedure. Quindi, anche se non obbligatoria, la composizione negoziata è spesso un ottimo preludio all’accordo: favorisce la collaborazione dei creditori in un contesto controllato e riduce la conflittualità. Ad esempio, l’esperto può convocare convegni con i creditori principali, convincerli della bontà del piano, suggerire modifiche, ecc., senza che le posizioni si irrigidiscano in cause legali.
Comunicazione ai creditori e trasparenza: all’avvio delle trattative è fondamentale che il debitore informi tutti i creditori potenzialmente coinvolti del fatto che sta cercando un accordo. Ciò può avvenire con una lettera iniziale inviata singolarmente, in cui l’impresa comunica di aver avviato la ristrutturazione del debito e invita i creditori a partecipare, magari allegando un term-sheet preliminare. La legge (art. 61 CCII per efficacia estesa) richiede che i creditori siano messi in condizione di partecipare in buona fede alle trattative. Questo impone un alto grado di trasparenza: il debitore deve condividere le informazioni essenziali sulla propria situazione – bilanci aggiornati, elenco debiti, prospettive – e tenere aggiornati i creditori sugli sviluppi. In pratica, durante i negoziati, verranno fornite bozze di piano, relazioni sulla situazione finanziaria, e i creditori potranno richiedere chiarimenti o proporre modifiche. Questa fase può durare da poche settimane a qualche mese, a seconda della complessità e del numero di soggetti coinvolti. Di solito il negoziato è riservato (non c’è pubblicità esterna, salvo se attivata la composizione negoziata con misure protettive che vengono iscritte al registro imprese). Tutti i partecipanti sanno però che, in caso di esito positivo, l’accordo sarà reso pubblico con la presentazione in tribunale.
Sottoscrizione formale dell’accordo: quando si è raggiunta un’intesa con la/e parti necessarie (ad esempio si è ottenuto l’ok del 70% dei crediti, includendo banche e fornitori principali), si procede a formalizzare l’accordo in un documento contrattuale scritto, firmato dal debitore e da ogni creditore aderente. È importante far firmare tutti gli aderenti quasi contestualmente, o comunque in tempi ravvicinati, per poi depositare l’accordo in tribunale entro 30 giorni dall’ultima firma (come vedremo nella fase B). Forma e contenuto: la legge non prescrive uno schema rigido, ma richiede alcuni contenuti obbligatori e la prassi ha consolidato determinati elementi:
- L’elenco dei creditori aderenti con le rispettive percentuali di credito: ciò serve a dimostrare il raggiungimento del quorum (60% o 30%). Di solito si allega anche l’elenco completo di tutti i creditori, evidenziando chi aderisce e chi no.
- L’eventuale suddivisione in categorie: se si intende chiedere l’efficacia estesa, l’accordo deve specificare le categorie omogenee create e i creditori compresi in ciascuna categoria. Ad esempio: “Categoria A: banche chirografarie (lista…); Categoria B: fornitori…” ecc., e indicare quali categorie raggiungono il 75%.
- La descrizione del trattamento dei crediti: per ogni creditore (o per ogni categoria) si deve dettagliare come verrà soddisfatto il suo credito. Esempi: “Banca X: rimborso 80% in 5 anni, interessi 2% annuo, garanzia ipotecaria su immobile Y; Fornitore Z: pagamento 50% entro 6 mesi; Fornitori categoria B: pagamento 40% in 12 mesi in un’unica soluzione; Fideiussore Tizio: liberazione completa dalla garanzia prestata”. Se l’accordo prevede la continuità aziendale, andrà menzionato se certi contratti essenziali proseguiranno e su quali condizioni, se sono previste nuove linee di credito per finanziare l’attività corrente, ecc.. Se il piano è liquidatorio, l’accordo dovrebbe illustrare come si effettuerà la liquidazione dei beni e come i proventi saranno ripartiti tra i creditori.
- La clausola di efficacia sospensiva: quasi sempre l’accordo prevede espressamente che la sua efficacia è condizionata all’omologazione da parte del tribunale. Ciò significa che, pur firmato, l’accordo non produce effetti immediatamente (non si possono esigere pagamenti o far valere rinunce prima) se non dopo il decreto di omologa. Questa clausola tutela sia il debitore sia i creditori: il debitore finché non ha la certezza dell’omologa potrebbe aver bisogno di margine di manovra; i creditori aderenti, dal canto loro, sanno che la loro adesione è “congelata” fino all’omologa e non rischiano che altri creditori estranei intanto li sorpassino. In sostanza si crea una situazione di sospensione consensuale. La legge aggiunge che, una volta depositato l’accordo in tribunale, le dichiarazioni di consenso dei creditori non possono più essere revocate. Ciononostante, in via prudenziale si inseriscono clausole di salvaguardia (ad es. l’accordo decade se l’omologa non interviene entro X mesi o se intervengono fatti eccezionali).
- Gli impegni del debitore: l’accordo elenca gli obblighi che il debitore assume per eseguire il piano. Ad esempio: attuare un aumento di capitale, vendere un determinato immobile entro una data, non contrarre nuovi debiti senza consenso dei creditori, fornire report periodici sullo stato dei pagamenti, etc. Questi covenants garantiscono i creditori aderenti circa il comportamento futuro dell’imprenditore, che rimane in possesso.
- Clausole di salvaguardia per i creditori estranei: come già accennato, se alcuni creditori non aderiscono, solitamente l’accordo stabilisce esplicitamente come saranno trattati. Negli accordi agevolati, la clausola tipica è: “i creditori non aderenti verranno pagati alle loro naturali scadenze e comunque non oltre [il termine di legge] immediatamente dopo l’omologa, con interessi di mora come per legge fino al pagamento”. Negli accordi ordinari, simile (ma magari prevedendo l’utilizzo di risorse accantonate). Negli accordi ad efficacia estesa, per i creditori che rientrano nelle categorie oggetto di estensione si dichiara: “il creditore dissenziente X della categoria Alfa sarà soddisfatto alle medesime condizioni previste per gli altri creditori di categoria Alfa, ai sensi dell’art. 61 CCII, in caso di omologazione”. Insomma, si mette nero su bianco che il dissenziente avrà lo stesso trattamento della sua classe.
- Relazione dell’attestatore: all’accordo deve essere obbligatoriamente allegata la relazione redatta dal professionista indipendente (dottore commercialista o esperto ex art. 2 CCII) che attesta la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano. La legge richiede che l’attestatore si pronunci in particolare su due cose: la capacità del debitore di soddisfare i creditori estranei almeno al valore di liquidazione (best interest test), e la convenienza della proposta di transazione fiscale per l’Erario rispetto all’alternativa (qualora il Fisco non abbia aderito e si chieda l’omologa forzosa). Questa relazione è un documento chiave: è il “biglietto da visita” dell’accordo in tribunale, quindi deve essere redatta con cura da un professionista terzo e indipendente, che svolge analisi e valutazioni su bilanci, flussi di cassa prospettici, stime di recupero in liquidazione, ecc. Senza una relazione positiva, l’accordo non può essere omologato. Nell’accordo generalmente si cita che “in allegato sub A) si unisce la relazione del Prof. Tizio Caio, attestatore nominato ai sensi dell’art. 2 CCII, che attesta ecc.”.
- Piano economico-finanziario: solitamente come allegato (non sempre parte integrante del contratto ma di solito sì) viene incluso il piano dettagliato con dati prospettici, magari un documento Excel o simili, da cui emergono le fonti e impieghi per soddisfare i creditori. Se vi è continuità, con conto economico previsionali e cash flow; se è liquidatorio, con il programma di liquidazione beni e relative stime di realizzo. Questo serve a dare concretezza all’accordo: i creditori aderenti lo avranno già visto nelle trattative, ma in sede di omologa potrà essere esaminato dal giudice e dai creditori estranei per valutare la fattibilità.
- Garanzie e apporti di finanza esterna: se il piano prevede che terzi (ad es. i soci o nuovi investitori) apportino denaro fresco o rilascino garanzie ulteriori per garantire il pagamento dei creditori, occorre che l’accordo lo precisi. Ad esempio: “il socio di maggioranza si impegna a versare €500.000 entro 30 gg dall’omologa, destinati pro-quota ai creditori chirografari” oppure “la società Beta fornirà fideiussione bancaria a garanzia delle rate dovute alle banche aderenti”. Tali apporti e garanzie spesso risultano decisivi per convincere i creditori. La normativa prevede che i finanziamenti nuovi autorizzati ed erogati in esecuzione dell’accordo omologato siano prededucibili in caso di successivo fallimento (art. 100 CCII). Quindi se Tizio presta soldi alla società per pagare i creditori nell’accordo e poi la società fallisce, Tizio avrà un credito prededucibile (verrà pagato prima di altri debiti in prededuzione). Però per avere questa tutela occorre che in sede di omologa il tribunale abbia autorizzato tali finanziamenti come funzionali all’accordo.
- Clausole risolutive dell’accordo: quasi tutti gli accordi contengono una o più clausole che stabiliscono la risoluzione automatica (di diritto) dell’accordo in caso di inadempimenti rilevanti del debitore. Ad esempio: “l’accordo si intenderà risolto qualora il debitore non paghi due rate consecutive di quelle pattuite” oppure “se entro il 31/12/2025 non sarà venduto l’immobile X e quindi non saranno effettuati i pagamenti previsti ai creditori Y e Z, l’accordo è risolto”. Tali clausole servono ai creditori per poter reagire rapidamente se il piano deraglia. In mancanza di clausola, comunque la legge prevede la possibilità per i creditori di agire per la risoluzione contrattuale secondo le regole generali, ma avere una risoluzione ipso iure garantisce certezza sul momento in cui cessano gli effetti.
- Foro competente e controversie: spesso si inserisce una clausola che specifica che per ogni controversia relativa all’interpretazione o esecuzione dell’accordo post-omologazione sarà competente lo stesso tribunale che lo ha omologato, o in alternativa si possono prevedere arbitrati. In realtà, essendo l’accordo omologato un provvedimento giudiziale, le questioni serie andranno al giudice fallimentare (ad es. se poi ci sarà istanza di fallimento). Ma definire il foro può evitare discussioni.
Una volta redatto l’accordo con tutti questi elementi, si fa firmare al legale rappresentante dell’impresa e a tutti i creditori aderenti (solitamente per ultimi firmano i più importanti per far figurare la data di sottoscrizione finale). Dal momento dell’ultima firma inizia un countdown di 30 giorni entro cui passare alla fase successiva: presentare il tutto al tribunale.
B. Deposito della Domanda di Omologazione e Misure Protettive
Deposito in tribunale: l’accordo sottoscritto deve essere depositato presso il tribunale competente, ossia la sezione specializzata in materia di impresa del tribunale del luogo dove l’impresa ha la sede principale. Il deposito avviene tramite ricorso per omologazione ex art. 44 e 48 CCII (norme che regolano il procedimento). È fondamentale rispettare il termine di 30 giorni dall’ultima sottoscrizione dell’accordo. Se si sforasse tale termine, le adesioni dei creditori potrebbero perdere efficacia (un creditore potrebbe nel frattempo cambiare idea, o la situazione mutare): la legge vuole evitare che il debitore collezioni firme e poi procrastini in attesa di chissà cosa. Dunque, si prepara subito il fascicolo per il tribunale.
Documenti da allegare: l’art. 48 CCII, richiamato per gli accordi dagli artt. 57 e 61 CCII, elenca i documenti che il debitore deve presentare con la domanda. In sintesi:
- Testo dell’accordo firmato da tutti (originale o copia conforme).
- Elenco completo di tutti i creditori, con indicazione per ciascuno dell’importo del credito e se è aderente o non aderente. Questo elenco è cruciale per il calcolo delle percentuali e per verificare i quorum.
- Relazione dell’attestatore indipendente.
- Piano di risanamento (o piano industriale/finanziario allegato).
- Situazione patrimoniale, economica e finanziaria aggiornata dell’impresa (spesso consiste in uno stato patrimoniale e conto economico alla data più vicina possibile al deposito, ad esempio una situazione semestrale o trimestrale se l’ultimo bilancio risale a molti mesi prima).
- Eventuale richiesta di misure protettive o di autorizzazioni urgenti.
Tutto questo materiale viene depositato telematicamente (oggi i tribunali fallimentari viaggiano su procedure telematiche). Il cancelliere provvede quindi a pubblicare l’accordo e la domanda nel Registro delle Imprese (sezione procedure concorsuali), dando notizia legale a tutti. La pubblicazione segna un punto di non ritorno: l’accordo diventa pubblico e i creditori ne sono considerati informati. Da quel momento decorrono i termini per eventuali opposizioni.
Opposizioni all’omologazione: i creditori (o qualunque altro interessato) hanno 30 giorni di tempo dalla pubblicazione per proporre opposizione all’omologazione. Attenzione: per i creditori non aderenti destinatari di efficacia estesa, la legge prevede una tutela ulteriore, ovvero la notifica individuale del ricorso e dell’accordo a ciascuno di essi, con il termine di 30 giorni che per loro decorre dalla ricezione della notifica e non dalla semplice pubblicazione. In pratica, se chiedo efficacia estesa verso la Banca XYZ che non ha aderito, devo notificare all’XYZ tutta la domanda; l’XYZ avrà 30 giorni da quella notifica per opporsi, anche se magari la pubblicazione c’era già stata 10 giorni prima. Questo doppio regime (pubblicazione generale + notifica mirata) serve a garantire il pieno diritto di difesa dei creditori che subiranno l’accordo contro la loro volontà. Dunque, nel predisporre il deposito, il legale dell’impresa cura anche queste notifiche (spesso via PEC). I creditori aderenti di solito non hanno ragione di opporsi (avendo firmato, semmai potrebbero opporsi se emergono elementi nuovi di frode o di difformità tra quello che hanno firmato e quello presentato, ma è raro). Quindi i potenziali opponenti tipicamente sono i non aderenti, specie quelli che verranno vincolati (o che lamentano di essere pregiudicati).
Richiesta e concessione delle misure protettive: contestualmente al deposito, il debitore (a meno che si tratti di accordo agevolato al 30%) può presentare istanza al tribunale per ottenere le misure protettive del patrimonio. Tali misure equivalgono ad una moratoria legale: il tribunale con decreto inaudita altera parte (cioè senza sentire i creditori immediatamente) sospende e proibisce temporaneamente tutte le azioni esecutive e cautelari da parte dei creditori, congelando pignoramenti in corso e impedendone di nuovi. Il perimetro delle misure può essere generale (verso tutti i creditori) o limitato ad alcuni specifici, a scelta del debitore. Ad esempio, se un creditore ipotecario non aderente stava per eseguire un’esecuzione immobiliare, il debitore chiederà la sospensione verso quel creditore. Se c’è il rischio di aggressioni multiple, si chiederà per tutti. Lo scopo è “congelare le pretese dei creditori durante la pendenza dell’omologa, impedendo atti che possano pregiudicare la par condicio o la fattibilità del piano”. Nel concordato preventivo esiste l’automatic stay, qui è analogo ma va richiesto. Le misure protettive ex art. 54 CCII durano inizialmente fino a 4 mesi (120 giorni), prorogabili eventualmente su istanza se il procedimento di omologa dura di più. Quattro mesi spesso bastano per arrivare a decreto di omologa, specie se non ci sono opposizioni; se invece ci sono opposizioni e processi, si può chiedere proroga per coprire fino alla decisione (comunque non oltre 12 mesi totali, in linea con la direttiva UE).
Il tribunale concede le misure con decreto immediato se la domanda di omologa appare ammissibile e non manifestamente abusiva. Significa che fa un controllo sommario: verifica che c’è il 60% di firme, che l’attestazione è in ordine, che l’accordo non è un espediente palesemente in frode (tipo un accordo “finto” solo per prendere tempo e sottrarre beni). Se tutto ok, emette decreto di concessione dello stay, comunicato poi ai creditori e pubblicato. I creditori possono fare reclamo contro questo decreto, ma raramente conviene se poi devono comunque fare opposizione nel merito dell’omologa. Da notare: negli accordi agevolati al 30% il debitore non può chiedere lo stay, per definizione (è condizione per quell’accordo). Quindi in tal caso non ci saranno misure protettive: se qualche estraneo volesse tentare un’azione, potrebbe. Ma idealmente il debitore in quell’ipotesi ha già sistemato gli estranei o confidato che attendano.
Invece, negli accordi ordinari ed efficacia estesa è prassi richiedere le misure protettive. Questo perché, ad esempio, un creditore non aderente vedendo la pubblicazione dell’accordo potrebbe farsi prendere dalla voglia di attivarsi subito (temendo di essere poi vincolato o comunque per far pressione): lo stay glielo impedisce. Serve anche a bloccare eventuali aderenti impazienti: può capitare che un creditore che pure ha firmato, se vede ritardi o è preoccupato, pensi di iniziare un pignoramento lo stesso “per sicurezza”; con lo stay, non può.
Una volta depositato tutto e ottenute (se richieste) le protezioni, il procedimento passa alla fase successiva di valutazione ed omologa.
