Qual È La Responsabilità Del Liquidatore Per I Debiti Tributari?

Hai accettato l’incarico di liquidatore di una società e ora ti stai chiedendo quali siano i tuoi rischi nei confronti del Fisco? Oppure stai seguendo una chiusura e temi che eventuali debiti tributari possano ricadere personalmente su di te?

La domanda è legittima: in fase di liquidazione, il liquidatore non è solo un esecutore materiale, ma ha precise responsabilità, anche verso l’Agenzia delle Entrate. E ignorarle può avere conseguenze serie.

Ma quando risponde il liquidatore per i debiti fiscali della società? Ci sono casi in cui può essere chiamato a pagare di tasca propria?

Sì. Il liquidatore può essere ritenuto personalmente responsabile se, nella gestione della liquidazione:

  • non rispetta l’ordine legale dei pagamenti, privilegiando alcuni creditori e lasciando indietro il Fisco;
  • distribuisce beni o utili ai soci prima di aver soddisfatto i debiti tributari;
  • omette di accantonare le somme necessarie per pagare imposte e tributi dovuti;
  • oppure non presenta le dichiarazioni fiscali durante la liquidazione, causando danni all’erario.

In sostanza, la responsabilità del liquidatore è di tipo risarcitorio: se con il suo comportamento ha danneggiato l’amministrazione finanziaria, può essere chiamato a rispondere col proprio patrimonio, anche dopo la chiusura della società.

E se il liquidatore ha agito in buona fede? Cosa può fare per tutelarsi?

La buona fede non basta da sola. Il liquidatore deve dimostrare di aver agito con diligenza e nel rispetto delle norme, accantonando le somme dovute per le imposte e seguendo l’ordine delle prelazioni previsto dalla legge. È fondamentale documentare ogni scelta, ogni pagamento e ogni atto di gestione. E, quando possibile, chiedere il supporto di un legale o di un consulente esperto in diritto tributario.

In questa guida, lo Studio Monardo – avvocati esperti in diritto societario, responsabilità del liquidatore e contenzioso tributario – ti spiega qual è la responsabilità fiscale del liquidatore, quando può scattare, come evitarla e come possiamo aiutarti a gestire la liquidazione della società senza rischi per il tuo patrimonio.

Hai preso in carico una società con debiti fiscali e vuoi sapere come tutelarti? Oppure ti hanno già notificato un atto di accertamento a titolo personale?

Alla fine della guida puoi richiedere una consulenza riservata con l’Avvocato Monardo: analizzeremo la situazione fiscale della società, verificheremo i rischi reali e ti guideremo in ogni fase della liquidazione per evitare contestazioni e responsabilità personali.

Introduzione

Quando una società si scioglie e viene posta in liquidazione, il liquidatore – ossia la persona incaricata di gestire la chiusura dei conti e la distribuzione dell’attivo – assume delicati obblighi verso i creditori, Fisco incluso. In linea generale, le società di capitali godono di un’autonomia patrimoniale perfetta: i debiti sociali possono essere soddisfatti solo sul patrimonio della società, e i soci non ne rispondono con i propri beni personali. Tuttavia, questa separazione patrimoniale conosce importanti eccezioni nella fase di liquidazione. In particolare, per tutelare l’Erario, la legge impone al liquidatore di soddisfare i debiti tributari della società prima di distribuire eventuali attività residue ai soci; se ciò non avviene, il liquidatore può essere chiamato a risponderne di tasca propria. Analogamente, i soci che abbiano ricevuto beni o denaro dalla società in liquidazione possono dover restituire quanto percepito per pagare le imposte rimaste insolute.

Questa guida approfondita esamina la responsabilità del liquidatore per i debiti tributari dal punto di vista del debitore (società o imprenditore), con un taglio pratico e aggiornato alle novità normative e giurisprudenziali di giugno 2025. Ci rivolgiamo ad avvocati, imprenditori e privati interessati a capire:

  • Quali tributi sono coinvolti (IVA, imposte sui redditi come IRPEF/IRES, ritenute fiscali, IRAP, contributi previdenziali INPS, ecc.) e come vengono trattati in liquidazione;
  • Quali sono le forme di liquidazione (volontaria ordinaria, liquidazione coatta amministrativa, procedura fallimentare o liquidazione giudiziale sotto il Codice della Crisi) e come ciascuna incide sulle responsabilità verso il Fisco;
  • In quali casi il liquidatore, gli amministratori e i soci rispondono dei debiti tributari non pagati dalla società, con riferimento sia alle norme civilistiche (Codice Civile, art. 2495 c.c. e altre) sia alla normativa fiscale speciale (art. 36 del D.P.R. 602/1973);
  • I profili penali rilevanti, ad esempio i reati tributari previsti dal D.Lgs. 74/2000 (omesso versamento IVA o ritenute, sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, ecc.) e le circostanze in cui il liquidatore o l’amministratore possono incorrervi;
  • Le differenze tra i diversi soggetti giuridici: società di capitali (S.p.A., S.r.l.), società di persone (S.n.c., S.a.s.), ditte individuali, enti non commerciali (associazioni, fondazioni) – poiché le regole di responsabilità variano a seconda della forma giuridica e del regime patrimoniale;
  • Consigli pratici su come il liquidatore deve operare per adempiere correttamente agli obblighi tributari (dalla presentazione delle dichiarazioni durante la liquidazione, al pagamento dei debiti tributari secondo i gradi di privilegio, fino alla richiesta di eventuali certificati fiscali di regolarità);
  • Domande frequenti e casi concreti, con risposta chiara e soluzioni basate su normativa e prassi, inclusi esempi numerici e tabelle riepilogative dei casi più comuni.

