Quali Sono Le Procedure Concorsuali Nel Codice Della Crisi

Hai un’impresa in difficoltà o stai seguendo un cliente che non riesce più a far fronte ai debiti? Hai sentito parlare del Codice della Crisi d’Impresa, ma non ti è chiaro quali sono le procedure previste e quando vanno attivate? Se stai cercando di capire quali strade offre oggi la legge per gestire una crisi aziendale, sei nel posto giusto.

Il nuovo Codice della Crisi – entrato pienamente in vigore – ha riorganizzato tutte le procedure concorsuali, rendendole più snelle, selettive e soprattutto orientate alla prevenzione. Ma è fondamentale sapere quali strumenti esistono e in quali situazioni si applicano.

Quali sono le principali procedure concorsuali oggi previste? A cosa servono? E quando conviene usarle?

Le procedure concorsuali oggi previste si distinguono in due grandi categorie: quelle di risanamento e quelle liquidatorie. Ecco le principali:

  • Composizione negoziata della crisi: è una procedura volontaria e non giudiziale. Serve a evitare l’insolvenza con l’aiuto di un esperto indipendente, negoziando direttamente con i creditori. È lo strumento più precoce e meno invasivo, pensato per salvare l’attività.
  • Concordato minore: riservato a imprenditori sotto soglia, artigiani, professionisti e piccoli esercenti. Consente di proporre un piano di ristrutturazione dei debiti, anche con stralci e dilazioni, sotto controllo del tribunale.
  • Liquidazione controllata: è la nuova versione della liquidazione giudiziale per soggetti non fallibili. Serve per liquidare l’attivo in modo ordinato e ottenere, se possibile, l’esdebitazione finale.
  • Concordato preventivo: rivolto alle imprese più strutturate, consente di proporre un piano concordato ai creditori per evitare la liquidazione e proseguire l’attività, se sostenibile.
  • Liquidazione giudiziale: è la procedura che ha sostituito il vecchio fallimento. Si applica ai soggetti fallibili in stato di insolvenza conclamata, e comporta la chiusura dell’attività e la vendita dei beni per pagare, in ordine di priorità, i creditori.

Quale procedura scegliere? Da cosa dipende?

Ogni caso va analizzato attentamente: dipende dal tipo di impresa, dall’entità dei debiti, dai beni disponibili e dalla possibilità di rilancio. L’errore più grande è aspettare troppo. Prima si agisce, maggiori sono le possibilità di salvare l’impresa, ridurre i danni o azzerare i debiti residui.

In questa guida, lo Studio Monardo – avvocati esperti in diritto della crisi, ristrutturazioni e procedure concorsuali – ti spiega quali sono le procedure concorsuali previste dal Codice della Crisi, quando vanno attivate, quali vantaggi offrono e come possiamo aiutarti a scegliere quella giusta.

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Introduzione

Il panorama normativo italiano sulle crisi d’impresa è stato rivoluzionato con l’introduzione del Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII) emanato con il D.Lgs. 14/2019. Esso ha sostituito integralmente la vecchia Legge Fallimentare del 1942, segnando il passaggio da un approccio prevalentemente liquidatorio a un sistema che privilegia l’emersione precoce della crisi e, ove possibile, il risanamento aziendale. L’entrata in vigore del Codice, inizialmente prevista nel 2020, è slittata a causa della pandemia e per recepire la Direttiva UE 2019/1023 sull’insolvency. Il CCII è divenuto pienamente efficace dal 15 luglio 2022, insieme a correttivi che ne hanno adeguato il contenuto ai principi europei e alle mutate esigenze economiche. In seguito, il legislatore ha emanato tre decreti correttivi per perfezionare la disciplina: tra questi, il D.Lgs. 17 giugno 2022 n. 83 (cd. correttivo-bis, attuativo della direttiva UE) e il D.Lgs. 13 settembre 2024 n. 136 (cd. correttivo-ter) che ha apportato ulteriori modifiche sostanziali, risolvendo dubbi interpretativi emersi nella prima applicazione e introducendo alcune importanti novità. Questa guida tiene conto di tutte le modifiche normative fino a giugno 2025, inclusi gli ultimi correttivi, nonché delle più significative pronunce giurisprudenziali ad oggi intervenute.

Obiettivi e principi del nuovo Codice: Il CCII mira a prevenire le crisi d’impresa e a favorirne il risanamento, privilegiandolo rispetto alla liquidazione. I principi ispiratori includono la tempestiva emersione delle difficoltà aziendali tramite strumenti di allerta precoce, l’incentivo all’imprenditore ad attivarsi volontariamente prima che la situazione degeneri, la valorizzazione di soluzioni stragiudiziali e negoziali (con minore invasività del tribunale) e la tutela della continuità aziendale quando l’impresa è risanabile. In sintesi, si passa da un sistema che affrontava l’insolvenza solo a posteriori (col fallimento, ora liquidazione giudiziale) a uno che prevede una serie di strumenti preventivi e negoziali per regolare la crisi, evitando per quanto possibile esiti distruttivi e massimizzando la soddisfazione dei creditori.

Destinatari della guida: Questo testo, dal taglio giuridico ma dal linguaggio chiaro e divulgativo, è rivolto sia ai professionisti (avvocati, commercialisti, consulenti aziendali) sia agli imprenditori e privati cittadini interessati a comprendere come gestire legalmente una situazione di crisi debitoria. Verranno illustrate in dettaglio tutte le principali procedure concorsuali e strumenti di regolazione della crisi previsti dal Codice – dalle procedure di allerta precoce e di composizione assistita della crisi, alle soluzioni negoziate (composizione negoziata, piani attestati di risanamento, accordi di ristrutturazione), fino alle procedure giudiziali come il concordato preventivo (in tutte le sue forme, inclusa la variante concordato semplificato) e la liquidazione giudiziale. Ogni istituto verrà analizzato dal punto di vista del debitore, evidenziando presupposti, finalità, iter procedurale, effetti, organi coinvolti, tempi e costi, con riferimenti normativi puntuali e indicazione delle novità introdotte (come il Piano di Ristrutturazione Omologato – PRO e le procedure da sovraindebitamento riformate). Inoltre, si darà conto dei più recenti orientamenti giurisprudenziali – dalla Corte di Cassazione ai tribunali di merito – che stanno dando forma concreta all’applicazione del Codice.

Struttura della guida: Nelle sezioni seguenti, le procedure saranno illustrate in ordine logico: dapprima gli strumenti di allerta e prevenzione, poi le soluzioni negoziali extra-giudiziali, quindi le procedure concorsuali vere e proprie (concordati, accordi omologati, ecc.), e infine la liquidazione giudiziale come extrema ratio. Verranno fornite tabelle riepilogative che confrontano le varie procedure in termini di accessibilità, effetti, organi coinvolti, tempistiche e costi. Saranno presentati esempi concreti e simulazioni pratiche per diversi tipi di debitori (PMI, imprese agricole, società di capitali, professionisti/lavoratori autonomi) al fine di illustrare l’applicazione pratica degli strumenti. Infine, una sezione di Domande Frequenti (FAQ) affronterà i quesiti più comuni, seguita da un elenco di fonti normative e giurisprudenziali utilizzate.

Prima di entrare nel vivo delle singole procedure, è utile chiarire alcuni concetti generali chiave introdotti dal Codice e imprescindibili per comprendere la logica del nuovo sistema.

Principi generali e definizioni chiave

Stato di crisi vs insolvenza: Il Codice distingue il concetto di crisi (uno stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza futura) dallo stato di insolvenza vero e proprio (incapacità conclamata di adempiere regolarmente alle obbligazioni, es. per mancanza di liquidità). La definizione formale di “crisi” (art. 2, c.1 lett. a, CCII) enfatizza gli squilibri di carattere reddituale, patrimoniale o finanziario che, se non corretti, sfoceranno nell’insolvenza. Esempio: flussi di cassa prospettici insufficienti a coprire le uscite nei successivi 6-12 mesi indicano crisi, mentre il mancato pagamento sistematico di debiti scaduti indica già insolvenza. Questa differenza è cruciale perché molti strumenti del Codice (come gli allerta o la composizione negoziata) si attivano nella fase di crisi, prima che si arrivi all’insolvenza conclamata, con lo scopo di evitare il peggio. Il legislatore vuole incoraggiare gli imprenditori a reagire tempestivamente ai segnali di crisi, anziché attendere il tracollo.

Obbligo di adeguati assetti organizzativi: L’art. 2086 c.c., come modificato dalla riforma, impone all’imprenditore societario di dotarsi di assetti organizzativi, amministrativi e contabili adeguati alla natura e dimensioni dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi. L’art. 3 CCII dettaglia questi obblighi: ad esempio monitorare costantemente indicatori come indici di liquidità, indebitamento e il DSCR (Debt Service Coverage Ratio) che misura la capacità di far fronte al debito finanziario con i flussi di cassa prospettici. Dopo il correttivo-ter del 2024, è stato chiarito che tali indici hanno funzione predittiva e preventiva, e non vanno intesi come allarmi di una crisi già in atto. In pratica, l’imprenditore deve attivarsi ai primi segnali di squilibrio (es. perdite di esercizio ripetute che erodono il capitale, flussi di cassa futuri insufficienti a coprire debiti a breve, ecc.) prima di arrivare al dissesto. Gli organi sociali di controllo (collegio sindacale, revisori) hanno il dovere di vigilare su questi assetti e segnalare eventuali omissioni degli amministratori nel predisporli.

Responsabilità per gestione tardiva della crisi: Un filo conduttore del CCII è il rafforzamento delle responsabilità di imprenditori e amministratori che non affrontano tempestivamente la crisi. Se gli amministratori ignorano i segnali e lasciano aggravare la situazione fino all’insolvenza, possono andare incontro a conseguenze gravi: in sede fallimentare, la loro inerzia può integrare gli estremi della “gestione negligente” o della bancarotta semplice per tardiva richiesta di fallimento. Al contrario, un imprenditore che attiva per tempo una procedura di regolazione della crisi (ad esempio un piano di risanamento o la composizione negoziata) potrà dimostrare di aver agito con diligenza, il che rileva positivamente anche ai fini di un’eventuale esdebitazione finale. In sintesi, la nuova normativa premia l’approccio proattivo e sanziona la passività colposa. Questo contesto spiega l’introduzione degli strumenti di allerta precoce e composizione assistita, di cui trattiamo nel prossimo capitolo, pensati per intercettare subito le difficoltà ed evitare che sfocino in insolvenza conclamata.

Strumenti di Allerta Precoce e Composizione Assistita della Crisi

Il Codice dedica ampio spazio agli strumenti di emersione tempestiva della crisi, noti come procedure di allerta e prevenzione. Si tratta di meccanismi che fanno sì che i segnali di difficoltà dell’impresa vengano individuati e affrontati prima che la situazione degeneri in insolvenza conclamata. Questi strumenti operano su due fronti complementari: interno (all’interno dell’azienda, tramite gli obblighi organizzativi e le segnalazioni degli organi di controllo societari) ed esterno (tramite le segnalazioni da parte di creditori pubblici qualificati, come Fisco ed enti previdenziali). Vediamo in dettaglio entrambe le dimensioni:

Allerta interna: adeguati assetti e obblighi degli organi di controllo

Come anticipato, gli amministratori devono dotare l’impresa di sistemi di controllo idonei a rilevare squilibri e possibili crisi in anticipo. I sindaci e i revisori (che dal 2024 sono stati espressamente equiparati ai sindaci in questi doveri) fungono da sentinelle: se rilevano indizi di crisi grave (es. perdite rilevanti, significative incertezze sulla continuità aziendale, indicatori finanziari fuori range), sono tenuti a segnalarlo immediatamente agli amministratori formalmente e per iscritto, sollecitandoli ad attivarsi. La segnalazione interna può provenire anche dall’organo di controllo monocratico (il sindaco unico) o dalla società di revisione, se presente. Una volta avvisato, l’organo amministrativo deve esaminare la situazione senza indugio e prendere adeguati provvedimenti. Ad esempio, potrà essere convocato con urgenza il consiglio di amministrazione per deliberare misure correttive o per attivare una delle procedure di regolazione della crisi (come la composizione negoziata).

Esempio pratico – Allerta interna: Beta S.r.l. è un’azienda manifatturiera che da due esercizi consecutivi chiude il bilancio in perdita, erodendo progressivamente il capitale sociale. Il suo DSCR a 6 mesi è sceso sotto 1, segnalando che i flussi di cassa prospettici non copriranno le rate dei mutui in scadenza. Inoltre, Beta ha accumulato debiti verso fornitori ben oltre i tempi di pagamento pattuiti. Il collegio sindacale, constatati questi segnali (perdite, DSCR < 1, esposizioni scadute), invia immediatamente una segnalazione formale al CDA (come previsto dall’art. 24 CCII). Ricevuto l’allarme, gli amministratori si attivano e, con l’aiuto di un consulente finanziario, iniziano a valutare opzioni di risanamento: ad esempio, predisporre un piano di risanamento attestato o accedere alla composizione negoziata. In tal modo Beta S.r.l. prova a correre ai ripari prima che la crisi diventi ingestibile. Questo esempio mostra l’allerta “interna” in azione: l’organo di controllo svolge il ruolo di sentinella, ma poi spetta agli amministratori reagire per tempo.

Se invece gli amministratori ignorano la segnalazione interna, i sindaci/revisori non possono far finta di nulla: la loro inerzia potrebbe implicarli in responsabilità. In casi estremi, se la gestione rimane inerte e dissennata, il collegio sindacale potrebbe persino segnalare la situazione al tribunale (ex art. 2409 c.c.) per gravi irregolarità, chiedendo la nomina di un amministratore giudiziario. Il correttivo-ter ha esplicitato che anche i revisori legali hanno questo dovere di intervento al pari dei sindaci. Insomma, l’allerta interna crea una “rete di sicurezza” dentro la governance societaria: nessuno potrà dire di non essersi accorto della crisi incipiente senza rischiare responsabilità per omesso intervento.

Allerta esterna: segnalazioni dai creditori pubblici qualificati

Oltre all’allerta interna, il Codice (Titolo II, artt. 25-octies e segg. CCII) prevede un sistema di allerta esterno attivato dai principali enti pubblici creditori, in particolare: Agenzia delle Entrate, INPS e Agente della Riscossione (AdER). Questi soggetti hanno l’obbligo di monitorare i debiti scaduti dell’impresa verso Fisco e contributi, e di inviare una segnalazione formale quando tali debiti superano determinate soglie significative. Le soglie di allerta sono state calibrate per cogliere tempestivamente situazioni anomale, anche relativamente modeste. Ad esempio:

  • INPS: omissione di versamento di contributi previdenziali per oltre 3 mesi e per un importo superiore a 15.000 € (se l’impresa ha dipendenti, o 5.000 € se senza dipendenti). In sostanza, se un’azienda non paga i contributi per un trimestre superando tali importi, l’INPS dovrà attivare l’allerta.
  • Agenzia delle Entrate: debito IVA scaduto e non versato risultante dalle comunicazioni trimestrali (LIPE) superiore a 5.000 €. Basta dunque il mancato versamento di IVA per poche migliaia di euro in un trimestre per far scattare la segnalazione.
  • Agente della Riscossione (ex Equitalia): cartelle esattoriali affidate per la riscossione, scadute da oltre 90 giorni, per importi superiori a 100.000 € (per imprese individuali), 200.000 € (società di persone) o 500.000 € (società di capitali). Si tratta di arretrati fiscali di entità rilevante non pagati entro 3 mesi dalla notifica.

Come si nota, le soglie per l’allerta esterna non sono affatto astronomiche – ad esempio 5.000 € di IVA non versata possono capitare anche a PMI di piccole dimensioni. Ciò evidenzia la natura preventiva del sistema: l’intento è attivare un “campanello d’allarme” quando i debiti verso Erario o previdenza iniziano a diventare significativi, ma prima che raggiungano livelli insostenibili.

Modalità e effetti della segnalazione esterna: I creditori pubblici monitorano continuamente le posizioni debitorie. Se trascorrono 60 giorni dal superamento della soglia senza pagamento o regolarizzazione da parte del debitore, scatta la segnalazione. La comunicazione avviene tramite PEC al debitore e, se esistente, all’organo di controllo della società. Nella PEC si evidenzia l’entità dell’esposizione scaduta e si invita espressamente l’imprenditore ad attivare la procedura di composizione negoziata della crisi (o comunque a porre rimedio). In altri termini, la lettera non decreta formalmente lo stato di crisi, ma suona un forte allarme: “Attenzione: hai accumulato debiti importanti verso Fisco/INPS; valuta di rivolgerti a un esperto indipendente per trovare una soluzione prima che sia troppo tardi”. Si tratta di una novità dirompente: l’avviso stesso suggerisce al debitore lo strumento di aiuto (la composizione negoziata, di cui parleremo a breve). Le tempistiche per l’invio sono rapide: ad es., per l’IVA scaduta nel 1º trimestre (entro il 31/5), l’avviso Agenzia Entrate deve partire entro fine luglio.

Dal punto di vista giuridico, ricevere la segnalazione non obbliga l’imprenditore ad attivare una procedura (non scatta automaticamente alcun procedimento concorsuale); tuttavia gli effetti indiretti sono molto rilevanti. In primo luogo, come detto, mette in mora formalmente gli amministratori e i controllori: da quel momento, se restano inattivi e l’azienda fallisce, sarà facile contestare loro che erano consapevoli della gravità (data PEC alla mano) ma non hanno agito. In secondo luogo, coinvolgendo i sindaci/revisori, li obbliga a intervenire per evitare di essere corresponsabili (il correttivo-ter ha precisato questo equiparando i revisori ai sindaci). Infine, la segnalazione segna un “prima e dopo”: se il debitore non fa nulla e la crisi precipita, difficilmente potrà giustificarsi in seguito sostenendo di non essersi accorto del problema; viceversa, se reagisce attivando ad esempio la composizione negoziata subito dopo l’avviso, ciò verrà visto come comportamento diligente e in buona fede. In sintesi, l’allerta esterna serve da sprone: non impone soluzioni dall’alto, ma mette il debitore con le spalle al muro di fronte alla realtà della crisi.

Esempio pratico – Allerta esterna: Gamma S.p.A., impresa edile, a causa di un rallentamento dei cantieri nel 2024 accumula debiti IVA per oltre 200.000 €. Inoltre fatica a pagare i contributi ai dipendenti, accumulando 4 mesi di arretrati per 20.000 € complessivi. Nell’ottobre 2024 Gamma S.p.A. riceve due PEC quasi simultanee: una dall’Agenzia Entrate che segnala il mancato versamento di IVA (ben oltre la soglia di 5.000 €) e invita ad attivare la composizione negoziata, e un’altra dall’INPS per i contributi non versati oltre soglia. Immediatamente il CDA di Gamma si riunisce e, per evitare guai peggiori, incarica un advisor di avviare la procedura di composizione negoziata presso la Camera di Commercio. Grazie a ciò, Gamma ottiene misure protettive che congelano temporaneamente le azioni esecutive dei creditori e inizia trattative guidate da un esperto per ristrutturare i debiti (come vedremo nel prossimo capitolo). In tal modo l’impresa sfrutta l’allerta esterna come occasione per correre ai ripari: se avesse ignorato gli avvisi, i suoi amministratori rischierebbero oggi pesanti censure e i creditori avrebbero potuto nel frattempo iniziare pignoramenti o chiedere il fallimento.

Sospensione e destino delle procedure di allerta formale: Va ricordato che la disciplina originaria del Codice (nel 2019) prevedeva l’istituzione degli OCRI (Organismi di Composizione della Crisi d’Impresa) presso le Camere di Commercio e una formale procedura di composizione assistita che si sarebbe attivata a seguito delle segnalazioni (interne o esterne) sopra descritte. In pratica, nelle intenzioni iniziali, ricevuta una segnalazione, l’imprenditore sarebbe stato “convocato” dall’OCRI per gestire la crisi con l’ausilio di esperti. Tuttavia, l’entrata in vigore di queste procedure di allerta obbligatoria è stata più volte rinviata e da ultimo posticipata al 31 dicembre 2023. Nel frattempo (2021) il legislatore ha introdotto uno strumento alternativo, la composizione negoziata della crisi, di carattere volontario e negoziale, che di fatto ha preso il posto di quell’allerta “pubblica” in una chiave meno coercitiva. Ad oggi (metà 2025), gli OCRI non sono mai divenuti operativi e si ritiene che la volontà del legislatore sia di abbandonare definitivamente il vecchio impianto di allerta obbligatoria in favore degli strumenti più flessibili introdotti (la composizione negoziata). Dunque, le segnalazioni esterne dei creditori pubblici rimangono l’unico elemento concretamente attuato di quel sistema di allerta originario, ma non sfociano più in automatico in una procedura avanti all’OCRI: più semplicemente servono a sollecitare l’imprenditore ad attivarsi spontaneamente (tipicamente tramite la composizione negoziata). In conclusione, dal punto di vista pratico un debitore farebbe bene a tenere a mente che: a) deve organizzarsi per cogliere per tempo i segnali di crisi (è un suo dovere professionale, oltre che di buon senso); b) in caso di difficoltà nel pagare tasse o contributi, c’è il rischio concreto di ricevere avvisi formali da ADE/INPS che non possono essere ignorati; c) il dialogo con sindaci e revisori interni è fondamentale: essi non sono “nemici” ma alleati nell’individuare problemi, e se li si ascolta possono persino salvare l’imprenditore da guai peggiori; d) se i segnali di crisi ci sono, conviene attivarsi volontariamente (con piani di risanamento, composizione negoziata, ecc.) piuttosto che aspettare segnalazioni esterne o – peggio – istanze di fallimento da parte dei creditori.

Passiamo ora al primo e più importante tra gli strumenti di reazione volontaria a disposizione dell’imprenditore in difficoltà: la composizione negoziata della crisi d’impresa, introdotta nel 2021 e oggi disciplinata nel Codice agli artt. 17-25 septies.