C. Istruttoria e Omologazione da parte del Tribunale
Istruttoria preliminare: depositata la domanda, il tribunale esamina la documentazione e svolge eventuali attività istruttorie necessarie. Se non giungono opposizioni entro i termini, l’omologa può avvenire in modo relativamente rapido e semplificato. In assenza di opposizioni, infatti, il tribunale decide in camera di consiglio (non in udienza pubblica) ed emette un decreto motivato di omologazione. Questo significa che non si tiene un vero e proprio processo: i giudici (di regola è un collegio di 3 in questi casi) valutano il fascicolo e, se tutto in ordine, omologano.
Se invece uno o più creditori (o terzi interessati, ad esempio soci) presentano opposizione, allora si apre un sub-procedimento di natura contenziosa. Il tribunale convoca un’udienza pubblica, cita in giudizio il debitore e gli opponenti (e di solito notifica il ricorso anche ad eventuali altri creditori coinvolti) e poi, dopo aver esaminato le ragioni dell’opposizione, deciderà con sentenza o con decreto reclamabile a seconda dei casi. Il CCII ha cercato di uniformare i riti di omologa di concordato e accordi, prevedendo la possibilità di appello (reclamo) in vari casi, in luogo del vecchio modello in cui l’omologa accordo era decreto non reclamabile. Ad esempio, se c’è una transazione fiscale non approvata, l’eventuale diniego di omologa forzosa può essere reclamato davanti alla corte d’appello. Comunque, il dettaglio tecnico a fine pratico è: con opposizioni, la decisione richiede più tempo (perché si deve fare udienza, magari concedere termini per memorie, perizie etc.). In media potrebbe slittare di alcuni mesi, all’interno dei quali però il tribunale in genere proroga le misure protettive per evitare esecuzioni.
Criteri di omologazione – il controllo del tribunale: il ruolo del tribunale in sede di omologa è di verifica di legalità e di fattibilità dell’accordo. Non spetta al giudice sindacare la convenienza nel merito per i creditori aderenti (essi hanno già accettato), ma deve:
- Controllare il raggiungimento delle percentuali di legge (es. c’è almeno 60%? c’è 75% nelle categorie se efficacia estesa?).
- Verificare la regolarità formale della formazione del consenso dei creditori: assenza di dolo, errore essenziale, informazioni corrette fornite. Questo per assicurarsi che i consensi non siano viziati. Ad esempio, se emergesse che il debitore ha occultato intenzionalmente un rilevante passivo durante le trattative, i consensi potrebbero considerarsi invalidi.
- Valutare l’idoneità del piano a soddisfare almeno in misura minima i creditori non aderenti. Questo è il best interest test: il giudice deve convincersi, basandosi su attestazione e magari su consulenza tecnica d’ufficio (CTU) se c’è contestazione, che i creditori estranei non vengano danneggiati e che il loro trattamento rispetti le soglie di legge. In particolare, se un creditore estraneo (non aderente) oppone che l’accordo gli dà meno di quanto ricaverebbe in fallimento, il tribunale ha il dovere di approfondire e comparare il suo soddisfacimento.
- Verificare il rispetto delle condizioni per l’eventuale efficacia estesa: quindi che i dissenzienti siano stati informati e coinvolti, che la categoria sia omogenea, che ricevano lo stesso trattamento degli altri, ecc..
- Nel caso di transazione fiscale non approvata, valutare la convenienza per l’Erario e la presenza dei requisiti di legge (percentuali minime, pluralità di creditori, ecc.) per poter eventualmente omologare nonostante il diniego.
In altre parole, il giudice non rifà le trattative al posto dei creditori, ma tutela chi non ha firmato dal rischio di subire un accordo ingiusto. Infatti, se tutti i creditori sono aderenti, l’omologa è quasi automatica salvo vizi; se qualcuno è estraneo e contesta, il giudice funge da garante della sua posizione.
Possibilità di omologa parziale (esclusione del dissenziente): come già anticipato, il CCII prevede all’art. 48 co.5 una soluzione salomonica se un’opposizione di un creditore non aderente risulta fondata. Il tribunale può scegliere di omologare ugualmente l’accordo ma escludere dagli effetti quel determinato creditore opponente. Ciò equivale a negare il cram-down verso di lui: quell’opponente rimane libero e fuori, potrà agire autonomamente per il suo credito integrale, mentre l’accordo resta valido e vincolante per tutti gli altri. Questa opzione evita che un accordo potenzialmente benefico per decine di creditori salti a causa di uno solo. Ovviamente, il giudice la userà se l’esclusione di quel creditore non compromette tutto (ad esempio, se il debitore è comunque in grado di pagarlo o gestirlo a parte). Se invece quel creditore fosse così grande che lasciarlo fuori rende l’accordo non più sostenibile, allora o si rigetta l’omologa tout court, o si condiziona l’omologa al suo soddisfacimento integrale (che è simile a escluderlo – di fatto l’accordo varrebbe con tutti ma con l’obbligo per il debitore di pagare integralmente quell’opponente).
Omologa e decreto finale: conclusa l’istruttoria, se il tribunale ritiene soddisfatte tutte le condizioni, emette il provvedimento di omologa. A seconda dei casi, sarà:
- Un decreto di omologa (in camera di consiglio, se non vi sono state opposizioni sostanziali, o comunque in certe situazioni). Il decreto è motivato, e viene comunicato alle parti. Se un creditore pubblico (Fisco/INPS) era dissenziente e il tribunale decide di non concedere il cram-down, credo che in quel caso rigetti l’omologa ma con decreto reclamabile in corte appello (secondo art. 63 CCII c’è reclamo).
- Una sentenza se c’è stata opposizione trattata con rito ordinario (in tal caso l’eventuale appello andrà in corte d’appello come atto introduttivo ordinario, ma spesso la legge fa riferimento al reclamo come modalità semplificata di appello anche per le opposizioni).
Nel decreto/sentenza di omologa, il tribunale dichiara l’accordo efficace anche rispetto ai creditori indicati (specificando i creditori estranei ai quali è esteso). Inoltre, dispone le necessarie pubblicazioni: di solito ordina la pubblicazione del decreto nel Registro Imprese e, se opportuno, la notifica ai creditori esclusi o estranei. Da quel momento l’accordo acquista piena efficacia vincolante per le parti e per i terzi coinvolti.
Se invece il tribunale rifiuta l’omologa, l’accordo non produce alcun effetto giuridico e la situazione ritorna come prima: il debitore ridiventa esposto alle azioni dei creditori, e questi possono attivarsi immediatamente (salvo forse qualche giorno di attesa per eventuale reclamo). A quel punto il debitore, per evitare il peggio, potrebbe valutare di depositare un ricorso di concordato preventivo (se è ancora fattibile) o altre procedure. Oppure, i creditori potrebbero chiederne il fallimento (liquidazione giudiziale). Insomma, il fallimento dell’accordo lascia il debitore in una posizione fragile. Vale perciò la pena, in caso di possibili opposizioni, di confrontarsi in anticipo coi creditori e magari transigere le opposizioni prima dell’udienza (ad esempio offrire un extra a un opponente perché desista).
D. Esecuzione dell’Accordo e Risoluzione
Una volta omologato, l’accordo di ristrutturazione diventa titolo esecutivo a tutti gli effetti. Ciò significa che, se il debitore non adempie esattamente le obbligazioni previste (ad esempio salta una rata di pagamento dovuta a un creditore secondo l’accordo), quel creditore può subito procedere con l’esecuzione forzata, senza dover intentare una causa per ottenere un titolo giudiziale: il decreto di omologa stesso vale come titolo. Quindi il creditore potrà notificare il decreto con formula esecutiva e pignorare beni del debitore per recuperare l’importo non pagato secondo l’accordo.
L’accordo omologato vincola giuridicamente il debitore e tutti i creditori aderenti, nonché quelli eventuali non aderenti delle categorie su cui è stata estesa l’efficacia. Viceversa, i creditori estranei (non aderenti e non inclusi in nessuna categoria oggetto di estensione) restano fuori: l’accordo non ha nei loro confronti effetti ablatori o di esdebitazione. In pratica, se Tizio creditore non ha firmato e non era in una classe estesa, Tizio conserva il suo credito per intero e potrebbe anche agire esecutivamente. Tuttavia, come già detto, in genere l’accordo prevede che tali creditori estranei verranno comunque pagati integralmente a parte (perché altrimenti l’attestatore non avrebbe potuto attestare la fattibilità). Quindi di fatto, se il debitore esegue tutto, anche gli estranei verranno soddisfatti e non faranno causa.
Inoltre, l’omologazione dell’accordo produce effetti protettivi indiretti a favore del debitore: in particolare, libera il debitore dal rischio di azioni revocatorie fallimentari e da alcune responsabilità penali per atti compiuti in esecuzione dell’accordo. Come chiarito, i pagamenti effettuati ai creditori in attuazione dell’accordo omologato non possono essere revocati in un successivo fallimento. Allo stesso modo, eventuali atti di disposizione del patrimonio coerenti con l’accordo (vendite di beni, costituzioni di garanzie approvate nel piano) non saranno soggetti a revocatoria. Sul piano penale, l’art. 324 CCII prevede cause di non punibilità per bancarotta semplice e preferenziale in relazione agli atti compiuti nel periodo successivo all’apertura delle trattative o alla nomina dell’esperto e coerenti con l’accordo omologato. Questo significa che, se poi malauguratamente l’impresa fallisce, l’imprenditore non verrà incriminato per aver pagato un creditore piuttosto che un altro durante l’accordo, purché quei pagamenti erano previsti dall’accordo stesso. Tali benefici equiparano l’accordo al concordato sul piano delle esenzioni da revocatoria e responsabilità, dando sicurezza giuridica a chi lo esegue.
Durante l’esecuzione, l’accordo non prevede organi di vigilanza giudiziali: diversamente dal concordato, non c’è un commissario giudiziale né un liquidatore nominato dal tribunale. L’onere di attuare il piano resta interamente in capo al debitore, il quale prosegue nella gestione della sua impresa. I creditori aderenti, dal canto loro, dovranno vigilare autonomamente sull’adempimento. Alcuni accordi nominano un advisor o agente di monitoraggio privato, ma giuridicamente non c’è l’obbligo. I creditori più strutturati (banche) spesso richiedono covenants informativi e incontri periodici. Ma se il debitore inizia a deviare dal piano, i creditori non hanno un commissario a cui segnalare: dovranno direttamente pensare alle azioni legali per tutelarsi.
Mancato adempimento e risoluzione: l’accordo di ristrutturazione non offre una protezione definitiva al debitore insolvente come potrebbe essere l’esdebitazione post-concordataria. Se il debitore non rispetta gli impegni (es. non paga le percentuali previste, o non rispetta le scadenze), i creditori potranno reagire. In particolare, un creditore aderente ha due opzioni principali:
- Azione esecutiva individuale immediata: grazie al fatto che l’accordo è titolo esecutivo, un creditore può pignorare beni per recuperare la rata scaduta o l’intero importo dovuto. In pratica, può forzare il pagamento, nei limiti di quanto previsto dall’accordo. Se vuole di più (ad esempio tutto il credito originario), dovrebbe prima ottenere la risoluzione o aspettare il fallimento.
- Istanza di fallimento (liquidazione giudiziale): se il mancato pagamento di una o più obbligazioni denota che l’impresa è ancora in stato di insolvenza (o tornata in insolvenza), un creditore può chiedere al tribunale di dichiarare il fallimento (oggi liquidazione giudiziale) del debitore, anche senza passare per una pronuncia formale di risoluzione dell’accordo. Questo è stato chiarito dalla Cassazione a Sezioni Unite nel 2022: diversamente dal concordato preventivo, per cui serve una pronuncia di risoluzione prima di fallire (a meno di insolvenza sopravvenuta), nell’accordo di ristrutturazione non c’è una norma che richieda la risoluzione giudiziale come condizione. Dunque, se l’accordo omologato non viene eseguito, i creditori possono direttamente depositare istanza di liquidazione giudiziale senza chiedere previamente al tribunale di dichiarare risolto l’accordo. Le SS.UU. (sent. 4696/2022) hanno infatti sancito che, mancando una disciplina ad hoc, vale il diritto comune: l’inadempimento sostanziale dell’accordo può costituire prova dello stato d’insolvenza e giustificare la dichiarazione di fallimento, senza formalità ulteriori. Questo mette in guardia il debitore: l’accordo non è un “fine pena mai” come talvolta (impropriamente) è il concordato, ma se non lo rispetta, torna a rischio immediato di fallimento, e in fallimento i creditori recuperano i loro crediti originari (meno quanto incassato). Infatti, in caso di fallimento dopo risoluzione dell’accordo, i creditori riacquistano il diritto per l’intero importo originario al netto di quanto eventualmente già ottenuto durante l’esecuzione parziale.
È possibile comunque per le parti inserire una clausola di risoluzione ipso iure per inadempimento (come detto in fase di accordo). In tal caso, la risoluzione avviene automaticamente al verificarsi delle condizioni, il che di solito facilita ai creditori l’avvio delle tutele (possono dire: l’accordo è risolto perché tizio non ha pagato, quindi chiedo subito fallimento e sono legittimato). Senza clausola, comunque sarebbero legittimati ugualmente, come detto. Vale la pena ricordare: la differenza col concordato è marcata. Nel concordato, se il debitore non paga le prime rate, i creditori devono prima far dichiarare risolto il concordato (azione da fare entro 1 anno dall’ultimo adempimento dovuto, ex art. 119 CCII) e solo dopo possono chiedere fallimento (salvo insolvenza sopravvenuta). Nell’accordo, no: nessun vincolo di attesa, si può agire subito.
Conclusione dell’iter: se il debitore esegue regolarmente tutte le obbligazioni, l’accordo avrà evitato la crisi e riportato l’impresa in bonis. Non c’è una “chiusura” formale da dichiarare (come per il concordato c’è il decreto di adempimento); semplicemente, a fine piano, tutti i crediti risultano pagati o ridotti e l’impresa prosegue la propria attività liberata dal peso del debito pregresso ristrutturato. I creditori, a loro volta, avranno beneficiato di un recupero concordato, spesso migliore di quanto avrebbero preso in un fallimento.
In caso di fallimento successivo, come detto i creditori possono insinuarsi per l’intero credito originario detratto l’incassato. Inoltre, un accordo omologato poi saltato non pregiudica la possibilità per il debitore (persona fisica eventualmente) di chiedere in futuro altri strumenti, come l’esdebitazione nel fallimento stesso.
Riassumendo in termini di fasi e tempi:
- Fase A (trattative): variabile, da 1-2 mesi fino a 6-8 mesi, a seconda della complessità.
- Fase B (deposito e stay): entro 1 mese dalla fine trattative; lo stay scatta subito e dura fino a omologa.
- Fase C (omologazione): se senza opposizioni, potrebbe concludersi in 1-2 mesi dal deposito (giusto il tempo tecnico e 30 gg di termini). Con opposizioni, può richiedere 3-6 mesi o più (processo di primo grado e eventuale reclamo).
- Fase D (esecuzione): a seconda del piano, può durare anche anni (i pagamenti dilazionati possono arrivare fino a 5-7-10 anni se concordati). Durante questo periodo l’impresa è vigilata de facto dai creditori, ma non da organi formali.
Nella sezione seguente forniremo esempi concreti e simulazioni pratiche per illustrare meglio alcuni scenari di accordo – in continuità, liquidatorio, con transazione fiscale – e tradurre in numeri quanto fin qui spiegato in teoria.
Accordi in Continuità Aziendale vs Accordi Liquidatori
Un aspetto fondamentale da considerare è la finalità del piano sottostante l’accordo di ristrutturazione: esso può puntare alla continuazione dell’attività d’impresa (ristrutturazione in continuità) oppure prevedere la cessazione dell’attività e la liquidazione del patrimonio del debitore (accordo a scopo liquidatorio). La legge non distingue formalmente queste due situazioni in modo netto per gli accordi, a differenza di quanto fa per il concordato preventivo (dove esistono il concordato “in continuità” e quello “liquidatorio” con regole parzialmente diverse). Tuttavia, nella prassi e alla luce di alcuni riferimenti normativi, risulta utile distinguere gli accordi di ristrutturazione in continuità aziendale dagli accordi di tipo liquidatorio, perché presentano caratteristiche e problematiche diverse.
Accordo di Ristrutturazione in Continuità Aziendale
Si ha un accordo in continuità quando il piano di risanamento prevede che l’impresa prosegua la propria attività economica anche dopo l’omologazione, mantenendo la continuità aziendale diretta (cioè la stessa azienda continua) oppure indiretta (ad esempio, l’azienda viene ceduta o conferita a un terzo che la prosegue, ma senza soluzione di continuità operativa). In un accordo in continuità, tipicamente:
- L’azienda resta attiva: il debitore continua a produrre beni o servizi, mantiene (almeno in parte) i dipendenti, onora i contratti essenziali, e cerca di tornare redditizio.
- Il piano mira al rilancio: oltre a ristrutturare il debito, spesso include misure industriali (taglio costi, dismissione rami poco produttivi, nuovi investimenti, ingresso di soci o finanza fresca). L’obiettivo è riportare l’impresa in equilibrio finanziario e competitivo entro un certo periodo.
- I creditori vengono soddisfatti in buona parte con i flussi di cassa futuri generati dalla prosecuzione dell’attività. Ad esempio, un accordo potrebbe prevedere che i creditori chirografari vengano pagati al 50% in 5 anni, con rate semestrali alimentate dai risultati economici dell’impresa risanata.