Il linguaggio adottato sarà rigoroso dal punto di vista giuridico ma divulgativo, in modo da risultare comprensibile anche ai non addetti ai lavori senza sacrificare il necessario approfondimento tecnico. Troverete, lungo la guida, sezioni FAQ (Domande & Risposte) per chiarire i dubbi più ricorrenti, tabelle riassuntive che schematizzano obblighi e responsabilità nelle varie situazioni, nonché scenario e simulazioni pratiche ispirate a casi reali, utili per capire come applicare le norme a concrete vicende aziendali.

Al termine della guida, un’ampia raccolta di riferimenti normativi e giurisprudenziali aggiornati (dalle sentenze di Cassazione più recenti, ai documenti di prassi dell’Agenzia Entrate, fino alle disposizioni chiave del Codice Civile, TUIR, D.Lgs. 74/2000, ecc.) vi permetterà di approfondire ulteriormente ogni aspetto trattato.

In sintesi, la responsabilità del liquidatore per i debiti tributari è un tema dove si intrecciano diritto civile, diritto tributario e diritto penale. Comprenderlo è fondamentale per evitare errori nella gestione della fase liquidatoria: un passo falso può infatti comportare, per chi liquida la società, conseguenze economiche personali e persino responsabilità penali. Iniziamo dunque il nostro percorso chiarendo il quadro normativo generale e i principi di base in materia.

Quadro Normativo Generale

Affrontare la responsabilità del liquidatore richiede innanzitutto di delineare le norme di riferimento e i principi giuridici di base. Le fonti principali in materia sono:

  • Codice Civile – disciplina lo scioglimento e la liquidazione delle società (artt. 2484-2496 c.c. per le società di capitali; artt. 2272-2312 c.c. per le società di persone), nonché la responsabilità residuale dei soci dopo l’estinzione (art. 2495 c.c. per le società di capitali; art. 2312 c.c. per le società di persone).
  • Normativa tributaria speciale – in particolare l’art. 36 del D.P.R. 29 settembre 1973 n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito) che prevede una peculiare forma di responsabilità “per fatto proprio” a carico di liquidatori, amministratori e soci in presenza di debiti tributari non pagati. Questa norma fiscale (come vedremo) integra e in parte supera la disciplina civilistica, ponendo condizioni specifiche a tutela del credito erariale.
  • Leggi fiscali e contributive – ad esempio, il Testo Unico delle Imposte sui Redditi (D.P.R. 917/1986, art. 182 sulle società in liquidazione), il D.P.R. 633/1972 (IVA), il D.Lgs. 446/1997 (IRAP), il D.Lgs. 241/1997 (obblighi di versamento unificato), nonché le norme che regolano i contributi previdenziali (es. obblighi verso INPS) e le sanzioni amministrative tributarie (D.Lgs. 472/1997). Queste leggi definiscono quali debiti tributari gravano sulla società anche durante la liquidazione e con quali regole vanno accertati e riscossi.
  • Diritto della crisi d’impresa e dell’insolvenza – il nuovo Codice della Crisi (D.Lgs. 14/2019, in vigore dal 2022) ha riformato le procedure concorsuali (fallimento, concordato, liquidazione coatta), introducendo obblighi aggiuntivi per gli amministratori in caso di crisi e prevedendo, ad esempio, che una società già cancellata possa essere sottoposta a liquidazione giudiziale (fallimento) entro 1 anno dalla cancellazione se era insolvente prima. Questo quadro concorsuale incide sulla responsabilità degli organi sociali (amministratori e liquidatori) perché impone loro di scegliere le procedure corrette in caso di insolvenza, pena ulteriori conseguenze (come azioni di responsabilità per aggravamento del dissesto o incriminazioni per bancarotta).
  • Norme penali tributarie – in particolare il D.Lgs. 10 marzo 2000 n. 74, che punisce una serie di reati fiscali rilevanti anche in contesto di liquidazione: ad esempio, il ’omesso versamento’ di IVA o ritenute (artt. 10-bis e 10-ter), la ‘sottrazione fraudolenta’ al pagamento di imposte (art. 11) mediante occultamento di beni sociali, l’omessa o infedele dichiarazione fiscale (artt. 5 e 4), etc. Queste norme penalistiche si intrecciano con la posizione del liquidatore: capiremo quando il liquidatore o l’amministratore possono esserne chiamati a rispondere (ad esempio, se non pagano l’IVA dovuta con dolo).
  • Giurisprudenza recente – la Corte di Cassazione, anche a Sezioni Unite, ha più volte interpretato e chiarito la portata di queste norme. Ad esempio, con sentenza Cass. SS.UU. n. 3625/2025 ha definito i confini della responsabilità dei soci per i debiti tributari di una società estinta; con Cass. SS.UU. n. 32790/2023 ha stabilito che l’Agenzia delle Entrate può emettere direttamente un avviso di accertamento contro il liquidatore senza passare per l’iscrizione a ruolo a carico della società dissolta; numerose sentenze penali (Cass. nn. 8995/2018, 20188/2021, 13134/2025, etc.) hanno delineato quando il liquidatore commette reato in caso di omessi versamenti. Queste pronunce – che verranno citate nel corso della guida – sono fondamentali per comprendere come viene applicata la legge in concreto.