La Composizione Negoziata della Crisi d’Impresa

La composizione negoziata per la soluzione della crisi è uno degli strumenti cardine di recente introduzione (introdotta con D.L. 118/2021, confluito poi nel CCII) per aiutare le imprese in difficoltà. Si tratta di una procedura volontaria, riservata e stragiudiziale, avviabile solo dall’imprenditore, volta a tentare il risanamento dell’impresa con l’assistenza di un esperto indipendente, evitando se possibile l’accesso a procedure concorsuali più invasive come il concordato preventivo o il fallimento. L’obiettivo è facilitare le trattative tra l’impresa debitrice e i suoi creditori (nonché eventuali altri stakeholder come soci o nuovi investitori) per individuare soluzioni concordate che evitino l’aggravarsi della crisi e preservino la continuità aziendale. In origine concepita come misura “ponte” in epoca Covid, la composizione negoziata è diventata ora uno strumento strutturale centrale nel sistema di gestione anticipata della crisi.

Accesso alla procedura e nomina dell’esperto indipendente

Chi può accedere e quando: La composizione negoziata può essere richiesta da qualsiasi imprenditore commerciale o agricolo, di qualunque dimensione, che si trovi in condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario tali da far presumere la crisi o l’insolvenza, purché vi siano concrete prospettive di risanamento. Non è necessario essere già formalmente insolventi; anzi, l’idea è di muoversi prima. È ammesso anche l’imprenditore che sia già tecnicamente insolvente, purché l’insolvenza sia considerata reversibile (es. carenza di liquidità temporanea in un’azienda con buone potenzialità di rilancio). La procedura è volontaria: può attivarla solo l’imprenditore stesso, non i creditori né il tribunale. Dunque, ad esempio, anche un’imprenditrice agricola che non è soggetta a fallimento può accedere a questo strumento, così come una piccola impresa artigiana individuale: non vi sono soglie di accesso legate ai ricavi o all’attivo, a differenza del fallimento (liquidazione giudiziale).

Come si attiva: L’imprenditore deve presentare un’istanza tramite la piattaforma telematica nazionale predisposta dalle Camere di Commercio (gestita da Unioncamere). L’accesso avviene online, con registrazione dell’imprenditore o di un suo procuratore. Occorre caricare sulla piattaforma una serie di documenti obbligatori, tra cui gli ultimi bilanci depositati, una situazione patrimoniale e finanziaria aggiornata, l’elenco dei creditori con i relativi importi, una relazione sulle cause della difficoltà e sulle prospettive di risanamento, nonché dichiarazioni sull’assenza di condizioni ostative (ad es. che non sono pendenti procedure concorsuali, ecc.). Inoltre, va compilato un questionario di autodiagnosi sullo stato di salute aziendale. In tale check-list l’imprenditore risponde a domande del tipo: esistono debiti scaduti di entità rilevante? Ci sono protesti? Il margine operativo copre gli oneri finanziari? ecc. Il questionario, predisposto dal CNDCEC (commercialisti) e da Unioncamere, aiuta a delineare il quadro e a verificare se vi siano chance di risanamento. È anche previsto un test pratico sulla ragionevole perseguibilità del risanamento: inserendo alcuni dati economici in un algoritmo, viene calcolato se l’impresa ha prospettive di equilibrio (questo test, obbligatorio per legge, fornisce un ausilio indicativo ma non vincolante).

Una volta completata l’istanza con i documenti, la piattaforma genera la richiesta che viene inoltrata a una apposita commissione istituita presso la Camera di Commercio competente. Questa commissione – composta da esperti (es. un avvocato, un commercialista e un ex magistrato, tipicamente) – provvede a designare l’Esperto indipendente entro pochi giorni. L’Esperto è il fulcro della procedura: si tratta di un professionista terzo, con specifiche competenze in ristrutturazioni aziendali, scelto da elenchi tenuti dalle Camere di Commercio. La commissione di designazione tiene conto della dimensione e del settore dell’impresa, selezionando un esperto con esperienza adatta (es. per un’azienda agricola cercherà un professionista con competenze in crisi d’impresa agricola). L’esperto nominato deve accettare l’incarico, dopo di che l’imprenditore viene informato e la procedura entra nel vivo.

Svolgimento delle trattative, misure protettive e strumenti ausiliari

Una volta nominato, l’esperto indipendente convoca entro pochi giorni l’imprenditore per un primo incontro. Viene redatto un protocollo di conduzione delle trattative, in cui si stabiliscono le regole di riservatezza e le linee guida del negoziato. Le trattative con i creditori vengono condotte dall’imprenditore stesso, affiancato però dall’esperto che funge da facilitatore, mediatore imparziale e supervisore. L’esperto analizza la situazione aziendale e, dialogando con tutte le parti, cerca di far emergere possibili soluzioni di ristrutturazione. Egli verifica anche la fattibilità delle proposte che via via l’imprenditore formula ai creditori, stimando l’effetto che avrebbero sui creditori rispetto all’alternativa liquidatoria.

Durante la composizione negoziata, l’imprenditore può richiedere al tribunale l’applicazione di misure protettive del patrimonio (art. 18 CCII). In pratica può chiedere che, per la durata delle trattative (inizialmente fino a 4 mesi, prorogabili al massimo a 12), sia sospesa ogni azione esecutiva e cautelare da parte dei creditori nei suoi confronti. Il tribunale concede queste misure se ritiene che le trattative possano ragionevolmente portare a una soluzione e se non vi è pregiudizio per i creditori (ad esempio, se l’impresa continua a pagare i fornitori correnti). Le misure protettive – che equivalgono a uno standstill generale – vengono pubblicate nel registro delle imprese e comunicate ai creditori noti. Durante la protezione, il debitore mantiene la gestione ordinaria dell’impresa; per gli atti di straordinaria amministrazione deve però ottenere il nulla osta dell’esperto o del tribunale. È anche possibile, in casi urgenti, ottenere misure cautelari specifiche (es. sospensione o divieto di azioni volte a interrompere forniture essenziali). Tali misure offrono un “cuscinetto” temporale prezioso, evitando che nell’interregno delle trattative qualche creditore impaziente pignori beni o ottenga sentenze che compromettano gli sforzi di risanamento.

Durante la composizione negoziata l’impresa può usufruire di alcuni strumenti finanziari speciali: ad esempio può contrarre finanziamenti prededucibili (cioè che in caso di successivo fallimento saranno rimborsati con priorità) se autorizzati dal tribunale, per procurarsi la liquidità necessaria a proseguire l’attività durante le trattative. Inoltre, con il correttivo-ter 2024 è stato introdotto il potere di concludere accordi transattivi sul debito fiscale nell’ambito della composizione negoziata (una sorta di “transazione fiscale” preventiva), per favorire soluzioni che coinvolgano anche l’Erario. Queste novità snelliscono la procedura e ampliano le possibilità di successo, permettendo ad esempio di congelare le posizioni col Fisco mentre si cerca un accordo con gli altri creditori.

La durata della composizione negoziata è variabile: la legge prevede che, salvo accordo diverso, le trattative debbano concludersi entro 180 giorni dall’accettazione dell’esperto (circa 6 mesi), con possibilità di proroga su istanza motivata. Se entro tale termine si profila una soluzione concreta, si può procedere in diversi modi (vedi oltre); se invece appare chiaro che non c’è intesa, l’esperto può decidere di chiudere anticipatamente la procedura redigendo la relazione finale.

Esiti possibili della composizione negoziata: accordi, piani o concordato

La composizione negoziata può portare a diversi esiti conclusivi, a seconda di come vanno le trattative. Nel migliore dei casi, l’esito è positivo: l’imprenditore e i creditori trovano un accordo volontario per il risanamento. Tale accordo può assumere forme diverse:

  • Accordo stragiudiziale bilaterale o plurilaterale: ad esempio una convenzione di moratoria (art. 62 CCII) in cui i creditori, anche senza omologazione giudiziale, accettano di prorogare le scadenze o di non agire esecutivamente per un certo periodo. Oppure un accordo di ristrutturazione del debito vero e proprio da sottoporre poi ad omologazione (se raggiunge le percentuali richieste). Durante la composizione, è possibile che l’imprenditore sottoscriva un accordo con alcuni creditori e l’esperto lo attesti, vincolando anche eventuali finanziatori non aderenti se c’è un’adesione molto ampia (strumento simile ad un accordo ex art. 57 CCII).
  • Piano attestato di risanamento ai sensi dell’art. 56 CCII: se l’imprenditore riesce a ottenere l’adesione spontanea integrale di tutti o dei principali creditori, può formalizzare un piano di risanamento da far attestare da un professionista indipendente. Il piano attestato, pur restando fuori dal tribunale, beneficia di protezione da azioni revocatorie sulle operazioni compiute in esecuzione (v. infra sezione dedicata). La composizione negoziata può agevolare la predisposizione di tale piano perché l’esperto facilita l’intesa con i creditori.
  • Accordo di ristrutturazione dei debiti omologato (ARD): se il debitore ottiene il consenso di almeno il 60% dei crediti, può chiedere l’omologazione dell’accordo in tribunale (artt. 57-60 CCII). La fase di composizione negoziata può servire a raccogliere queste adesioni con l’aiuto dell’esperto. Inoltre, grazie a un particolare accordo di ristrutturazione agevolato, il debitore che abbia almeno il 30% di adesioni iniziali può ottenere subito misure protettive mentre cerca di raggiungere il quorum del 60%.
  • Concordato preventivo “in continuità”: se emerge un piano che prevede la prosecuzione dell’attività e richiede la ristrutturazione dell’impresa con il voto dei creditori, l’imprenditore può decidere di presentare domanda di concordato preventivo ordinario (ne parliamo nel prossimo capitolo). In pratica, la composizione può fungere da preludio a un concordato in continuità più solido, avendo già testato le disponibilità dei creditori in sede negoziale.
  • Altro esito concordato: ad esempio la cessione dell’azienda o di un ramo a un investitore (con eventuale accollo dei debiti da parte di quest’ultimo), soluzione che può essere formalizzata con un contratto e porre fine alla crisi senza procedure ulteriori.

Se invece le trattative falliscono e non è stato possibile trovare nessuna soluzione tra quelle sopra elencate, l’imprenditore ha comunque a disposizione un’ultima opzione introdotta dal D.L. 118/2021: la possibilità di proporre un concordato “semplificato” per la liquidazione del patrimonio (art. 25-sexies CCII). Questo istituto – che approfondiremo più avanti – consente, entro 60 giorni dalla fine delle trattative, di chiedere al tribunale l’omologazione di un concordato liquidatorio senza passare per il voto dei creditori, evitando così il fallimento. È una sorta di “paracadute” finale quando la composizione negoziata non ha condotto a un risanamento, ma c’è comunque la necessità di liquidare l’impresa in modo ordinato. Va sottolineato che il concordato semplificato è accessibile solo se l’esperto, nella sua relazione finale, attesta che il debitore ha condotto le trattative con correttezza e buona fede e che le soluzioni concordate non sono state praticabili. In altre parole, il debitore deve dimostrare di aver davvero tentato tutto il possibile nella composizione negoziata prima di ripiegare su questa procedura speciale.

È importante notare infine che la composizione negoziata non è una procedura concorsuale: non c’è dichiarazione di apertura da parte di un giudice, l’imprenditore non è considerato in stato di insolvenza ufficiale e l’intero percorso rimane riservato (tranne gli eventuali provvedimenti di protezione, che vengono pubblicati). Se la crisi viene risolta in questa sede, l’azienda evita il “marchio” di una procedura concorsuale pubblica, con evidenti benefici reputazionali. D’altro canto, la riuscita dipende molto dalla collaborazione volontaria dei creditori: se ce ne sono troppi o troppo conflittuali, o se manca fiducia nei confronti del debitore, la composizione negoziata può non bastare e bisognerà ricorrere agli strumenti concorsuali formali. Nei prossimi paragrafi analizzeremo dunque tali strumenti formali: cominciando dal concordato preventivo, la più classica procedura concorsuale per evitare la liquidazione giudiziale.

Il Concordato Preventivo

Il concordato preventivo è la più nota e collaudata tra le procedure concorsuali di regolazione della crisi d’impresa. Si tratta di una procedura giudiziale vera e propria, che consente all’imprenditore in crisi o insolvente di proporre ai creditori un accordo di soddisfacimento dei loro crediti in alternativa alla liquidazione fallimentare. Lo scopo è di regolare la crisi in modo concorsuale (coinvolgendo tutti i creditori) ma evitando gli effetti più drastici del fallimento, attraverso un piano approvato dai creditori stessi e omologato dal tribunale. È quindi uno strumento di composizione collettiva della crisi, dove la maggioranza dei creditori può vincolare anche la minoranza dissenziente, a condizione che siano rispettate certe garanzie di legge.

Il CCII ha mantenuto l’istituto del concordato preventivo, introducendo però varie novità rispetto alla disciplina previgente. Innanzitutto ha distinto in modo netto le due principali tipologie di concordato: concordato in continuità aziendale e concordato liquidatorio (liquidatorio puro). Ha inoltre imposto requisiti stringenti per l’ammissibilità dei concordati liquidatori (minimo pagamento del 20% ai chirografari e apporto di risorse esterne almeno del 10% dell’attivo), mentre ha lasciato maggiore flessibilità ai concordati in continuità per favorire il salvataggio delle imprese. Ha poi previsto la formazione di classi di creditori secondo posizione giuridica ed interessi economici omogenei, con possibilità di trattamenti differenziati fra classi (nel rispetto della priorità assoluta o relativa a seconda dei casi). Infine, da fine 2024, con il correttivo-ter, è stata introdotta la possibilità di omologare il concordato anche senza l’approvazione di tutte le classi, tramite un meccanismo di cram-down interclassi simile a quello previsto dalla direttiva UE. Analizziamo le principali caratteristiche.

Concordato in continuità aziendale

Un concordato è “in continuità” quando il piano presentato prevede il proseguimento dell’attività d’impresa, in forma diretta o indiretta (art. 84 CCII). Ciò significa che l’azienda continuerà a operare anche dopo l’omologazione: o perché il debitore stesso prosegue l’esercizio (continuità diretta), magari ristrutturando l’impresa, oppure perché è prevista la cessione o conferimento dell’azienda a un altro soggetto che la gestirà (continuità indiretta, tipicamente mediante affitto d’azienda e successiva vendita). In ogni caso l’obiettivo è preservare i valori produttivi, i posti di lavoro e la capacità dell’azienda di generare ricavi, così da pagare i creditori in misura migliore di quanto avverrebbe liquidando tutto subito.

Nel concordato in continuità il piano è essenzialmente un piano di risanamento aziendale sottoposto all’approvazione dei creditori e al controllo del tribunale. L’imprenditore può proporre qualsiasi tipo di riorganizzazione: ristrutturazione dei debiti (ad esempio allungamento delle scadenze, stralcio parziale di crediti, conversione debito/capitale), operazioni sul capitale (aumento di capitale con nuovi soci), dismissione di asset non strategici, riduzione dei costi, cassa integrazione per i dipendenti in esubero, ecc. Il piano può anche prevedere la cessione di rami d’azienda non essenziali o la ricerca di un investitore terzo disposto a immettere liquidità (spesso attraverso una procedura competitiva durante il concordato, per massimizzare il valore di eventuali offerte). L’importante è che dal piano emerga la ragionevole capacità dell’impresa di stare sul mercato come entità viva e che i creditori ricevano, in tempi definiti, una soddisfazione adeguata grazie alla prosecuzione dell’attività.

Dal punto di vista dei creditori, nel concordato in continuità non vige alcuna soglia minima di pagamento dei crediti chirografari imposta per legge (a differenza del liquidatorio). Non c’è un “percentuale minima” garantita ex lege: il piano potrebbe anche prevedere il pagamento di una quota modesta ai chirografari, se ciò è il massimo ottenibile compatibilmente con la continuità, purché sia comunque superiore a quanto otterrebbero i creditori nella liquidazione fallimentare del debitore. Il principio cardine, infatti, resta la convenienza rispetto all’alternativa liquidatoria: il piano deve assicurare che i creditori non vengano trattati peggio di come sarebbero trattati in caso di liquidazione giudiziale (principio di “miglior soddisfacimento dei creditori” ex art. 112, co.1 CCII). Questo implica che il piano di concordato in continuità deve essere accompagnato dalla relazione di un attestatore indipendente che certifichi la sua fattibilità e la convenienza per i creditori rispetto al fallimento. Ad esempio, se un’azienda in esercizio propone di pagare solo il 30% dei crediti chirografari, l’attestatore dovrà confermare che in uno scenario di fallimento i creditori chirografari prenderebbero ancora meno (diciamo il 10-15%), rendendo così conveniente il 30%.

I creditori sono suddivisi in classi, ove necessario, per garantire un trattamento più equo di situazioni diverse. Ad esempio, in un concordato di continuità tipico avremo classi distinte per: banche finanziatrici con garanzie (creditori privilegiati ipotecari), fornitori chirografari, eventuali bondholder/obbligazionisti, crediti erariali e previdenziali (che godono di privilegio generale e spesso di una disciplina speciale di stralcio limitato), ecc. I creditori all’interno di ciascuna classe ricevono lo stesso trattamento, mentre tra classi diverse possono esserci differenze (ad es. le banche con ipoteca possono essere soddisfatte ristrutturando i mutui su tempi lunghi, i fornitori chirografari con un pagamento parziale dilazionato, ecc.). Il CCII – recependo la direttiva UE – consente anche di derogare alla parità di trattamento tra creditori di classi diverse, purché ciò sia giustificato e le classi approvino. Ad esempio, è possibile pagare integralmente alcuni fornitori strategici e solo parzialmente altri creditori chirografari meno importanti, se i primi garantiscono la prosecuzione dell’attività. Queste flessibilità rendono il concordato in continuità uno strumento molto duttile, che può adattarsi alle specifiche esigenze del caso concreto.

L’impresa in concordato in continuità normalmente rimane in possesso (debtor in possession): la gestione resta in capo al debitore, sotto la supervisione di un Commissario Giudiziale nominato dal tribunale. Il commissario (di solito un commercialista esperto in procedure concorsuali) vigila sull’operato dell’imprenditore, raccoglie le manifestazioni di voto dei creditori e riferisce al giudice sull’andamento della procedura. Solo in situazioni eccezionali il tribunale può disporre la nomina di un amministratore giudiziario che sostituisca il debitore nella gestione (ad es. in caso di gravi irregolarità, frodi, o se è richiesto un concordato in continuità indiretta con cessione azienda a terzi, l’art. 95 CCII prevede la possibilità di nomina di un soggetto incaricato di gestire il trasferimento).

Esempio pratico – Concordato in continuità: Alfa S.p.A. è un’azienda manifatturiera con 100 dipendenti, indebitata per 10 milioni di euro (8 milioni verso banche con ipoteca sugli stabilimenti, e 2 milioni verso fornitori chirografari). L’azienda ha un buon portafoglio ordini e potrebbe tornare redditizia, ma il peso del debito accumulato rende insostenibile la gestione corrente. Alfa S.p.A. presenta domanda di concordato preventivo in continuità: propone un piano quinquennale in cui le banche ristrutturano il debito (moratoria di 2 anni sulle quote capitale e allungamento dei mutui di altri 5 anni), mentre i fornitori chirografari vengono pagati al 50% in 4 anni con risorse derivanti dai flussi di cassa futuri. I soci attuali si impegnano inoltre a versare 500.000 € di nuovi fondi (apporto di finanza esterna) per sostenere la ripresa e dare maggiore garanzia ai creditori. Il piano prevede di mantenere tutti i dipendenti, ricorrendo alla cassa integrazione per 6 mesi e a una riduzione temporanea dell’orario per ridurre i costi del personale. I creditori sono divisi in tre classi: Classe 1 – banche ipotecarie; Classe 2 – fornitori chirografari; Classe 3 – crediti erariali privilegiati (IVA e ritenute non versate per 200.000 €, che il piano propone di pagare in 5 anni con l’80% del valore). Il piano viene attestato da un professionista indipendente, il quale dichiara che in caso di fallimento Alfa S.p.A. i creditori chirografari non riceverebbero nulla (stima di realizzo 0% dopo i privilegi), mentre con il piano prenderanno il 50%, e che la continuità è realisticamente sostenibile con le misure proposte. I creditori votano: la maggioranza di ciascuna classe approva (banche e fornitori favorevoli, l’Erario pure aderisce grazie alla transazione fiscale proposta). Il tribunale quindi omologa il concordato in continuità. Alfa S.p.A. prosegue la sua attività sotto la vigilanza del commissario giudiziale, che monitorerà l’esecuzione del piano nei 5 anni successivi. I dipendenti mantengono il loro posto, l’impresa viene risanata e i creditori incassano più di quanto avrebbero ottenuto dallo scenario liquidatorio distruttivo.

Concordato preventivo liquidatorio

Il concordato liquidatorio si ha quando il piano concordatario presentato dal debitore non prevede la continuazione dell’attività, bensì la liquidazione di tutto o parte del patrimonio a beneficio dei creditori (art. 84, co.4 CCII). In altre parole, l’impresa cesserebbe di esistere come entità economica al termine della procedura: i beni aziendali vengono venduti e il ricavato distribuito ai creditori secondo le percentuali concordate. Questo tipo di concordato si utilizza quando purtroppo non vi sono prospettive di risanamento e la soluzione migliore è liquidare l’impresa, ma si vuole comunque evitare la liquidazione giudiziale (fallimento) procedendo invece in modo concordato e sotto controllo del debitore.

Rispetto al concordato in continuità, il concordato liquidatorio è soggetto a requisiti di ammissibilità più stringenti, introdotti proprio per assicurare ai creditori un trattamento non inferiore a quello fallimentare. In particolare, il CCII richiede che nel concordato liquidatorio i creditori chirografari ottengano almeno il 20% del loro credito (soddisfazione minima del 20%) e che vi sia un apporto di risorse esterne al patrimonio pari ad almeno il 10% dell’attivo liquidabile. Quest’ultimo requisito significa che una parte del valore distribuito ai creditori deve provenire da risorse aggiuntive non già comprese nell’attivo dell’impresa (ad es. denaro messo dai soci o da terzi, rinunce a crediti da parte di parti correlate, nuovi finanziamenti destinati ai creditori). L’idea è che i creditori in un concordato liquidatorio ricevano qualcosa in più rispetto a una liquidazione ordinaria: il 20% minimo e l’apporto esterno del 10% servono proprio a premiare i creditori che accettano il concordato e a disincentivare concordati liquidatori proposti a percentuali irrisorie solo per evitare il fallimento. Se il debitore non può soddisfare queste soglie, la sua proposta di concordato liquidatorio sarà dichiarata inammissibile dal tribunale.