- È possibile coinvolgere nuovi finanziamenti: spesso la continuità richiede liquidità aggiuntiva (per investimento o capitale circolante). Questi finanziamenti possono provenire da banche disponibili a sostenere il piano o dai soci. Come visto, la legge tutela i nuovi finanziatori in continuità (prededuzione ex art. 100 CCII) e consente al tribunale di autorizzare tali finanze anche in corso di procedura, dando sicurezza ai lenders.
- I contratti pendenti non vengono sciolti automaticamente (come potrebbe invece fare un concordato): il debitore deve onorare i contratti in essere, a meno che non ridiscuta termini con i contraenti (o utilizzi strumenti specifici nella composizione negoziata per trasferire azienda senza alcuni debiti contrattuali, ex art. 22 CCII per cessione in deroga all’art.2560 c.c.).
- Gli organici e rapporti di lavoro: in continuità, i dipendenti generalmente rimangono in forza. Potrebbero essere previsti esuberi da gestire con licenziamenti collettivi o incentivi all’esodo, il che va coordinato con la normativa giuslavoristica (piani sociali, CIGS per ristrutturazione, ecc.). L’accordo di per sé non modifica i contratti di lavoro, ma il piano può includere intese sindacali su riduzioni di personale o trattamenti.
Esempi tipici: un’industria manifatturiera che, a fronte di un calo temporaneo del mercato, accumula debiti ma ha ancora ordini e know-how, può con un accordo decurtare il debito (taglio interessi, allungamento mutui) e ottenere nuova finanza per rinnovare impianti, confidando di recuperare margini e pagare i creditori residui col business. Oppure una catena di negozi, insolvente per un eccesso di debiti di espansione, usa un accordo per ridurre gli oneri (magari chiudere filiali meno profittevoli con accordi coi locatori e fornitori, vendere qualche asset) e continua con i punti vendita migliori.
Attestazione della continuità: l’esperto attestatore deve valutare attentamente la fattibilità economica del piano in continuità. Ciò comporta verificare le ipotesi sui ricavi futuri, sui margini, sul punto di pareggio, etc., e concludere che l’impresa risanata potrà generare cassa sufficiente a pagare i creditori come concordato. È un giudizio prognostico complesso. L’attestatore in un piano di continuità ha un ruolo simile a quello nel concordato in continuità: valutare piani industriali, business plan, eventuali piani di ristrutturazione aziendale, investimenti, etc., e testarne la ragionevolezza. Una particolarità: l’attestatore in un accordo può certificare come non necessario il pieno rispetto dell’ordine delle cause di prelazione (che nei concordati invece va rispettato salvo eccezioni), se i privilegiati hanno aderito a trattamenti difformi. Ciò è normale: in accordo i privilegiati possono accettare decurtazioni. Ma l’attestatore deve evidenziare che ciò è volontario e confermare che comunque nessun estraneo privilegiato subisce ingiustizie.
Vantaggi della continuità per i creditori: in teoria, mantenere l’impresa in vita significa preservare il valore going concern, che solitamente offre una soddisfazione maggiore rispetto alla liquidazione spezzatino dei beni. I creditori, specie finanziari, potrebbero preferire prendere ad es. il 60% in 5 anni da un’azienda che continua a fatturare, piuttosto che liquidare subito e magari ricavare il 30%. Inoltre, la continuità evita gli impatti sociali negativi (perdita di posti di lavoro, contrazione indotto locale). Quindi, se credibile, un accordo in continuità è in genere ben visto. La legge infatti cerca di favorire la continuità (anche con misure premiali fiscali e contributive).
Rischi e condizioni: dall’altro lato, un accordo in continuità comporta i rischi tipici di un risanamento: l’andamento futuro potrebbe non confermare le previsioni, shock esterni (crisi economiche, pandemie, ecc.) potrebbero intervenire, la governance aziendale potrebbe fallire nell’attuazione. I creditori si espongono a un rischio di performance dell’azienda. Per mitigarlo, spesso in accordo in continuità i creditori cercano di conservare leve di controllo: per esempio, nominano un monitoring trustee, richiedono covenant finanziari (se l’EBITDA scende sotto tot, scatta qualcosa), pretendono la nomina di un nuovo CFO condiviso, ecc. Tutto su base contrattuale, perché come detto il tribunale non nomina un commissario. Inoltre, i creditori possono esigere garanzie collaterali: piani di continuità spesso includono pegni su beni di ricambio, ipoteche di nuovo grado se possibili, fideiussioni dei soci, in modo che se le cose vanno male, i creditori abbiano un vantage in più.
Apporti dei soci: quasi sempre in continuità i soci vengono chiamati a fare la loro parte. O mettendo capitale fresco (se credono nel rilancio e per convincere creditori a la “skin in the game”), oppure accettando di diluire la propria partecipazione a favore di nuovi investitori o convertendo i loro crediti (in caso di soci-finanziatori) in equity. Un accordo in continuità ben riuscito spesso vede un “sacrificio dei soci”: ad esempio, rinuncia ai crediti verso la società (deep subordination), conferimenti patrimoniali, disponibilità a perdere il controllo a favore di partner che portano risorse. I creditori raramente accettano un piano di rilancio se i vecchi soci non sono disposti a farsi carico di parte delle perdite, poiché equità vuole che, se l’azienda era sottocapitalizzata, i soci rimedino.
Caso particolare: continuità indiretta: l’accordo può prevedere che la continuità sia assicurata da un soggetto diverso dal debitore originario. Esempio: Gamma S.r.l. in crisi decide di cedere l’intero ramo produttivo a una NewCo capitalizzata da un investitore, che proseguirà l’attività salvando avviamento e posti di lavoro. La NewCo versa un corrispettivo, magari parziale, che entra nell’accordo di ristrutturazione di Gamma e serve a pagare i creditori in una certa percentuale. Gamma S.r.l. poi si svuota e viene liquidata o rimane come contenitore del debito residuo. In tal scenario, l’accordo di ristrutturazione è di tipo misto: ha un elemento liquidatorio (Gamma vende l’azienda e paga i creditori con quel ricavato) ma l’attività continua in altre mani. La legge consente questo: ad esempio l’art. 22 del D.Lgs 14/2019, coma 1 lett. d), prevede già in composizione negoziata la possibilità di ottenere l’autorizzazione a cedere l’azienda senza incognite di responsabilità (2560 c.c.). Un accordo potrebbe incorporare quell’operazione. I creditori in pratica accettano un pay-out parziale subito (dalla vendita) confidando che quella era la migliore soluzione possibile, e l’investitore rileva un’azienda liberata dai debiti. Ciò differisce da un concordato in continuità indiretta solo per il fatto che qui tutto avviene negozialmente (i creditori vendono consenso all’operazione e accettano decurtazioni, senza voto formale). Anche in simili casi l’attestatore deve confermare che vendere l’azienda a tot è la scelta giusta e produce migliore soddisfazione che liquidarla all’asta.
In definitiva, un accordo in continuità è di solito preferibile quando l’impresa ha ancora valore come attività funzionante, competenze, mercato, e un eccesso di debito correggibile. Richiede però il concorso di fattori favorevoli: creditori con un po’ di pazienza e fiducia, management capace di risanare, scenario di mercato stabile o in ripresa, e spesso qualche sforzo finanziario esterno (soci, banche). Nei paragrafi di esempio esamineremo un caso di accordo in continuità.
Accordo di Ristrutturazione a Scopo Liquidatorio
Per contro, un accordo di ristrutturazione è liquidatorio quando il piano prevede la cessazione dell’attività d’impresa e la liquidazione dei suoi beni o del patrimonio per soddisfare i creditori. In pratica, il debitore decide di uscire dal mercato, ma vuole farlo in modo ordinato e concordato coi creditori, piuttosto che subire una liquidazione giudiziale.
Caratteri tipici di un accordo liquidatorio:
- Chiusura dell’attività: il piano stabilisce che l’impresa cesserà di produrre/vendere, spesso in tempi brevi. I dipendenti vengono licenziati (salvo alcuni tenuti per la gestione della liquidazione), i contratti di fornitura risolti o lasciati scadere, eventuali contratti di affitto, leasing, ecc., vengono interrotti ove possibile.
- Realizzo degli asset: l’accordo disciplina come verranno venduti o liquidati i beni aziendali: immobili, macchinari, scorte, partecipazioni, crediti da incassare. Possono essere previste vendite in blocco a un soggetto, o aste private, o assegnazioni ai creditori stessi. Ad esempio: “il magazzino sarà venduto alla società X per €100k, l’immobile sarà messo in vendita tramite agenzia con prezzo base €500k, se entro 6 mesi non venduto si accetta offerta minima €400k, etc.”
- Distribuzione del ricavato: il piano poi stabilisce come i soldi ricavati saranno ripartiti tra i creditori, di solito secondo le cause di prelazione esistenti ma anche con possibili accordi di riparto differenti se tutti concordano. Es: i creditori ipotecari prendono fino a concorrenza dal prezzo dell’immobile venduto, i chirografari si dividono i restanti proventi in proporzione, ottenendo un 30% a saldo e stralcio.
- Eventuale contributo dei soci/terzi: in alcuni accordi liquidatori, i soci possono mettere una somma aggiuntiva per alzare il recovery ai chirografari e ottenere la liberazione integrale dell’azienda. Oppure un terzo può offrire una somma per rilevare l’intera azienda come capo unitario (simile a concordato con assuntore), destinata a pagare i creditori. In tal caso l’accordo somiglia a un concordato liquidatorio, solo senza giudice attivo in merito.
- Scioglimento della società: normalmente, a fine esecuzione l’impresa non esiste più o rimane solo come guscio vuoto. Può essere messa in liquidazione formale (ex art.2484 c.c. se è società) e poi cancellata. I creditori rinunciano a quote di credito e la società ottiene di chiudere i conti.
Differenze rispetto a procedure concorsuali liquidatorie: un accordo liquidatorio ha qualche analogia col concordato preventivo liquidatorio, ma con distinzioni rilevanti:
- Non vi è un commissario o un liquidatore nominato: la gestione della liquidazione è affidata al debitore stesso (o a eventuali liquidatori/sociali di sua nomina). I creditori si fidano che il debitore realizzi i beni secondo quanto pattuito.
- Non c’è obbligo del 20% minimo ai chirografari come nel concordato liquidatorio (nel concordato preventivo la legge richiede offrire almeno il 20% ai chirografari, salvo specifiche condizioni). Nell’accordo invece i creditori decidono liberamente cosa accettare. In teoria potrebbe essere anche meno del 20% se tutti aderenti sono d’accordo. Tuttavia, l’attestatore e il tribunale si assicurano che ciò non sia inferiore al ricavabile in fallimento. Quindi se proprio in fallimento i chirografari non prenderebbero nulla, potrebbero accettare anche 5%. Quindi c’è più flessibilità.
- Possibilità di modulare eccezioni all’ordine dei privilegi: ad es., i creditori ipotecari su un immobile potrebbero anche accettare di prendere un po’ meno per lasciare qualcosa ai chirografari (in un concordato liquidatorio con classi, se ipotecari sono capienti non votano manco, qui invece potrebbero attivamente partecipare).
- Efficacia estesa limitata?: come discutevamo, l’accordo liquidatorio puro raramente vedrà efficacia estesa. Perché se i creditori non aderenti ci sono, e l’azienda chiude, quell’accordo somiglia a un concordato mancato. Comunque, tecnicamente possibile se, ad esempio, la maggioranza di chirografari vuole farlo e uno no, il tribunale però potrebbe storcere il naso se quell’uno è significativo, come spiega la Corte App. Roma 2024 e la norma che dice “accordi non liquidatori per efficacia estesa”. In pratica, i creditori di un accordo liquidatorio di solito o aderiscono in massa (perché conviene, magari c’è un assuntore con soldi), oppure se c’è opposizione è facile che quell’oppositore preferisca fallimento e abbia ragione se l’accordo era troppo di favore per il debitore.
- Coinvolgimento del tribunale: il tribunale qui omologa ma poi non supervisiona, diversamente da un fallimento dove c’è il giudice delegato e curatore. Questo comporta fiducia nelle parti. Ad esempio, se l’accordo prevede che un immobile valga 100 e uno non aderente poi dicesse “potevate vendere a 150”, non c’è uno standard procedurale (come asta) su cui far leva, ma quell’opponente forse avrebbe dovuto opporsi prima sull’inadeguatezza del prezzo.
Vantaggi dell’accordo liquidatorio per il debitore e i creditori:
- Rapidità e costi inferiori: evitare un fallimento significa evitare spese di procedura (compensi del curatore, contributo 2% allo Stato, etc.) e lungaggini. Un accordo liquidatorio potrebbe essere chiuso in 1-2 anni, laddove un fallimento dura magari 5-6 anni. I creditori ricevono prima e forse di più (niente spese concorsuali).
- Maggior controllo per il debitore: l’imprenditore, pur rinunciando all’attività, può gestire la chiusura in modo più dignitoso, scegliendo come vendere e potendo anche proteggere interessi propri secondari (ad es., vendere l’azienda a qualcuno che continui l’opera, oppure tenersi un bene non essenziale trovando accordo con creditori, cose del genere possibili se creditori sono consenzienti).
- Possibilità di concordare esdebitazione: nel fallimento l’esdebitazione (la liberazione dei debiti residui per l’imprenditore individuale) non è automatica e segue regole. In un accordo, di fatto, i creditori convengono di rinunciare alla parte di credito non pagata, liberando subito il debitore da quelle obbligazioni (salvo diversa pattuizione). Questo è un enorme sollievo specie per imprenditore individuale o soci garanti. In accordo, si può scrivere: “a fronte di pagamento del 30%, i creditori chirografari rinunciano alla restante parte del credito ex art. 1976 c.c.” (remissione parziale).
- Mantenimento di rapporti: se la liquidazione avviene consensualmente, il debitore magari salva rapporti di reputazione, e i creditori percepiscono uno sforzo collaborativo (meglio che far fallire e litigare).
Sfide:
- Occorre convincere i creditori che l’accordo liquidatorio dia loro almeno quanto avrebbero dal fallimento, se non di più. L’attestatore gioca su questo: farà i conti come un curatore, ma togliendo costi di procedura, e dirà per es. “in fallimento sarebbero 20%, qui accordo dà 25%, conviene”.
- Ci vuole un elevato grado di adesione: di solito questi accordi o hanno quasi l’unanimità o comunque cospicua partecipazione. Se troppi creditori non aderiscono e intendono agire diversamente (pignoramenti, istanze di fallimento), l’accordo cade. Un solo creditore ipotecario dissenziente, ad esempio, può far pignorare subito e far saltare il piano vendendo giudizialmente l’immobile. Dunque, il debitore deve negoziare con i portatori di diritti di veto per includerli o soddisfarli a parte.
- Difficoltà con crediti erariali: se nell’accordo liquidatorio c’è debito fiscale significativo, per legge il Fisco può essere vincolato solo con adempimento delle condizioni del cram-down fiscale. Soprattutto, se l’accordo è 100% liquidatorio e non partecipano altri creditori, il Fisco può dire: “questo è uguale a un fallimento, non c’è concorsualità, non do l’assenso”. È un classico: l’Erario potrebbe preferire far fallire per vedere se emergono profili di responsabilità (revocatorie su atti, azione di responsabilità, etc.). Quindi convincere il Fisco in un accordo dove l’azienda chiude richiede di mostrargli che i soldi offerti sono il massimo possibile e che in fallimento non beccherebbe di più (anzi forse meno per costi). E con le soglie 30-40% ora legge, se non si arriva, niente omologa forzosa. Quindi se il Fisco non sta a quelle, accordo salta. In concordato liquidatorio invece il Fisco vota come un chirografario e, se in minoranza, subisce il cram-down comunque nel piano (in concordato c’è l’art.180 co.4 L.F. simile).
- Gestione del personale: chiudere l’attività comporta licenziamenti. Il TFR e le ultime mensilità dei dipendenti sono crediti privilegiati. Spesso vengono pagati dal Fondo di Garanzia INPS in caso di fallimento. In un accordo non c’è quell’intervento (che è riservato ai casi di procedure concorsuali o esecuzioni). Ciò può complicare: i lavoratori potrebbero preferire far fallire per prendere TFR dall’INPS subito, piuttosto che aspettare vendite (anche se per privilegio di solito incassano in ogni caso). Una soluzione può essere: l’accordo liquida subito TFR e stipendi ai dipendenti attingendo magari a risorse liquide immediate, in modo da avere la loro collaborazione (anche perché se no potrebbero mettere in mora e spingere per fallimento per accedere al fondo).
In pratica, l’accordo liquidatorio è spesso una “liquidazione concordata” per evitare il fallimento. Ad esempio, può avvenire nelle piccole società di persone o ditte, dove il fallimento avrebbe implicazioni personali negative per l’imprenditore (stigma, restrizioni), e i creditori locali preferiscono un accordo sotto casa. Oppure, in gruppi societari, si può liquidare fuori dal tribunale vendendo asset a società correlate col placet dei creditori.