Di seguito, sintetizziamo alcuni principi generali che emergono da questo quadro normativo e che guideranno l’analisi dettagliata successiva:

  • Continuità delle obbligazioni tributarie: lo scioglimento e la liquidazione non estinguono automaticamente i debiti tributari della società. Durante la liquidazione, la società resta soggetto passivo d’imposta e deve continuare a rispettare gli obblighi fiscali (presentare dichiarazioni per il periodo di liquidazione, versare IVA sulle vendite di beni liquidati, versare ritenute se paga stipendi o compensi, ecc.). Solo al termine, con la cancellazione dal Registro Imprese, la società cessa di esistere giuridicamente – ma persino dopo la cancellazione, per legge, rimane per cinque anni “in vita” agli occhi del Fisco ai soli fini di accertamenti e riscossioni (c.d. “sopravvivenza fiscale quinquennale” introdotta dall’art. 28, co. 4, D.Lgs. 175/2014, confermata da Corte Cost. n. 142/2020). In altri termini, i debiti tributari non si dissolvono con la società: o vengono pagati durante la liquidazione, oppure sopravvivono e possono essere fatti valere nei confronti di altre persone (liquidatore, soci, garanti).
  • Parità di trattamento dei creditori e privilegi fiscali: uno dei capisaldi della liquidazione è la par condicio creditorum, ossia la regola per cui i creditori devono essere soddisfatti in ordine di grado e proporzionalmente, senza preferenze indebite. Il Codice Civile (art. 2741 c.c.) e le leggi concorsuali impongono al liquidatore di rispettare i diritti di prelazione: certi crediti godono di privilegi speciali o generali che li collocano davanti ad altri nel soddisfo. Ad esempio, i crediti per retribuzioni dei dipendenti hanno privilegio generale mobiliare di grado elevato (art. 2751-bis c.c.), così come i crediti per contributi INPS e per alcune imposte (art. 2752 c.c.); i crediti garantiti da pegno o ipoteca su specifici beni hanno prelazione su quelli beni. I crediti tributari (come IVA, imposte sui redditi, ecc.) sono normalmente assistiti da privilegio generale sui mobili del debitore, di grado inferiore solo ad alcuni crediti come stipendi e spese di giustizia. Ciò significa che in liquidazione il Fisco va soddisfatto prima dei creditori chirografari (non privilegiati) e dopo eventuali crediti con privilegio superiore (p.es. paghe arretrate). Questo principio è cruciale perché la legge fa dipendere la responsabilità personale del liquidatore proprio dal rispetto o meno di tale ordine di pagamento. In breve: se il liquidatore paga dei creditori subordinati (o distribuisce attivo ai soci) prima di aver pagato le imposte dovute (o prima di pagare chi ha privilegio ancora più alto del Fisco), egli potrà esserne ritenuto personalmente responsabile. Viceversa, se l’attivo sociale è insufficiente e il liquidatore lo destina integralmente a creditori che precedono il Fisco (o allo stesso Fisco in quota parte, secondo il grado) senza riuscire a soddisfare tutti, egli non sarà responsabile per l’insufficienza, purché abbia seguito le regole di graduazione. Questo equilibrio tra ordine dei privilegi e responsabilità personale sarà approfondito nelle sezioni seguenti.
  • Responsabilità “per fatto proprio” di liquidatori e soci: la responsabilità di cui trattiamo non è una mera estensione dei debiti sociali ai liquidatori/soci, ma una forma di responsabilità civile autonoma, che la legge fa sorgere a carico di queste persone al ricorrere di determinati presupposti (ad es. mala gestio del liquidatore nel pagare i debiti). La Cassazione la definisce obbligazione ex lege “di natura civilistica” fondata su un fatto proprio illecito del liquidatore. In pratica, il liquidatore non subentra nei debiti fiscali come un erede universale, ma diventa debitore verso l’Erario in conseguenza del proprio comportamento (aver soddisfatto altri prima del Fisco, causando così il mancato pagamento delle imposte dovute). Allo stesso modo, i soci rispondono in modo limitato alle somme che hanno ricevuto indebitamente in sede di liquidazione. Questa distinzione è importante: il Fisco, per escutere liquidatori o soci, deve seguire una procedura specifica (un atto di accertamento motivato ai sensi dell’art. 36 DPR 602/73) e dimostrare le condizioni previste dalla norma. Non si tratta di rendere liquidatori e soci automaticamente coobbligati di tutto il debito fiscale, ma di colpirli entro certi limiti e condizioni di legge. Vedremo nel dettaglio quali sono tali condizioni (ad es. l’onere della prova, le somme oggetto di distribuzione, ecc.).
  • Differenze in base al tipo di ente: non tutte le imprese sono uguali di fronte a queste norme. Le società di capitali (S.r.l., S.p.A.) hanno soci in principio non responsabili, per cui le norme come l’art. 36 DPR 602/73 e l’art. 2495 c.c. delineano quando, in deroga, liquidatore e soci pagano. Le società di persone (S.n.c., S.a.s.) invece hanno soci illimitatamente responsabili durante tutta la vita sociale: i creditori (incluso il Fisco) possono chiedere direttamente ai soci il pagamento dei debiti sociali se la società non paga. Questo comporta che per le società di persone la problematica assuma connotati diversi – in pratica, il Fisco non ha nemmeno bisogno dell’art. 36 DPR 602/73 per colpire i soci di una S.n.c. insolvente, in quanto può già far valere l’art. 2291 c.c. (responsabilità solidale e illimitata dei soci) o l’art. 2312 c.c. dopo la cancellazione. Discorso analogo per l’imprenditore individuale: non esiste personalità giuridica distinta, dunque tutti i debiti tributari dell’impresa individuale restano a carico diretto dell’imprenditore (che potrà al più essere liberato da essi attraverso procedure concorsuali personali, come il fallimento personale o la composizione della crisi da sovraindebitamento). Gli enti non commerciali con personalità giuridica (es. associazioni riconosciute, fondazioni) seguono un regime simile alle società di capitali quanto a autonomia patrimoniale, e dunque si applicano in linea di principio le stesse norme (liquidatore nominato, art. 36 DPR 602/73 se soggetti passivi d’imposta, ecc.), mentre gli enti non riconosciuti rispondono con il fondo comune e, per le obbligazioni non soddisfatte, con il patrimonio personale di chi ha agito in nome e per conto dell’ente (art. 38 c.c.): in quest’ultimo caso, i rappresentanti di un’associazione non riconosciuta possono essere chiamati a rispondere personalmente dei debiti tributari non pagati dall’associazione, anche senza bisogno di una norma ad hoc, in virtù della regola civilistica generale. In questa guida distingueremo, quando necessario, le varie casistiche in base al tipo di soggetto.