Il piano di un concordato liquidatorio tipicamente consiste nella vendita in blocco o frazionata dei beni aziendali (immobili, macchinari, magazzino, eventuali crediti, ecc.), anche tramite procedure competitive organizzate sotto l’egida del tribunale per massimizzare il ricavato. Può essere prevista anche la cessione dell’intera azienda o di singoli rami, se c’è interesse di qualche investitore a rilevarli. Non essendoci continuità, l’attività caratteristica viene in genere sospesa o fortemente ridotta durante la procedura (salvo quel minimo necessario per preservare il valore dei beni). I dipendenti di regola vengono licenziati al momento dell’omologazione (con pagamento del TFR e passaggio al Fondo di garanzia INPS per le ultime mensilità, come accade nei fallimenti).

Dal punto di vista della governance, il concordato liquidatorio può prevedere che la gestione passi in mano a un liquidatore nominato dal tribunale sin dall’omologazione (spesso la stessa figura del commissario giudiziale diventa liquidatore). Il debitore dunque viene spossessato dei beni, similmente a quanto avviene nel fallimento, ma con la differenza che l’iter liquidatorio segue il piano concordatario approvato dai creditori, sotto il controllo del giudice delegato e con la partecipazione eventuale di un comitato dei creditori (non obbligatorio, ma talvolta nominato). Una volta effettuate le vendite e distribuiti i riparti ai creditori nelle percentuali concordate, il concordato si considera eseguito e l’imprenditore ottiene l’esdebitazione (liberazione dai debiti residui) come previsto dall’art. 280 CCII.

Esempio pratico – Concordato liquidatorio: Beta S.r.l. è una piccola impresa commerciale che, a causa di perdite pesanti negli ultimi anni, ha cessato l’attività. Ha debiti per 5 milioni di euro verso vari fornitori e banche (chirografari, non avendo garanzie attive), e possiede come attivo un capannone del valore stimato di 2 milioni e un magazzino di merci per circa 0,5 milioni. I soci di Beta offrono, come risorse esterne, ulteriori 200.000 € in contanti per aumentare l’attivo liquidabile. La società presenta un piano di concordato preventivo liquidatorio proponendo di vendere il capannone tramite asta e liquidare le merci. Si stima di ricavare 2,5 milioni dalla liquidazione dei beni aziendali, a cui si aggiungono i 200.000 € messi dai soci (risorse esterne). In totale 2,7 milioni da distribuire ai creditori chirografari, che rappresenta il 54% dei loro 5 milioni di crediti. Il piano quindi supera ampiamente il minimo di legge (20%), e l’apporto esterno di 200k equivale al 7,4% dell’attivo (2,7M), leggermente sotto il 10% richiesto. Per rispettare il requisito del 10%, i soci aumentano il contributo esterno a 300.000 €, portandolo circa all’11% dell’attivo totale (2,8M attivo di cui 0,3M esterni). I creditori vengono considerati in un’unica classe (tutti chirografari, non essendoci privilegi), con pari trattamento. Il piano prevede che ciascuno riceverà circa il 55% del proprio credito (2,8M/5M). I creditori votano e, vista l’alternativa – un fallimento in cui probabilmente otterrebbero molto meno – approvano quasi all’unanimità. Il tribunale omologa il concordato liquidatorio. Viene nominato un liquidatore giudiziale (lo stesso professionista che era commissario durante la fase di voto). Nei mesi successivi, il liquidatore vende il capannone (trovando un acquirente a 2,1 milioni) e liquida le rimanenze di magazzino, poi distribuisce i 2,8 milioni complessivi ai creditori chirografari, pagando circa il 55% di ogni credito e rispettando così quanto promesso. Al termine, Beta S.r.l. viene cancellata e ottiene l’esdebitazione per il residuo 45% impagato. I creditori, pur non soddisfatti integralmente, hanno preferito questa soluzione rapida (che ha fruttato loro oltre la metà dei crediti) piuttosto che un fallimento dall’esito incerto e dai tempi lunghi.

Procedimento: dalla domanda al voto e all’omologazione

Il percorso procedurale di un concordato preventivo può essere suddiviso in varie fasi: (1) presentazione della domanda di concordato, (2) ammissione e fase istruttoria, (3) voto dei creditori, (4) omologazione da parte del tribunale. Vediamole sinteticamente.

  • Domanda di concordato: Il debitore deposita un ricorso al tribunale competente (di regola il tribunale sede dell’impresa) chiedendo l’ammissione al concordato. Può presentare un piano completo fin dall’inizio (concordato “pieno”) con tutta la documentazione (piano dettagliato, proposta ai creditori, attestazione di un professionista sulla fattibilità e convenienza). In alternativa, se ha bisogno di tempo per preparare i dettagli, può presentare una domanda “in bianco” (concordato con riserva) ai sensi dell’art. 44 CCII, allegando almeno i bilanci e riservandosi di depositare il piano e la proposta entro un termine fissato dal giudice (generalmente 60-120 giorni prorogabili). La domanda in bianco, molto usata nella prassi per ottenere protezione immediata, comporta la concessione automatica delle misure protettive (stay delle azioni esecutive) per la durata fissata dal tribunale per il deposito del piano definitivo. Entro tale termine, il debitore deve “riempire” il ricorso con il piano vero e proprio.
  • Ammissione e fase istruttoria: Deposito il piano, il tribunale effettua un primo controllo di ammissibilità formale e sostanziale. Verifica cioè che sussistano i requisiti di legge (ad esempio, in caso di piano liquidatorio, che ci sia il 20% minimo ai chirografi e l’apporto esterno del 10%; che la documentazione sia completa; che il debitore sia legittimato – imprenditore fallibile). Valuta anche la fattibilità giuridica del piano (ossia che le modalità proposte non siano contrarie a norme imperative). Se queste verifiche danno esito positivo, il tribunale ammette il debitore al concordato e nomina il Commissario Giudiziale. Contestualmente fissa la data ad una futura adunanza dei creditori per il voto (di solito 60-120 giorni dopo) e impone eventuali prescrizioni. Da questo momento, il debitore è sotto la tutela del tribunale: i creditori non possono iniziare o proseguire azioni esecutive (lo “stay” si protrae fino all’omologazione) e gli atti di straordinaria amministrazione compiuti senza autorizzazione potranno essere dichiarati inefficaci. Il commissario giudiziale nel frattempo svolge l’istruttoria: esamina il piano, raccoglie informazioni contabili, redige una relazione particolareggiata sulla causa della crisi e sulla valutazione della proposta del debitore, da inviarsi a tutti i creditori prima del voto. Nella relazione, il commissario esprime un parere sul concordato (convenienza per i creditori) e segnala eventuali criticità.
  • Votazione dei creditori: All’adunanza fissata, i creditori discutono e votano la proposta. Il voto può avvenire anche per corrispondenza o PEC, senza necessità di presenza fisica all’udienza. Il CCII prevede che affinché il concordato sia approvato occorre la maggioranza in valore dei crediti ammessi al voto. Se sono state predisposte classi di creditori, la maggioranza richiesta va calcolata nell’ambito di ciascuna classe (maggioranza dei crediti per ogni classe). In mancanza di classi formali, si applica la vecchia regola della maggioranza del 50%+1 in valore (esclusi i crediti eventualmente privilegiati che non votano perché interamente soddisfatti). Il voto può essere favorevole, contrario o di astensione (chi non risponde viene considerato astenuto). È ammesso anche il cram-down nei confronti dell’Erario e degli enti previdenziali: se il Fisco o l’INPS votano no ma la loro adesione è determinante per raggiungere la maggioranza, il tribunale può omologare comunque il concordato se ritiene che il trattamento proposto a questi enti sia conveniente e non inferiore a quello ottenibile con altre soluzioni. (Questa è la cosiddetta “cram-down fiscale”, analoga a quella già prevista in passato). Dunque, per esempio, se tutti i creditori privati approvano ma l’Agenzia delle Entrate dissente, il tribunale può andare avanti lo stesso purché il piano preveda per il Fisco almeno ciò che otterrebbe liquidando, e purché siano state rispettate le formalità della richiesta di adesione.
  • Omologazione: Se la votazione ha esito positivo (maggioranza raggiunta in tutte le classi o comunque complessivamente), si apre la fase di omologazione. I creditori dissenzienti o esclusi dal voto hanno 30 giorni per proporre eventuali opposizioni (contestando ad esempio la violazione di legge, la convenienza comparativa, o la mancanza di correttezza nella formazione delle classi). Il tribunale, all’udienza di omologazione, esamina il tutto e verifica definitivamente che il piano rispetti i requisiti di legge e che non vi siano motivi ostativi. Fino al 2024, se anche una sola classe di creditori votava contro, il concordato non poteva essere omologato. Dopo il Correttivo-ter 2024, invece, l’art. 112 CCII consente al tribunale di omologare il concordato anche in mancanza di approvazione da parte di una o più classi di creditori, a condizione che: (a) almeno un’altra classe abbia approvato; (b) le classi dissenzienti siano soddisfatte in misura non inferiore a quelle di pari rango e nel rispetto della absolute priority rule (nessuna classe inferiore prende più di una superiore dissentiente). Questo meccanismo, ispirato al cross-class cram-down della direttiva UE, consente di superare l’opposizione di classi minoritarie se il piano è comunque equo. Ad esempio, se un concordato in continuità prevede due classi e la classe dei fornitori (che rappresenta, poniamo, il 10% dei crediti) vota contro, oggi il tribunale può ugualmente omologare se ritiene che i fornitori dissenzienti siano trattati in modo soddisfacente e non penalizzato rispetto all’altra classe. Le prime pronunce di merito hanno già applicato questa novità su concordati presentati a fine 2024.

Ottenuta l’omologazione, il concordato preventivo entra in fase di esecuzione: il debitore (o il liquidatore, se concordato liquidatorio) attua il piano sotto la vigilanza degli organi della procedura. Una volta eseguito integralmente, il tribunale dichiara chiuso il concordato. In caso di inadempimento rilevante o di impossibilità sopravvenuta di eseguire il piano, su istanza di creditori o d’ufficio il tribunale può dichiarare la risoluzione del concordato e contestualmente aprire la liquidazione giudiziale (fallimento). Nota: il correttivo-ter 2024 ha introdotto l’art. 118-bis CCII, che consente una modifica concordata del piano già omologato se sopravvengono circostanze che ne impediscono temporaneamente o definitivamente l’attuazione. Questa norma consente di evitare la risoluzione immediata: ad esempio, se dopo l’omologa un evento imprevisto rende il piano inattuabile, il debitore può proporre ai creditori una modifica del piano e chiedere al tribunale di omologarla (una sorta di “concordato modificativo”). Già alcuni tribunali hanno applicato tale novità, offrendo così una chance in più di successo ai concordati anche dopo l’omologa.

Casi particolari e giurisprudenza sul concordato preventivo

La prassi del concordato preventivo è da anni terreno di numerose questioni affrontate dalla giurisprudenza. Con l’entrata in vigore del CCII, molte di esse trovano ora una disciplina positiva, ma l’interpretazione delle nuove norme ha già prodotto sentenze importanti. Eccone alcune, rilevanti dal punto di vista del debitore:

  • Concordato con riserva (“in bianco”) e condotta abusiva: i tribunali vigilano affinché il debitore non usi la domanda in bianco solo per guadagnare tempo a scapito dei creditori. Se il debitore non presenta il piano nei termini o appare inerte/ostruzionista, il tribunale può revocare le misure protettive e dichiarare improcedibile la domanda, esponendo l’impresa a istanze di fallimento. È quindi essenziale utilizzare la protezione della domanda in bianco con correttezza, effettivamente per predisporre un piano serio.
  • Potere del giudice sulla fattibilità del piano: principio tradizionale è che il giudice non entri nel merito delle scelte economiche del piano (fattibilità economica), limitandosi a controlli di legalità e fattibilità giuridica, salvo che il piano sia manifestamente irrealistico. La Cassazione ha ribadito questo principio recentemente, anche riguardo ai limiti nei giudizi di rinvio: in una vicenda, la Corte d’Appello, chiamata a decidere dopo un rinvio, aveva riformulato il giudizio di fattibilità del piano ritenendolo non sostenibile, ma la Cassazione (sent. 33346/2023) ha censurato questo operato, affermando che il giudice di rinvio deve attenersi al principio di diritto enunciato dalla Cassazione e non può modificare l’accertamento e la valutazione dei fatti già acquisiti o riesaminare ex novo la fattibilità se non gli è stato richiesto. Questo a tutela della stabilità delle decisioni: se la Cassazione annulla per un vizio di diritto, il merito non può rimettere in discussione aspetti economici già valutati. In sostanza, la fattibilità economica resta ambito del debitore e dei creditori, e il giudice interviene solo per palese irragionevolezza.
  • Classi di voto e trattamento differenziato: già prima del CCII, la giurisprudenza ammetteva che il debitore potesse classificare i creditori per trattarli diversamente, purché vi fosse omogeneità giuridica ed economica all’interno di ciascuna classe e non venisse alterata la par condicio in senso sostanziale. Ora queste prassi sono codificate: è espressamente consentito trattare diversamente i creditori appartenenti a classi diverse (art. 85 CCII), e la giurisprudenza di merito ha in genere avallato soluzioni creative, come classi di “piccoli creditori” pagati integralmente per ragioni etiche, oppure classi di fornitori strategici pagati meglio per consentire la continuazione aziendale. Queste differenze sono ammissibili se l’attestatore le giustifica e se i creditori della classe penalizzata hanno comunque un trattamento equo e non inferiore a quello di classi junior.
  • Cram-down fiscale e previdenziale: i tribunali hanno cominciato ad applicare la regola per cui si può omologare il concordato anche se Erario o INPS hanno votato no, a patto che la loro posizione sia soddisfatta secondo le offerte fatte e che tali offerte siano almeno pari al valore di liquidazione o alle somme ricavabili da una transazione fiscale. Ad esempio, il Tribunale di Milano in un caso del 2023 ha omologato un concordato nonostante il voto contrario dell’Agenzia Entrate, evidenziando che la proposta nel piano (pagare il 30% del debito IVA) era più conveniente di quanto il Fisco avrebbe ottenuto in fallimento (stimato 5-10%), e che quindi il dissenso era irragionevole. Ciò mostra come il debitore, per cautelarsi, debba sempre offrire ai creditori pubblici un trattamento ragionevolmente conveniente per sperare nel cram-down. Se invece offrisse troppo poco (es. <5% senza prospettive di miglioramento), difficilmente l’omologazione verrebbe concessa contro il parere negativo del Fisco.
  • Controllo di buona fede e abuso del concordato: la Cassazione e la giurisprudenza di merito insistono sul fatto che il concordato preventivo non deve essere usato in modo abusivo (solo per bloccare i creditori in assenza di un intento realmente concordatario). Ad esempio, presentare un concordato al solo scopo di evitare un fallimento imminente, senza una reale proposta di soddisfacimento creditori, è comportamento sanzionato. Con il CCII questo principio è ribadito dall’art. 4 (doveri di leale collaborazione), e i giudici possono dichiarare inammissibile la domanda se l’imprenditore, durante la procedura, tiene condotte in frode o viola gli obblighi informativi e di trasparenza. Casi pratici hanno visto la revoca dell’ammissione al concordato quando è emerso che il debitore occultava attivi o favoriva indebitamente alcuni creditori: in un caso, per dire, un tribunale ha revocato il concordato e aperto il fallimento perché l’imprenditore aveva continuato a pagare “sottobanco” un creditore amico durante la protezione, violando la par condicio.

In definitiva, il concordato preventivo rimane uno strumento fondamentale a disposizione del debitore per gestire la crisi con il consenso dei creditori, evitando la soluzione distruttiva della liquidazione giudiziale. Tuttavia, richiede una preparazione attenta, piani realistici e il rispetto rigoroso delle regole di trasparenza e correttezza, sotto pena di fallimento. Vediamo ora una delle innovazioni del 2021 che arricchisce il panorama: il concordato semplificato, pensato come extrema ratio dopo una composizione negoziata fallita.

Il Concordato “Semplificato” per la Liquidazione del Patrimonio

Tra le innovazioni apportate dal D.L. 118/2021 (poi inserite nel Codice) vi è il concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio (art. 25-sexies CCII). Si tratta di una procedura concorsuale speciale, attivabile solo dal debitore e solo a valle di una composizione negoziata che non abbia avuto successo. In altre parole, è un’opzione riservata all’imprenditore che, dopo aver tentato senza esito un accordo stragiudiziale con l’aiuto dell’esperto, vuole evitare il fallimento proponendo ai creditori una soluzione liquidatoria “semplificata” davanti al tribunale. La “semplificazione” rispetto al concordato ordinario consiste principalmente nell’assenza della fase di voto dei creditori: la proposta viene valutata ed eventualmente omologata direttamente dal tribunale, sentiti i creditori, ma senza adunanza e senza necessità di approvazione da parte loro. Ciò rende la procedura molto più snella (e veloce), giustificata dal fatto che è l’ultima spiaggia dopo il fallimento delle trattative.

Presupposti di accesso: Per accedere al concordato semplificato occorre soddisfare due condizioni fondamentali: (1) aver formalmente avviato e concluso una composizione negoziata della crisi con un esperto nominato (le trattative devono essere terminate, indipendentemente dal motivo, come recita l’art. 25-sexies modificato nel 2024); (2) trovarsi ancora in stato di crisi o insolvenza (ossia la situazione non si è risolta, cosa prevedibile se si ricorre al semplificato). In pratica, nessuna delle soluzioni previste dall’art. 23 CCII è stata realizzata con successo durante la composizione: non si è raggiunto un accordo extragiudiziale soddisfacente, né un piano attestato fattibile, né un accordo di ristrutturazione omologato, né l’impresa ha richiesto altre procedure ordinarie come concordato preventivo o amministrazione straordinaria. Solo in tal caso “si sblocca” la possibilità del semplificato. Inoltre, la legge richiede che il debitore abbia tenuto un comportamento corretto e leale durante le trattative: l’esperto nella relazione finale deve attestare che l’imprenditore ha negoziato in buona fede, fornendo le informazioni dovute e non sabotando le discussioni. Se emergono condotte opportunistiche (es. l’imprenditore ha nascosto dati, o ha fatto proposte irragionevoli per provocare il fallimento delle trattative), il concordato semplificato può essere negato perché inammissibile per mancanza di buona fede. La giurisprudenza ha già confermato questo approccio: il Tribunale di Napoli, con decreto del 25 ottobre 2023, ha revocato l’ammissione a un concordato semplificato e aperto la liquidazione giudiziale quando ha rilevato che l’imprenditore non aveva condotto le trattative in modo genuino e collaborativo. Dunque l’elemento morale (la meritevolezza del debitore) è cruciale in questo contesto.

Ulteriore condizione: la domanda di concordato semplificato va presentata entro 60 giorni dalla comunicazione della relazione finale dell’esperto. È un termine perentorio: scaduto il quale, il debitore perde la chance del semplificato e resteranno solo le procedure concorsuali ordinarie (ossia i creditori potranno eventualmente chiedere il fallimento). Questa tempistica stringente serve ad evitare che il debitore tergiversi troppo dopo la composizione negoziata fallita, lasciando magari aggravare ulteriormente la situazione.

Caratteristiche del concordato semplificato: La procedura è concorsuale ma priva della fase deliberativa dei creditori. Il debitore deve comunque presentare un piano e una proposta da sottoporre al tribunale e ai creditori. Il piano è tipicamente un piano liquidatorio: può prevedere, ad esempio, la vendita in blocco dell’azienda oppure la liquidazione analitica dei beni con modalità anche competitive, eventualmente con l’intervento di un nuovo investitore che acquisti asset. Il valore ricavato verrà poi distribuito ai creditori secondo la proposta del debitore. La proposta indica quanta percentuale otterranno i creditori (o le singole classi di creditori, se sono previste classi anche qui) e in che tempi. Non essendoci il voto, la proposta deve essere articolata in modo da risultare equa e conveniente per i creditori, perché sarà il giudice a valutarla in sede di omologa. La legge – curiosamente – non fissa neanche per il concordato semplificato una soglia minima di soddisfacimento dei chirografari (diversamente dal concordato ordinario): in teoria si potrebbe proporre qualsiasi percentuale, ma chiaramente una proposta troppo bassa rischierebbe di non superare il vaglio di convenienza del tribunale. È dunque implicito che anche nel semplificato i creditori debbano ricevere almeno quanto riceverebbero nella liquidazione giudiziale del debitore (principio generale di convenienza).

L’iter procedurale prevede che il tribunale, ricevuta la domanda, svolga un’istruttoria simile a quella del concordato ordinario: nomina un Commissario Giudiziale (può essere lo stesso esperto della composizione negoziata, in funzione di continuità informativa), il quale raccoglie informazioni e redige una relazione per il giudice. I creditori vengono informati della proposta e possono far pervenire osservazioni o opposizioni entro un certo termine, pur non essendovi un voto formale. All’udienza di omologazione, il tribunale sente eventualmente i creditori presenti e valuta il tutto. Può omologare il concordato se ritiene soddisfatte le condizioni di legge (procedura corretta, meritevolezza del debitore, convenienza del piano per i creditori). In caso contrario rigetta l’omologa (dichiarando magari contestualmente la liquidazione giudiziale dell’imprenditore).