Da notare: il CCII ha introdotto il concordato semplificato liquidatorio (art. 25-sexies) per i casi di insuccesso della composizione negoziata, che consente di omologare un concordato liquidatorio senza voto dei creditori. Quello è uno strumento diverso: giudiziale, senza adesioni, e può forzare i creditori. L’accordo liquidatorio è invece volontario. Sta al debitore capire quale via è percorribile: se i creditori sono troppi e disuniti, può preferire un concordato semplificato; se invece c’è collaborazione, l’accordo è più spedito e meno costoso.
In conclusione, accordo in continuità e accordo liquidatorio sono due facce possibili dell’istituto. Il Codice della crisi intende privilegiare la continuità aziendale (coerente con la direttiva europea), ma permette anche soluzioni liquidative negoziali. Nell’elaborare un accordo, il debitore deve essere chiaro con se stesso e con i creditori sul destino dell’impresa: se c’è una prospettiva di salvataggio, delineare un piano di rilancio credibile; se non c’è, meglio non ostinarsi e costruire un piano di dismissione equa. A volte esistono forme ibride – ad esempio, cessione di una parte del business a un investitore (continuità parziale) e liquidazione del resto – e l’accordo può adattarsi, a patto di trasparenza e adesione delle parti.
Nel prossimo capitolo presenteremo esempi concreti e simulazioni che illustrano accordi di ristrutturazione, toccando con mano numeri e situazioni sia in continuità che liquidatorie e con implicazioni fiscali, per rendere ancora più tangibile quanto spiegato finora.
Esempi Concreti e Simulazioni Pratiche
Per comprendere meglio il funzionamento degli accordi di ristrutturazione dei debiti, presentiamo di seguito alcuni esempi pratici ispirati a casi tipici. Ogni esempio è semplificato a fini didattici, ma evidenzia le dinamiche principali dello strumento.
Esempio 1: Accordo di Ristrutturazione in Continuità Aziendale (PMI Manifatturiera)
Scenario: Alfa S.p.A. è una PMI manifatturiera nel settore macchine utensili. Ha subito un calo di fatturato negli ultimi 2 anni a causa della contrazione del mercato e si trova in crisi di liquidità. I suoi dati principali sono: attivo immobilizzato (capannone e macchinari) 5 milioni, magazzino 1 milione, crediti commerciali 0.5 mln. Debiti finanziari verso banche 4 milioni (mutui ipotecari sul capannone e linee chirografarie), debiti verso fornitori 2.5 milioni, debiti verso Erario 0.8 mln (IVA e ritenute non versate), altri debiti (TFR e varie) 0.2 mln. Totale debiti 7.5 milioni. Il patrimonio netto è negativo di 1 milione (ha perdite pregresse).
L’azienda ha ordini in portafoglio e prospettive di mercato discrete se riuscisse a investire in aggiornamento tecnologico. Il calo di ricavi pare essersi arrestato e c’è la possibilità di recuperare margini. Tuttavia, i debiti accumulati rendono impossibile ottenere nuove forniture a credito o nuove linee bancarie: i fornitori richiedono pagamento immediato e le banche hanno congelato gli affidamenti.
Il consiglio di amministrazione decide di tentare un accordo di ristrutturazione per risanare la posizione finanziaria mantenendo l’operatività. Accede alla composizione negoziata nominando un esperto indipendente e ottiene misure protettive temporanee. Con l’aiuto dell’esperto, negozia con i creditori una bozza di piano.
Piano proposto: mantenere la continuità aziendale, con ristrutturazione sia del debito bancario che di quello verso fornitori ed Erario, e un apporto di nuova finanza dai soci e da un investitore. In particolare:
- I soci di Alfa si impegnano a conferire 0.5 milioni di euro freschi in conto capitale (per sostenere il circolante).
- Un investitore esterno (Beta Holding) è disposto a entrare con 1 milione di euro per rilevare il 60% delle azioni di Alfa (i soci attuali scendono al 40%), a patto che l’azienda venga liberata da una parte significativa dei debiti pregressi.
- Il capannone sarà venduto a Beta Holding stessa (che lo affitterà poi ad Alfa) per 2.5 milioni – cifra vicina al valore di mercato (2.8 mln) ma accettata perché Beta acquista in blocco anche le azioni. Dalla vendita, Alfa incassa 2.5 mln cash che userà in parte per pagare debiti.
- Alfa continuerà la produzione nel capannone in affitto e coi macchinari attuali (che mantiene di proprietà). Il canone di affitto sarà sostenibile (120k/anno).
Trattamento dei creditori:
- Banche (4 mln totali):
- Banca 1 (ipotecaria, credito 2 mln garantito da ipoteca sul capannone). Sarà soddisfatta per 1.8 mln al closing (tramite una parte dei 2.5 mln ricavati dalla vendita del capannone) + il residuo 0.2 mln in 5 anni con nuovi piani di ammortamento. La banca mantiene inoltre ipoteca (che sarà trasferita sul ricavato ex art. 41 TUB o rifocalizzata su altra garanzia, da definire). Di fatto prende il 100% nominale ma dilazionato, e rinuncia a eventuali interessi di mora.
- Banca 2 (chirografaria, credito 1.5 mln). Accetta uno stralcio del 40%: riceverà 0.9 mln (60%) in 5 rate annuali, con interessi ridotti all’1%. Rinuncia al restante 0.6 mln. In cambio ottiene la garanzia dei soci di Alfa (fideiussione) per coprire almeno metà dell’importo dilazionato.
- Banca 3 (chirografaria, credito 0.5 mln). Riceverà 0.5 mln integrali ma diluiti in 3 anni senza interessi (quindi valore attuale ridotto). Questa banca in pratica non subisce haircut ma solo dilazione, perché è di importo minore e l’azienda vuole preservare il rapporto.
- Fornitori chirografari (2.5 mln): si propone loro un pagamento del 50% dei crediti. In particolare, 0.5 mln verranno pagati entro 3 mesi dall’omologa (usando il resto dei 2.5 mln incassati dalla vendita capannone e dai 0.5 mln apportati dai soci), e il restante 0.75 mln sarà pagato in 4 rate semestrali in due anni attingendo dai flussi di cassa operativi. Il 50% residuo (1.25 mln) è rinunciato. I fornitori ottengono anche l’impegno di Alfa a continuare a dare loro commesse future (dunque restano partner commerciali).
- Erario (0.8 mln): di cui 0.5 IVA 2021 non versata, 0.2 ritenute dipendenti, 0.1 sanzioni e interessi. Si propone una transazione fiscale: pagamento integrale delle imposte principali (IVA e ritenute) per 0.7 mln, ma dilazionato in 6 anni, con riduzione totale di interessi e sanzioni (0.1 mln abbuonati). Quindi, 0.7 mln in 12 rate semestrali da ~58k ciascuna. Si prevede di destinare a queste rate una parte dei flussi generati dall’efficientamento e nuove linee di Beta.
- Debiti vari minori (0.2 mln): debito TFR dei dipendenti licenziati anni prima, debiti verso consulenti. Proposta: pagamento 100% entro 6 mesi (sono importi modesti), così da togliere di mezzo piccoli creditori potenzialmente rumorosi. I lavoratori riceveranno il TFR da fondo INPS se l’azienda fallisse, ma preferiscono prenderlo subito dall’azienda evitando di aspettare.
Adesioni: L’azienda, con il supporto dell’esperto, convoca riunioni con le banche e i fornitori maggiori.
- Le banche 1 e 2 aderiscono (rappresentano 3.5 mln su 4 di crediti bancari). La banca 3 inizialmente è titubante ma poi aderisce pure (il fatto di essere pagata integralmente benché dilazionata la convince, preferendo un debitore risanato che paga rispetto a rischiare un fallimento). Quindi tutte le banche 100% crediti finanziari aderiscono.
- I fornitori: su 2.5 mln, l’azienda riesce ad ottenere adesioni scritte da fornitori per complessivi 2 mln (80%). Una decina di fornitori più piccoli (per 0.5 mln) non rispondono o rifiutano, ma data la larga maggioranza, si intende chiedere efficacia estesa su questa categoria. I fornitori aderenti costituiranno una categoria omogenea.
- Erario: l’Agenzia Entrate esprime parere favorevole sulla transazione proposta, ritenendo di incassare ~0.7 mln su 0.8 (87%) sebbene in 6 anni, contro un presumibile 30% in caso di fallimento (dove privilegio IVA di solito trova parziale copertura nell’attivo). L’INPS/dipendenti non rilevanti qui perché i 0.2 TFR pagati subito.
In definitiva, Alfa S.p.A. ha adesioni di creditori rappresentanti circa:
- Totale debiti 7.5 mln. Aderenti: banche 4 mln, fornitori 2 mln, Erario 0.8 mln. Totale aderenti = 6.8 mln ≈ 90,6% del totale crediti. Quorum del 60% ampiamente superato.
- Nella categoria “fornitori chirografari” (2.5 mln totali) gli aderenti rappresentano 2 mln = 80%. Superata la soglia 75%, si può estendere ai dissenzienti.
- L’Erario ha aderito quindi non serve cram-down fiscale.
Accordo e omologa: Viene redatto l’accordo con tutte le pattuizioni. L’attestatore scrive la relazione attestando che:
- Il piano è fattibile: Beta Holding ha firmato accordi vincolanti per capitale e acquisto capannone (condizionati all’omologa ovviamente), i dati pro-forma post-ricapitalizzazione e riduzione debito mostrano un rapporto DE/E sostenibile, i flussi prevedono Ebitda margin 10% recuperato entro 2 anni e sufficiente a onorare i debiti residui. I costi dell’affitto del capannone sono stati considerati e sostenibili.
- I creditori estranei (fornitori 0.5 mln) saranno pagati integralm. come previsto (in realtà efficacia estesa li forza al 50% come gli altri, ma dal loro punto di vista ricevono stesse condizioni degli aderenti, e quell’offerta è più alta di stima fallimento 20%).
- In caso di fallimento, stima recupero: immobile 2.5, macchinari 1, magazzino 0.5, crediti 0.4; totale attivo 4.4 mln, spese procedure 0.4, residuo 4.0. Privilegiati (Erario 0.7, TFR 0.1) 0.8 prima; rimangono 3.2 per chirografi su 6.6 chirografi = 48%. Ma vista la frammentazione e tempi, probabilmente realizzazione a sconto, dice best case 50%. Con l’accordo, i chirografi (fornitori+banche chirografarie) prendono 60% (fornitori 50% + banche che prendono 60% e 100% differito). Quindi sono soddisfatti almeno quanto, anzi meglio.
- I trattamenti del Fisco rispettano il divieto di alterazione cause prelazione (il Fisco col privilegio viene pagato 100% ancorché dilazionato, quindi nessun chirografo prende più di lui percentualmente, ergo va bene).
Il tribunale concede le misure protettive fin da subito (a dire il vero, già in comp. negoziata c’erano, ora le rinnova per l’omologa). Nessun creditore oppone: i pochi fornitori dissenzienti non fanno opposizione formale (alcuni nemmeno compaiono, altri erano rassegnati essendo minoranza). L’accordo viene omologato senza intoppi. Il decreto di omologa estende l’accordo ai fornitori non aderenti ai sensi art. 61 CCII: ciò significa che anche essi dovranno accontentarsi del 50% in 2 anni e rinunciare al resto.
Esecuzione: Beta Holding versa il milione per le quote e 2.5 mln per l’immobile. Alfa paga immediatamente:
- 1.8 mln a Banca 1 (che contestualmente svincola ipoteca sul capannone).
- 0.5 mln ai fornitori (prorata, o prima quelli strategici).
- 0.2 mln ai dipendenti/TFR.
Restano in cassa ancora 2.5 – (1.8+0.5+0.2) = 0 mln, i 2.5 sono andati. Però l’azienda ora ha 0.5 mln in più di capitale liquido (dei soci), e Beta Holding ancora porta competenze e possibili linee credito. Le nuove linee di Beta (Beta probabilmente garantisce qualche fornitura) aiutano ad avere materiali.
Nei successivi anni, Alfa paga:
- A Banca 2: 0.9 mln in 5 anni (rate 180k/anno) – Beta eventualm. garantisce parzialmente con pegno su titoli.
- A Banca 3: 0.5 mln in 3 anni (rate ~167k/anno).
- Ai fornitori residui: 0.75 mln in 4 semestralità di ~187k, coperte dalla riduzione costi e margini recuperati.
- Al Fisco: ~58k ogni 6 mesi per 6 anni, regolari (queste rate hanno privilegio di farle, l’azienda le rispetta rigorosamente).
- L’azienda inoltre paga puntualmente i debiti correnti per evitare di ricadere in crisi.
Dopo 2 anni i fornitori sono stati completamente pagati al 50%. Dopo 3 anni Banca 3 conclusa. Dopo 5 anni Banca 2 e fornitori estesi conclusi. Resta solo il Fisco fino al 6° anno (ma importo modesto oramai). L’azienda è risanata, con Beta come azionista di maggioranza. I creditori soddisfatti e nessun fallimento.
Valutazione: i creditori hanno ottenuto percentuali decenti (fornitori 50% vs ipotetico 30-40 in fallimento, banche quasi tutte recuperano 100% salvo una accetta 60, ma come chirografa avrebbe preso simile in fallimento forse e preferisce evitare cause). I soci originari hanno perso il controllo (diluiti al 40%) ma l’azienda continua ed evita fallimento (che li avrebbe esposti ad azioni di responsabilità, ecc.). 50 dipendenti conservano il posto. Beta Holding ha investito e ottenuto una società ripulita. Un classico caso di ristrutturazione win-win resa possibile dall’accordo.
Questo esempio mostra:
- Utilizzo combinato di accordo ordinario (60%) e efficacia estesa (fornitori al 80% -> estesi a 100%).
- Transazione fiscale approvata e integrata nel piano.
- Apporto di nuova finanza e cessione asset per supportare l’accordo.
- Continuità diretta con cambio di governance.
- Ruolo dell’attestatore cruciale per convincere tutti che conviene così rispetto a alternative.
Esempio 2: Accordo di Ristrutturazione Liquidatorio (Impresa Individuale)
Scenario: Mario Rossi è un imprenditore individuale (ditta individuale) titolare di 3 negozi di abbigliamento. La sua attività è andata male negli ultimi anni, anche a causa della concorrenza online, e ha accumulato molti debiti. Ha già chiuso 2 dei 3 negozi, licenziando il personale relativo. Resta un solo punto vendita operativo ma anch’esso in calo di fatturato. Mario decide di cessare completamente l’attività e dedicarsi ad altro lavoro. Tuttavia, vuole evitare il fallimento (cui sarebbe soggetto, avendo superato le soglie dimensionali), sia per ragioni di reputazione personale sia perché teme per la casa familiare (che è in parte ipotecata per i debiti).
Situazione debitoria:
- Debiti bancari: 300k con Banca X (fido chirografario) e 200k con Banca Y (mutuo ipotecario sulla casa di Mario, casa valore 350k, ipoteca 1° grado).
- Debiti fornitori: 400k totali (vari fornitori di capi).
- Debiti fiscali: 100k (IVA non versata degli ultimi 2 anni).
- Debiti verso ex dipendenti: 50k (TFR e mensilità).
Totale debiti ~1.05 milioni.
Attivo di Mario:
- Casa di proprietà stimata 350k (ma con ipoteca 200k).
- Arredamento e attrezzature dei negozi rimasti: modesto valore, forse 30k vendendo tutto usato.
- Rimanenze di magazzino (vestiario invenduto): stimato realizzo 80k se venduto stock all’ingrosso (a fronte di valori di carico maggiori, ma scontato).
- Cassa attuale quasi zero.
Mario, su consiglio del suo legale, punta a un accordo di ristrutturazione liquidatorio:
- Si impegna a vendere la casa di sua proprietà, magari cercando un acquirente amico per spuntare il prezzo migliore, e destinare tutto il ricavato (al netto dell’ipoteca) ai creditori. La casa è stimata 350k; ipoteca Banca Y è 200k; dunque vendendo a 350k, si pagherà Banca Y per intero e avanzeranno 150k.
- Metterà in vendita le giacenze di magazzino tramite un liquidatore specializzato in stock, stimando di ricavare almeno 80k (c’è già un’offerta per quel valore).
- Venderà gli arredi e attrezzature all’asta o su mercati dell’usato, sperando in 30k.
- Chiuderà l’ultimo negozio con regolare disdetta del contratto di affitto (ci vorranno 6 mesi per liberare).
- Il ricavato complessivo previsto da liquidazione: 150k (casa) + 80k + 30k = 260k.
Con questi 260k, la proposta di accordo è di soddisfare:
- Banca X (chirografo 300k): pagamento di 100k (33%) entro 6 mesi dalla vendita degli asset, a saldo e stralcio. (Motivazione: se fallisse, Banca X forse vedrebbe meno).
- Fornitori (400k): pagamento di 80k totali (20%) ripartiti pro-quota tra loro, in unica soluzione tra 6 mesi. (In fallimento, ipotizzano che i chirografi qui sono Banca X+fornitori=700k e attivo residuo 60k, quindi 8.5%. Offrire 20% è doppio).
- Erario (IVA 100k): proposta transazione fiscale di 40k (40%) entro 6 mesi, rinunciando a sanzioni e interessi. (In fallimento IVA privilegio sul magazzino e attrezzature, forse prendeva 15%, qui 40 è molto meglio).