Nei capitoli successivi esamineremo questi aspetti in modo dettagliato. Procederemo descrivendo le forme di liquidazione e i relativi obblighi, per poi concentricamente analizzare la responsabilità del liquidatore (civile), quella dei soci, e infine i profili penali. Esempi pratici, quesiti frequenti e tabelle riassuntive arricchiranno la trattazione per fissare i concetti chiave.

Tipologie di Liquidazione e procedure concorsuali

Il termine “liquidazione” può riferirsi a situazioni diverse. È importante capire in quale contesto avviene lo scioglimento dell’impresa, perché le responsabilità del liquidatore e degli altri soggetti possono variare. Possiamo distinguere principalmente: (A) la liquidazione volontaria ordinaria, (B) la liquidazione coatta amministrativa, e (C) la liquidazione giudiziale (procedura fallimentare). Vediamole in sintesi:

  • Liquidazione volontaria ordinaria: avviene quando i soci decidono di sciogliere la società (o si verifica una causa di scioglimento prevista dalla legge o dallo statuto, come il termine di durata o la perdita del capitale nelle S.p.A./S.r.l., ecc. – v. art. 2484 c.c.). I soci (o l’assemblea) nominano uno o più liquidatori, che subentrano agli amministratori nella gestione al solo fine di liquidare il patrimonio sociale. Il liquidatore ordinario ha il compito di: riscuotere i crediti, vendere i beni sociali, pagare i debiti sociali con le attività realizzate, e infine ripartire l’eventuale attivo residuo tra i soci (art. 2491 c.c.). La procedura prevede la redazione di un bilancio finale di liquidazione e un piano di riparto da sottoporre ai soci; una volta approvati (anche tacitamente in 90 giorni, art. 2493 c.c.), si procede ai pagamenti e alla richiesta di cancellazione della società dal Registro delle Imprese. Questa è la forma più comune e “in bonis” di liquidazione. Tuttavia, può capitare che durante la liquidazione volontaria emerga l’insolvenza della società (incapacità di pagare tutti i debiti): in tal caso, il liquidatore dovrebbe valutare di ricorrere a procedure concorsuali (es. chiedere un concordato preventivo o l’apertura del fallimento). Se invece la liquidazione volontaria si conclude con la cancellazione nonostante vi fossero debiti non pagati, si aprono gli scenari di responsabilità verso creditori e Fisco previsti dalla legge (come descriveremo).
  • Liquidazione coatta amministrativa (LCA): è una procedura di liquidazione eterodiretta dall’autorità pubblica, applicabile a particolari tipi di enti per i quali il fallimento non è previsto o è escluso. Esempi classici: banche, assicurazioni, società cooperative, enti sottoposti a vigilanza pubblica (come certe imprese nel settore finanziario), oppure casi di gravi irregolarità. La LCA viene disposta dall’autorità competente (ad es. Banca d’Italia per una banca, Ministero per una coop) e comporta la nomina di un commissario liquidatore al posto degli organi sociali. Di fatto, la liquidazione coatta opera similmante a un fallimento amministrativo: il commissario accerta lo stato passivo dei creditori, liquida l’attivo e distribuisce il ricavato secondo le prelazioni, sotto la supervisione dell’autorità. Anche qui valgono i principi della par condicio e dei privilegi. La differenza è che la procedura è extra-giudiziale (non c’è un tribunale fallimentare di mezzo, ma le decisioni dell’autorità vigilante). Responsabilità del liquidatore: il commissario liquidatore è soggetto a controllo pubblico e agisce in un quadro normativo di settore (es. TUB per banche, TUA per assicurazioni, ecc.). In linea generale, però, egli ha gli stessi obblighi di un liquidatore ordinario nel pagare i debiti secondo l’ordine dei privilegi. Se il commissario, violando i suoi doveri, effettuasse pagamenti indebiti a scapito del Fisco, nulla esclude che l’Amministrazione finanziaria applichi anche a lui la responsabilità prevista dall’art. 36 DPR 602/73 (la norma infatti parla in generale di “liquidatori” e non distingue la modalità della liquidazione). Tuttavia, è più raro nella prassi che in LCA si verifichino distribuzioni ai soci o favoritismi, poiché spesso tali procedure riguardano insolvenze dove i creditori (incluso il Fisco) subiscono perdite concordate nell’ambito della procedura stessa. Resta fermo che i soci in LCA sono paragonabili ai soci di liquidazione ordinaria: se ricevono rimborsi durante o a fine LCA mentre ci sono tributi impagati, potranno esserne chiamati a rispondere nei limiti di quanto ricevuto, al pari di quanto avviene nella liquidazione volontaria (art. 36 vale anche per loro). In alcuni casi particolari (es. liquidazione coatta di cooperative), normative speciali prevedono responsabilità aggiuntive per amministratori e sindaci, ma esulano da questo contesto.