Un aspetto dibattuto è stato quello delle misure protettive nel concordato semplificato: il testo originario del CCII non menzionava la possibilità per il debitore di chiedere lo stay delle azioni esecutive nella fase di concordato semplificato (art. 54 e 55 CCII sulle misure protettive citavano solo composizione negoziata, concordato preventivo e altre procedure). Ci si chiedeva quindi se durante il processo di omologazione del semplificato l’impresa fosse protetta dai creditori. I primi orientamenti giurisprudenziali erano discordanti: ad esempio il Tribunale di Torino (decr. 25 novembre 2022) negò l’applicabilità delle misure protettive al semplificato ritenendo che il legislatore avesse fatto una scelta precisa di esclusione, mentre il Tribunale di Milano (decr. 16 settembre 2022) sostenne la tesi opposta, concedendo misure protettive in via analogica. Nel 2023 si è andata formando una prevalente giurisprudenza di merito favorevole all’applicazione estensiva delle norme sugli stay anche al concordato semplificato, considerandola una “dimenticanza” del legislatore corretta dai giudici. Molti tribunali (es. Lagonegro 2/2/2023; Avellino 23/3/2023) hanno quindi concesso la sospensione delle azioni esecutive pure in pendenza di semplificato, per evitare corse dei creditori che vanificherebbero la procedura. Ad oggi, si può affermare che è pacifico ritenere applicabili al concordato semplificato le misure protettive ex art. 54 CCII, di fatto colmando il vuoto normativo. Il debitore, quindi, quando presenta la domanda di semplificato, con essa può chiedere al tribunale la sospensione delle azioni esecutive contro di lui fino all’omologazione.

Durante la pendenza del concordato semplificato, l’impresa rimane in mano al debitore (salvo diversa disposizione del tribunale) e il Commissario vigila sulla gestione. Non essendoci votazione, il ruolo dei creditori si limita a poter presentare opposizioni all’omologa se ritengono che il piano li danneggi ingiustamente o non rispetti la legge. All’udienza di omologa, il giudice valuta anche queste eventuali opposizioni. Un caso interessante è quello in cui uno o più creditori presentino istanza di fallimento nel frattempo: la legge prevede che se pende una domanda di concordato, l’istanza di liquidazione giudiziale (fallimento) non possa essere accolta sino a quando il concordato non viene deciso (principio generale di prevalenza del concordato). La giurisprudenza ha confermato che questo vale anche per il concordato semplificato: se un creditore chiede il fallimento durante il procedimento semplificato, il giudice dovrà comunque prima decidere sull’omologa del concordato semplificato, respingendola o accogliendola, e solo se la respinge potrà dichiarare la liquidazione giudiziale. Quindi il debitore, depositando la domanda di semplificato, ottiene di bloccare temporaneamente le iniziative dei creditori volte al fallimento, almeno finché la sua proposta non sia valutata.

Effetti dell’omologazione: Se il tribunale omologa il concordato semplificato, nomina uno o più liquidatori giudiziali incaricati di dare esecuzione al piano di liquidazione (in genere viene nominato lo stesso commissario). Il liquidatore procede quindi a vendere i beni secondo le modalità stabilite (o a sovrintendere all’eventuale trasferimento dell’azienda a un terzo) e distribuisce il ricavato ai creditori secondo le percentuali indicate in proposta. Terminata la liquidazione e i riparti, il tribunale dichiara chiusa la procedura. Il debitore persona fisica può chiedere la completa esdebitazione per eventuali debiti rimasti insoddisfatti, alle condizioni di legge. In sostanza, la finalità del concordato semplificato è identica a quella di un fallimento con proposta di concordato: chiudere la crisi liquidando l’attivo, ma con la differenza che il piano di liquidazione è stato proposto dal debitore stesso e supervisionato dal tribunale senza il passaggio assembleare.

Cassazione sul concordato semplificato: Sebbene istituto nuovo, la Corte di Cassazione è già intervenuta (Sez. I, sent. 9730/2023) chiarendo alcuni punti chiave. Ha affermato che il concordato semplificato, pur avendo peculiarità proprie (assenza di voto, ecc.), rientra a pieno titolo nel novero delle procedure concorsuali al pari del concordato preventivo. Ciò comporta, ad esempio, che ai fini della competenza territoriale si applicano in via analogica le stesse regole (irrilevanza di trasferimenti di sede nell’anno antecedente) previste per le altre procedure concorsuali. La Cassazione ha infatti sottolineato la continuità normativa tra il D.L. 118/2021 (che ha istituito il semplificato) e il CCII, evidenziando che l’art. 28 CCII esclude la rilevanza di spostamenti di sede/COMI nell’anno prima per tutte le domande di accesso agli strumenti di regolazione della crisi. Questa pronuncia rassicura sulla cornice giuridica: il concordato semplificato non è un’anomalia giuridica ma segue – per quanto compatibile – la disciplina generale dei concordati.

In pratica, il concordato semplificato è uno strumento sui generis e di uso limitato (perché richiede il passaggio dalla composizione negoziata), ma rappresenta una chance importante per il debitore “onesto ma sfortunato” di evitare il disonore del fallimento, dando comunque ai creditori la migliore soddisfazione possibile in una liquidazione controllata. Nella sezione sulle simulazioni pratiche vedremo un esempio concreto di concordato semplificato proposto dopo la composizione negoziata fallita (EcoBuild S.r.l.).

Gli Accordi di Ristrutturazione dei Debiti (ARD)

Gli accordi di ristrutturazione dei debiti, spesso abbreviati in ARD, sono uno strumento ibrido tra un accordo privatistico e una procedura concorsuale giudiziale. Introdotti nell’ordinamento già prima della riforma (art. 182-bis l.f. nel 2005) e ora disciplinati dagli artt. 57-64 CCII, gli ARD consentono al debitore di negoziare con i propri creditori un piano di ristrutturazione dei debiti e degli attivi, raggiungere un accordo vincolante con una parte significativa di essi e poi chiederne l’omologazione al tribunale. Una volta omologato, l’accordo diviene efficace e vincola i creditori aderenti (ed in certi casi anche alcuni non aderenti). È dunque una via di mezzo: non coinvolge tutti i creditori come un concordato, ma non è neanche totalmente extra-giudiziale, perché richiede comunque il placet del tribunale e offre alcuni effetti protettivi tipici delle procedure concorsuali.

Requisiti e funzionamento base: Per poter omologare un accordo di ristrutturazione classico, il debitore deve aver ottenuto l’adesione di almeno il 60% dei crediti totali (in valore). Non è necessario che il 60% includa tutti i tipi di creditori: l’importante è la percentuale sull’ammontare complessivo dei debiti. I creditori che aderiscono sottoscrivono l’accordo accettando le condizioni proposte (ad es. stralcio di una parte di credito, dilazione del pagamento sulla restante parte, conversione di crediti in strumenti partecipativi come quote o obbligazioni, ecc.). I creditori non aderenti invece non sono vincolati dall’accordo – continueranno ad avere le loro pretese per intero – salvo alcuni casi particolari di estensione degli effetti di cui diremo a breve. L’accordo, una volta firmato dai creditori sufficienti, viene depositato in tribunale insieme a una relazione di un professionista attestatore che dichiara la fattibilità del piano e l’idoneità dell’accordo ad assicurare l’integrale pagamento dei creditori estranei nei termini di legge (generalmente 120 giorni per i privilegiati o nei tempi a scadenza per i creditori non scaduti). Il tribunale, verificati i presupposti, omologa l’accordo, rendendolo efficace anche nei confronti di eventuali creditori dissenzienti limitatamente a alcuni aspetti (per gli aderenti ovviamente è un contratto vincolante). L’omologazione comporta anche alcuni vantaggi: ad esempio i creditori che hanno aderito e vengono soddisfatti secondo l’accordo non possono poi agire in revocatoria fallimentare contro il debitore se questo, malauguratamente, fallisse in seguito.

Vantaggi rispetto al concordato: Gli ARD hanno costi procedurali inferiori e minore pubblicità: coinvolgono di fatto solo i creditori con cui si raggiunge l’intesa, ed evitano l’assemblea di voto con tutti i creditori che invece caratterizza il concordato. Possono essere molto rapidi se c’è un consenso pre-definito. L’impatto reputazionale sull’azienda è contenuto (in molti casi l’accordo viene depositato e omologato in tempi brevi, con minore clamore). Lo svantaggio è che richiedono un alto grado di consenso iniziale: se i creditori sono molti e frammentati, oppure le posizioni sono troppo divergenti, è difficile anche arrivare al 60% di adesione. Sono dunque indicati specialmente per imprese con pochi creditori principali o con crisi prevalentemente finanziaria concentrata sulle banche. Tipicamente, in un ARD ben riuscito, le banche (creditori finanziari) accettano di rinegoziare i mutui (allungare le scadenze, ridurre i tassi, talvolta fare un haircut sul capitale dovuto o convertire parte del credito in capitale sociale), e magari qualche fornitore strategico concede dilazioni o rinuncia a interessi di mora. I creditori minori e il fisco di solito vengono pagati integralmente, per non doverli coinvolgere nell’accordo.

Varianti introdotte dal CCII: Negli ultimi anni gli accordi di ristrutturazione sono stati oggetto di miglioramenti legislativi che il CCII ha consolidato. In particolare:

  • L’accordo di ristrutturazione agevolato (art. 61 CCII): il debitore che abbia già ottenuto adesioni di almeno il 30% dei crediti può chiedere subito al tribunale misure protettive e cautelari mentre prosegue le trattative per raggiungere il quorum del 60%. È una sorta di “pre-accordo” che consente di proteggere l’impresa dagli attacchi dei creditori durante la fase di negoziazione avanzata. In pratica, con il 30% di firme, il tribunale può sospendere le azioni esecutive per dare tempo di convincere altri creditori ad aderire (entro un termine). Questo strumento agevola il debitore che è a buon punto ma non ancora al 60%.
  • L’accordo ad efficacia estesa (art. 61, co. 3-4 CCII): consente di estendere gli effetti dell’accordo anche ai creditori dissenzienti appartenenti a determinate categorie omogenee, purché abbia aderito una stragrande maggioranza di essi. In particolare, se l’accordo coinvolge banche e intermediari finanziari, ed essi rappresentano almeno il 75% dei crediti di quella categoria, il tribunale può omologare l’accordo estendendone gli effetti anche alle banche/intermediari finanziari che non hanno aderito. Ciò vale per misure come ad esempio una moratoria congiunta: se il 85% delle banche accetta di congelare i mutui per 6 mesi, l’accordo può imporlo anche al 15% di banca dissenziente rimasta, evitando comportamenti opportunistici di singoli istituti. Un esempio l’abbiamo visto sopra: Gamma S.p.A. ha ottenuto dalle principali banche una moratoria e ciò è stato reso vincolante anche per la banca minoritaria non aderente grazie a questa regola. L’efficacia estesa è prevista anche per eventuali categorie di obbligazionisti (con soglie analoghe). Questa novità risolve un problema classico: un singolo creditore finanziario “holdout” non può far saltare la ristrutturazione se quasi tutti gli altri istituti bancari sono d’accordo.
  • Transazione fiscale e previdenziale negli accordi: analogamente al concordato, il CCII chiarisce che il debitore può includere nell’accordo la proposta di pagamento parziale o dilazionato dei debiti tributari e contributivi (cd. transazione fiscale). Se l’Erario e l’INPS aderiscono all’accordo, ne restano ovviamente vincolati. Se non aderiscono, ma l’accordo viene approvato dalla maggioranza degli altri creditori e la proposta rivolta al Fisco era conveniente, il tribunale può omologare l’accordo anche senza il loro assenso, con efficacia limitata però all’esdebitazione finale verso gli enti fiscali. In sostanza, si introduce un cram-down fiscale anche in sede di accordo di ristrutturazione: l’accordo può essere omologato e concluso, e se il Fisco non aveva aderito si ritroverà comunque esdebitato per la quota eccedente pagata a fine procedura, come se avesse aderito. Questo meccanismo incentiva il Fisco a sedersi al tavolo, sapendo che se rifiuta una proposta vantaggiosa potrebbe essere bypassato (entro certi limiti). Naturalmente il tribunale verifica che l’offerta al Fisco fosse equa (in termini di percentuale e tempi) e che il rifiuto sia ingiustificato. Questo istituto è parallelo a quello previsto nel concordato preventivo per vincere l’opposizione del Fisco alla proposta (art. 63 CCII per gli accordi, analogo all’art. 88 per il concordato).
  • Esperto facilitatore negli accordi: il CCII menziona la possibilità che, su richiesta del debitore, sia nominato un ausiliario esperto per agevolare la negoziazione con i creditori anche negli accordi di ristrutturazione. Di fatto, però, questa figura è ridondante perché la composizione negoziata ha proprio questo scopo nella fase precedente. Nella pratica, quindi, raramente si nomina un esperto ad hoc per l’accordo se l’impresa ha già eventualmente usufruito della composizione negoziata.

In conclusione, gli accordi di ristrutturazione rappresentano uno strumento molto potente per le imprese che riescono a coinvolgere attivamente i loro principali creditori in un piano di risanamento senza passare per le formalità del concordato. Consentono di cucire su misura la soluzione con i partner finanziari e commerciali più importanti, mantenendo riservatezza e controllo. Hanno però un “tallone d’Achille” – la necessità di un iniziale forte consenso – che li rende impraticabili in situazioni di elevata conflittualità o con troppi creditori minori. Spesso, comunque, sono utilizzati in combinazione: ad esempio un’azienda con poche banche ma molti fornitori può fare un accordo con le banche (che sistemano l’80% del debito) e contemporaneamente presentare un concordato per falcidiare il restante 20% diffuso tra piccoli creditori, oppure pagare fuori accordo i piccoli integralmente e accordarsi solo con le banche. Il sistema è flessibile e permette queste soluzioni ibride.

I Piani Attestati di Risanamento

Il piano attestato di risanamento è lo strumento più snello e totalmente extra-giudiziale previsto dall’ordinamento: disciplinato dall’art. 56 CCII (che riprende l’art. 67, co. 3, lett. d) della vecchia legge fallimentare), consiste in un piano di risanamento concordato in via privata tra il debitore e i suoi creditori, corredato da una relazione di un professionista indipendente che attesta la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano. La caratteristica principale è che non richiede omologazione del tribunale né soglie predefinite di adesione: è essenzialmente un accordo contrattuale tra debitore e creditori, validato però da un “sigillo” tecnico dato dall’attestazione indipendente. Lo scopo è duplice: da un lato offrire all’impresa uno strumento flessibile, rapido e riservato per ristrutturare il debito (fuori dalle aule giudiziarie); dall’altro, assicurare una protezione legale a taluni atti compiuti in esecuzione del piano, in particolare l’esenzione da azioni revocatorie fallimentari in caso di successivo fallimento (art. 166, co.3 CCII). Ciò significa che se il debitore esegue un pagamento o concede una garanzia ai creditori in attuazione di un piano attestato e poi fallisce, il curatore non potrà revocare quei pagamenti/garanzie come preferenziali, purché il piano fosse regolarmente attestato e pubblicato (se richiesto). Questa è la principale utilità “legale” del piano attestato.

Elaborazione e contenuto del piano: Il piano di risanamento viene di solito predisposto con l’ausilio di consulenti aziendali o finanziari. Deve essere un documento molto dettagliato che analizza le cause della crisi, la situazione economico-patrimoniale attuale e prospettica, e descrive le misure che l’imprenditore intende adottare per superare la crisi e ritornare in equilibrio. Tali misure possono includere: ristrutturazione del debito (ad esempio accordi di standstill con le banche, stralcio parziale di crediti con saldo e stralcio, conversione di parte del debito in capitale sociale), dismissione di asset non strategici per fare cassa, riduzione costi operativi, nuovi apporti di capitale da parte dei soci o di investitori, ricorso a ammortizzatori sociali per il personale, ecc.. L’insieme di queste azioni deve ragionevolmente riportare l’impresa in bonis entro un certo orizzonte temporale (di solito 3-5 anni). Importante: non esiste un requisito di adesione minima dei creditori – a differenza di accordi e concordati – poiché il piano attestato può anche coinvolgere solo alcuni creditori, lasciandone fuori altri (magari perché vengono pagati regolarmente). Ovviamente, perché il piano abbia efficacia, devono aderire abbastanza creditori da rimuovere lo stato di crisi: ma la legge non impone percentuali rigide, è questione di sostanza economica. Ad esempio, il debitore può fare un piano con le banche in cui queste concordano una ristrutturazione, mentre paga integralmente e a scadenza i fornitori e il Fisco: in tal caso il piano riguarderà solo i creditori bancari, ma potrà comunque risolvere la crisi se erano quelle esposizioni finanziarie a creare squilibrio. La flessibilità contrattuale è totale. È prassi comunque formalizzare l’accordo con i creditori coinvolti attraverso atti scritti (contratti di ristrutturazione del debito bilaterali, moratorie, accordi quadro). Non è richiesta la firma di tutti i creditori: il piano può procedere anche con adesioni parziali, finché l’imprenditore ritiene di poter gestire quelli rimasti fuori (che magari verranno comunque soddisfatti per evitare problemi, oppure sono irrilevanti in valore). L’assenza di vincolo concorsuale però significa che i creditori che non aderiscono non sono in alcun modo toccati dal piano – possono quindi agire autonomamente per recuperare i loro crediti se scaduti. Per questo motivo, in genere il debitore cerca di includere nel piano attestato tutti i creditori principali o comunque di assicurare il pagamento integrale e tempestivo a quelli che restano estranei, così da evitare azioni distruttive.

Attestazione del professionista: Ciò che trasforma un semplice accordo privato in un “piano attestato” è la relazione giurata di un professionista indipendente. Deve trattarsi di un soggetto in possesso dei requisiti di professionalità ed indipendenza analoghi a quelli richiesti per gli attestatori nei concordati (es. commercialista o revisore, senza rapporti di interesse col debitore né coi creditori). L’attestatore viene incaricato dall’imprenditore e svolge un’analisi approfondita del piano e dei dati aziendali. Nella sua relazione egli dichiara: (a) di aver verificato la veridicità dei dati aziendali di partenza (quindi che bilanci, situazione finanziaria e quant’altro non contengono falsificazioni o omissioni rilevanti), e (b) che il piano è fattibile e idoneo a risanare l’impresa. In particolare, deve attestare che, se il piano viene eseguito integralmente, l’impresa supererà lo stato di crisi e riacquisterà equilibrio finanziario. Questa attestazione è determinante: se in seguito l’impresa fallisse, sarà scrutinata per valutare l’eventuale esenzione in revocatoria. Per darle data certa, di solito la relazione viene giurata (davanti a notaio o cancelleria) e spesso si deposita una comunicazione di sintesi presso il registro imprese per pubblicità (non obbligatoria, ma utile ai fini delle revocatorie).

Esecuzione del piano: Una volta ottenuta l’adesione necessaria dei creditori coinvolti e l’attestazione, l’impresa mette in atto il piano. Non c’è alcun controllo giudiziario durante l’esecuzione: sta tutto alla capacità del debitore di realizzare le azioni promesse. I creditori aderendovi ovviamente confidano che l’attuazione vada a buon fine – ma se qualcosa va storto, gli accordi presi vincolano comunque le parti secondo il loro tenore (ad es., se il piano prevedeva cancellazione del 30% del debito per chi ha aderito, quel 30% resta cancellato anche se poi l’impresa non risana e fallisce). In caso di successivo fallimento, come detto, i pagamenti e le garanzie concessi in esecuzione del piano non potranno essere soggetti a revocatoria, se il piano soddisfaceva i requisiti di attestazione e se (come richiesto dal Codice) è stato pubblicato presso il registro delle imprese entro 30 giorni dalla sottoscrizione degli accordi con i creditori (la pubblicazione è condizione essenziale per l’esenzione da revocatoria: il piano va depositato o quantomeno va depositato un estratto con attestazione e elenco dei creditori aderenti – art. 56, co.2 CCII).

In definitiva, il piano attestato è uno strumento rapido, riservato e flessibile: si evita di entrare in procedura concorsuale, si tiene la questione confinata tra impresa e creditori coinvolti, e si ha l’unica formalità dell’attestazione. Lo svantaggio è che non offre protezione generale durante le trattative (i creditori estranei possono agire) e non vincola i dissenzienti: basta un creditore importante che non voglia aderire per far fallire l’intera operazione (a meno di soddisfarlo integralmente fuori piano). Pertanto funziona bene in situazioni di crisi reversibile contenuta, dove c’è la disponibilità delle parti a cooperare. Se invece l’impresa è in dissesto più grave o ci sono troppi attori, spesso il piano attestato non è sufficiente e occorre un accordo omologato o un concordato. È comunque prassi diffusa che molte ristrutturazioni inizino come piano attestato, e solo se esso fallisce si passi a strumenti concorsuali.

Prima di passare oltre, ricordiamo che il piano attestato ha come fine ultimo non solo il riscadenzamento del debito ma proprio il risanamento aziendale: il professionista deve poter dire che l’impresa tornerà solvibile e in equilibrio grazie al piano. Non è quindi adatto per casi disperati dove si sa già che l’impresa non ha futuro (in tali situazioni si opta per concordati liquidatori o procedure di liquidazione). Il suo campo elettivo sono le crisi temporanee, dove un serio riassetto può salvare il business.

Il Piano di Ristrutturazione Omologato (PRO)

Tra le novità più rilevanti apportate dal recepimento della Direttiva UE 2019/1023 c’è l’introduzione nel nostro ordinamento del Piano di Ristrutturazione Omologato (PRO). Questo istituto, disciplinato dagli artt. 64-bis – 64-ter CCII (inseriti col D.Lgs. 83/2022), rappresenta di fatto una versione italiana del “piano di ristrutturazione” previsto dalla direttiva europea sui quadri di ristrutturazione preventiva. Il PRO si colloca a metà strada tra un accordo negoziato e un concordato preventivo: è una procedura concorsuale a tutti gli effetti (sottoposta all’omologazione del tribunale), ma con maggiore flessibilità di contenuti e consenso richiesto dai creditori.