- Ex dipendenti (50k): pagati integralmente 50k, utilizzando l’intervento del Fondo di Garanzia INPS per TFR e arretrati. In realtà, se Mario attiva un accordo e non fallisce, in teoria il Fondo di Garanzia non interviene automaticamente; tuttavia, potrebbe essere concordato di pagarli comunque integralmente dall’attivo – e Mario preferisce farlo per ragioni etiche e perché poi può chiedere rimborso al Fondo per la parte di TFR (situazione intricata, ma ipotizziamo di volerli soddisfare).
- In pratica, i 50k ai dipendenti avrebbero privilegio di prim’ordine su vendite, quindi è saggio tenerli da parte (anche perché il Fondo INPS è utilizzabile solo in procedure concorsuali o esecutive, l’accordo non attiva quell’intervento automatico).
Somma destinata:
- Banca X 100k
- Fornitori 80k
- Erario 40k
- Dipendenti 50k
Totale destinazioni: 270k.
C’è un buco (260 ricavi vs 270 destinazioni). Mario decide di colmare la differenza con risorse personali: ad esempio, impegnandosi a versare 10k dalla vendita di un’auto di famiglia o da prestito parente. In questo modo può promettere 270k di distribuzioni.
Adesioni richieste: Mario contatta:
- Banca X: inizialmente scettica, ma di fronte alla prospettiva di incassare 100k ora vs attendere un fallimento con recupero incerto e lungo (forse 0 se IVA e dipendenti mangiano tutto), la banca accetta la proposta.
- Fornitori: sono molti (diciamo 20 fornitori vari), ma la maggioranza in valore (300k su 400k) vede che 20% non è male considerato che Mario sta vendendo tutto. Qualcuno brontola, ma la maggior parte aderisce (soprattutto i 5 fornitori maggiori con crediti 250k totali). Poniamo adesioni di fornitori per 300k (75%).
- Agenzia Entrate: con la nuova norma, se questo accordo fosse presentato, avrebbe bisogno di almeno 25% altri crediti aderenti (e li ha: altri creditori aderiscono, sì) e percentuale minima 30% per IVA. Mario offre 40%, quindi oltre il minimo, e c’è pluralità di creditori. Inoltre dimostra che in fallimento l’IVA avrebbe avuto sui 15k (perché privilegio su beni modesti). L’Agenzia quindi è disposta ad aderire (anche perché vede che la casa di Mario se va in fallimento comunque loro prendono briciole dopo ipoteca e dipendenti).
- INPS (per eventuali contributi? Non menzionato, supponiamo minimo o nulla).
- Dipendenti: essendo pagati integralmente, ovviamente concordano. Non devono aderire formalmente perché non serve alterare i loro diritti (sono estranei di fatto pagati al 100%).
Dunque, l’accordo vede adesioni per:
- Banca X 300k
- Fornitori 300k su 400k (75%)
- Erario 100k
Totale aderente = 300+300+100 = 700k su 1.05M = ~66.7%. Quorum > 60% quindi ok per accordo ordinario.
Nella categoria “fornitori chirografari” (400k totali) adesioni 300k = 75% esatto, giusto la soglia per efficacia estesa sui rimanenti fornitori dissenzienti (100k).
C’è il Fisco aderente quindi niente cram-down controverso, è consenziente.
Accordo e omologa: l’accordo è di tipo liquidatorio: contiene impegni di Mario a vendere la casa entro tot mesi ad un prezzo non inferiore a X (o comunque, se entro 4 mesi nessuna offerta 350k, accetterà migliore offerta anche inferiore col placet creditori principali), vendere stock e arredi con lotti concordati, ecc., poi depositare il ricavato in un conto dedicato e distribuirlo come da percentuali. Prevede che l’accordo ha efficacia solo se riesce a vendere i beni come da piano (questa potrebbe essere condizione risolutiva? Comunque).
L’attestatore certifica:
- Valore di liquidazione in fallimento: la casa venduta dal curatore avrebbe preso forse 300k netti (perdita di valore e costi), l’IVA e dip prevalgono su quella, residuo per chirografi quasi zero. Magazzino 80k concordato qui, in fallimento forse meno (svendita forzata 50k), arredi 30k qui vs 10k in asta? Quindi i creditori chirografi in fallimento prendono forse <5%. Con l’accordo prendono 20-33%. Ergo convenienza c’è.
- Le percentuali Fisco e tutele: Fisco (IVA) 40% non deteriore rispetto ad altri chirografi (altri chirografi fornitori prendono 20%, l’IVA prende 40% quindi è trattata meglio, e va bene perché la norma impone di non trattarla peggio degli altri di pari grado; trattata meglio è permesso). Dipendenti e Banca Y ipotecaria prendono 100% quindi prelazioni rispettate.
- Debitore persona fisica: nessun impatto su consumatore perché qui è impresa.
- Necessità efficacia estesa su quei fornitori 100k: attestatore conferma informati ecc.
Si deposita l’accordo, il tribunale concede stay (anche se c’è già poco da proteggere, forse eventuali cause dei fornitori, ma li blocca).
Nessuno si oppone perché:
- i fornitori dissenzienti 100k vedono che gli altri han accettato e in fallimento loro avrebbero preso forse zero, quindi non buttano soldi in un’opposizione che sarebbe malvista (rischiano che tribunale li escluda e li paghi solo se qualcosa resta).
- Banca Y (ipotecaria) in realtà non deve aderire all’accordo perché la casa copre ipoteca e viene pagata in full, però formalmente Banca Y potrebbe opporsi se pensa che vendere casa a 350k è troppo poco rispetto ipoteca (ma è sufficiente a pagarli, quindi tacitamente ok).
- Fisco aderito, Banca X aderito, la maggioranza contenta.
Il tribunale omologa, con efficacia estesa ai fornitori restanti.
Esecuzione: Mario vende la casa a 340k (ha dovuto leggermente scontare). Quindi:
- Paga Banca Y ipotecaria 200k e cancella ipoteca.
- Rimangono 140k. Dallo stock e arredi ricava esattamente 110k (80+30).
- Totale liquido 250k (ahimè meno dei 270 previsti perché casa venduta 340 < 350).
- Mario integra con 20k prestito famiglia. Totale 270k.
- Distribuisce secondo accordo:
- Banca X: 100k (stralciando 200k).
- Fornitori: 80k (liquida proporzionalmente, stralcio 320k).
- Erario: 40k (stralcio 60k).
- Dipendenti: 50k (TFR pagato).
- Totale erogato 270k. Fine.
I creditori rilasciano quietanza liberatoria. Mario chiude la partita IVA e cessa attività. La differenza tra crediti originali e quanto pagato è rinunciata dai creditori come da accordo, per cui Mario non ha più debiti residui (raggiunge l’equivalente di un’esdebitazione contrattuale). Evita la dichiarazione di fallimento, conserva onorabilità e può dedicarsi ad altro (magari lavorare come dipendente da Beta Holding come commesso… chissà).
I creditori: Banca X incassa 1/3, forse in fallimento avrebbe incassato 0 (perché chirografo dietro IVA e con poco attivo), quindi meglio. Fornitori prendono 20% entro pochi mesi, meglio di un fallimento incerto dove magari il curatore dopo 5 anni dava 5%. Fisco prende 40% vs presumibile 15%. Dipendenti 100% vs 100% che avrebbero preso da Fondo INPS (loro pari, ma qui ottengono subito e senza burocrazia). Tutti possono ritenersi soddisfatti considerando la magra situazione.
Nota sulle soglie legali: Formalmente, l’accordo essendo liquidatorio e con Fisco rilevante ha rispettato le soglie (aveva altri creditori >25% e dava >30% a Fisco). Inoltre “non carattere liquidatorio” era condizione nel DL 69 solo se creditore aderenti sotto 25%, qui era 66% tot, quindi quell’impedimento non scatta. Quindi l’omologa forzosa (che in realtà non serve perché Fisco è consenziente) sarebbe stata ammissibile. In pratica, condotte prudenti.
Questo esempio evidenzia:
- Accordo agevolato?: qui non c’era questione di soglia 30% perché hanno oltre 60% di consensi (66%), altrimenti Mario avrebbe potuto ricorrere forse all’accordo agevolato se i creditori erano pochi (ma con Fisco dentro e ipoteche, in effetti no, serviva quell).
- Liquidazione beni sotto controllo: i creditori aderiscono perché fidano che Mario venderà a valore equo. Spesso si può nominare un liquidatore di comune gradimento: ad esempio, avrebbero potuto includere nell’accordo che un professionista gestirà le vendite (non c’è in legge ma contrattualmente fattibile). Qui han fiducia.
- Nessun organo di procedura: tutto fatto privatamente. Mario onora impegni.
- Clausola risolutiva: sicuramente l’accordo avrà previsto che se entro X mesi non vende la casa o non incassa una soglia minima totale, l’accordo si considera risolto. Fortunatamente ha venduto e incassato giusto sufficiente.
Esempio 3: Accordo con Prevalenza di Debiti Fiscali (Cram-down Fiscale)
Consideriamo un caso per capire l’omologazione forzosa contro il Fisco.
Scenario: Gamma S.r.l. era un’impresa edile ora ferma. Ha venduto i suoi immobili e pagato quasi tutti i creditori privati, ma è rimasto con un grosso debito verso l’Agenzia delle Entrate per IVA e contributi non versati, e qualche debito minore. Non ha liquidità e l’unico asset rimasto è un credito in contenzioso (verso un comune per lavori svolti, di valore nominale 500k, incerto e con esito magari 50% di vincere). Inoltre, il socio di Gamma è disposto a mettere 50k per chiudere la società dignitosamente.
Debiti: Fisco 600k (IVA e INPS), fornitori residui 50k, banca 30k (chirografo), vari 20k. Totale ~700k.
Gamma propone al Fisco un accordo dove:
- Il socio versa 50k e li offre al Fisco come pagamento 10% del dovuto (60k su 600k).
- Cede al Fisco (o a una società veicolo) il 50% dell’esito del contenzioso col comune: nel senso che se e quando incasserà qualcosa, il 50% andrà al Fisco.
- Offre di pagare i fornitori e banca al 100% subito (sono piccoli: 80k totali, il socio li paga a parte forse).
Dunque i creditori diversi dal Fisco (80k) hanno adesione 100% (li paga integrale, quindi aderiscono).
L’unico vero dissenziente è l’Agenzia Entrate che non intende accettare 10%. Fisco rappresenta 85% del debito.
Adesioni tot: se Fisco non aderisce, hanno solo 100k su 700k = 14% di consensi, non raggiunge 60%.
Gamma allora non può fare un accordo ordinario. Però vuole tentare un accordo lo stesso e confidare nel cram-down fiscale all’omologa.
Qui entra in gioco l’art. 63 CCII:
- Occorre che l’assenso del Fisco sarebbe decisivo per 60%. Qui sì: Fisco è 85%. Con Fisco arriverebbero al 99%, senza non c’è 60%. Quindi c’è condizione (1).
- La proposta al Fisco dev’essere conveniente rispetto a liquidazione: scenario in fallimento, il Fisco come privilegiato su eventuali residui: qui l’unico asset è un credito incerto di 500k. Se fallimento, il curatore porta avanti causa, se vince incassa 500k, spese 50k, residuo 450k. Privilegi: Fisco 600k privilegio generale forse su quei soldi, ma ne arrivano 450, Fisco prende tutti quelli, 450/600 = 75%. Se causa perdente, Fisco nulla. Weighted maybe 50% chance * 75% = 37.5%. Quindi valore atteso per Fisco = ~225k (questo calcolo ipotetico).
Gamma offre 10% = 60k + eventuale 50% di incasso contenzioso: se vince incassa 250k extra (metà di 500k), se perde niente. Quindi per Fisco atteso = 50%*250=125 + 60 = 185k. Eh, 185k vs 225k in fallimento: non nettamente conveniente. L’attestatore dovrebbe modulare la stima per convincere che in fallimento col contenzioso incerto e costi e tempi, il valore attuale atteso per Fisco è in realtà <185k, magari ipotizzando tempi 5 anni e sconto.
Diciamo attesta convenienza borderline ma sufficiente. - Divieto di trattamento deteriore: qui Fisco (privilegiato) prende 10% e i chirografi (fornitori, banca) 100%. Ehi, questo è un trattamento deteriore per il Fisco rispetto a creditori di grado inferiore: i chirografi stanno ricevendo più (100%) del Fisco (10%). Questo viola l’art. 63 co.2 che chiede parità o preferenza Fisco. Non può omologare cosi. Si dovrebbe modificare offerta: o tagliare i chirografi analogamente (ma li ha pagati per avere adesioni), o alzare Fisco.
Dopo DL 69/23, inoltre:- Altri creditori aderenti importo >= 25% tot debiti? Qui Fisco 600, altri 100, tot 700, altri = ~14%. Non raggiunge 25%. Quindi condizione non soddisfatta: il meccanismo non potrebbe essere usato secondo la nuova norma, accordo appare rivolto solo al Fisco.
- E offre 10% (<30% min richiesto), ancora peggio. Quindi con la legge nuova, un accordo del genere non sarebbe omologabile: sarebbe inammissibile se Fisco unico principale e offerta <30%.
Questo riflette proprio il caso limite: accordo che mira solo a falcidiare il Fisco fortemente.
Immaginiamo fosse pre-2023 e la legge lo consente (allora bastava convenienza e quell ragioni).
Tribunale: potrebbe dire no per mancanza “spirito di accordo con altri creditori” come infatti alcune Corti hanno detto. E la nuova norma lo ribadisce.
Risultato possibile: la Corte d’Appello di Roma 2024 (caso reale citato) ha scenari simili:
- Lì Fisco 86% passività, offerta 21.5%, accordo solo col Fisco. Tribunale omologò forzosamente, poi Corte d’Appello revocò: “operatività del cram down fiscale richiede un preventivo accordo con altri creditori”. E quell’omologa fu revocata, salvaguardando quell’85% norma efficacia e portando credo a fallimento.
Quindi Esempio 3 direbbe: se hai un solo creditore grande (Fisco) e pochi altri, l’accordo di ristrutturazione non è lo strumento giusto. Meglio forse procedure di sovraindebitamento (se non fallibile) o sperare in saldo e stralcio con Fisco in autotutela (difficile).
La ratio è: l’accordo deve vedere i creditori privati partecipare, altrimenti è un concordato “monoclasse Fisco” mascherato, e la legge non lo vuole.
In conclusione, questi esempi pratici mostrano diverse sfaccettature:
- Un complesso accordo in continuità con efficacia estesa e transazione fiscale approvata (Esempio 1).
- Un accordo puramente liquidatorio di chiusura attività, con soddisfazione parziale ma rapida e consensuale (Esempio 2).
- Un tentativo di accordo rivolto quasi solo al Fisco, che la normativa recente scoraggia fortemente (Esempio 3), illustrando i limiti del cram-down.
Tabelle Riepilogative
Di seguito presentiamo alcune tabelle riepilogative per confrontare in modo sintetico le caratteristiche dei vari tipi di accordi di ristrutturazione e le differenze rispetto ad altre procedure.