  • Liquidazione giudiziale (fallimento): è la procedura concorsuale giudiziaria applicabile alle imprese insolventi (in particolare agli imprenditori commerciali sopra certe soglie, incluse le società). Fino al 2022 era chiamata fallimento, oggi la si definisce liquidazione giudiziale nel Codice della Crisi. Quando un’impresa viene dichiarata fallita dal Tribunale, gli organi sociali perdono i poteri e subentrano il Curatore (figura analoga al liquidatore, nominata dal giudice) e gli organi della procedura (Giudice Delegato, Comitato dei creditori). Il curatore gestisce e liquida l’attivo e paga i creditori secondo la graduatoria prevista dalla legge fallimentare. Importante: in caso di fallimento, i debiti fiscali della società sono trattati come qualunque altro debito: se sono crediti privilegiati (ad es. IVA, ritenute non versate, ecc.), il Fisco parteciperà al riparto con prelazione; se sono chirografari, verranno soddisfatti pro quota solo dopo i privilegiati. Spesso, nel fallimento, l’attivo è insufficiente a soddisfare integralmente i crediti tributari, che rimangono quindi parzialmente impagati. Tuttavia, dopo la chiusura del fallimento la società è estinta e i debiti residui in linea di principio non sono più azionabili contro di essa. La legge consente comunque ai creditori insoddisfatti di agire contro eventuali coobbligati personali: nel caso delle società di capitali, i creditori (incluso il Fisco) possono rivolgersi ai soci nei limiti dell’art. 2495 c.c. (quanto ricevuto in sede di riparto finale, ipotesi però rara poiché di norma i soci nel fallimento non prendono nulla), mentre per le società di persone i creditori possono escutere direttamente i soci illimitatamente responsabili (che in molti casi vengono dichiarati falliti anch’essi in estensione). E il liquidatore? Nel fallimento classico, la figura del liquidatore sociale è sostituita dal curatore: l’art. 36 DPR 602/73 non si applica al curatore fallimentare, perché questi non è un “liquidatore del soggetto IRES” nel senso della norma (non opera volontariamente per la società, ma per legge in luogo di essa). Inoltre, nel fallimento il curatore non effettua mai distribuzioni ai soci (vietate finché i creditori non sono soddisfatti al 100%), e ogni pagamento ai creditori avviene sotto controllo del giudice rispettando i privilegi – quindi non c’è spazio per la “colpa” specifica che giustifica la responsabilità ex art. 36. In caso di condotte anomale, il curatore risponde eventualmente verso la procedura (azione di responsabilità per malagestione) ma non direttamente verso i creditori con uno strumento come l’art. 36. Dunque, se una società viene liquidata tramite fallimento, i debiti tributari non soddisfatti non possono più essere addebitati al liquidatore o al curatore, ma solo (eventualmente) ai soci nei limiti di legge, o agli amministratori se hanno compiuto illeciti di gestione (vedremo poi le azioni di responsabilità e i reati fallimentari).

È utile evidenziare un punto: a volte gli amministratori tentano di sfuggire al fallimento cancellando anticipatamente la società tramite liquidazione volontaria. La legge però argina questo fenomeno: se entro un anno dalla cancellazione emerge che la società era insolvente, i creditori (compreso il Fisco) possono chiedere al tribunale la riapertura della procedura sotto forma di fallimento postumo (liquidazione giudiziale). In tal caso la società risorge ai soli fini concorsuali, e il curatore potrà revocare eventuali atti di favore ai soci o a terzi (pagamenti preferenziali, restituzioni di conferimenti, ecc. fatti in pre-liquidazione) e far valere responsabilità per bancarotta a carico di chi ha distratto attivi dal pagamento dei debiti. Questo per dire che una liquidazione volontaria fatta male, con debiti lasciati indietro, può comunque sfociare in un fallimento con tutte le relative conseguenze (annullamento degli atti di liquidazione scorretti, azioni contro amministratori/liquidatori, ecc.).

In conclusione, la forma della liquidazione incide sui rimedi del Fisco: se è volontaria o coatta amministrativa, l’Agenzia delle Entrate potrà far leva sull’art. 36 DPR 602/73 per agire contro liquidatore e soci; se è fallimentare, il recupero dei tributi avverrà nell’ambito della procedura (con eventuale azione post-fallimentare solo verso soci illimitatamente responsabili, dato che liquidatore e amministratori risponderanno semmai per vie diverse – v. sezioni successive). Indipendentemente dal tipo, resta fermo che il liquidatore ha sempre il dovere di gestire con diligenza la fase liquidatoria, prestando particolare attenzione al pagamento dei debiti privilegiati come quelli tributari.

Nei prossimi paragrafi ci concentreremo sugli obblighi fiscali del liquidatore nella liquidazione ordinaria (che per estensione valgono anche nelle altre forme, salvo adattamenti) e poi esamineremo in dettaglio la responsabilità civile e penale connessa al mancato pagamento dei tributi.