In un PRO, il debitore propone un piano suddividendo i creditori in classi secondo le regole del concordato, ma con la significativa differenza che tutte le classi devono essere favorevoli per ottenere l’omologazione (salvo il meccanismo di cram-down interclassi introdotto dal correttivo-ter, di cui diremo). In sostanza è un piano concordatario “colloquiale”: non c’è una votazione formale con maggioranza di legge, ma piuttosto si cerca l’adesione espressa di ciascuna classe di creditori. Questo implica, in origine, una sorta di unanimità per classi. Tuttavia, il vantaggio per il debitore è una notevole libertà nella struttura del piano: il PRO non deve rispettare alcune rigidità tipiche del concordato preventivo. Ad esempio, non valgono i limiti del 20% ai chirografari né dell’apporto esterno del 10% neppure se il piano è liquidatorio. Quindi è ammissibile un PRO che proponga di pagare i creditori chirografari meno del 20% senza nuovi apporti, cosa che non sarebbe consentita in un concordato preventivo liquidatorio. Ovviamente, per convincere i creditori a votarlo, dovrà comunque offrire loro il massimo possibile – ma la legge non preclude soluzioni anche drastiche se giustificate. Inoltre, il PRO consente deroghe al principio di pari trattamento tra creditori di pari rango, purché inserite in classi e accettate dalle classi medesime. Ad esempio, in un PRO si potrebbe prevedere che una certa classe di chirografari prenda il 5% e un’altra classe di chirografari strategici il 30%, se entrambe le classi acconsentono (nel concordato classico ciò sarebbe problematico senza absolute priority rule). Il PRO, essendo pensato come strumento “friendly”, punta ad assicurare la massima autonomia negoziale: i creditori, opportunamente divisi in classi, contrattano il contenuto del piano e se tutti (o quasi) concordano, il tribunale omologa. In un certo senso, è assimilabile a un “concordato concordato” (gioco di parole voluto) più che a un concordato imposto a maggioranza.

Proceduralmente, il PRO si avvia con un ricorso al tribunale analogamente al concordato. Il debitore deposita il piano e la proposta per classi, con la relazione di un attestatore indipendente. Il tribunale svolge un esame di ammissibilità e convoca le classi per esprimersi sul piano. Non vi è un voto a maggioranza all’interno di ciascuna classe come nel concordato preventivo, bensì l’adesione del singolo creditore o il suo dissenso. Se tutti i creditori di una classe aderiscono, la classe è favorevole; se ce n’è anche solo uno contrario, la classe è dissenziente. Di conseguenza, inizialmente il CCII prevedeva che tutte le classi dovessero essere favorevoli per poter omologare (consenso unanime per classi). Il correttivo-ter 2024 ha parzialmente mitigato questa regola introducendo anche qui il cram-down interclassi: oggi, in base al nuovo art. 64-ter, co.6 CCII, il tribunale può omologare il PRO anche senza l’approvazione unanime di tutte le classi, purché il piano abbia ottenuto il voto favorevole di almeno il 75% in valore dei crediti complessivi e ricorrano alcune condizioni di equità nel trattamento delle classi dissenzienti analoghe a quelle del cram-down nel concordato. In pratica, è ora possibile omologare un PRO anche se una classe minoritaria (che rappresenti ad es. il 10-20% dei crediti) non è d’accordo, a condizione che: (a) il PRO soddisfi comunque il test del “miglior interesse dei creditori” (nessun creditore dissenziente prenderebbe di più in alternativa liquidatoria); (b) la classe dissenziente sia trattata in modo non inferiore a qualsiasi altra classe di pari rango e non superiore a classi inferiori (absolute priority rispettata, salvo consenso alla deroga). Questa apertura rende il PRO più praticabile, allineandolo ai meccanismi delle procedure di insolvenza internazionali (Chapter 11, Scheme of Arrangement, etc.).

Quando utilizzare un PRO: Nella visione del legislatore, il PRO è indicato per ristrutturazioni complesse dove il debitore ha bisogno di flessibilità massima e i creditori qualificati sono coinvolti attivamente. Ad esempio, può essere lo strumento ideale quando c’è da gestire debiti finanziari con diverse categorie di investitori, o quando si vuole prevedere operazioni straordinarie atipiche (fusioni, conversioni di crediti in equity con opt-out per chi non vuole aderire, ecc.) che in un concordato standard sarebbero complicate. Dà anche la possibilità di evitare l’apporto di finanza esterna se i creditori concordano su ciò, e di trattare in modo differenziato situazioni variegate. In fondo, se si riesce a costruire il consenso di tutti i principali stakeholder, perché sottostare alle rigidità di un concordato con voto a maggioranza? Il PRO consente loro di pattuire liberamente come spartirsi i sacrifici e come strutturare il rilancio dell’impresa, con il solo vincolo di dover includere tutti i creditori (ognuno in qualche classe, per non lasciarne fuori con pretese intatte).

Differenze rispetto all’accordo di ristrutturazione: Si può notare che il PRO assomiglia a un accordo di ristrutturazione esteso a tutti i creditori e con classi e cram-down. La differenza sostanziale è che nel PRO tutti i creditori (anche quelli dissenzienti in minoranza) subiscono gli effetti, come in un concordato. Nell’accordo di ristrutturazione invece i non aderenti restano fuori (salvo eccezioni per banche e fisco). Quindi il PRO è più onnicomprensivo. Inoltre, il PRO può prevedere alterazioni di diritti dei soci (ad esempio, come da direttiva UE, il tribunale può anche imporre un aumento di capitale con nuove azioni offerte ai creditori, diluendo i soci attuali, anche senza il loro consenso). Insomma, è uno strumento di ristrutturazione totale dell’impresa. Il rovescio della medaglia è che è più impegnativo (va coinvolto praticamente l’intero ceto creditorio). Per questo, nella pratica italiana ancora i PRO omologati sono stati pochi: molte imprese in difficoltà hanno preferito l’accordo di ristrutturazione tradizionale se avevano pochi creditori chiave, o il concordato se serviva imporre a tanti dissenzienti. Tuttavia, si prevede che col tempo il PRO possa trovare applicazione in operazioni di ristrutturazione aziendale di medio-grandi dimensioni, specie con la nuova possibilità di cram-down sulle classi dissenzienti.

Esempio pratico – Uso del PRO: Sigma S.p.A. è una società immobiliare in crisi, debitrice di 3 banche ipotecarie (A, B, C) per complessivi 30 milioni, di alcuni fornitori chirografari per 2 milioni e dell’Erario per 3 milioni di IVA arretrata. L’unico asset rilevante di Sigma è un grande immobile (valore stimato 20 milioni). Sigma trova un investitore disposto a rilevare l’immobile, ma offrendo solo 15 milioni data la crisi del mercato. Se Sigma vendesse l’immobile a 15, le banche ipotecarie – che hanno 30 di credito su quel bene – subirebbero una decurtazione del 50%. Nel fallimento, probabilmente la vendita porterebbe anche meno (forse 12-13 milioni). Sigma elabora un Piano di Ristrutturazione Omologato così strutturato: divide i creditori in 2 classi, Classe 1 le banche ipotecarie A, B, C, Classe 2 tutti gli altri (fornitori e Erario). Propone di vendere l’immobile all’investitore per 15 milioni; distribuire 14 milioni alle banche ipotecarie (che quindi prendono circa il 47% dei loro crediti, ma subito e senza ulteriori spese) e 1 milione alla classe 2, da ripartire pro-quota tra fornitori (che così prendono ~20%) ed Erario (che prenderebbe ~300k, pari al 10% del suo credito). Il PRO dunque è liquidatorio, con percentuali sotto il 20% per i chirografari, cosa che in un concordato sarebbe inammissibile, ma qui lecita. Si prevede zero apporto esterno (anche questo sarebbe vietato in un concordato, ma in PRO è lecito). Le banche ipotecarie, fatte periziare le stime, accettano perché preferiscono incassare 14 milioni subito anziché rischiare 12 in caso di fallimento (e perdere tempo); fornitori ed Erario, pur scontenti, ammettono che in fallimento avrebbero preso zero, quindi convengono che 20% e 10% ora è il male minore. Tutte le classi aderiscono dunque (75% di consensi globali). Il tribunale omologa il PRO. Sigma cede l’immobile, paga le banche e gli altri come da piano. Viene dichiarata esdebitata dai debiti residui. I soci originari sono diluiti perché l’investitore ha condizionato l’operazione a un aumento di capitale post-omologa: il tribunale, in omologa, ha approvato l’aumento di capitale con esclusione del diritto di opzione dei vecchi soci, emettendo nuove azioni per un valore simbolico sottoscritte dall’investitore (anche ciò era fattibile grazie alle norme sui provvedimenti sul capitale nei quadri di ristrutturazione). Sigma S.p.A., di fatto acquisita dall’investitore, prosegue ora in bonis con un nuovo assetto e mission aziendale. I creditori, pur non soddisfatti integralmente, hanno ottenuto in tempi rapidi il miglior realizzo possibile.

Vale la pena notare che il correttivo-ter non ha introdotto modifiche significative al PRO oltre al citato cram-down, segno che il legislatore vuole prima vedere come verrà utilizzato dagli operatori. Potenzialmente, il PRO è lo strumento più innovativo e con taglio aziendalistico dell’intero CCII, perché consente operazioni di ristrutturazione finanziaria molto complesse e creative, un tempo possibili solo all’estero. Rappresenta l’aspirazione verso procedure concorsuali sempre più vicine a soluzioni negoziali su misura. Il successo pratico dipenderà dalla convenienza di imprese e creditori a imboccare questa strada, che richiede un elevato grado di sofisticazione e accordo.

La Liquidazione Giudiziale (il “nuovo Fallimento”)

Nonostante l’enfasi del Codice sul salvataggio e la ristrutturazione, rimane naturalmente la procedura destinata ai casi in cui l’insolvenza non può essere risolta: la liquidazione giudiziale, ossia il “fallimento” nella terminologia previgente. La liquidazione giudiziale è la procedura concorsuale liquidatoria per eccellenza, volta a soddisfare i creditori mediante la realizzazione coattiva di tutto il patrimonio del debitore insolvente e la distribuzione del ricavato secondo le cause legittime di prelazione. Vediamone i tratti salienti dal punto di vista del debitore.

Soggetti assoggettabili: Sono soggetti a liquidazione giudiziale gli imprenditori commerciali (individuali o collettivi) che versano in stato di insolvenza e che non rientrano nelle categorie di esenzione. Restano infatti esclusi, come in passato, i piccoli imprenditori sotto soglia e gli imprenditori agricoli. L’art. 121 CCII riprende i limiti dimensionali dell’art. 1 l.fall.: non può essere dichiarato fallito (liquidazione giudiziale) l’imprenditore che prova il possesso congiunto di requisiti di piccola dimensione (attivo annuo inferiore a €300.000, ricavi inferiori a €200.000, debiti non oltre €500.000, valori indicativi). Dunque una micro-impresa sotto tali soglie, se insolvente, non verrà sottoposta a liquidazione giudiziale ma potrà eventualmente accedere solo alle procedure di sovraindebitamento (vedi oltre). Quanto agli imprenditori agricoli, la loro storica esenzione dal fallimento è stata confermata espressamente: l’imprenditore agricolo non è soggetto a liquidazione giudiziale. In compenso, però, il CCII ha previsto per costoro specifiche procedure alternative (concordato minore, liquidazione controllata) che prima non avevano. In sintesi: restano esenti dal fallimento i soggetti tradizionalmente non fallibili – i piccoli e gli agricoli – che però oggi hanno comunque percorsi concorsuali ad hoc.

Presupposto oggettivo: Lo stato di insolvenza. Deve trattarsi di un’incapacità non transitoria di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni. Tipicamente si manifesta con inadempimenti o altri fattori esteriori (protesti, pignoramenti infruttuosi, ecc.). Non è necessario attendere che tutti i creditori siano rimasti impagati: basta anche un singolo debito rilevante scaduto e non pagato per evidenziare l’insolvenza, se ciò rivela mancanza di liquidità e impossibilità di far fronte al passivo complessivo. La giurisprudenza (anche recente) ha ribadito, ad esempio, che il mancato pagamento prolungato di debiti fiscali e contributivi può costituire prova di insolvenza, specie se accompagnato da altri sintomi (Cass. 12388/2022, in linea con orientamento consolidato). Oppure che la cessazione dell’attività e lo smantellamento dell’azienda configurano insolvenza in re ipsa per l’imprenditore che resti con debiti. Insomma, l’insolvenza è nozione fattuale, su cui la Cassazione continua a fornire criteri interpretativi, ma sostanzialmente invariata.

Organi e struttura della procedura: La liquidazione giudiziale si apre con una sentenza del tribunale, su ricorso del debitore stesso (istanza di auto-fallimento) oppure di un creditore o su richiesta del Pubblico Ministero. La sentenza di apertura è immediatamente esecutiva e comporta: la spossessamento del debitore dai suoi beni (che passano sotto la gestione di un Curatore), la nomina degli organi (Curatore e Giudice Delegato; inoltre viene formato un comitato dei creditori di 3 o 5 membri in rappresentanza delle varie categorie, che affianca il curatore con funzioni consultive e di controllo). Dal giorno della sentenza, il debitore perde la disponibilità e amministrazione del patrimonio: tutti i pagamenti da/ai creditori devono avvenire secondo le regole concorsuali. Le azioni esecutive individuali sono bloccate e confluiscono nella procedura. Il curatore, professionista nominato dal tribunale, ha il compito di gestire l’impresa eventualmente proseguendola se autorizzato (in ipotesi di esercizio provvisorio), di raccogliere le attività, vendere i beni e predisporre il piano di riparto tra i creditori. Egli redige anche un rapporto sulle cause del dissesto e sulle eventuali responsabilità degli amministratori. I creditori, dal canto loro, devono presentare le domande di insinuazione al passivo entro i termini, e viene formato lo stato passivo (l’elenco dei crediti ammessi, con indicazione se privilegiati, chirografari, ecc.) in sede di verifica davanti al Giudice Delegato. Questo per sommi capi – è la classica procedura fallimentare.

Effetti per il debitore: Per l’imprenditore individuale dichiarato in liquidazione giudiziale, oltre alla perdita dell’amministrazione dei beni e degli incassi futuri (che vanno alla massa attiva), vi sono effetti personali come l’interdizione dall’esercizio di attività d’impresa per la durata della procedura, la perdita di alcuni diritti civili (non può essere amministratore di altre società, etc., finché dura la procedura). Per le società, la sentenza di liquidazione giudiziale provoca lo scioglimento della società (sebbene la personalità giuridica permanga per fini liquidatori). Gli amministratori perdono le cariche. Le azioni dei soci sono bloccate. In pratica la società passa in mano al curatore per essere liquidata.

Svolgimento: La liquidazione può essere più o meno lunga a seconda della dimensione del patrimonio e delle controversie eventuali. Il curatore, una volta esaminate le attività, può decidere di proseguire temporaneamente l’azienda (se ciò aumenta il valore di realizzo) oppure procedere subito alla liquidazione. La legge incoraggia vendite unitarie dell’azienda o rami (per salvaguardare eventuale avviamento e livelli occupazionali). Se non possibile, si liquida bene per bene mediante aste competitive (anche telematiche). Il ricavato va a formare la massa da distribuire. Dopo aver soddisfatto i creditori in prededuzione (costi della procedura, dipendenti per alcune mensilità recenti) e i creditori privilegiati (ipotecari, pignoratizi, privilegi generali), l’eventuale residuo viene suddiviso proporzionalmente tra i chirografari. Spesso i chirografari non prendono nulla o molto poco. Conclusi i riparti, su istanza del curatore il tribunale dichiara chiusa la procedura.

Esdebitazione: Una delle innovazioni già introdotte dal 2006 e ripresa dal CCII è l’istituto dell’esdebitazione: il debitore persona fisica, una volta chiuso il fallimento (liquidazione giudiziale), può ottenere dal tribunale la cancellazione dei debiti residui non soddisfatti, purché abbia collaborato e non vi siano state condotte fraudolente (è una sorta di “fresh start”). Il CCII ha reso l’esdebitazione ancora più accessibile, prevedendo tra l’altro che per i debitori meritevoli essa possa essere concessa d’ufficio alla chiusura della procedura se non ci sono opposizioni. Inoltre, ha introdotto una particolare esdebitazione senza utilità per il debitore incapiente (art. 283 CCII): in taluni casi eccezionali un debitore persona fisica che non ha nulla da offrire ai creditori può vedersi cancellati i debiti, salvo obbligo morale di pagarli entro 4 anni se sopravviene capacità finanziaria. Ma questa è materia che attiene al sovraindebitamento, di cui sotto.

Rapporti con le altre procedure: La liquidazione giudiziale rappresenta l’ultima ratio. Se un debitore già pendente altra procedura minore (concordato, accordo, ecc.) viene dichiarato insolvente, la procedura minore si converte in liquidazione. Ad esempio, un concordato preventivo che non va a buon fine spesso sfocia in liquidazione giudiziale. Un accordo omologato non eseguito, su istanza dei creditori, può portare al fallimento. Insomma, l’ombrello finale è sempre la liquidazione forzata, per chi non riesce a risolvere la crisi diversamente.

Giurisprudenza di merito e di legittimità recente: Molte pronunce su questioni tecniche (ad es. su prededuzioni, su revocatorie, ecc.) continuano ad uscire. Una interessante riguarda la competenza territoriale in caso di spostamenti di sede: l’art. 27 CCII prevede, analogamente al passato, che se l’imprenditore ha trasferito la sede nell’anno precedente, la competenza resta del tribunale del luogo di sede originaria (per evitare forum shopping). La Cassazione ha già applicato questo principio anche al concordato semplificato, come visto, e ovviamente lo stesso vale per la liquidazione giudiziale: se un’impresa sposta la sede poco prima di fallire, quel trasferimento viene reputato irrilevante. Altra giurisprudenza ha riguardato la decorrenza dei termini per impugnare la sentenza di liquidazione: ad esempio Cass. 29742/2022 ha stabilito che se la notifica della sentenza via PEC ai soci illimitatamente responsabili non va a buon fine per loro colpa, il termine per il reclamo decorre comunque. Sul fronte amministratori, segnaliamo che, con l’introduzione degli obblighi di allerta interna (assetti adeguati), i curatori iniziano a citare in giudizio gli amministratori anche per aver omesso di adottare assetti adeguati ai sensi dell’art. 2086 c.c., come elemento di colpa nella cattiva gestione. C’è dunque da aspettarsi evoluzioni giurisprudenziali in tema di responsabilità e risarcimenti collegati a tale obbligo.

In sintesi, la liquidazione giudiziale resta ciò che era il fallimento: uno strumento di tutela dei creditori quando ogni altra soluzione è impraticabile. Per il debitore, comporta la perdita totale del patrimonio e la fine dell’attività d’impresa, ma offre anche la possibilità di ripartire pulito grazie all’esdebitazione (una volta soddisfatti i creditori con quanto possibile). La filosofia del CCII è far sì che si arrivi qui solo dopo aver tentato vie di uscita meno drastiche.

Procedure di Sovraindebitamento per Imprenditori Minori e Privati

Accanto alle procedure concorsuali “maggiori” fin qui descritte, il Codice della Crisi ha riordinato anche le procedure destinate ai debitori non fallibili, ossia i soggetti esclusi dalla liquidazione giudiziale: piccoli imprenditori, imprenditori agricoli, professionisti, start-up innovative, privati cittadini. In passato queste situazioni erano regolate dalla Legge 3/2012 (cosiddetta “legge salva-suicidi”). Dal 15 luglio 2022 la Legge 3/2012 è stata abrogata e sostituita dal Titolo IV del CCII, che disciplina in modo organico le procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento. L’obiettivo è offrire anche al piccolo debitore onesto ma sfortunato degli strumenti per liberarsi dai debiti in modo regolamentato, similmente a quanto avviene per le imprese con fallimento e concordato.