Tabella 1 – Tipologie di Accordi di Ristrutturazione e Requisiti Principali
Tipo di Accordo | Soglia di adesione | Condizioni e limiti | Effetti verso non aderenti | Norma |
---|---|---|---|---|
Accordo ordinario (art. 57 CCII) | ≥ 60% dei crediti | – Possibile richiedere misure protettive- Piano deve assicurare integrale pagamento estranei entro 120 gg da omologa (o da scadenza)- Attestazione fattibilità e convenienza obbligatoria | Non vincola i non aderenti (devono essere pagati integralmente come da contratto), salvo sospensione temporanea per stay | Artt. 57-59 CCII |
Accordo agevolato (art. 60 CCII) | ≥ 30% dei crediti | Condizioni speciali:– Niente misure protettive richieste- Pagare subito e per intero i creditori estranei (nessuna dilazione né falcidia per i non aderenti)- Tipicamente attuabile se estranei di poco peso o già pagati | Non vincola estranei (che vengono appunto pagati integralmente fuori accordo) | Art. 60 CCII (introdotto dal DL 118/2021) |
Accordo ad efficacia estesa (art. 61 CCII) | ≥ 75% dei crediti di una categoria omogenea | – Applicabile in aggiunta all’accordo ordinario/agevolato- Devono esistere categorie di creditori omogenee- Coinvolgimento leale dei dissenzienti nelle trattative- Trattamento dei dissenzienti = stesso dei consenzienti della categoria- Dissenzienti non peggior trattamento rispetto a scenario liquidatorio (best interest test) | Omologa estende coattivamente ai dissenzienti di quella categoria le medesime condizioni dell’accordo. I creditori esterni ad ogni categoria restano fuori. | Art. 61 CCII (deriva da ex art. 182-septies L.F.) |
Transazione fiscale nell’accordo (art. 63 CCII) | – (parte del piano) | – Proposta ad Agenzia Entrate/Enti previdenziali per falcidia/dilazione di imposte e contributi- Richiede pagamento almeno parziale del dovuto (es. IVA falcidiabile solo sulla parte chirografaria)- PA deve valutare convenienza rispetto a fallimento e motivare eventuale rifiuto | Se il Fisco/ente non aderisce:Cram-down fiscale possibile in omologa se: • loro adesione decisiva per 60% • proposta conveniente ≥ alternativa (best interest) • no trattamento deteriore rispetto ad altri pari grado • (post 2023) presenza di altri creditori aderenti ≥25% debiti e soddisfacimento ≥30% (o 40%) dei crediti tributari | Art. 63 CCII (ex art. 182-ter L.F. mod.) |
Convenzione di moratoria (art. 62 CCII) | ≥ 75% dei crediti di banche/intermediari finanziari | – Accordo temporaneo (standstill) con banche per sospendere pagamenti/azioni esecutive- Durata limitata, di solito pendente negoziazione accordo o piano | Estendibile alle banche dissenzienti se 75% delle esposizioni finanziarie ha aderito. Effetti limitati nel tempo (sospensione delle azioni per X mesi). | Art. 62 CCII (da DL 83/2015) |
Tabella 2 – Confronto tra Accordo di Ristrutturazione e Concordato Preventivo
Caratteristica | Accordo di Ristrutturazione | Concordato Preventivo |
---|---|---|
Natura giuridica | Accordo contrattuale omologato dal tribunale (procedura “mista”: negoziale + giudiziale limitata all’omologa). | Procedura concorsuale giudiziale vera e propria (coinvolge tutti i creditori, gestione sotto controllo del tribunale). |
Soglia di consenso | 60% dei crediti (o 30% se agevolato) deve sottoscrivere. I non aderenti non votano né contano sulla maggioranza (restano estranei salvo efficacia estesa). | Maggioranza calcolata sui crediti ammessi al voto: >50% in numero e 2/3 in valore dei votanti (quorum “doppio”). Tutti i creditori ammessi partecipano al voto per classe (salvo privilegiati soddisfatti 100%). Dissentienti vincolati se piano approvato e omologato. |
Coinvolgimento creditori | Solo creditori aderenti (consenso individuale). Eventuale coinvolgimento di dissenzienti mirato per categorie (art. 61 CCII). Creditori estranei generalmente pagati fuori o esclusi dall’accordo. | Coinvolge tutti i creditori (salvo esclusi ex lege minimi). Decisione a maggioranza con classi; i contrari sono comunque soggetti agli effetti se omologato. Possibile cram-down interclassi da parte del tribunale se ricorrono condizioni di legge. |
Gestione impresa | Debitore rimane in possesso (nessuno spossessamento). Non è nominato un commissario né organi ausiliari per legge (salvo accordi particolari). Debitore amministratore della sua azienda durante esecuzione. | Debitore in possesso ma con limiti: nominato un Commissario Giudiziale che vigila durante la procedura. Atti di straordinaria amministrazione soggetti ad autorizzazione. In concordato liquidatorio spesso nominato un Liquidatore Giudiziale post-omologa che gestisce la liquidazione. |
Misure protettive | Su istanza del debitore, il tribunale può disporre misure protettive (stay) per max 4+4 mesi (es. sospensione azioni esecutive). Nel “agevolato” non richieste (condizione soglia 30%). | Automatic stay ex lege dal deposito ricorso (art. 54 CCII): divieto azioni esecutive e cautelari, sospensione interessi chirografari, ecc., per tutta la procedura (fino a omologa). |
Pagamento creditori privilegiati | Se non aderenti, devono essere pagati integralmente nei termini di legge (entro 120 gg da omologa o scadenza), salvo consenso a deroga. Creditori privilegiati possono aderire accettando parziale soddisfo (deroga ordine prelazioni possibile consensualmente). | Devono ricevere pagamento integrale salvo che rinuncino o salvo il caso di concordato liquidatorio (devono essere pagati almeno quanto ricaverebbero dalla liquidazione dei beni su cui hanno privilegio). Possibile soddisfo non integrale di privilegiati solo se classe vota favorevole e comunque non inferiore al 20% (nel concordato in continuità, mod. da D.lgs.83/2022). |
Transazione fiscale | Possibile: Fisco/enti possono aderire a stralcio. Omologabile anche senza adesione Fisco, a condizioni di legge (cram-down fiscale). Limiti 2023: necessita altri creditori e soglie minime soddisfo. | Possibile nel piano; se Fisco non aderisce, il tribunale può comunque omologare se ritiene la proposta conveniente (art. 180 co.4 L.F.). Il CCII prevede comunque che PA non possa opporsi per convenienza (principio analogo). Non ci sono soglie minime di legge per Fisco in concordato (ma giurisprudenza attenta a non peggiorarlo rispetto ad altri). |
Durata e costi procedura | Relativamente rapida: formalmente l’omologa può avvenire in ~2-4 mesi se non ci sono opposizioni. Costi inferiori: non ci sono compensi di organi giudiziali (solo eventuale attestatore e legali). Esecuzione: tempi variabili secondo piano (può durare anni per i pagamenti, senza controllo giudiziario). | Più lunga: procedura di concordato dura diversi mesi (6-12) tra deposito, voto e omologa. Costi maggiori: compenso commissario, eventuale liquidatore, spese di procedura (2% attivo allo Stato). Esecuzione concordato: vigilanza tribunale, eventuale liquidatore, tempi di liquidazione di solito diversi anni. |
Esiti in caso di inadempimento | Se debitore inadempiente: creditori possono agire subito (esecuzione forzata sul titolo omologa) o chiedere fallimento (no necessità dichiarazione risoluzione in tribunale). Creditori aderenti legittimati a istare fallimento senza previa risoluzione giudiziale (Cass. SU 4696/2022). Accordo può prevedere clausole risolutive automatiche. | Se debitore non adempie il concordato: occorre chiederne la risoluzione al tribunale (entro 1 anno da scadenza termini esecuzione, art. 119 CCII). Solo dopo risoluzione i creditori possono agire per fallimento, salvo insolvenza sopravvenuta grave. Se risolto, creditori riprendono iniziative per crediti decurtati dedotto quanto ricevuto. |
Benefici per debitore | – Mantenimento controllo impresa e patrimonio (nessun curatore/commissario).– Flessibilità di accordi con singoli creditori (trattamenti differenziati possibili).– Minor pubblicità (pubblicazione solo a omologa, trattative riservate). – Pagamenti e atti in esecuzione accordo omologato esenti da revocatoria fall. e da reati di bancarotta preferenziale. – Possibile esdebitazione di fatto (stralcio debiti residui concordato dai creditori, senza dover attendere procedure). | – Procedura unitaria per regolare tutti i debiti, con eventuale cram-down anche di ampie minoranze (maggiore forza impositiva).– Sospensione automatica di tutte le azioni (respiro immediato).– Possibilità di scioglimento/ sospensione contratti onerosi con autorizzazione (art. 94-96 CCII) – strumento non previsto nell’accordo. – Eventuale finanza interinale protetta (art.99 CCII) paragonabile a quella accordo ma formalizzata. – Esdebitazione: se concordato adempito, debitore società si libera, socio garante no (come in accordo). Persona fisica può usare esdebitazione post-fall. |
Benefici per creditori | – Di regola recupero maggiore e più rapido rispetto a fallimento (nessun costo procedura, nessun ritardo pluriennale). – Possono negoziare soluzioni su misura (es. new covenants, mantenere rapporti commerciali). – Possono chiedere garanzie aggiuntive contrattualmente. – In efficacia estesa, minoranze tutelate da requisiti (informazione, stesso trattamento) e opposizione possibile. – Se accordo fallisce, credito originario “revive” per intero al netto incassi. | – Procedura trasparente e controllata da organo terzo (commissario), con informazioni dettagliate ex lege (elenco atti rilevanti 5 anni, elenco clienti/fornitori, ecc.). – Par condicio garantita formalmente (voti per classi, omologazione giudiziale). – Possibilità di far valere opposizione e far ritirare proposta concorrente (nel CCII, se offerta almeno 10% superiore). – Se concordato non eseguito, possibilità di risoluzione e fallimento con conservazione garanzie pregresse fino a pronuncia risoluzione (tutela in quell’intervallo). |
(Nota: Nella tabella sopra, per semplicità, con “concordato preventivo” si intendono le varie forme di concordato nel CCII, sia in continuità sia liquidatorio, considerandone gli aspetti generali in confronto all’accordo.)
Come si evince dal confronto, l’accordo di ristrutturazione offre maggiore snellezza e autonomia negoziale al debitore e ai creditori consenzienti, a fronte però di un requisito di consenso elevato e di minori poteri di coercizione sui dissenzienti (limitati ai casi di efficacia estesa intra-categoria e di cram-down fiscale in certe condizioni). Il concordato preventivo è più strutturato e può imporre soluzioni a maggioranze più facilmente raggiungibili (voti anziché firme del 60% del totale), ma è più costoso, lungo e invasivo nella gestione.
In pratica, la scelta tra accordo e concordato dipende dal grado di accordo che il debitore riesce a ottenere dai creditori: se c’è collaborazione da parte di una larga parte di essi (specialmente dei principali), l’accordo di ristrutturazione è spesso preferibile; se invece i creditori sono troppi o disallineati e si prevede una lotta di posizioni, può essere necessario il concordato (dove la maggioranza può prevalere e il tribunale può intervenire). Per le imprese di dimensioni medio-grandi, oggi è anche possibile il piano di ristrutturazione soggetto a omologazione (PRO) che costituisce una via di mezzo – simile a un concordato preventivo “light” con classi e cram-down, ma senza apertura di una procedura concorsuale completa. Tuttavia, ciò esula dal nostro focus specifico sugli accordi ex art. 57.
Passiamo ora a fornire risposte sintetiche ad alcuni quesiti comuni (FAQ) sul tema in oggetto, per chiarire gli ultimi dubbi dal punto di vista operativo e pratico.
FAQ (Domande Frequenti)
D: Chi può accedere a un accordo di ristrutturazione dei debiti?
R: Principalmente le imprese soggette alle procedure concorsuali (imprenditori commerciali non piccoli, società di capitali, cooperative, grandi imprese agricole). Il CCII riserva l’accordo ex artt. 57-60 CCII a questi debitori. Le imprese “minori” e i debitori civili non fallibili hanno a disposizione strumenti analoghi nel sovraindebitamento (accordo di composizione) e il “concordato minore”, non l’accordo ex art.57. In pratica, PMI e società che potrebbero essere dichiarate in liquidazione giudiziale (ex fallimento) sono i destinatari tipici. Un imprenditore individuale di dimensioni ridotte o un professionista dovrà operare nel quadro del sovraindebitamento (che però, va detto, nel CCII è stato reso molto simile agli accordi per i soggetti non fallibili). Le persone fisiche non imprenditori (consumatori) non possono utilizzare l’accordo in commento; per loro esistono altri istituti (piano del consumatore). Da notare che le imprese agricole di grandi dimensioni (imprenditore agricolo “non minore”) possono oggi accedere all’accordo di ristrutturazione, pur restando escluse dal fallimento: è un’importante apertura del CCII.
D: L’accordo di ristrutturazione conviene di più al debitore o ai creditori?
R: Se ben costruito, è una soluzione win-win. Dal lato del debitore, consente di evitare la stigmatizzazione e la perdita di controllo di una procedura concorsuale, di negoziare con flessibilità e rapidità, e di liberarsi da una parte dei debiti conservando la continuità aziendale (se vi sono i presupposti). Dal lato dei creditori, un accordo evita le lungaggini e le incertezze di un fallimento e spesso offre un soddisfacimento superiore a quello altrimenti ottenibile. Inoltre, i creditori conservano rapporti commerciali con l’impresa (se continua) e possono anche contrattare garanzie e impegni aggiuntivi non previsti dalle procedure standard. Naturalmente, se l’accordo è squilibrato a favore del debitore (offerte troppo basse, poca trasparenza), allora i creditori diffideranno e preferiranno agire altrimenti. In generale però la ratio dell’istituto è vantaggiosa per entrambi: si “salva” un’impresa (o si liquida in modo efficiente) e i creditori ottengono il massimo ragionevole in tempi minori. Importante: i creditori non aderenti sono quelli che possono avere da ridire, ma la legge li tutela con il best interest test e, se minoranza qualificata, con i meccanismi di efficacia estesa e opposizione.
D: Che differenza c’è tra un accordo di ristrutturazione dei debiti e un concordato preventivo?
R: In sintesi:
- L’accordo è più contrattuale: richiede il consenso (firma) di una percentuale di creditori sul totale debiti (60%), mentre il concordato è una procedura collettiva in cui la maggioranza si forma con un voto e può vincolare la minoranza dissenziente (tutti i creditori sono chiamati a votare).
- L’accordo non ha organi nominati dal tribunale (niente commissario o liquidatore) e il debitore resta in carica senza spossessamento; il concordato invece prevede il commissario giudiziale, il possibile liquidatore, e più ingerenza dell’autorità giudiziaria.
- Nel concordato il tribunale valuta anche la fattibilità economica nel merito e può rifiutare omologa se il piano è irrealistico; nell’accordo il tribunale si limita soprattutto a verificare la regolarità, la percentuale di consensi e il rispetto dei diritti dei non aderenti (la convenienza dell’accordo per i creditori aderenti non è sindacata, perché l’hanno valutata loro stessi aderendo).
- L’accordo è più snello e riservato, il concordato è più strutturato e pubblicizzato.
- Un’altra differenza pratica: nel concordato tutti i debiti anteriori vengono trattati nella proposta e sono soggetti a falcidia/voto; nell’accordo, i creditori estranei rimangono fuori e devono essere pagati a parte o contestualmente in integrale (o se li vuoi includere a forza devi usare efficacia estesa, che però richiede certe condizioni).
Si può dire che l’accordo è meno costoso e “su misura”, il concordato più universale e con garanzie procedurali. Non a caso l’accordo viene spesso definito uno strumento “concorsuale in senso lato”. La scelta tra i due dipende dalla situazione: se si può ottenere la firma del 60% dei crediti, l’accordo è preferibile; se no, il concordato è l’unica strada praticabile per evitare la liquidazione giudiziale.
D: L’accordo di ristrutturazione può includere anche i debiti tributari e previdenziali?
R: Sì, assolutamente. Il piano può prevedere la cosiddetta transazione fiscale e contributiva (art. 63 CCII) con cui trattare anche i debiti verso Agenzia delle Entrate, Agenzia delle Dogane e enti previdenziali (INPS). Si può proporre il pagamento parziale (stralcio) di imposte e contributi, nonché la dilazione fino a 10 anni. Ad esempio, si può offrire di pagare il 50% dell’IVA e azzerare sanzioni e interessi. Tuttavia, su questi crediti vige un regime peculiare: l’ente pubblico deve valutare la proposta entro 90 giorni e confrontarla con ciò che presumibilmente otterrebbe in una liquidazione. Se la proposta è più conveniente, teoricamente dovrebbe aderire (e se rifiuta senza motivo, il tribunale può bypassarne il dissenso). Infatti dal 2020 in poi la legge consente al tribunale di omologare l’accordo anche senza il voto favorevole del Fisco/INPS se:
- senza di loro non si raggiunge la maggioranza ma con il loro sì sì;
- la proposta è vantaggiosa per loro rispetto all’alternativa del fallimento;
- sono rispettati i limiti di trattamento (non gli si dà percentualmente meno che ad altri di pari grado). Questo è il cosiddetto cram-down fiscale. Va detto però che, dal 2023, sono stati introdotti ulteriori vincoli: il Fisco non può essere l’unico creditore nell’accordo (dev’esserci un accordo con almeno una parte di creditori diversa), e se il Fisco pesa moltissimo devono esserci percentuali minime (30% o 40% come spiegato). Ciò per evitare abusi di accordi fatti solo per tagliare le tasse. Quindi, se l’azienda ha prevalentemente debiti fiscali, l’accordo è percorribile solo se si riesce a offrire al Fisco una percentuale elevata (almeno 30%) e se qualche altro creditore significativo è incluso nell’accordo. In sintesi: i debiti tributari possono far parte dell’accordo, ma serve un occhio di riguardo, coinvolgendo l’Erario con proposte serie e ricordando che l’adesione o meno verrà poi valutata dal giudice ai fini dell’omologa.
D: Quali protezioni ha il debitore durante le trattative di un accordo? I creditori possono pignorare nel frattempo?
R: Il debitore può ottenere dal tribunale le misure protettive (moratoria temporanea) sia durante l’eventuale fase di composizione negoziata (con l’aiuto dell’esperto) sia al momento del deposito dell’accordo per omologazione. In particolare, contestualmente al deposito del ricorso di omologa, può chiedere che il tribunale emetta un decreto di sospensione o divieto delle azioni esecutive e cautelari da parte dei creditori per un periodo iniziale fino a 4 mesi, prorogabile. Queste misure proteggono il patrimonio dalle aggressioni dei creditori “impazienti” mentre si finalizza e attende l’omologazione dell’accordo. Ad esempio, impediscono che un creditore estraneo pignori un bene e rompa l’equilibrio. Ovviamente, per ottenerle, il debitore deve depositare la domanda di omologa e l’accordo firmato almeno dal 30-60% dei crediti (a seconda del tipo) e la richiesta dev’essere motivata (serve a evitare un pregiudizio alla par condicio). Il tribunale concede lo stay “inaudita altera parte” (senza sentire i creditori immediatamente) se vede che la domanda non è abusiva o infondata. Quindi, sì, il debitore è protetto dal momento in cui presenta l’accordo in tribunale. Prima di quel momento, nella fase puramente negoziale, formalmente i creditori potrebbero agire; tuttavia, se il debitore ha attivato la composizione negoziata della crisi, può già in quella fase ottenere misure protettive similari depositando l’istanza ex art. 18 CCII. Dunque, combinando composizione negoziata e accordo, si può ottenere un continuum di protezione giudiziale per diversi mesi (fino a ~8 mesi) durante cui i creditori non possono aggredire i beni. Un’eccezione: se si persegue un accordo agevolato al 30%, il debitore rinuncia allo stay (è condizione per poter avere la soglia ridotta); ma ciò in genere avviene quando i creditori estranei sono pochi e già tranquilli (o verranno pagati per intero a breve).