Obblighi Fiscali e Contributivi durante la Liquidazione

Durante la liquidazione, la società rimane soggetto d’imposta e il liquidatore ne assume le funzioni di rappresentanza fiscale. Ciò comporta una serie di obblighi che il liquidatore deve assolvere per evitare sanzioni e per prevenire future contestazioni di responsabilità. Vediamo i principali:

1. Presentazione delle dichiarazioni fiscali: il liquidatore è tenuto a presentare le dichiarazioni dei redditi e IVA relative ai periodi d’imposta compresi nella liquidazione. In particolare, l’art. 5 del D.P.R. 322/1998 richiede la presentazione della dichiarazione finale entro 7 mesi dalla chiusura della liquidazione (dichiarazione che copre l’ultimo periodo dall’inizio dell’anno fino alla data di termine liquidazione). Inoltre, per ciascun anno o frazione di anno di liquidazione, vanno presentate le dichiarazioni annuali IVA e, se dovute, IRAP. Fino al 2024 il TUIR (art. 182 c.2 D.P.R. 917/1986) prevedeva un meccanismo di tassazione “provvisoria” anno per anno con conguaglio finale alla chiusura: i redditi dei vari esercizi di liquidazione venivano tassati annualmente ma ricalcolati complessivamente nel bilancio finale (consentendo ad esempio di compensare utili e perdite della liquidazione). Dal 2025, a seguito della riforma operata con D.Lgs. 192/2024, questo conguaglio finale è stato eliminato: ogni esercizio di liquidazione è tassato separatamente in via definitiva, con la possibilità solo di un parziale riporto a ritroso delle perdite finali (loss carry-back) se la liquidazione si chiude entro 5 anni. Ciò semplifica i calcoli fiscali di chiusura evitando ricalcoli globali, ma impone al liquidatore di prestare attenzione a dichiarare correttamente ogni anno il risultato di liquidazione, senza contare su riequilibri futuri. In pratica: la società in liquidazione deve dichiarare e pagare l’IRES su eventuali redditi realizzati anno per anno (ad esempio plusvalenze da cessione beni), e solo se all’atto finale risulta una perdita, potrà chiederne in parte l’utilizzo retroattivo per recuperare imposte pagate nei due anni precedenti (come previsto dalla riforma del 2024). Il liquidatore deve inoltre presentare la dichiarazione annuale dei sostituti d’imposta (Modello 770) se durante la liquidazione sono stati corrisposti redditi con ritenute (es. compensi professionisti, pagamenti di TFR, ecc.). L’omessa presentazione di tali dichiarazioni costituisce violazione tributaria e, se l’imposta evasa supera certe soglie (es. €50.000 per l’omessa dichiarazione IVA o imposte dirette), può integrare reato (art. 5 D.Lgs. 74/2000).

2. Versamento delle imposte correnti: il liquidatore deve effettuare regolarmente i versamenti fiscali dovuti durante la liquidazione. Ciò include:

  • IVA sulle operazioni compiute in liquidazione (es. cessione di beni sociali – la liquidazione dell’attivo è di regola un’operazione soggetta a IVA se i beni ceduti erano beni/merci dell’attività commerciale); i versamenti periodici IVA (mensili o trimestrali) e l’eventuale conguaglio annuale vanno eseguiti fino all’ultimo periodo di attività.
  • Ritenute fiscali: se la società in liquidazione continua a pagare stipendi a dipendenti (talora il liquidatore può trattenere qualche dipendente per assisterlo) o compensi ad autonomi, deve operare e versare le ritenute IRPEF entro il giorno 16 del mese successivo, come ogni sostituto d’imposta. Anche compensi eventualmente corrisposti al liquidatore stesso sono soggetti a ritenuta d’acconto se dovuti a professionisti esterni.
  • Imposte sui redditi (IRES/IRPEF) e IRAP: il liquidatore deve versare gli acconti e saldi dovuti in base alle dichiarazioni. Ad esempio, se nel corso del 2025 la società realizza plusvalenze tassabili, dovrà versare l’acconto IRES 2025 secondo le regole ordinarie, e pagare il saldo IRES a giugno dell’anno successivo (a meno che la liquidazione si chiuda prima, nel qual caso il saldo sarà versato entro gli stessi termini della dichiarazione finale). In sede di chiusura, se dal bilancio finale risultano imposte dovute (es. sulla distribuzione di riserve tassabili ai soci, oppure su plusvalenze non ancora tassate in acconto), il liquidatore deve accantonare le somme necessarie al pagamento. Attenzione: prima di distribuire qualsiasi attivo ai soci, il liquidatore deve sincerarsi che tutte le imposte dovute siano pagate o quantomeno accantonate. Distribuire beni senza aver pagato un debito fiscale esigibile espone il liquidatore a responsabilità (come approfondiremo nell’apposita sezione).
  • Contributi previdenziali e altri tributi: similmente, se la società in liquidazione ha dipendenti o collaboratori, va continuato il versamento dei contributi INPS e premi INAIL sulle retribuzioni fino al termine dei rapporti. Inoltre, eventuali tributi locali (IMU su immobili fino alla vendita, TARI, canoni vari) devono essere pagati. Questi crediti, se rimangono insoluti, spesso godono di privilegio (ad es. l’IMU ha privilegio sull’immobile per due annualità). Anche se l’art. 36 DPR 602/73 parla testualmente di “imposte” (tipicamente imposte erariali), è buona prassi per il liquidatore considerare parimenti i debiti verso enti locali o enti previdenziali, sia perché privilegiati sia perché il Codice Civile (art. 2491 c.c.) richiede di soddisfare tutti i debiti prima di dare ai soci l’avanzo. In caso di mancato pagamento di contributi previdenziali, ad esempio, il liquidatore potrebbe essere chiamato a risponderne ai sensi delle norme generali (si pensi che i contributi INPS hanno tutela sia amministrativa – con possibilità di escutere il patrimonio di amministratori/liq. in alcune circostanze – sia penale, come si dirà più avanti per il reato di omesso versamento contributi). Dunque, i debiti verso INPS andrebbero equiparati ai debiti tributari in termini di priorità di pagamento.