Le procedure previste sono principalmente tre: concordato minore, piano di ristrutturazione del consumatore e liquidazione controllata del sovraindebitato. Vediamole brevemente:

  • Concordato minore: è l’equivalente del concordato preventivo ma riservato ai debitori non fallibili (imprenditori sotto soglia, imprenditori agricoli, professionisti, enti non commerciali, start-up innovative). Si chiama “minore” non perché di minore importanza, ma perché destinato a crisi di dimensioni minori. Come il concordato, prevede la presentazione di un piano ai creditori e il voto di questi. La soglia di approvazione è per valore (maggioranza del 50% dei crediti ammessi al voto, salvo classi). Non esistono requisiti del 20% o 10% specifici, ma c’è una particolarità: nel concordato minore, a differenza del concordato preventivo, tutti i creditori votano (anche privilegiati e quelli pubblici) a meno che vengano pagati integralmente. Questo perché spesso i debiti fiscali o verso banche dominano la massa, e la legge ha previsto il loro coinvolgimento nel voto. Il concordato minore può anche non avere classi (spesso se la platea è ristretta non si complicano le cose). Serve sempre l’intervento di un Organismo di Composizione della Crisi (OCC): un organismo apposito, di norma presso gli Ordini professionali, che nomina un gestore della crisi, cioè un professionista che assiste il debitore nella predisposizione del piano e redige una relazione attestante la meritevolezza e la fattibilità del piano, da allegare alla domanda. Il concetto di meritevolezza è cruciale: il debitore deve aver mantenuto una condotta corretta, senza colpa grave o frode nella genesi del sovraindebitamento. Ad esempio, l’imprenditore che ha dissipato il patrimonio consapevolmente o contratto debiti sapendo di non poterli pagare, potrà vedersi negato l’accesso al concordato minore. Il tribunale valuta questi aspetti prima di ammettere la procedura. Se il concordato minore viene approvato dai creditori e omologato dal giudice, il debitore lo esegue (di solito con l’ausilio dell’OCC) e al termine ottiene l’esdebitazione per i debiti residui non soddisfatti. È uno strumento adatto ad esempio a piccoli imprenditori o società agricole indebitate: consente di proporre ai creditori un pagamento parziale magari integrato da risorse esterne (spesso con l’aiuto di familiari). Un caso frequente: Tribunale di Matera, 11 marzo 2025: un imprenditore agricolo e la coniuge (coobbligata su alcuni debiti) hanno presentato congiuntamente un concordato minore, essendo i debiti in gran parte comuni. Ciò mostra che anche famiglie di debitori possono accedere insieme, se hanno situazioni intrecciate.
  • Piano di ristrutturazione del consumatore: è l’erede del “piano del consumatore” della legge 3/2012. Riservato alle persone fisiche che hanno debiti prettamente personali, non contratti per attività di impresa o professionale (o comunque in prevalenza per esigenze di consumo). Esempi tipici: un privato sovraindebitato per mutuo della casa, finanziamenti al consumo, fideiussioni a parenti, ecc. Anche qui interviene l’OCC con un gestore che aiuta a predisporre il piano e attesta veridicità e meritevolezza. La particolarità del piano del consumatore è che non richiede il voto dei creditori: il tribunale omologa il piano se ritiene che il debitore meriti l’esdebitazione e che il piano sia fattibile e conveniente per i creditori rispetto alle alternative. In pratica, il giudice svolge un controllo sostitutivo del voto, valutando la condotta pregressa del consumatore (che non deve aver assunto debiti irresponsabilmente) e la sostenibilità del piano (cioè che il consumatore stia effettivamente destinando tutte le risorse ragionevolmente disponibili al pagamento dei creditori). Se tali condizioni ci sono, il piano può essere omologato anche se, per dire, banche o finanziarie sono contrarie. Questo strumento è molto utile ad esempio per famiglie sovraindebitate: si può proporre di pagare ciò che possono (magari versando il surplus di stipendio per qualche anno) ottenendo lo stralcio del debito eccedente. Non vi sono percentuali minime per legge, ma in dottrina si è discusso se introdurne: qualcuno parlava di almeno 60% per ogni creditore, ma al giugno 2025 non risulta alcuna percentuale minima obbligatoria in legge. Dunque anche un piano che paga ad esempio il 20% a tutti i creditori può essere omologato, se è il massimo realizzabile e il debitore è in buona fede. Una attenzione: la meritevolezza è valutata in modo stringente, specie nel piano del consumatore, proprio perché non c’è il vaglio del voto dei creditori. Ad es., se un consumatore ha fatto debiti frivoli (es. prestiti per beni di lusso che sapeva di non poter sostenere), il giudice può rigettare il piano per indegnità. Se invece i debiti derivano, poniamo, da necessità familiari impreviste (malattia, disoccupazione, ecc.), sarà considerato meritevole. Una volta omologato, il piano del consumatore viene eseguito (sotto controllo dell’OCC di solito) e al termine il debitore ottiene l’esdebitazione completa. Esempio: un impiegato che ha accumulato 100.000 € di debiti tra carte di credito e prestiti, propone di pagarne 30.000 € in 5 anni attingendo al suo stipendio al netto delle spese essenziali (il surplus mensile, diciamo 500 € al mese) e di stralciare il resto. Se dimostra di aver vissuto modestamente e che quei debiti derivano in parte da spese mediche e in parte da interessi su interessi, il tribunale potrebbe approvare il piano e dargli la possibilità di nuovo inizio.
  • Liquidazione controllata del sovraindebitato: corrisponde alla vecchia “liquidazione del patrimonio” ex L.3/2012. È la procedura concorsuale di liquidazione giudiziale applicabile ai debitori non fallibili. Viene nominato un liquidatore (spesso l’OCC stesso svolge la funzione) che liquida tutti i beni del debitore e distribuisce il ricavato ai creditori. Può essere avviata su richiesta del debitore stesso (che magari non ha alcuna prospettiva di risanamento e sceglie di farsi liquidare, confidando poi nell’esdebitazione) oppure dai creditori/PM (anche se raramente i creditori la chiedono, preferendo agire individualmente). Nella liquidazione controllata, a differenza della liquidazione giudiziale fallimentare, il debitore persona fisica mantiene una parte dei suoi redditi necessari per il sostentamento suo e della famiglia (impignorabilità di stipendi/pensioni in misura adeguata). Il liquidatore vende i beni (tranne quelli impignorabili per legge, es. beni di minimo vitale, strumenti di lavoro essenziali, ecc.). Al termine, il ricavato è distribuito tra i creditori secondo le prelazioni. Il debitore può chiedere l’esdebitazione per i crediti residui non soddisfatti, purché abbia cooperato e non ci siano stati comportamenti dolosi. Il CCII ha reso l’esdebitazione più accessibile: oggi l’esdebitazione nel sovraindebitamento può essere concessa anche immediatamente a chi non ha nulla da liquidare (“debitore incapiente”), come misura di clemenza per una sola volta. Ad esempio, un nullatenente sovraindebitato per vicende sfortunate può ottenere dal giudice la cancellazione dei debiti subito, salvo revoca se nei 4 anni successivi acquista un patrimonio sufficiente (art. 282 CCII). La liquidazione controllata è uno strumento duro (il debitore perde tutto il suo patrimonio disponibile) ma talvolta inevitabile. Spesso è l’ultima risorsa se né il piano del consumatore né il concordato minore sono fattibili. Può anche coesistere con essi: il CCII consente ad esempio che un consumatore presenti un piano per i debiti personali e contemporaneamente, se è anche un imprenditore per altri debiti, apra una liquidazione controllata per quelli (tenute però separate le masse).

In tutte queste procedure minori gioca un ruolo centrale l’OCC (Organismo di Composizione della Crisi): è un organismo locale (presso ogni tribunale ce ne sono di solito uno o più convenzionati) cui il debitore si rivolge per essere assistito. L’OCC nomina un “gestore” (spesso un professionista iscritto in apposito elenco) che funge un po’ da commissario e attestatore. Questa infrastruttura è stata potenziata dal CCII, consentendo ad esempio ai gestori di accedere alle banche dati fiscali e patrimoniali per verificare il quadro del debitore. Ciò aiuta a stanare eventuali beni occulti e a redigere piani più accurati. La presenza di un soggetto terzo qualificato è un elemento di garanzia per i creditori, specie nei piani del consumatore dove i creditori non votano.

Meritevolezza e cause di esclusione: Come accennato, un filo conduttore nel sovraindebitamento è la valutazione della condotta del debitore. Se ha agito in mala fede o con colpa grave, il tribunale può non ammettere le procedure o negare l’esdebitazione. Ad esempio, l’imprenditore che ha tenuto scritture false, o il consumatore che ha fatto debiti per gioco d’azzardo, potrebbero essere esclusi. Anche condanne penali per reati gravi fiscali o concorsuali precludono l’esdebitazione. Questo controllo rigoroso sostituisce il vaglio del mercato (voto creditori) nei piani in cui i creditori non votano. Il messaggio è: la legge dà una seconda chance a chi merita, non a chi ha frodato.

Vantaggi per il debitore sovraindebitato: La possibilità di conservare alcuni beni essenziali (ad es. prima casa in certe condizioni col piano del consumatore – il CCII consente di escluderla se il debitore continua a pagare il mutuo), la chance di ridurre drasticamente l’esposizione debitoria, e la protezione da azioni esecutive individuali non appena si deposita la domanda (le procedure di sovraindebitamento attivano misure protettive simili a quelle del concordato). Di contro, i costi: bisogna pagare un compenso all’OCC e eventuali spese di giustizia (anche se tarati alla situazione modesta del debitore). Oggi esistono protocolli per cui i costi dell’OCC possono essere anche in parte pagati a esito della procedura.

In conclusione, le procedure da sovraindebitamento integrano il sistema concorsuale permettendo anche al piccolo debitore (che spesso è persona fisica) di risolvere situazioni altrimenti senza uscita legale. Immaginiamo un lavoratore autonomo oberato di debiti: prima della riforma aveva come unica prospettiva il pignoramento perpetuo del quinto stipendio; oggi può proporre un piano, pagare ad esempio il 50% in 5 anni, e poi ripartire senza il fardello residuo. Certo, il sistema richiede rigore (non è un condono automatico, occorre convincere giudice/creditori della buona fede) e sacrifici (il debitore deve destinare ai creditori tutto il possibile). Ma rappresenta una “via d’uscita concreta” anche per chi tradizionalmente era escluso dalle procedure concorsuali e rischiava il cosiddetto ergastolo da debiti.

Prima di procedere con alcune tabelle riepilogative e delle simulazioni pratiche, si sintetizzano nella tabella seguente le principali procedure di regolazione della crisi fin qui esaminate, mettendole a confronto nei loro aspetti salienti.

Tabelle di Confronto delle Procedure Concorsuali

Di seguito presentiamo alcune tabelle che confrontano le caratteristiche essenziali delle varie procedure di regolazione della crisi e dell’insolvenza dal punto di vista dell’accessibilità, degli effetti prodotti, degli organi coinvolti, nonché delle tempistiche e dei costi indicativi.

Tabella 1 – Tipologia, finalità ed accesso delle procedure principali:

ProceduraNatura & FinalitàAccessibilità (Chi e quando)Consenso dei creditori richiesto
Allerta interna & esternaStrumenti di prevenzione (segnalazioni e obblighi organizzativi) per intercettare precocemente la crisi. Nessuna soddisfazione dei creditori, scopo è attivare altre procedure.Automatico al ricorrere degli indici (interni: squilibri bilancio, perdite, DSCR<1; esterni: debiti > soglie con Fisco/INPS). Non è una procedura attivabile dal debitore, ma un meccanismo obbligatorio.N/A – Non è un procedimento consensuale: le segnalazioni scattano per legge, senza coinvolgere il consenso dei creditori.
Composizione negoziataProcedura stragiudiziale assistita da esperto indipendente per il risanamento volontario dell’impresa, evitando concorsuali. Effetti: standstill temporaneo, protezione dai creditori durante le trattative.Qualsiasi imprenditore (anche agricolo o “sotto soglia”) in crisi o insolvenza reversibile. Procedura volontaria, attivata solo dal debitore tramite piattaforma camerale, preferibilmente ai primi segnali di crisi.Consenso volontario dei creditori alle proposte: non c’è voto formale, ma l’accordo si raggiunge solo se ogni singolo creditore aderisce alle soluzioni negoziate (nessuna imposizione di minoranza). Nessuna maggioranza legale prevista.
Piano attestato di risanamentoAccordo privato di ristrutturazione con alcuni o tutti i creditori, accompagnato da attestazione indipendente di veridicità dati e fattibilità. Finalità: risanare l’impresa extragiudizialmente, proteggendo alcuni atti (esenzione da revocatoria).Imprenditore in crisi ma meritevole di fiducia, quando può ottenere il consenso dei principali creditori. Nessun requisito dimensionale o soglia di adesioni per avviarlo (ma in pratica serve coinvolgere creditori chiave). Si attiva unilateralmente dal debitore accordandosi poi con creditori selezionati.Consenso integrale dei creditori coinvolti: è un accordo contrattuale, quindi vincola solo i creditori che lo sottoscrivono. Non vincola i dissenzienti (che devono essere pagati a parte in full per evitare azioni). Non c’è omologazione né voto a maggioranza.
Accordo di ristrutturazione dei debiti (ARD)Procedura giudiziale negoziata (ibrida) per ristrutturare il debito con efficacia erga omnes per i soli aderenti (salvo estensioni settoriali). Finalità: evitare il fallimento tramite un accordo con i creditori principali, mantenendo però protezione legale e omologazione.Disponibile a qualsiasi debitore imprenditore (anche non fallibile) in stato di crisi o insolvenza. Si attiva su iniziativa del debitore con almeno il 60% di adesioni raccolte. Prevista anche forma “agevolata” con 30% adesioni iniziali per misure protettive. Non compatibile con debitore consumatore (lì c’è il piano del consumatore).Consenso di ≥60% dei crediti totali richiesto per l’omologazione. Vincola solo i creditori aderenti, salvo: estensione ai dissenzienti finanziari se ≥75% della categoria aderisce; cram-down fiscale se Fisco dissenziente ma proposta conveniente e altri creditori approvano. Nessun voto assembleare: si basa su firme individuali.
Concordato preventivo (in continuità o liquidatorio)Procedura concorsuale giudiziale per risanare l’impresa (concordato in continuità) o liquidarne il patrimonio in modo ordinato (concordato liquidatorio) evitando la liquidazione giudiziale. Effetti: sospensione delle azioni esecutive, congelamento dei debiti pregressi, soddisfacimento parziale dei crediti secondo il piano, esdebitazione finale.Imprenditore commerciale fallibile in stato di crisi o insolvenza. Si attiva con ricorso del debitore al tribunale (anche “con riserva” depositando poi il piano). Ammissibile se, se liquidatorio, offre ≥20% ai chirografari e ≥10% attivo come apporto esterno. Non accessibile a piccoli o agricoli (i quali usano il concordato minore).Voto dei creditori necessario: approvazione con maggioranza di crediti (>50% in valore; in caso di classi, maggioranza in ciascuna classe). Previste maggioranze per classi e possibilità di cram-down su classi dissenzienti dal 2024 (omologa possibile se almeno una classe approva e rispettata la priority rule).
Concordato semplificato (post composizione)Procedura concorsuale semplificata per liquidare il patrimonio su proposta del debitore, senza voto dei creditori. Finalità: chiudere la crisi con liquidazione rapida quando la composizione negoziata non ha prodotto accordi.Solo debitore (anche piccolo/agricolo) che abbia tentato senza successo la composizione negoziata. Deve depositare domanda entro 60 gg dalla fine delle trattative, con attestazione dell’esperto sulla buona fede. Inammissibile se il debitore ha agito scorrettamente (giudice vigila sulla genuinità delle trattative).Nessun voto dei creditori: i creditori non votano, possono solo esprimere opposizione in sede di omologa. La decisione spetta al tribunale, che valuta convenienza e correttezza. (Giurisprudenza: eventuali istanze di fallimento concorrenti restano sospese finché il tribunale non decide sul concordato).
Piano di Ristrutturazione Omologato (PRO)Procedura concorsuale flessibile introdotta recependo la direttiva UE. È essenzialmente un “concordato negoziato”: piano soggetto a omologa con classi di creditori che devono (in principio) tutte approvare. Finalità: ristrutturazione profonda con possibili deroghe a parità di trattamento e regole rigide, grazie al consenso qualificato dei creditori.Imprenditore commerciale (fallibile) in crisi o insolvenza. Il PRO è accessibile in alternativa al concordato preventivo, soprattutto in caso di ristrutturazioni complesse dove si prevede di ottenere consenso praticamente unanime dai creditori. Si attiva con ricorso, piano e attestazione come un concordato, ma richiede abilità negoziale nel formare le classi.Approvazione di tutte le classi richiesta (originariamente) per l’omologa. Dopo il 2024 è possibile cram-down: il tribunale può omologare con classi dissenzienti se ≥75% del totale crediti ha votato a favore e il trattamento delle classi contrarie rispetta certe condizioni di equità. Dunque elevata soglia di consenso (praticamente unanimistico, salvo piccole minoranze cram-downabili).
Liquidazione giudiziale (Fallimento)Procedura concorsuale liquidatoria giudiziaria: liquidazione di tutti i beni del debitore insolvente e distribuzione ai creditori secondo prelazioni. Effetto: spossessamento totale del debitore, chiusura dell’impresa, scioglimento società, possibile esdebitazione finale per persona fisica.Imprenditore commerciale insolvente, non esente (oltre soglie dimensionali). Si apre su ricorso di debitore, creditore o PM. Incompatibile con chi può accedere a sovraindebitamento (piccoli, agricoli restano fuori). Non è richiesta meritevolezza: anche debitore fraudolento può essere soggetto a liquidazione d’ufficio (anzi, a maggior ragione).Procedura d’ufficio: non esiste consenso dei creditori da raccogliere. I creditori subiscono la liquidazione coattiva e partecipano solo attraverso l’insinuazione al passivo e il comitato dei creditori (consultivo). Non c’è voto né accordo: la par condicio viene attuata ex lege.

Tabella 2 – Organi coinvolti, durata indicativa e costi indicativi:

ProceduraOrgani / Attori coinvoltiDurata tipicaCosti indicativi (per il debitore)
Allerta interna/esternaOrgani di controllo interni (sindaci, revisori) segnalanti; creditori pubblici qualificati (ADE, INPS) segnalanti; nessun organo terzo nominato (OCRI non attivati).N/D – Non è procedura con inizio/fine formalizzati. Le segnalazioni avvengono tempestivamente al verificarsi delle condizioni. La fase di “composizione assistita” formale non è operativa.Nessuno diretto per il debitore (trattasi di obblighi di legge). Indirettamente, eventuali consulenze per predisporre assetti adeguati o piani dopo la segnalazione.
Composizione negoziataEsperto indipendente nominato dalla Commissione camerale; tribunale (solo se richieste misure protettive o provvedimenti urgenti); eventuali advisor del debitore nelle trattative.3-6 mesi la fase di trattative, prorogabile fino a 12 in casi complessi. Può chiudersi prima se accordo o se esperto constata impossibilità.Bassi-moderati: non vi sono spese giudiziarie tranne marche da bollo. L’Esperto è pagato dalla CCIAA (compenso definito per legge, a carico pubblico). Il debitore sostiene i costi dei propri consulenti (se si avvale di advisor legale/finanziario) e spese vive di piattaforma (minime). Sostanzialmente è un procedimento economico.
Piano attestatoProfessionista attestatore indipendente; consulenti aziendali del debitore (facoltativi); nessuna autorità giudiziaria coinvolta; eventuale notaio per asseverazione data certa.1-3 mesi per predisporre il piano e ottenere l’attestazione (può variare molto a seconda della complessità aziendale). L’esecuzione poi segue il piano (di solito 1-5 anni di risanamento).Bassi-moderati: non c’è tribunale né organi da pagare. Principale costo: attestatore (il compenso dipende da dimensione azienda e complessità, qualche migliaio di euro per PMI, più alto per aziende grandi). Altri costi: consulenti privati eventualmente coinvolti.
Accordo ristrutturazioneAdvisor/legali del debitore per le negoziazioni; attestatore professionista per relazione art. 56 CCII; Tribunale (omologa); Commissario giudiziale solo se richiesto dal debitore per agevolare (figura non obbligatoria); eventuale esperto facilitatore nominabile ma raramente usato.4-6 mesi tipici: fase negoziale privata (variabile, a volte lunga), poi deposito e omologa tribunale (~2-3 mesi se nessuna opposizione). Totale medio 6 mesi. Può estendersi oltre se opposizioni o trattative complesse.Moderati: compenso attestatore (simile a concordato, tariffe proporzionali al debito); spese di giustizia ridotte (il commissario non è obbligatorio, se nominato ha compenso su DM 30/2012, più leggero che in concordato). Parcelle legali per predisporre accordi e raccogliere firme. In generale meno costoso di un concordato, perché iter più breve e pochi organi.
Concordato preventivoTribunale/Fallimentare (giudice delegato + collegio per omologa); Commissario giudiziale nominato; eventuale comitato creditori; professionista attestatore del piano; legali e consulenti del debitore per gestione procedure e redazione piani.6-12 mesi circa dalla domanda all’omologa (dipende dal tribunale e dalla complessità del caso, nonché da eventuali opposizioni) – i concordati in continuità tendono al lungo (anche >12 mesi), i liquidatori possono chiudersi in 6-8 mesi. L’esecuzione poi dura quanto previsto dal piano (può essere anni).Elevati: contributo unificato (art. 40 CCII) al momento del deposito (p.es. €500 per concordati). Compenso commissario e liquidatore (se nominato) determinato secondo DM 30/2012, a carico della massa (può incidere anche 2-4% dell’attivo liquidato). Compenso attestatore (diverse migliaia € in base al passivo). Spese legali e di consulenza notevoli per predisporre la domanda, assistere durante tutta la procedura, tenuta contabilità speciale ecc. In aggiunta, spesso vanno depositate somme a titolo di fondo spese (es. 50% compenso commissario stimato).
Concordato semplificatoTribunale (decide su omologa); Commissario giudiziale (di solito nominato per svolgere istruttoria, può coincidere con l’esperto della composizione negoziata); eventuale Liquidatore giudiziale (dopo omologa) per vendite; OCCASIONALMENTE comitato creditori se ritenuto utile.2-4 mesi dalla domanda all’omologazione (non essendoci voto, i tempi sono quelli dell’istruttoria commissariale e dell’udienza di omologa). Dopo omologa, la liquidazione dei beni richiede tempi variabili (6-12 mesi per vendere e distribuire).Medi: non c’è fase di voto né adunanza – quindi meno formalità. Costi principali: compenso commissario (minore che in concordato ordinario perché fase più breve, tariffe DM 30/2012) e poi compenso liquidatore (simile a curatore fallimentare, % su realizzi). Spese legali per assistenza (comunque inferiori a quelle di un concordato lungo). Nessun attestatore aggiuntivo (si usa la relazione finale esperto).
Piano Ristrutt. OmologatoTribunale (omologa); eventuale Commissario nominato (non obbligatorio, ma tribunale spesso nomina un ausiliario per scrutinare il piano e raccogliere voti classi); attestatore indipendente; assemblee delle classi convocate dal giudice; legali/consulenti debitore.6-12 mesi dalla presentazione all’omologa (dipende dal numero di classi e adesioni; se tutte classi approvano velocemente, l’iter è simile a concordato; se ci sono opposizioni, simile a un piccolo concordato). In generale, i tempi possono essere simili o leggermente inferiori al concordato preventivo standard, poiché se c’è accordo unanime si salta la fase contestazioni.Elevati (paragonabili al concordato): vi sono costi di attestazione; possibili costi per esperto valutatore di azienda (in caso di manovre su equity); parcelle legali importanti. Se nominato un commissario ad acta, andrà compensato come da parametri (anche se la legge non lo prevede espressamente, in prassi sì). Vantaggio: niente spese di voto (no spese postali grandi perché le classi sono poche e organizzate). Resta procedura sofisticata -> costi alti di preparazione.
Liquidazione giudizialeTribunale fallimentare (sentenza apertura, giudice delegato supervisiona); Curatore fallimentare; Comitato creditori (3 membri); eventuali coadiutori del curatore (es. legali per cause).2-5 anni mediamente per chiudere un fallimento (a seconda dell’attivo: piccoli fallimenti chiudono in ~2 anni; se beni immobili da vendere, 4 anni; casi complessi con contenziosi anche oltre 5).Elevati per la massa attiva: compenso curatore (DM 30/2012, percentuale su attivo realizzato e distribuito; Cass. 15790/2023 ha stabilito che si calcola su attivo inventariato per tutte le tipologie di concordato/fallimento); spese giustizia (anticipazioni per procedure di vendita, custodie, pubblicazioni); eventuali azioni legali costose. Per il debitore, in proprio, i costi diretti non sono richiesti (non deve anticipare nulla, tranne se è esso ad attivarla volontariamente con spese di procedura). Gli organi sono pagati dall’attivo recuperato.