D: È possibile prevedere nuovi finanziamenti nell’accordo di ristrutturazione (ad esempio un finanziamento ponte o dei bond)?
R: Sì, è possibile. L’accordo di ristrutturazione spesso si inserisce in una manovra finanziaria più ampia, dove nuovi fondi affluiscono all’impresa per attuare il piano. Questi possono provenire da soci, investitori terzi, banche disponibili a “rientrare” come nuova finanza. La normativa tutela i finanziamenti in esecuzione dell’accordo omologato: il tribunale, su richiesta, può autorizzare nell’ambito dell’omologazione che tali finanziamenti siano considerati prededucibili (cioè privilegiati) in caso di successivo fallimento. L’art. 100 CCII equipara infatti ai finanziamenti prededucibili quelli erogati in attuazione di accordi omologati purché previsti nel piano e autorizzati. Ciò li mette al sicuro da azioni revocatorie e incentiva i finanziatori. Quindi, per rispondere: se l’accordo prevede, ad esempio, che una banca eroghi un nuovo prestito di €1 milione per pagare i creditori strategici e rilanciare l’attività, tale prestito – approvato nel contesto dell’accordo – potrà essere garantito come prededuzione e non revocabile. Ovviamente, va inserito nei documenti (accordo e piano) e occorre il via libera del tribunale. Inoltre, l’accordo può contemplare strumenti come emissione di obbligazioni, conversione debiti in equity, ecc., se i creditori interessati sono d’accordo. Ad esempio, non è raro che un accordo includa la conversione di una parte dei crediti in partecipazioni societarie (debt-to-equity swap) – lo si menziona nel trattamento creditori e i creditori aderenti accettano di diventare soci. Anche questo è fattibile, con l’attestatore che ne valuta gli effetti (i creditori che diventano soci ovviamente rinunciano a far valere quella quota di credito). In breve, l’accordo è flessibile e può integrare nuova finanza e ristrutturazione del capitale, elementi che invece nel concordato hanno margini più ristretti (possono esserci finanziamenti prededucibili anche lì, ma il contesto è più rigido).
D: I fornitori possono continuare a fornire beni/servizi durante le trattative o tendono a bloccare tutto?
R: In molti casi, i fornitori essenziali – se confidano che l’impresa concluderà l’accordo e li includerà equamente – continuano il rapporto durante la crisi, magari passando a condizioni più prudenti (pagamento anticipato per forniture correnti). Durante le trattative, il debitore di solito paga regolarmente i debiti correnti (quelli sorti dopo l’avvio delle trattative) per non creare nuovo squilibrio. I debiti “storici” sono oggetto di accordo. Alcuni fornitori critici potrebbero chiedere il cosiddetto “contratto di fornitura con pagamento in prededuzione” (previsto dall’art. 6, co.4 CCII in composizione negoziata e applicabile analogicamente): ciò significa che se poi l’azienda finisse in fallimento, quelle forniture sarebbero prededucibili. Ma fuori da procedure formali, è più una garanzia morale. In pratica, se c’è fiducia, i fornitori collaborano, se invece l’impresa è insolvente e non dà garanzie, molti fornitori sospenderanno le consegne sino a definizione accordo. L’imprenditore può chiedere al tribunale, nelle misure protettive, di limitare la sospensione di forniture essenziali: il CCII (art. 20, c.3) impedisce ai fornitori di interrompere forniture essenziali contrattuali solo per il mancato pagamento di arretrati, durante composizione negoziata. Questo si può applicare anche verso l’accordo. Dunque c’è una tutela: i fornitori di utenze, ad esempio, non possono staccare la spina per debiti pregressi se l’imprenditore attiva la procedura di crisi. Ma per altre forniture senza contratto continuativo, prevale la libera contrattazione. In somma: tende ad esserci una stretta, ma se l’accordo appare probabile e conveniente, i fornitori spesso preferiscono sostenere l’impresa per non perdere il cliente definitivamente.
D: Cosa succede se, dopo aver omologato l’accordo, l’impresa non rispetta i pagamenti previsti?
R: In caso di inadempimento dell’accordo omologato, i creditori hanno le armi spianate:
- Possono utilizzare il decreto di omologa come titolo esecutivo e avviare immediatamente esecuzioni forzate (pignoramenti) per recuperare le somme non ricevute. Esempio: l’accordo prevedeva una rata di €100k a Tizio il 31/12 e non viene pagata; Tizio dal 1/1 può notificare precetto e pignorare conti o beni.
- Possono chiedere la liquidazione giudiziale (fallimento) del debitore, dimostrando l’insolvenza attuale, senza dover aspettare altre formalità. Non c’è bisogno (diversamente dal concordato) di far “risolvere” l’accordo dal tribunale, perché l’accordo di ristrutturazione non ha un autonomo procedimento di risoluzione. La Cassazione ha chiarito che basta che il creditore provi il mancato pagamento e il perdurare dello stato di crisi/insolvenza per ottenere la dichiarazione di fallimento. Dunque, la protezione del debitore dura finché egli rispetta il piano; se smette di farlo e torna insolvente, l’impresa può essere messa in fallimento come se non ci fosse mai stato l’accordo (sebbene i crediti originari rinascono al netto di quanto pagato, e i pagamenti fatti restano intoccabili).
In pratica, l’accordo non offre una seconda chance se non viene eseguito – anzi i creditori saranno meno pazienti perché hanno già concesso sconti e dilazioni e non tollereranno ulteriori default. Per questo negli accordi si inseriscono spesso clausole risolutive ipso iure: ad esempio, “se il debitore salta il pagamento di due rate, l’accordo si intende risolto di diritto”. Così il creditore non deve nemmeno andare dal giudice a chiedere la risoluzione: può subito agire come sopra. In conclusione, se l’impresa non rispetta gli impegni, l’accordo di ristrutturazione “cade” e i creditori potranno rapidamente rivalersi, tipicamente portando l’azienda al fallimento. Questo crea un forte incentivo per il debitore a predisporre un piano realizzabile e magari un po’ prudente: perché un accordo troppo tirato (ratifiche troppo ottimistiche) che poi non riesce, finisce per peggiorare la situazione (si perde tempo e si arriva al fallimento più tardi, con magari meno patrimonio residuo).
D: Dopo l’omologazione, l’accordo viene reso pubblico? Lo verranno a sapere clienti e fornitori che non erano coinvolti?
R: Sì, l’omologazione dell’accordo è soggetta a pubblicità legale. Il decreto di omologa viene iscritto nel Registro delle Imprese (sezione procedure concorsuali), così come la domanda e la pendencia dell’accordo erano state pubblicate precedentemente. Questo significa che chi fa una visura camerale vedrà che l’azienda ha fatto un accordo di ristrutturazione omologato. Inoltre, se l’azienda è quotata o emette titoli diffusi, ci possono essere obblighi di comunicazione al mercato. Tuttavia, al di fuori di questi atti pubblici, non c’è un obbligo di comunicare ai contraenti l’esistenza dell’accordo (a differenza del fallimento che comporta comunicazioni ai creditori, ecc.). Quindi la conoscenza rimane relativamente circoscritta agli operatori che vanno a consultare i registri ufficiali. In scenari pratici, molte controparti di mercato interpretano positivamente un accordo omologato: meglio di un fallimento, significa che l’azienda ha risolto la crisi in modo concordato. In altri casi può destare perplessità. Ma formalmente sì, è pubblico. Ciò premesso, durante la fase di trattative e perfino al momento del deposito, l’azienda può cercare di mantenere una certa discrezione: ad esempio, la legge non impone l’avviso dell’apertura trattative ai clienti o ai fornitori non interessati. Solo i creditori coinvolti vengono informati (devono essere informati per lealtà di trattative se li si vuol vincolare). Un cliente che non sia creditore non verrà informato dal tribunale. Quindi l’eventuale notizia può diffondersi per vie informali ma, a livello legale, appare solo nel Registro Imprese con l’omologa (e volendo con la pubblicazione iniziale, ma quella a volte passa inosservata). Diciamo che l’accordo di ristrutturazione ha una pubblicità più limitata rispetto a un concordato preventivo (che invece prevede comunicazioni ai creditori, affissioni, ecc., in maniera più aperta).
D: Se la mia azienda ha troppi piccoli creditori per raggiungere il 60%, posso comunque fare qualcosa di simile a un accordo?
R: Questa è una situazione tipica: debito frammentato, difficile ottenere firma del 60% perché tanti piccoli nemmeno rispondono. In tali casi, lo strumento dell’accordo “classico” perde efficacia. Ci sono alcune strade:
- Accordo agevolato al 30%: se i creditori principali che aderiscono rappresentano almeno il 30% e gli altri possono essere pagati integralmente, si può omologare con il 30%. Ma questo implica trovare le risorse per pagare tutti gli estranei (non sempre fattibile).
- Concordato preventivo: con troppi creditori, il concordato è più praticabile perché la maggioranza è sui votanti e il silenzio = non voto (quindi non nuoce) mentre nell’accordo il silenzio = mancata adesione e pesa. Nel concordato bastano magari il voto favorevole di chi ha il 40-50% del totale crediti (se gli altri non votano) per approvare, molto più facile del 60% dell’intero monte crediti richiesto dall’accordo. Dunque in una platea ampia, il concordato è quasi obbligato a meno che uno o due creditori grandi possano trainare un accordo esteso.
- Coinvolgere un mediatore: se i creditori piccoli non rispondono, a volte può convincerli un OCC (Organismo di Composizione) come avveniva nel sovraindebitamento o un esperto nella composizione negoziata. Ciò può ridurre l’inerzia.
- Utilizzare categorie ed efficacia estesa: se i piccoli creditori sono omogenei (es. tanti fornitori) e i principali di loro aderiscono, si può usare l’art. 61 per vincolare anche gli inattivi. Questo è un modo di superare la frammentazione: creare ad esempio la categoria “fornitori chirografari” e se quelli che rappresentano il 75% di quei crediti sottoscrivono, il resto 25% di fornitori viene “dentro” comunque. Così non serve il loro sì individuale. In pratica, efficacia estesa è la risposta normativa al problema degli holdout e dei creditori atomizzati. Attenzione però: va data loro notizia e chance di partecipare nelle trattative, altrimenti rischi opposizioni fondate.
- Procedura di sovraindebitamento (accordo di composizione): se parliamo di persona non fallibile, questa procedura permette di ottenere un omologa con maggioranza dei crediti e vincolare tutti (è come un mini-concordato). Quindi se la tua azienda fosse micro e non soggetta a fallimento, potresti percorrere quell’accordo (dove la maggioranza è 60% anche lì, ma con ausilio OCC spesso).
In sintesi, se proprio non riesci a coinvolgere quel 60%, il concordato è di solito la strada. Per ridurre il numero di creditori, a volte prima di un accordo vengono transati a parte i piccoli (li paghi integralmente o quasi, così non devi includerli). L’accordo non richiede di includere tutti i creditori: puoi decidere di far aderire i grossi e pagare fuori i piccoli. Questo è ammesso (basta che gli estranei vengano soddisfatti integralmente). Quindi una tattica è: “ripulire” il parterre dai creditori minori pagando cash (se possibile) o acquisendo le loro posizioni da parte di un terzo, e poi fare l’accordo con i restanti grandi.
D: L’imprenditore può essere obbligato dai creditori a fare un accordo di ristrutturazione?
R: No, l’iniziativa è sempre volontaria da parte del debitore. Non esiste una norma che consenta ai creditori di imporre un accordo di ristrutturazione al debitore. I creditori possono certo fare pressioni informali – ad esempio, proporre essi stessi al debitore di avviare la procedura e magari minacciare in difetto l’azione fallimentare – ma giuridicamente non possono depositare loro un accordo in tribunale. Possono però, se ricorrono i presupposti di insolvenza, chiedere la liquidazione giudiziale (fallimento) forzatamente. A quel punto, spinto dalla minaccia del fallimento, il debitore può preferire di negoziare un accordo. Ma resta una scelta del debitore. Addirittura, se i creditori tentassero di depositare qualcosa simile (tipo un piano loro), non è ammesso: l’art. 44 CCII dice che il ricorso di omologa accordi lo presenta il debitore. Nel concordato preventivo, c’è una relativa eccezione: i creditori non possono obbligare al concordato, però nel CCII c’è la “proposta concorrente” del 30% di creditori se il debitore fa un concordato liquidatorio molto spinto. Ma parliamo di concordato già aperto. Nell’accordo di ristrutturazione non c’è nulla del genere. Quindi la volontà del debitore è centrale. Se il debitore non vuole intraprendere la via negoziale, i creditori hanno come strada il ricorso all’esecuzione forzata singola o concorsuale (fallimento).
D: Cosa succede ai contratti in corso (leasing, forniture periodiche, affitti) nell’ambito di un accordo?
R: L’accordo di ristrutturazione, a differenza del concordato, non prevede poteri speciali di scioglimento o sospensione unilaterale dei contratti. Pertanto, i contratti continuano secondo i termini pattuiti, salvo che le parti raggiungano un accordo di modifica. Il debitore, se vuole sciogliere un contratto in corso (ad es. restituire anticipatamente un macchinario in leasing), deve negoziarlo col contraente e magari includere tale risoluzione nel pacchetto dell’accordo (magari pagando il lessor una percentuale concordata e facendolo aderire). Non può ottenere dal giudice dell’accordo l’autorizzazione a sciogliersi come succede nel concordato preventivo (dove l’art. 94 CCII consente di chiedere lo scioglimento di contratti con autorizzazione e indennizzo limitato). Quindi è un aspetto contrattuale da gestire caso per caso. In pratica:
- Se c’è un contratto di affitto d’azienda, leasing o altro che il debitore non intende proseguire, cercherà di includere la controparte tra i creditori aderenti, con un trattamento (es. “la società restituisce il bene e paga al lessor un importo X a saldo, che questi accetta sottoscrivendo l’accordo”).
- Oppure, se il contratto è fondamentale e si vuole mantenerlo, lo segnalerà nel piano di continuità e cercherà magari di ottenere un adeguamento di termini (che però richiede l’accordo del contraente).
Diciamo che l’accordo di ristrutturazione presuppone maggior cooperazione: il debitore non può agire in modo unilaterale su rapporti contrattuali in essere – deve convincere anche quelle controparti. Molte volte, quelle controparti sono creditori esse stesse (pensiamo a un locatore di immobile a cui l’azienda deve canoni arretrati: è un creditore che può aderire accettando una riduzione canone o la chiusura anticipata). Quindi alla fine si risolve includendo tutti nel tavolo.
In definitiva: nessun effetto legale diretto sui contratti in corso dovuto all’accordo. Resta però il fatto che, se l’accordo prevede la continuazione azienda, i contratti fondamentali proseguiranno normalmente (magari i debiti pregressi del contratto vengono trattati nell’accordo e i canoni futuri pagati regolarmente). Se l’accordo è liquidatorio e prevede di cessare l’attività, i contratti d’impresa saranno disdettati secondo le clausole contrattuali e normative (es. recesso con preavviso, ecc.) – non c’è un potere di troncare immediate salvo accordo delle controparti.
D: L’accordo può essere utilizzato anche in caso di gruppo di imprese?
R: Sì. Il CCII prevede espressamente la possibilità di accordi di ristrutturazione di gruppo (artt. 61 e 284 e seguenti CCII in combinato). Praticamente, più società appartenenti a un gruppo possono presentare congiuntamente un accordo di ristrutturazione unitario o coordinato, davanti allo stesso tribunale, se sussiste connessione economica e le trattative sono svolte con visione unitaria. I creditori di società diverse possono essere trattati in un unico contesto negoziale se la proposta lo richiede (es. ristrutturazione del debito a livello consolidato). Ci deve essere un unico attestatore per il piano complessivo di gruppo. Questo facilita la ristrutturazione quando i debiti e le attività sono sparsi in più soggetti giuridici. Ad esempio, se ho una holding e 3 controllate tutte in crisi, posso fare un unico accordo in cui i creditori di tutte sottoscrivono, e magari prevedere compensazioni infragruppo e operazioni tra loro (es. la holding vende asset e paga i creditori di una controllata). Questo strumento di gruppo nel CCII è simile a quello per il concordato di gruppo. La condizione è che l’accordo indichi i vantaggi della trattazione unitaria e non pregiudichi i creditori di una data società. Il tribunale valuterà per ciascuna impresa l’omologazione e la presenza di consensi richiesti. Dunque, in pratica, sì, l’accordo è flessibile anche per gruppi societari complessi, evitando di dover fare procedure separate per ogni entità. Ovviamente è più complicato da negoziare, ma il CCII incoraggia soluzioni unitarie per i gruppi (visto che spesso il gruppo è gestito come un tutt’uno in bonis, ha senso lo sia anche in crisi).