3. Comunicazioni e adempimenti formali: il liquidatore deve comunicare la sua nomina al Fisco (attraverso il modello AA7/AA9 per variazione dati IVA) e indicare nelle dichiarazioni fiscali la società come “in liquidazione” con relativi dati. Inoltre, deve conservare le scritture contabili per il periodo obbligatorio (di norma 10 anni) anche dopo la chiusura, rendendole disponibili in caso di futuri controlli. È consigliabile che il liquidatore, specialmente se chiude la società con debiti fiscali potenzialmente contestabili, conservi tutta la documentazione che possa provare l’operato diligente (ad es. prospetti di riparto, situazioni patrimoniali che mostrino l’insufficienza dell’attivo, verbali assembleari, ecc.), poiché potrebbero tornare utili in un contenzioso successivo con l’Agenzia delle Entrate. Non esiste un vero e proprio “nulla osta fiscale” obbligatorio per la cancellazione (come invece accade in altri ordinamenti), ma ottenere un certificato dei carichi pendenti fiscali o un estratto delle posizioni debitorie può essere prudente prima di distribuire l’attivo, così da avere contezza di eventuali cartelle esattoriali o accertamenti noti. In ogni caso, la cancellazione dal Registro Imprese può avvenire anche se ci sono debiti non definiti col Fisco: ciò non estingue il debito ma semplicemente trasferisce l’eventuale azione sugli altri soggetti (soci/liquidatore). Vale la pena ricordare che, per le società di capitali, l’atto di cancellazione dal Registro Imprese è dichiarativo dell’estinzione ma non costitutivo: significa che eventuali crediti o debiti pendenti si trasferiscono in capo ai soci (fino concorrenza quota) o, se tributari, seguono la disciplina speciale. Dunque il liquidatore, nel dubbio, potrebbe decidere di non cancellare subito la società e mantenerla in vita formalmente finché non siano decorsi i termini di accertamento delle imposte, così da evitare l’applicazione dell’art. 36 a suo carico. Tuttavia, la legge (art. 2495 c.c.) lo spinge a cancellare una volta approvato il bilancio finale, quindi in pratica la società viene estinta e ci si affida alla “sopravvivenza fiscale quinquennale” per gestire gli strascichi.

4. Pagamento dei debiti secondo l’ordine dei privilegi: questo è l’obbligo sostanziale centrale. Il liquidatore deve utilizzare le risorse della società liquidata per pagare i creditori rispettando la prelazione di legge. In particolare, dovrà pagare prima le spese di liquidazione e procedura (ad es. compenso del liquidatore stesso, eventuali spese legali per recupero crediti, ecc.), poi i crediti privilegiati di grado superiore (tipicamente: lavoratori per stipendi e TFR, eventuali creditori pignoratizi/ipotecari sul ricavato dei beni vincolati, contributi previdenziali se equiparati ai privilegiati ex art. 2753 c.c., ecc.), quindi i crediti tributari privilegiati, e infine gli altri crediti chirografari. Soltanto dopo aver soddisfatto tutti i creditori sociali (o accantonato le somme necessarie a pagare quelli non ancora scaduti o non ancora liquidi, art. 2492 c.c.), potrà distribuire l’eventuale residuo ai soci. Questo iter è espressamente richiesto dalla norma fiscale: l’art. 36 DPR 602/73 stabilisce che i liquidatori che “non adempiono all’obbligo di pagare, con le attività della liquidazione, le imposte dovute” per il periodo di liquidazione e quelli anteriori, rispondono in proprio se non provano di aver soddisfatto i crediti tributari prima di assegnare beni ai soci oppure di aver soddisfatto i crediti di grado superiore. Dunque pagare i debiti tributari è un obbligo legale del liquidatore, la cui violazione attiva la sua responsabilità personale. Approfondiremo a breve questa disposizione chiave.

5. Adempimenti IVA in caso di cessazione: un breve cenno va fatto alla particolare procedura di liquidazione dell’IVA al termine attività. Quando la società cessa l’attività (liquidazione conclusa), è prevista la presentazione di una dichiarazione IVA di cessazione e, se ci sono beni residui assegnati ai soci, questi beni si considerano destinati a finalità estranee all’esercizio d’impresa, con obbligo di autofatturazione degli stessi (art. 2 co.2 n.5 DPR 633/72) – in pratica, se rimaneva qualche bene che il liquidatore consegna ai soci, la società deve emettere fattura come se lo avesse venduto al valore normale, assolvere l’IVA e i soci subentrano nella proprietà. Questo per evitare che l’assegnazione ai soci sfugga all’IVA. Il liquidatore deve quindi considerare anche l’IVA su eventuali assegnazioni di beni ai soci: il relativo debito IVA va computato e versato prima della chiusura. Anche questo rientra nei “debiti tributari dovuti per il periodo della liquidazione” di cui all’art. 36.