(Legenda: OCC = Organismo di Composizione della Crisi; ADE = Agenzia Entrate; CCIAA = Camera di Commercio; PM = Pubblico Ministero.)

Come si evince dalle tabelle, ogni procedura presenta vantaggi e inconvenienti specifici. Ad esempio, strumenti come il piano attestato o la composizione negoziata sono rapidi e poco costosi, ma richiedono consenso integrale dei creditori coinvolti e non offrono garanzie contro i dissenzienti. Viceversa, concordati e liquidazione giudiziale vincolano tutti i creditori e danno protezione legale forte, ma comportano tempi lunghi, costi elevati e perdita di controllo da parte del debitore. Nel capitolo successivo, esamineremo attraverso casi pratici come un debitore può scegliere l’una o l’altra strada a seconda delle proprie caratteristiche (dimensioni, natura dell’attività, composizione del debito, ecc.), simulando scenari per PMI, imprese agricole, società di capitali e lavoratori autonomi.

Simulazioni pratiche per settori rappresentativi

Per illustrare meglio come le diverse procedure operano dal punto di vista concreto del debitore, proponiamo alcune simulazioni di casi verosimili in quattro contesti: una piccola-media impresa (PMI) industriale, un’impresa agricola a conduzione familiare, una società di capitali di medie dimensioni, e un professionista lavoratore autonomo. Ogni scenario mostrerà quali strumenti il debitore potrebbe utilizzare, con quali effetti, e le ragioni della scelta.

Caso 1: PMI manifatturiera in crisi – utilizzo della Composizione Negoziata e concordato “in continuità”

Situazione iniziale: Alfa S.r.l. è una PMI metalmeccanica con 50 dipendenti. Negli ultimi due anni ha accumulato perdite a causa del rincaro delle materie prime e di un calo degli ordini. Ha debiti per circa 4 milioni € (2,5 mln verso banche per mutui e scoperti di c/c; 0,5 mln verso fornitori; 0,5 mln verso l’Agenzia Entrate per IVA non versata e 0,5 verso INPS per contributi arretrati). Il patrimonio dell’azienda consiste in un capannone industriale ipotecato e macchinari. Alfa S.r.l. è ancora in attività e ha alcune commesse in portafoglio, ma soffre di carenza di liquidità: non riesce a pagare puntualmente né le rate di mutuo né i fornitori. I primi segnali di crisi si sono manifestati un anno fa (DSCR < 1, utilizzo massimo dei fidi, dilazioni chieste ai fornitori). Il collegio sindacale ha segnalato la situazione agli amministratori, che hanno finalmente deciso di reagire.

Procedura scelta: Gli amministratori di Alfa S.r.l. optano per attivare la Composizione Negoziata della crisi, ritenendo che l’impresa sia ancora risanabile: hanno individuato possibili interventi (riduzione di personale via incentivi all’esodo, cessione di un ramo d’azienda non strategico, ingresso di un investitore locale interessato a finanziare l’attività se si riduce il debito). Con l’aiuto del consulente finanziario, caricano tutta la documentazione sulla piattaforma e ottengono in pochi giorni la nomina di un esperto indipendente. Questi, esaminata la situazione, concorda che vi siano prospettive di recupero, dato che l’azienda ha un buon portafoglio clienti storico e prodotti competitivi. Alfa S.r.l. richiede e ottiene dal tribunale misure protettive: tutte le azioni esecutive e i pignoramenti sono sospesi per 4 mesi, così da poter negoziare con i creditori senza l’incubo di decreti ingiuntivi e atti di sequestro.

Durante la fase di composizione: l’esperto convoca innanzitutto le banche finanziatrici (2 istituti) e il maggior fornitore di acciaio, considerati i creditori decisivi. Propone loro una moratoria: nessun pagamento di rate né di forniture per 6 mesi, in attesa di definire un piano. Le banche, essendo entrambe relativamente esposte (1,5 mln e 1 mln) accettano di comune accordo, anche perché l’esperto fa leva sulla prospettiva che un fallimento comporterebbe una vendita forzata del capannone a valore dimezzato. Si firma una breve convenzione di moratoria con il 85% dei crediti bancari (una banca aderisce al 100%, l’altra all’80%) e grazie alla regola dell’accordo ad efficacia estesa, la moratoria si applica anche alla minoranza dissenziente di quella banca. Il fornitore strategico, che vuole mantenere il cliente Alfa, accetta di prorogare i termini di pagamento sulle consegne future di 120 giorni. Anche l’Erario e l’INPS vengono coinvolti: attraverso l’esperto Alfa invia all’Agenzia Entrate la richiesta di una transazione fiscale (proposta di pagare il debito IVA di 500k ridotto a 300k in 5 anni). L’Erario risponde di essere disponibile in linea di massima, subordinatamente all’omologa di un accordo o concordato che lo preveda. Dopo 3 mesi di trattative, l’esperto stende una relazione: suggerisce che Alfa S.r.l. può essere risanata se le banche accettano di rinunciare a parte dei crediti e un investitore (individuato nel frattempo) apporta nuova finanza. Purtroppo una delle due banche non intende aderire a nessun taglio di credito (è disposta solo a allungare i pagamenti). Non si riesce a trovare un accordo extragiudiziale completo: la composizione negoziata viene quindi chiusa senza un concordato stragiudiziale finale. Tuttavia, durante la procedura Alfa ha potuto stabilizzare la situazione e gettare le basi per una soluzione.

Passo successivo: Entro 60 giorni dalla relazione finale dell’esperto, Alfa S.r.l. presenta domanda di Concordato Preventivo in continuità aziendale. Il piano concordatario, predisposto con i dati raccolti in composizione, prevede: la continuità dell’azienda con l’ingresso di un nuovo socio che apporta €500.000 di capitale fresco; la ristrutturazione dei debiti finanziari (le banche accettano di convertire 1 milione di credito in quote del capitale sociale – il nuovo socio concorre nell’aumento di capitale – e di riscadenzare il resto su 7 anni, riducendo il tasso di interesse); i fornitori chirografari ottengono il pagamento del 50% dei loro crediti in 4 anni; il debito fiscale di 500k viene falcidiato del 40% (pagheranno 300k in 6 anni, come accordato con Agenzia Entrate nel frattempo); i contributi INPS per 500k vengono dilazionati integralmente in 5 anni (non falcidiabili per legge ma rateizzabili). Il piano viene attestato e mostrato essere preferibile al fallimento (dove i chirografari non avrebbero preso nulla). I creditori votano: entrambe le classi (banche e chirografari) approvano con ampia maggioranza. Il tribunale omologa il concordato. Alfa S.r.l. prosegue l’attività: grazie al taglio dei costi (10 dipendenti sono usciti volontariamente con incentivo, concordato con i sindacati) e al nuovo apporto finanziario, torna competitiva. Nei due anni successivi le vendite aumentano e la liquidità generata consente di rispettare il piano di pagamenti. Dopo 4 anni, Alfa S.r.l. esce dal concordato avendo pagato regolarmente le percentuali dovute: è tornata solvibile, i creditori residui vengono esdebitati delle somme non pagate (il tribunale dichiara l’esecuzione completata), e l’impresa continua ora la sua attività, con struttura ridimensionata ma sostenibile.

Commento: Questo scenario mostra una PMI che riesce a sfruttare gli strumenti progressivamente: prima la trattativa assistita (composizione negoziata) che tampona la crisi e prepara il terreno, poi il concordato per imporre la ristrutturazione anche alla minoranza non collaborativa (una banca). Il risultato è positivo: l’impresa è salvata e i creditori ottengono un soddisfacimento ragionevole (le banche, tra nuovo socio e conversione, recuperano gran parte; i fornitori prendono 50% anziché quasi zero). Senza questi strumenti, Alfa sarebbe probabilmente fallita, con perdita di posti di lavoro e creditori chirografari insoddisfatti.

Caso 2: Impresa agricola sovraindebitata – concordato minore con affiancamento di un piano del consumatore

Situazione iniziale: La famiglia Rossi conduce un’azienda agricola (società semplice) che coltiva cereali su 50 ettari. Gli ultimi raccolti sono stati scarsi e i costi (carburante, fertilizzanti) sono aumentati, portando l’azienda in grave difficoltà. Debiti totali: €300.000 con una banca (mutuo agrario garantito da ipoteca sui terreni), €80.000 con fornitori di sementi e attrezzi, €50.000 verso l’Erario (IVA agricola e contributi). Inoltre, i coniugi Rossi hanno debiti personali: un mutuo residuo di €100.000 sulla casa di abitazione e €30.000 di finanziamenti al consumo. L’azienda agricola ha attualmente un valore dei terreni di circa €250.000 (ma vendere terra significherebbe perdere la base produttiva). I redditi agricoli sono insufficienti persino a coprire gli interessi. Poiché gli imprenditori agricoli non sono soggetti a fallimento, i creditori hanno iniziato azioni esecutive individuali: la banca ha pignorato parte dei terreni ipotecati e chiesto l’esecuzione forzata. I Rossi temono di perdere tutto.

Procedura scelta: Dopo essersi informati, i coniugi Rossi scoprono che possono accedere alle procedure di sovraindebitamento del CCII. Si rivolgono all’OCC locale (presso la Camera di Commercio) dove un gestore esamina la situazione. Decide di adottare una strategia combinata: l’azienda agricola in quanto tale (società semplice) propone un concordato minore ai sensi dell’art. 74 CCII, mentre contestualmente i coniugi in quanto privati presentano un piano di ristrutturazione del consumatore per i debiti personali (casa e finanziamenti). Il gestore coordina i due percorsi, redigendo un’unica relazione attestante la situazione familiare complessiva e la buona fede dei debitori.

Nel concordato minore agricolo si propone: i coniugi mettono a disposizione risorse esterne per €50.000 (ricevute da un parente disponibile ad aiutarli) e offrono inoltre ai creditori il ricavato della vendita di un vecchio trattore e di un piccolo terreno marginale (stimati €30.000). Complessivamente €80.000 da distribuire. Con questa somma, il piano propone di pagare integralmente i debiti verso l’Erario (50k, per evitare problemi di falcidia fiscale) e di soddisfare la banca ipotecaria e i fornitori pro-quota con il residuo 30k (circa il 10% dei loro crediti, che altrimenti rimarrebbero insoddisfatti in caso di liquidazione controllata, visto che gli immobili valgono meno del mutuo). In più, per convincere la banca, i Rossi offrono di concederle una garanzia reale aggiuntiva su un piccolo appezzamento di proprietà di un fratello (che si presta ad ipotecare il suo fondo a supporto del concordato). Il gestore OCC attesta che il piano è fattibile: se approvato, l’azienda agricola potrà continuare l’attività (grazie anche a un progetto parallelo di diversificazione in agriturismo che i Rossi stanno avviando), e i creditori ricevono in tempi brevi qualcosa, mentre nella liquidazione forzata molti non avrebbero nulla (i fornitori sono chirografari e la banca, vendendo forzatamente i campi, forse non coprirebbe neppure il suo mutuo per intero). I creditori votano in assemblea: la banca ipotecaria (classe privilegiata) accetta in virtù dell’ipoteca extra e del fatto che comunque incasserà subito €15.000 (parte dei 30k), preferendo evitare una lunga procedura esecutiva agricola; i fornitori chirografari (classe chirografi) approvano perché 15% meglio di zero. Il concordato minore viene così approvato e omologato dal tribunale. Nell’anno seguente i Rossi alienano il trattore e il piccolo campo, e con i soldi del parente ottemperano al piano: pagano Fisco 100%, banca 10%+garanzia e fornitori 10%. Ottenuta la quietanza del piano, l’azienda agricola è esdebitata dai residui debiti: il mutuo bancario viene considerato estinto (per la parte residua la banca non può più agire, la garanzia terza ha soddisfatto la quota concordataria).

Parallelamente, per i debiti personali, i coniugi presentano un piano del consumatore: propongono di mantenere la casa di abitazione continuando a pagare regolarmente le rate del mutuo (€600/mese) fino a estinzione, e di stralciare invece gli €30.000 di finanziamenti al consumo pagando una piccola percentuale (hanno calcolato di poter destinare €100 al mese per 4 anni al fondo creditori, quindi circa €4.800 in totale, che andrebbero divisi tra le finanziarie, corrispondendo a circa 16% dei loro crediti). L’OCC attesta che i debiti per prestiti al consumo sono stati contratti in buona fede (per spese mediche e scolastiche dei figli) e che i creditori chirografari non sarebbero comunque soddisfatti di più in caso di liquidazione (la casa è ipotecata dalla banca, non ci sono altri beni aggredibili). Il tribunale, considerata la condotta impeccabile dei consumatori, omologa il piano nonostante le finanziarie fossero contrarie (qualcuna aveva protestato offrendosi di accettare non meno del 50%). Il giudice argomenta che il piano offre comunque il massimo realizzabile e che i debitori meritano il sollievo, avendo ridotto all’osso le spese familiari pur di mantenere la casa. Nei 4 anni seguenti, i coniugi pagano regolarmente il mutuo casa e versano i 100€/mese destinati alle finanziarie. Al termine il tribunale dichiara esdebitati i residui circa €25.000 non pagati delle finanziarie.

Risultato: La famiglia Rossi ha salvato la propria azienda e la casa. L’azienda agricola, alleggerita dai debiti pregressi, può proseguire: con i raccolti e la nuova attività agrituristica riesce a mantenersi e paga i contributi correnti. La casa è al sicuro perché le rate del mutuo vengono onorate. I creditori: la banca agraria ha perso circa 90% del suo credito, ma ha evitato tempi lunghi e spese (in più ha una garanzia su altro immobile per sicurezza futura); i fornitori hanno ottenuto poco ma l’hanno preferito al nulla di un fallimento; il Fisco ha incassato il 100% (cosa che in fallimento non era scontata); le finanziarie dei prestiti personali hanno visto un taglio forte, ma il giudice ha ritenuto equo far pagare prima i creditori legati all’attività lavorativa e alleggerire i debiti di consumo.

Commento: Questo esempio mostra l’integrazione delle procedure di sovraindebitamento: i debiti “misti” (aziendali e familiari) possono essere trattati con strumenti differenti in parallelo. L’imprenditore agricolo non fallibile viene tutelato dal concordato minore, mentre i debiti personali dal piano del consumatore. In più, evidenzia come l’elemento morale (meritevolezza) incida: i Rossi erano debitori onesti colpiti da avversità (maltempo sui raccolti, crisi dei prezzi), dunque hanno avuto accesso alle soluzioni. Se ci fossero stati comportamenti fraudolenti, il giudice avrebbe potuto rigettare le domande.

Caso 3: Società di capitali indebitata con creditori finanziari – utilizzo di un Accordo di Ristrutturazione

Situazione iniziale: Beta S.p.A. è un’impresa commerciale con 20 negozi di abbigliamento. Ha 10 milioni di debiti totali, di cui 7 milioni verso banche (linee di credito e leasing) e 3 milioni verso fornitori e proprietari dei locali (affitti arretrati). L’attività negli ultimi anni è in perdita per via dell’aumento e-commerce; Beta intende chiudere diversi punti vendita e concentrarsi su pochi store redditizi. Il suo piano industriale prevede la chiusura di 8 negozi e la vendita del magazzino in eccedenza. Così facendo l’azienda potrebbe tornare in utile, ma resta il problema del debito pregresso. Un fallimento appare probabile se i creditori agiscono: alcuni proprietari di immobili hanno già minacciato sfratti per morosità, e una banca ha revocato gli affidamenti.

Procedura scelta: Beta S.p.A. individua una soluzione tramite un Accordo di Ristrutturazione dei Debiti omologato. In particolare, la crisi di Beta è soprattutto finanziaria (debiti con le banche), mentre i fornitori recenti sono stati pagati più o meno (Beta è in ritardo di 2 mesi con i fornitori, ma niente di irreparabile se entra liquidità). L’azienda, assistita dal proprio advisor finanziario, apre un tavolo con il pool di banche: propone di ristrutturare completamente l’esposizione bancaria. In dettaglio: su 7 milioni di debito bancario, 2 milioni verrebbero convertiti in un prestito obbligazionario subordinato di durata 10 anni (le banche quindi rinunciano a 2 milioni immediati e li trasformano in un’obbligazione societaria che Beta rimborserà solo se starà bene in futuro, e dopo aver pagato tutto il resto); 1 milione verrebbe stralciato definitivamente (le banche rinunciano al 14% del loro credito nominale); i restanti 4 milioni sarebbero ripianificati in nuovi mutui decennali a tasso agevolato. Beta inoltre si impegna a destinare alle banche il ricavato della vendita di tutto l’eccesso di magazzino (valore stimato 500k) come pagamento straordinario entro 1 anno. Quanto ai creditori estranei (fornitori, locatori): Beta prevede di pagarli integralmente ma dilazionati nei prossimi 12 mesi, utilizzando anche la liquidità liberata dalle minori rate bancarie. Essendo i fornitori disposti a continuare il rapporto (preferiscono che Beta resti viva e acquisti ancora), accettano piani di rientro, e i locatori concordano nuovi contratti a canone ridotto per i negozi che resteranno aperti (gli arretrati li spalmerebbero sui mesi futuri). Beta riesce quindi a convincere 5 banche su 5 (che detengono 100% del credito finanziario) a firmare un term-sheet di accordo. Con tale intesa di massima, Beta presenta ricorso in tribunale ex art. 44 CCII, ottenendo misure protettive immediate (stop a eventuali azioni) mentre finalizza l’accordo definitivo. Entro 2 mesi, Beta deposita l’accordo di ristrutturazione sottoscritto dalle 5 banche che rappresentano il 70% dei crediti totali (7M su 10M). Ha quindi superato la soglia del 60%. In più, allega la dichiarazione che nessun fornitore ha aperto procedure esecutive e anzi la metà di essi (coprendo un altro 10% di crediti) ha espresso supporto al piano, sebbene non occorra formalmente (verranno pagati fuori accordo). Il tribunale nomina un commissario “facilitativo” per verificare la regolarità, il quale attesta che la maggioranza richiesta c’è e che i creditori estranei sono protetti (Beta garantisce che li pagherà per come promesso). Non vi sono opposizioni: i giudici quindi omologano l’accordo di ristrutturazione. Le misure protettive, già concesse in via anticipata, vengono confermate fino al closing.

Nei mesi seguenti Beta S.p.A. esegue l’accordo: vende il magazzino in eccesso incassando 400k (poco meno del previsto, causa saldi), e li versa pro-quota alle banche; stipula i nuovi contratti di finanziamento ridisegnando il debito; emette l’obbligazione subordinata da 2 milioni che le banche sottoscrivono convertendo la parte di credito; paga regolarmente secondo i nuovi piani i fornitori e i canoni futuri concordati. Dopo un anno Beta ha dimezzato i suoi punti vendita ma è tornata in utile. Le banche sono soddisfatte perché intravedono di recuperare più del fallimento (dove forse avrebbero preso il 50%). L’accordo non ha coinvolto formalmente i fornitori (nessun taglio per loro, perciò non serviva includerli nell’omologa), così Beta ha evitato pubblicità negativa sul mercato.

Commento: Questo scenario evidenzia un caso in cui l’accordo di ristrutturazione è ideale: pochi creditori determinanti (banche), tutti d’accordo su una manovra finanziaria. I piccoli creditori sono stati tenuti fuori dall’accordo ma comunque soddisfatti per non danneggiare la reputazione dell’azienda. Il tutto è avvenuto con costi e formalità inferiori a un concordato: niente voto di miriadi di creditori, solo firme delle banche e un passaggio in tribunale relativamente semplice. Questo è esattamente il punto di forza degli ARD: efficaci se c’è compattezza tra i principali creditori. Inoltre, si è vista l’applicazione dell’accordo agevolato (misure protettive ottenute con solo 30% di adesioni iniziali in mano) e la non necessità di estensione forzata (qui tutte le banche erano d’accordo, ma se una con 15% avesse detto no, Beta avrebbe potuto chiedere l’estensione ex 182-septies e obbligarla ad accettare la moratoria con l’85% degli altri, come da legge).

Caso 4: Lavoratore autonomo sommerso dai debiti – piano del consumatore e esdebitazione

Situazione iniziale: Marco è un tecnico informatico freelance (ditta individuale non soggetta a fallimento). Ha contratto debiti personali ingenti: €20.000 con l’Agenzia Entrate per tasse non pagate (avendo guadagnato bene in alcuni anni ma non accantonato per le imposte), €15.000 con la banca per un prestito auto e un fido di conto scoperto, e soprattutto €40.000 con varie finanziarie (credit cards, prestiti personali) accumulati per far fronte a spese mediche della moglie ammalata. Purtroppo la moglie è venuta a mancare, e con la perdita del suo reddito la situazione economica di Marco è peggiorata. Oggi Marco incassa circa €1.500 netti al mese con la sua attività, appena sufficienti a coprire l’affitto di casa, le spese vive e alimentari. Non ha immobili né altri beni di valore. I creditori, alcuni, hanno già ottenuto decreti ingiuntivi e minacciano pignoramenti (la finanziaria X ha pignorato i suoi conti, trovando solo poche centinaia di euro). Marco vede aumentare gli interessi di mora e non ha via d’uscita: anche se lavorerà per i prossimi 10 anni, non riuscirebbe a ripagare €75.000 di debiti con 1.500 al mese (che bastano appena alla sopravvivenza).