D: Dopo l’accordo, chi verifica che il debitore stia adempiendo?
R: Formalmente, nessuno organo pubblico ha il compito di verifica periodica, contrariamente al concordato dove il Commissario/Liquidatore e il tribunale vigilano sull’esecuzione. Nell’accordo, sono i creditori stessi a dover controllare. Di solito i creditori principali richiedono al debitore report periodici sullo stato del piano, tramite covenants informativi (es. bilanci trimestrali). Possono anche nominare un consulente comune (es. una società di auditing) che faccia da monitoring trustee e segnali eventuali scostamenti. Ma tutto ciò è su base volontaria e contrattuale. Se il debitore inadempie, come detto, i creditori dovranno attivarsi (diffida, eventuali azioni legali). Alcuni accordi prevedono che eventuali controversie sull’esecuzione siano demandate al tribunale che ha omologato, che conserva quindi una competenza, ma non c’è un meccanismo di esecuzione automatico. Quindi la vigilanza è “diffusa”: ciascun creditore bada al suo. In mancanza di segnalazioni, il tribunale non interviene proattivamente. In sostanza, l’accordo richiede fiducia: i creditori hanno accettato anche perché confidano nell’onorabilità del debitore o comunque sanno che se sgarra agiranno. In caso di inadempimenti, come visto, i creditori possono venire subito allo scoperto (pignoramenti o istanza di fallimento). Ciò funge da deterrente. Si può dire che l’accordo è “auto-esecutivo” grazie al titolo esecutivo giudiziale e alle eventuali clausole risolutive: non serve un controllo continuo. Naturalmente, se parliamo di grandi accordi (tipo ristrutturazioni bancarie complesse), spesso i creditori istituzionali organizzano comitati di sorveglianza contrattuali. Ma questa è best practice, non obbligo di legge.
D: L’accordo di ristrutturazione “pulisce” la società dai debiti come un fallimento concluso?
R: Sì, se eseguito, l’accordo estingue i debiti secondo i termini pattuiti e libera il debitore dall’obbligo per la parte rinunciata dai creditori. Tecnicamente, i creditori aderenti hanno sottoscritto una transazione/remissione parziale: quindi, una volta pagata la percentuale concordata, il residuo non è più esigibile (viene giuridicamente meno). Il decreto di omologa è equiparabile a una sentenza che accerta la novazione/rimissione dei debiti eccedenti quanto previsto. Pertanto, sì, a valle dell’accordo ademputo, l’impresa risanata risulta solo con i debiti eventualmente non toccati (ad es. debiti post-omologa, o debiti con creditori estranei se ce n’erano, se già pagati bene, se no rimarrebbero). Se tutti i creditori erano inclusi o pagati, l’azienda torna “pulita”. Nota: a differenza del fallimento chiuso con esdebitazione (che in certe circostanze libera anche il garante persona fisica e i soci illimitatamente responsabili), l’accordo in sé non vincola i terzi garanti non firmatari. Quindi, se ad esempio l’accordo di una società prevede che i creditori rinunciano al 30% del credito, ciò non toglie al creditore il diritto di escutere un eventuale fideiussore per quel 30% (a meno che nel accordo il fideiussore abbia anch’egli firmato e sia parte della ristrutturazione). Questo perché il contratto di garanzia è autonomo. Molte volte, i garanti (ad es. i soci che hanno firmato fideiussioni bancarie) partecipano alle trattative e cercano di farsi liberare in sede di accordo – ad esempio, la banca aderisce ma solo a condizione che il garante rinunci a opposizioni; o il testo prevede liberazione del fideiussore solo all’esito integrale dei pagamenti concordati. Se il garante non è menzionato, attenzione: la riduzione del debito vale tra creditore e debitore principale, ma il fideiussore potrebbe restare obbligato per l’importo originario (anche se di solito la giurisprudenza, in caso di transazione col debitore principale, tende a ridurre corrispondentemente la garanzia, a meno che il patto lo escluda). In ogni caso, dal punto di vista dell’azienda debitrice, l’accordo eseguito comporta che i vecchi debiti sono definitivamente regolati. Un eventuale fallimento successivo (per nuovi motivi) non li farebbe rinascere. Se invece l’accordo fosse risolto per inadempimento e l’impresa fallisse, i crediti originari risorgono per l’importo residuo (dedotto quanto incassato). Ma se adempie, fine della storia. Dunque, l’accordo di ristrutturazione correttamente concluso ha per il debitore lo stesso effetto di una “riabilitazione”: archivia il passato. Non c’è un formale provvedimento di esdebitazione perché non è una procedura concorsuale di insolvenza, ma è come se avesse transatto con tutti i creditori.
D: Quali sono i costi da sostenere per fare un accordo di ristrutturazione?
R: I costi principali sono:
- la consulenza legale per predisporre il piano e condurre le trattative,
- il compenso del professionista attestatore indipendente,
- eventuali costi per un advisor finanziario se la situazione lo richiede,
- i costi di composizione negoziata (che però al momento sono in parte coperti dalla CCIAA e possono prevedere onorari calmierati per l’esperto nominato).
- Le spese vive di registri e bolli (pubblicazione registro imprese, abbastanza modeste).
Non vi sono contributi obbligatori come nel fallimento. In caso di accordi complessi, può esservi un costo per nominare un agente per la registrazione delle adesioni (talvolta banche nominano un agente che raccoglie le firme e coordina).
Non c’è un commissario da pagare.
Indicativamente, i costi sono inferiori a quelli di un concordato di pari dimensioni (dove c’è il 4% circa dell’attivo da distribuire tra spese giustizia e commissario). Spesso, il costo più significativo è l’attestatore – il cui onorario dipende da mole di lavoro e responsabilità (possiamo immaginare dal qualche migliaio di euro per PMI semplici a decine di migliaia o oltre per aziende grandi). Ma è un costo necessario e beneficia i creditori. In molti casi, i creditori considerano quei costi come prededuzione (cioè li fanno pagare dall’azienda prima di distribuire loro, in analogia con il concordato). Formalmente, l’accordo non ha il concetto di prededuzione, ma se i creditori concordano, il piano include il pagamento integrale dei professionisti.
In sintesi: costo del procedimento in sé è basso (bolli, pubblicazioni). I veri costi sono professionali e variano. È difficile dare una cifra generica, ma per dare un’idea: per un accordo di una PMI con debiti tot. 5 milioni, magari le spese legali + attestatore + esperto negoziata potrebbero stare nell’ordine di grandezza di €50.000-€100.000 totali. Nel concordato, oltre a tali costi, avresti spese fisse e compensi procedurali aggiuntivi. Quindi l’accordo è più conveniente economicamente.
D: In conclusione, quando è consigliabile l’accordo di ristrutturazione rispetto ad altre soluzioni?
R: L’accordo è consigliabile quando l’impresa è in crisi o insolvenza reversibile, c’è la disponibilità di larga parte dei creditori a trattare e si vuole evitare la dispersione di valore che comporterebbe il fallimento. In particolare:
- Quando ci sono pochi creditori rilevanti e facilmente raggiungibili per un’intesa (es. banche, principali fornitori) e magari pochi scontenti (che puoi gestire con efficacia estesa).
- Quando l’impresa ha ancora prospettive di continuità e dunque conviene a tutti ristrutturare i debiti lasciandola operare (in tal caso l’accordo in continuità è ottimale).
- Quando si può apportare nuova finanza o garanzie (soci/investitori) ma solo a condizione di alleggerire il debito pregresso (i nuovi investitori spesso chiedono un accordo di ristrutturazione come condizione per entrare).
- Anche in caso di liquidazione volontaria, se c’è collaborazione: l’accordo liquidatorio consente ai creditori di essere pagati prima e meglio che in fallimento, e all’imprenditore di chiudere senza macchia. Quindi se i creditori sono ragionevoli, conviene pure in quell’ipotesi.
- Se invece i creditori sono troppi, litigiosi, o l’impresa è già fortemente compromessa e serve l’intervento autoritativo di un giudice per bloccare tutti e imporre sacrifici, allora si valuterà il concordato.
- Va anche considerato l’elemento tempo: se c’è necessità immediata di protezione, l’accordo può richiedere prima la costruzione di consensi; il concordato “prenotativo” si deposita anche solo col ricorso e blocca tutto subito. Però con la composizione negoziata oggi si ottiene uno stay breve anche prima.
In definitiva, l’accordo di ristrutturazione è consigliabile “quando si può”: se c’è fattibilità di raggiungere quell’accordo. E questo in molti casi c’è, specialmente per aziende non troppo grandi con un pool noto di creditori. Non a caso la riforma e la direttiva UE incoraggiano i “framework negoziali” come questo, ritenendo che preservino più valore rispetto alle procedure concorsuali classiche.
Riferimenti Normativi, Giurisprudenziali e Bibliografia
- D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 – Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (CCII), in vigore dal 15 luglio 2022, artt. 56-64 (strumenti di regolazione stragiudiziale della crisi: piani attestati e accordi di ristrutturazione), artt. 84-120 (concordato preventivo) e art. 63 (transazione fiscale negli accordi). (G.U. 14/02/2019 n.38, suppl. ord.)
- Legge 8 ottobre 2020, n. 159 (Conversione D.L. 125/2020) – Ha introdotto il cram-down fiscale nella legge fallimentare (art. 182-bis L.F.) permettendo al tribunale di omologare accordi di ristrutturazione senza il voto del Fisco/Enti previdenziali se adesione decisiva e proposta più conveniente della liquidazione. Principi poi confluiti nell’art. 63 CCII.
- D.L. 24 agosto 2021, n. 118, conv. in L. 21 ottobre 2021, n. 147 – Ha introdotto la composizione negoziata della crisi (in sostituzione delle procedure di allerta) e ha modificato il CCII prima dell’entrata in vigore: ha aggiunto l’accordo di ristrutturazione agevolato (30%) all’art. 60 CCII, nonché differito l’entrata in vigore del Codice al 15/07/2022. (G.U. n.254 del 24/10/2021).
- D.Lgs. 17 giugno 2022, n. 83 – Secondo correttivo al CCII, in attuazione della Direttiva (UE) 2019/1023 (cd. Direttiva Insolvency). Ha modificato varie disposizioni: per gli accordi, in particolare, ha inserito nell’art. 63 CCII il comma 2-bis imponendo la presenza di una pluralità di creditori aderenti per l’omologa forzosa contro il Fisco (evitando accordi rivolti al solo Erario), e ha armonizzato il rito di omologa con reclamo. (G.U. n.152 del 01/07/2022).
- D.L. 13 giugno 2023, n. 69, conv. in L. 10 agosto 2023, n. 103 – Ha introdotto l’art. 1-bis al D.L. 69/2023 sospendendo temporaneamente le norme previgenti sul cram-down fiscale negli accordi e imponendo nuove condizioni stringenti per l’omologa forzosa: almeno il 30% (o 40%) di soddisfacimento dei crediti fiscali e contributivi e obbligo di una platea minima di altri creditori aderenti (≥25%). Ha anche stabilito che gli accordi ad efficacia estesa non possono essere utilizzati se rivolti al solo creditore pubblico (conferma orientamento giurisprudenziale). (C.d. “Decreto Salva-infrazioni PNRR 2”, G.U. n.186 del 10/08/2023).
- D.Lgs. 13 ottobre 2023, n. 136 – Terzo correttivo CCII (in vigore dal 15/11/2023). Ha confermato e integrato le condizioni per il cram-down fiscale introdotte dal D.L. 69/2023, rendendole strutturali (ad esempio, soglia minima 30% per Fisco se altri creditori aderiscono per almeno 25%, altrimenti 40%). Inoltre, ha introdotto novità nel concordato preventivo, ma con impatto marginale sugli accordi. (G.U. n.255 del 31/10/2023).
- Direttiva (UE) 2019/1023 del 20 giugno 2019 – Sui quadri di ristrutturazione preventiva e sull’insolvency. Ha ispirato molte delle innovazioni del CCII: in particolare la possibilità di bloccare temporaneamente le azioni esecutive (considerando 59) e di confermare piani di ristrutturazione anche senza unanimità (considerando 68, art. 9). La direttiva incoraggia a dotarsi di procedure flessibili che permettano la ristrutturazione efficiente di imprese sostenibili – l’accordo di ristrutturazione italiano è uno degli strumenti attuativi di tale direttiva. (Recepita in Italia col D.Lgs. 83/2022).
- Cass., Sez. Un., 17/03/2021, n. 8500 – Ha affermato che le controversie sul diniego della transazione fiscale da parte dell’Agenzia Entrate rientrano nella giurisdizione del giudice concorsuale e non di quello tributario, anticipando il principio recepito poi dalla Cass. 34865/2023. Inoltre, Cass. 8500/2021 (massima) ha ritenuto che l’interesse concorsuale generale consenta l’omologazione forzosa anche in assenza di interesse fiscale, ma che se quest’ultimo sussiste (convenienza per Fisco), è di per sé sufficiente (richiamato in dottrina).
- Cass., Sez. I, 08/06/2020, n. 10884 – (In Corr. Giur. 2020) – Ha affrontato il tema del trattamento dei crediti con prelazione nei piani di concordato e accordi, ribadendo il divieto di alterare le graduatorie se non con consenso. Tale principio si riflette nel controllo di legittimità degli accordi: i creditori privilegiati dissenzienti non possono subire decurtazioni mentre i chirografari vengono soddisfatti in misura maggiore (divieto di trattamento deteriore).
- Cass., Sez. I, 13/12/2023, n. 34865 – (Pubbl. in FiscoOggi) – Ha statuito che ogni contestazione sul diniego della transazione fiscale da parte dell’Agenzia delle Entrate rientra nella competenza del giudice concorsuale (tribunale fallimentare) e non del giudice tributario. Conferma la linea già anticipata da Cass. SU 8500/2021, rafforzando la tenuta del cram-down fiscale come materia concorsuale.
- Cass., Sez. Un., 14/02/2022, n. 4696 – Ha stabilito, con riferimento agli accordi di ristrutturazione, che non esistendo un procedimento di risoluzione analogo a quello del concordato, un creditore aderente può chiedere direttamente il fallimento del debitore inadempiente senza dover ottenere prima la risoluzione giudiziale dell’accordo. Ciò a differenza del concordato preventivo, ove l’art. 119 CCII richiede la previa dichiarazione di risoluzione (salvo insolvenza sopravvenuta).
- Corte d’Appello di Roma, sent. 18/04/2024, n. 5412 – (Cit. in dottrina) Caso emblematico di accordo di ristrutturazione rivolto quasi esclusivamente al Fisco (86% del ceto creditorio) con proposta del 21,5% al Fisco. La Corte, in sede di reclamo, ha revocato l’omologa che il Tribunale aveva concesso forzosamente, affermando che “l’operatività del cram down fiscale richiede un preventivo accordo con altri creditori” e che l’istituto non può tradursi in una transazione fiscale giudiziale senza una base negoziale di più ampio respiro. Pronuncia importante, poi cristallizzata dal legislatore nel DL 69/2023 e L.103/2023.
- Tribunale di Milano, decr. 4 aprile 2024 (in ilCaso.it, Sez. Giur. 31581) – Ha rigettato la richiesta di omologa di un accordo di ristrutturazione per assenza delle nuove condizioni imposte dal D.L. 69/2023: nel caso di specie, il piano prevedeva soddisfacimento del Fisco sotto le soglie minime e coinvolgimento marginale di altri creditori, violando il novellato art. 63 CCII. Conferma la linea restrittiva post-riforma: accordi “Fisco-centrici” non ammissibili.
- Tribunale di Cagliari, decr. 10 giugno 2023 (in Diritto del Risparmio) – Uno dei primi casi applicativi del cram-down fiscale post 2020. Nonostante l’opposizione dell’AdE, il Tribunale ha omologato l’accordo ex artt. 57 e 63 CCII, ritenendo soddisfatte le condizioni di convenienza e parità di trattamento del credito erariale (nel caso concreto, l’IVA era stata falcidiata solo per la parte chirografaria con percentuale pari a quella offerta ai chirografari). Ha anticipato i criteri poi precisati dalle Sezioni Unite e dal legislatore.
- Tribunale di Reggio Calabria, decr. 6 luglio 2023 (in ilCaso.it) – Omologa di un accordo di ristrutturazione comprensivo di transazione fiscale, con richiamo al divieto di trattamento deteriore del credito tributario. Il Tribunale ha verificato che la percentuale offerta al Fisco non fosse inferiore a quella offerta agli altri chirografari e che l’IVA falcidiata corrispondesse alla parte realmente scoperta da garanzie (incapienza). Tale controllo puntuale ha garantito la tenuta dell’accordo in sede di eventuali impugnazioni.
- Massimario Corte di Cassazione – Relazione novità normativa n. 87/2022 – Approfondisce la riforma CCII 2022, con riflessi sugli accordi di ristrutturazione e in particolare sull’adesione del Fisco. Evidenzia come il D.Lgs. 83/2022 abbia introdotto la necessità di una pluralità di creditori per il cram-down fiscale e altri correttivi, adeguando l’istituto ai principi della Direttiva UE e prevenendo abusi.
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