Procedura scelta: Marco si rivolge all’OCC per valutare una soluzione. Il gestore OCC analizza i conti e appura che effettivamente Marco non ha margini: vive modestamente, non possiede nulla vendibile, e i suoi creditori non recupereranno granché neanche procedendo legalmente (non ha stipendio dipendente pignorabile, incassa con partite IVA su conto corrente che però ha saldi risicati). La normativa offre il rimedio dell’Esdebitazione del debitore incapiente (art. 283 CCII): in pratica, un debitore persona fisica onesto ma totalmente privo di beni può chiedere la cancellazione dei debiti senza dover pagare nulla ai creditori. Questo è concesso una sola volta nella vita e con l’obbligo morale di pagare in futuro se le cose migliorano. Il gestore propone a Marco di percorrere questa strada. Marco presenta quindi ricorso per liquidazione controllata con esdebitazione immediata incapiente. Spiega la sua storia: i debiti si sono accumulati per cause in parte sfortunate (malattia familiare), lui non ha commesso frodi né vissuto nel lusso (il gestore attesta che ha sempre cercato di lavorare e pagare, e che i debiti fiscali derivano anche da un paio d’anni in cui i suoi clienti non lo hanno pagato e lui non ha potuto versare l’IVA). Il tribunale verifica che: (a) Marco non ha atti in frode (non ha regalato beni a parenti negli ultimi anni, non ha speso per beni voluttuari), (b) non può offrire nulla ai creditori – la legge chiede al debitore incapiente di cedere ai creditori tutto ciò che ha di non necessario. In questo caso, l’unica cosa che Marco possiede è un’auto usata valutata €3.000 che gli serve per lavorare (la legge consente di tenerla come strumento di lavoro); ha un vecchio PC e l’arredamento domestico (tutto impignorabile in quanto beni d’uso). Quindi in pratica non c’è nulla da liquidare. Il giudice, sentito il parere dell’OCC e del PM, approva l’esdebitazione totale di Marco senza attivare una liquidazione (o meglio, apre la liquidazione controllata e la chiude contestualmente constatando l’assenza di attivo, dichiarando l’esdebitazione). I creditori vengono informati e restano spiazzati: molti presentano opposizione sostenendo che è ingiusto non vengano pagati. Ma il tribunale respinge le opposizioni, rilevando che i creditori non avrebbero comunque recuperato niente anche pignorando (perché Marco non ha beni aggredibili, a parte forse l’auto con cui lavora). Per contro, permettere a Marco di azzerare i debiti gli consente di non finire nell’economia sommersa o disperata. Viene quindi emanato il decreto di esdebitazione: tutti i debiti di Marco sono cancellati in via definitiva. I creditori non possono più pretendere nulla. Nei 4 anni successivi, se Marco dovesse ricevere un’eredità o vincere alla lotteria, dovrebbe comunicarlo e in teoria pagare i vecchi creditori con quel surplus; ma realisticamente, ciò non avviene.

Risultato: Marco può continuare la sua vita professionale senza la spada di Damocle dei debiti pregressi. Ha perso l’accesso al credito (difficilmente banche o finanziarie gli faranno prestiti dopo un’insolvenza del genere), ma per lo meno il suo reddito modesto non è più divorato dagli interessi di mora e dalle azioni legali. Per i creditori, certo, è una perdita completa – ma di fatto non c’era nulla da prendere comunque. La legge ha preferito dare un’opportunità di riscatto al debitore meritevole.

Commento: Questo caso estremo mette in luce la funzione sociale dell’esdebitazione per sovraindebitamento. Nel passato, un debitore come Marco sarebbe rimasto “perseguitato a vita” dai creditori (il cosiddetto peonage da debiti). Oggi, l’ordinamento prevede che, se non c’è soluzione e la colpa non è immorale, tanto vale liberare la persona dal peso dei debiti, in modo che possa almeno mantenersi dignitosamente e contribuire all’economia regolare. È una soluzione non priva di dibattito (i creditori ne escono a mani vuote), ma bilanciata dal fatto che è applicabile una sola volta e con giudizio severo sulla condotta.

Domande Frequenti (FAQ)

D: Un imprenditore di piccole dimensioni può accedere al concordato preventivo?
R: No, se l’imprenditore è sotto le soglie di fallibilità previste dall’art. 121 CCII (attivo < €300k, ricavi < €200k, debiti < €500k) oppure è un imprenditore agricolo, non può accedere al concordato preventivo ordinario perché non è soggetto a liquidazione giudiziale. Tuttavia, può accedere alle procedure di sovraindebitamento del Titolo IV CCII. In particolare, l’imprenditore minore o agricolo può proporre un concordato minore, analogo al concordato ma con alcune semplificazioni, oppure se proprio non ha prospettive di risanamento può optare per la liquidazione controllata con esdebitazione. Quindi, anche le piccole imprese hanno strumenti dedicati, solo differenti da quelli delle grandi.

D: Qual è la differenza tra concordato preventivo e accordo di ristrutturazione?
R: Pur avendo entrambi l’obiettivo di evitare il fallimento tramite un accordo col ceto creditorio, presentano notevoli differenze:

  • Il concordato preventivo è una procedura concorsuale a tutti gli effetti: coinvolge tutti i creditori (salvo quelli eventualmente estranei per legge, es. crediti fiscali stralciati solo col voto Erario), richiede una votazione a maggioranza e l’omologa giudiziale. È più formale e garantisce effetti erga omnes (vincola anche i dissenzienti minoritari). D’altra parte ha tempi e costi maggiori e requisiti di legge (es. pagamento minimo 20% se liquidatorio).
  • L’accordo di ristrutturazione è un contratto tra debitore e una parte dei creditori (almeno il 60% in valore) omologato dal tribunale. Non coinvolge forzatamente i creditori estranei (salvo eccezioni per banche o Fisco se certe maggioranze lo consentono). È più flessibile (nessun limite di soddisfacimento minimo), più rapido e riservato, ma per riuscire richiede un alto grado di consenso iniziale tra i creditori. In genere, si preferisce l’accordo se i creditori rilevanti sono pochi e collaborativi; se invece la platea è vasta e conflittuale, è preferibile il concordato, che può imporsi a maggioranza.

D: Le procedure concorsuali sono pubbliche? Cosa succede alla reputazione dell’azienda?
R: Le procedure dal concordato in poi sono pubbliche: l’apertura di un concordato preventivo, di una liquidazione giudiziale o l’omologa di un accordo di ristrutturazione vengono iscritte nel Registro delle Imprese e in altri registri pubblici (registro procedure concorsuali). Inoltre, sono oggetto di pubblicazione su portali come il Portale delle vendite (per eventuali cessioni) e nelle visure camerali risulta lo stato concorsuale. Questo può impattare la reputazione, la fiducia di clienti e fornitori. Ecco perché esistono strumenti “riservati” come la composizione negoziata (il suo avvio non è pubblicizzato, e se non si conclude con un concordato rimane segreta) o il piano attestato (completamente riservato). Un accordo di ristrutturazione, pur essendo omologato in tribunale, è meno stigmatizzante perché spesso i dettagli non diventano di dominio pubblico (l’azienda può evitare clamore mediatico). In pratica, se la pubblicità potrebbe danneggiare l’impresa (es. perdita clientela), si valuta di tentare prima soluzioni riservate.

D: Cosa succede se, dopo l’omologazione, il debitore non rispetta il piano concordatario?
R: Se il debitore non esegue il concordato secondo i termini stabiliti, i creditori o il commissario possono chiedere la risoluzione del concordato (art. 118 CCII). Il tribunale, verificato l’inadempimento notevole (ad esempio mancato pagamento di una rata rilevante), dichiara risolto il concordato e contestualmente può aprire la liquidazione giudiziale. Ciò significa che si torna essenzialmente a un fallimento, con perdita dei benefici per il debitore (i crediti stralciati revival in pieno salvo quanto già incassato dai creditori). Da notare però che il correttivo 2024 ha introdotto l’art. 118-bis CCII che permette di modificare il piano concordatario omologato se sopravvengono circostanze che impediscono l’esecuzione. Quindi, invece di risolvere subito, si può presentare un piano modificativo da far approvare ai creditori, mantenendo in vita il concordato (una novità per dare più chances). Se però l’impasse è insanabile, purtroppo si va verso la risoluzione e apertura del fallimento.

D: I debiti fiscali e contributivi possono essere tagliati nelle procedure concorsuali?
R: Sì, ma con regole speciali. Nel concordato preventivo è ammesso proporre il pagamento parziale dei tributi e contributi, ma l’adesione dell’ente è decisiva: se il Fisco/INPS votano contro e la loro pretesa supera il 30% dei crediti chirografari, il concordato non sarebbe approvato. Il CCII ha però previsto che il tribunale possa omologare ugualmente se l’offerta al Fisco è conveniente (il c.d. “cram-down fiscale”). Negli accordi di ristrutturazione, analogamente, si può includere la “transazione fiscale”: se il Fisco aderisce, bene; se rifiuta ma gli altri creditori approvano e l’offerta era pari almeno al valore di realizzo, il giudice può omologare comunque, limitatamente all’effetto esdebitativo verso il Fisco. Quindi in pratica è possibile tagliare debiti erariali, ma il piano deve offrire al Fisco una ragionevole soddisfazione (non lo si può azzerare arbitrariamente). Nelle procedure di sovraindebitamento, es. concordato minore, vale simile: il Fisco può essere falcidiato però sotto controllo giudiziale. Invece, nota bene, nell’ambito fallimentare ordinario i debiti tributari si tagliano solo in caso di insufficienza dell’attivo (nel riparto finale, spesso non prendono il 100% perché l’attivo non basta).

D: Durante le trattative di composizione negoziata, posso ottenere nuova finanza per l’azienda?
R: Sì. Una delle opportunità della composizione negoziata è la possibilità di reperire finanziamenti prededucibili: il debitore, su perizia e verifica dell’esperto, può ottenere nuova liquidità (ad esempio da soci o banche disposte) la quale, se la situazione evolverà in un concordato o fallimento, verrà rimborsata con priorità assoluta (prededuzione). Questo incoraggia i finanziatori a intervenire durante la composizione. Inoltre, il tribunale può autorizzare il debitore a concedere garanzie su quei nuovi finanziamenti (anche se su beni già ipotecati, in deroga ad alcune restrizioni). Tutto ciò serve a facilitare il risanamento: l’impresa in crisi può ottenere ossigeno finanziario per portare avanti l’attività e implementare le misure di ristrutturazione, senza che chi presta i soldi tema di finire in coda ai vecchi creditori.

D: In un concordato in continuità, l’imprenditore resta in carica? Oppure la gestione passa a terzi come nel fallimento?
R: Nel concordato preventivo, di regola il debtor in possession: l’imprenditore rimane alla guida dell’azienda durante la procedura e anche nell’esecuzione del piano, ma opera sotto la vigilanza del commissario giudiziale. Solo in casi eccezionali il tribunale può disporre la sostituzione con un amministratore giudiziario (ad esempio se c’è il fondato sospetto di atti di frode o mala gestio durante la procedura). In un concordato liquidatorio, spesso il piano prevede che, dopo l’omologa, un liquidatore giudiziale (nominato dal tribunale) prenda in carico la vendita dei beni e la distribuzione, quindi lì il debitore viene esautorato per la fase liquidativa. Ma fino all’omologa anche nel liquidatorio il legale rappresentante resta formalmente in carica, pur con poteri limitati (ogni atto straordinario deve essere autorizzato dal GD). Nel fallimento invece il controllo passa integralmente al curatore. Dunque il concordato, specie se in continuità, è “debtor in possession” – un vantaggio per l’imprenditore, che conserva il timone (sorvegliato). Ciò non toglie che se compie atti in frode, il giudice può revocargli il beneficio e/o non omologare la procedura.

D: Quali sono i costi da anticipare per avviare una procedura concorsuale?
R: Dipende dalla procedura:

  • Per la composizione negoziata i costi iniziali sono quasi nulli (non c’è contributo unificato e l’esperto è pagato a fine lavoro dalla CCIAA con un fondo pubblico). È richiesto un investimento nei consulenti se il debitore ne vuole (es. nominare un financial advisor può aiutare).
  • Per il concordato preventivo, occorre versare il contributo unificato (€1000 per concordati) e un fondo spese iniziale (il tribunale spesso chiede un deposito cauzionale per le spese della procedura, ad es. a copertura del compenso del commissario per i primi mesi). Questo importo varia (a volte qualche migliaio di euro, a volte percentuale sul passivo). Inoltre, il debitore deve pagare l’attestatore che redige la relazione (compenso da concordare, di solito diverse migliaia di euro calibrate sull’impegno). Va poi considerato il costo dei professionisti (avvocati, commercialisti) che predisporranno la domanda e seguiranno l’azienda in procedura. Molti di questi costi, in caso di successo, diventano prededucibili (cioè si pagano con le risorse della procedura), ma altri vanno anticipati. In soldoni, l’azienda deve avere un minimo di liquidità per permettersi di entrare in concordato (se è completamente al verde, diventa difficile).
  • Per le procedure di sovraindebitamento, c’è un costo di organismo OCC (il compenso del gestore, tariffe ministeriali in parte rapportate all’attivo/passivo: se il debitore non ha nulla, c’è comunque un minimo tariffario, ma spesso gli OCC modulano i pagamenti anche a fine procedura). In genere, per un privato indebitato il costo OCC può essere di poche centinaia di euro o qualche migliaio nei casi più complessi, spesso rateizzabili. Non c’è contributo unificato elevato (sono procedure esenti o con CU ridotto).
  • In un fallimento (liquidazione giudiziale), se richiesto da un creditore, il debitore non anticipa nulla. Se è autoiniziativa, deve pagare contributo unificato (€400) e marca (€27). Il curatore poi si pagherà dall’attivo.

D: I soci/garanti dell’azienda in concordato sono liberati dai debiti?
R: Attenzione: l’effetto di esdebitazione di un concordato o accordo riguarda il debitore che lo fa. Se la società Alfa S.r.l. ottiene l’omologa di un concordato che paga il 50% ai chirografari, la società è liberata del restante 50%. Ma se i soci avessero prestato fideiussioni personali, i creditori (salvo patto contrario) potrebbero rivalersi su di loro per il restante (le garanzie non sono automaticamente protette). Ci sono opzioni: si può chiedere ai creditori di rinunciare volontariamente alle fideiussioni in cambio magari di una soddisfazione leggermente maggiore in concordato (a volte lo fanno). Nel nuovo CCII è previsto che l’effetto esdebitativo possa, in certi casi e su richiesta, estendersi anche ai coobbligati (ma è materia delicata: normalmente no, i coobbligati restano obbligati per intero). Diverso se si tratta di debiti societari garantiti da soci con pegno su partecipazioni: lì la soddisfazione del concordato può liberare il pegno. In sintesi: i soci garanti rischiano di dover pagare la parte non pagata dal concordato. Per tutelarli, a volte conviene far sì che anche i soci (se persone fisiche) presentino parallelamente istanza di sovraindebitamento o accordo personale. Il CCII consente procedure coordinate (es. il caso citato di coniugi che fanno concordato minore insieme).

D: Dopo la chiusura di un fallimento o la fine di un concordato, l’imprenditore può aprire una nuova società o riprendere l’attività?
R: Sì. Il CCII prevede l’esdebitazione dell’imprenditore individuale onesto dopo il fallimento, il che gli consente di ripartire pulito. Nel concordato, se eseguito correttamente, l’impresa continua e i vecchi debiti sono cancellati. Non ci sono preclusioni formali ad avviare nuove attività (salvo i casi di condotte fraudolente, ma quello è penale). È chiaro che dovrà riconquistare la fiducia del mercato. Ma giuridicamente, terminata la procedura, l’imprenditore torna libero: ad esempio, se era socio di società fallita, può costituirne un’altra (salvo responsabilità personali emerse). Nel fallimento, durante la procedura c’è l’inabilitazione all’esercizio d’impresa, ma dopo la chiusura decade. Importante però: un soggetto che ha già beneficiato di esdebitazione fallimentare non può chiederla di nuovo prima di 10 anni; analogamente per il sovraindebitato incapiente, la legge dice una volta sola. Questo per evitare abusi seriali.


Fonti normative e giurisprudenziali utilizzate

  • Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII) – D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, e successive modifiche: artt. 2 (definizioni di crisi e insolvenza), 3-4 (assetti adeguati e doveri), 13-15 (misure premiali), 17-25-septies (composizione negoziata), 25-octies – 25-duodecies (allerta esterna, segnalazioni creditori pubblici), 44-48 (domanda di concordato, riserva), 54-55 (misure protettive e cautelari), 56 (piani attestati di risanamento), 57-64 (accordi di ristrutturazione), 64-bis – 64-ter (piani di ristrutturazione soggetti a omologazione – PRO), 84-88 (concordato preventivo e classi), 90-91 (contenuto piano concordato, trattamento creditori pubblici), 112 (omologazione concordato e cram-down), 118-119 (risoluzione concordato, modifiche piano omologato), 121 (soglie non fallibilità), 182-185 (liquidazione giudiziale, presupposti, effetti), 208-209 (esdebitazione fallito), 240-243 (Liquidazione controllata sovraindebitati), 268-277 (concordato minore), 278-281 (ristrutturazione debiti del consumatore), 282-283 (esdebitazione persone sovraindebitate incapienti).
  • D.Lgs. 26 ottobre 2020, n. 147 (primo “Correttivo” al Codice della Crisi) – ha modificato vari articoli del CCII prima dell’entrata in vigore.
  • D.L. 24 agosto 2021, n. 118, convertito in L. 147/2021 – provvedimento che ha introdotto la Composizione Negoziata e il Concordato Semplificato, poi confluiti nel CCII (artt. 17-25 septies e 25-sexies CCII).
  • D.Lgs. 17 giugno 2022, n. 83 (cd. “Correttivo-bis”) – attuativo Direttiva UE 2019/1023, ha inserito tra l’altro gli artt. 64-bis e ter sul PRO e migliorato le transazioni fiscali negli accordi.
  • D.Lgs. 13 settembre 2024, n. 136 (cd. “Correttivo-ter”) – ulteriori modifiche: introdotto cram-down interclassi in concordato (nuovo art. 112 co.2 lett. d CCII); art. 118-bis CCII su modifica piani omologati; estensione obblighi di segnalazione ai revisori; rimosso requisito “esito non positivo” per concordato semplificato etc.
  • Codice Civile: art. 2086 (obbligo assetti organizzativi).
  • Legge Fallimentare (R.D. 267/1942) (abrogata dal 15/7/2022) – richiamata per continuità interpretativa su alcuni punti: es. art. 161 L.F. (competenza territoriale fallimento, trasferimento sede irrilevante nell’anno) applicato analogicamente al concordato semplificato.
  • Legge 27 gennaio 2012, n. 3 (sul sovraindebitamento) – ormai abrogata, ma rilevante per comprendere l’origine di “concordato minore”, “piano del consumatore” e “liquidazione del patrimonio” confluiti nel CCII.

Principali pronunce giurisprudenziali:

  • Cassazione Civile, Sez. I, 12 aprile 2023, n. 9730 – Ha chiarito la natura concorsuale del concordato semplificato ex art. 25-sexies CCII e l’applicabilità analogica delle norme sulla competenza territoriale (irrilevanza trasferimento sede nell’anno precedente). Massima: “Il concordato semplificato, ancorché peculiare, rientra nel novero delle procedure concorsuali, soggiacendo alla regola di irrilevanza del trasferimento sede nell’anno ante domanda ex art. 28 CCII, in continuità col D.L. 118/2021”.
  • Cassazione Civile, Sez. I, 6 giugno 2023, n. 15790 – In tema di compenso del commissario giudiziale: ha stabilito che, in concordato preventivo (anche con riserva e post omologa), il compenso unico va calcolato sull’attivo inventariato e non su quello realizzato, disapplicando per irragionevolezza l’art. 5 DM 30/2012 (che distingueva a seconda del tipo di concordato). Questo uniforma il criterio a vantaggio del commissario (attivo inventariato solitamente maggiore del realizzato).
  • Cassazione Civile, Sez. I, 30 novembre 2023, n. 33346 (pubbl. 20/12/2023, ilCaso.it) – Ha ribadito i limiti dei poteri del giudice di rinvio dopo cassazione in materia di omologazione concordato: nel caso di specie la Corte d’Appello in rinvio non poteva riesaminare la fattibilità economica del piano dopo che la Cassazione aveva annullato per violazione di legge, dovendo attenersi al principio di diritto senza modificare l’accertamento dei fatti. Ciò rimarca che la valutazione di fattibilità compete in primis ai creditori e all’attestatore, e il giudice non può discostarsene arbitrariamente.
  • Tribunale di Mantova, decr. 28 marzo 2023 – (in DirittodellaCrisi.it Focus) Ha concesso l’omologazione di un accordo di ristrutturazione con cram-down fiscale, ritenendo ingiustificato il diniego dell’Erario a fronte di un’offerta pari al valore di realizzo in fallimento, applicando l’art. 63 CCII. Ha confermato che il tribunale può superare il dissenso dell’Erario se l’accordo nel complesso è conveniente.
  • Tribunale di Milano, decreto 16 settembre 2022 – Prima applicazione del concordato semplificato: ha ritenuto ammissibile l’applicazione estensiva delle misure protettive (artt. 54-55) al concordato semplificato, pur non espressamente previsto, evidenziando la necessità di conservare il patrimonio durante la procedura. È stato seguito poi da altri tribunali (Lecce, Avellino 2023) consolidando tale orientamento.
  • Tribunale di Torino, decreto 25 novembre 2022 – Orientamento iniziale contrario: aveva negato le misure protettive nel concordato semplificato, ritenendo esaustiva la previsione dell’art. 54 CCII che non lo menzionava. Questo decreto è rimasto isolato e superato dalla prassi successiva (cfr. Trib. Lagonegro 2/2/2023).
  • Tribunale di Napoli, decreto 25 ottobre 2023 – Ha revocato l’ammissione a concordato semplificato e aperto la liquidazione giudiziale rilevando mancanza di buona fede del debitore nelle trattative precedenti (l’esperto aveva segnalato reticenze). Conferma che il tribunale controlla d’ufficio la sussistenza delle condizioni (trattative svolte correttamente) e che comportamenti scorretti precludono l’accesso al semplificato.
  • Tribunale di Matera, decreto 11 marzo 2025 – Ha ammesso un concordato minore congiunto presentato da due coniugi (imprenditore agricolo e coniuge coobbligata), segno della flessibilità delle procedure di sovraindebitamento nel gestire situazioni familiari unitariamente.
  • Tribunale di Roma, decreto 15 febbraio 2023 (es. in IlCaso.it) – In tema di esdebitazione del debitore incapiente ex art. 283 CCII: ha applicato per la prima volta la “esdebitazione immediata” ad un debitore civile nullatenente, respingendo le opposizioni dei creditori e sottolineando la meritevolezza del debitore. Cita l’intento del legislatore di offrire una via d’uscita ai soggetti incolpevoli schiacciati dai debiti, in attuazione della direttiva UE sul secondo chance.

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