6. Conservazione somme per imposte potenziali: qualora vi siano accertamenti fiscali in corso o potenziali contestazioni, una best practice è accantonare in liquidazione prudenzialmente somme a fronte di tali rischi. Ad esempio, se la società ha in corso un ricorso tributario per un avviso di accertamento, il liquidatore potrebbe riservare fondi dell’attivo in attesa dell’esito, invece di distribuire tutto ai soci. Questo perché, se poi l’accertamento diventa definitivo e la società è già cancellata e priva di attivo, il liquidatore rischia di risponderne. In mancanza di una norma che imponga espressamente tali accantonamenti, tutto ricade sul criterio generale della diligenza. La Cassazione ha affermato che il liquidatore può liberarsi da responsabilità provando ad esempio “l’incertezza del debito” (cioè che non c’era una imposta definitivamente dovuta durante la liquidazione). Se c’è un contenzioso pendente, l’imposta non è definitiva; tuttavia l’Amministrazione finanziaria potrebbe iscrivere il credito in ruoli provvisori e pretenderne il pagamento in via cautelare. Dunque, il liquidatore naviga tra due rischi: pagare imposte non dovute (se poi vince il ricorso) o distribuire troppo e trovarsi esposto (se poi perde il ricorso e non ci sono più fondi). In questi casi, la condotta più prudente è sospendere la distribuzione ai soci e attendere definizione, oppure concordare un fondo di garanzia con i soci stessi. La legge non dà una soluzione univoca, ma certamente se il liquidatore distribuisce ai soci somme mentre è a conoscenza di un debito fiscale potenziale, difficilmente potrà poi invocare di essere esente da colpa se quel debito si concretizza. Pertanto, rigore e prudenza negli accantonamenti sono parte integrante degli obblighi del liquidatore.

In sintesi, il liquidatore durante la liquidazione deve comportarsi come un buon amministratore finale della società, assicurando che gli obblighi verso l’Erario e gli enti previdenziali siano soddisfatti in via prioritaria o, se le risorse non bastano, siano comunque trattati secondo legge. Molto spesso, le future controversie nascono proprio dalla fase finale: il Fisco contesta al liquidatore di aver pagato altri e non loro. La sezione seguente è dedicata proprio a cosa succede in tali casi: quali sono le condizioni e i limiti della responsabilità personale del liquidatore per i debiti tributari non pagati.

Ambito Soggettivo di Applicazione: società di capitali, società di persone, imprese individuali ed enti non commerciali

Prima di addentrarci nella responsabilità del liquidatore in dettaglio, è utile chiarire a quali soggetti si applicano queste regole e come differiscono a seconda della forma giuridica dell’impresa.

  • Società di capitali (S.r.l., S.p.A., S.a.p.a.) – Sono soggette all’Imposta sul Reddito delle Società (IRES) e godono di autonomia patrimoniale perfetta. Ciò significa che fino a quando la società è attiva, i soci non rispondono dei debiti sociali (fatti salvi casi eccezionali di abuso della personalità giuridica, piercing the veil, non normati espressamente). Tuttavia, dopo la liquidazione e cancellazione, i creditori insoddisfatti possono far valere i loro crediti verso i soci entro il limite di quanto questi hanno riscosso in base al bilancio finale di liquidazione (art. 2495 co.2 c.c.). Inoltre – ed è il fulcro di questa guida – l’art. 36 DPR 602/1973 prevede, per le società soggette a IRES, una responsabilità personale del liquidatore e degli amministratori (nonché dei soci, al comma 3) qualora con le attività della liquidazione non vengano pagate le imposte dovute. Dunque, per le S.r.l. e S.p.A. la cornice è chiara: liquidatore e soci possono essere chiamati a rispondere dei debiti tributari a certe condizioni di legge. È su di loro che si concentrano la maggior parte delle dispute su questo tema. Le società di capitali sono il prototipo per cui la norma è stata pensata (si parla difatti di “soggetti all’IRES”). Nel prosieguo, parleremo spesso di S.r.l. come caso emblematico, ma le stesse considerazioni valgono per S.p.A. e altre società di capitali (incluse società cooperative, che sono soggette a IRES e ai medesimi principi, sebbene per le coop entri talvolta in gioco la LCA in luogo del fallimento).
  • Società di persone (S.n.c., S.a.s.) – Queste società non sono soggetti all’IRES (i loro redditi sono imputati per trasparenza ai soci e tassati come IRPEF di ciascun socio). Già da questo si nota che l’art. 36 DPR 602/73, letteralmente, non le contempla (parla di “soggetti all’imposta sul reddito delle persone giuridiche”). Ciò non significa che il liquidatore di una S.n.c. possa fare il furbo: semplicemente, nelle società di persone la legge già prevede un diverso regime di responsabilità. I soci delle S.n.c. e i soci accomandatari delle S.a.s. hanno responsabilità illimitata e solidale per le obbligazioni sociali (artt. 2291 e 2313 c.c.). Questo implica che il Fisco, davanti a una S.n.c. che si scioglie e non paga i suoi debiti tributari, può agire direttamente contro i soci (anche prima della cancellazione, previa escussione del patrimonio sociale). L’art. 2495 c.c. comma 2, a rigore, si applica anche alle società di persone, ma con una differenza: se i soci erano illimitatamente responsabili, essi continuano ad esserlo anche dopo la cancellazione (illimitatamente, non solo nei limiti di quanto ricevuto). In dottrina si discute se la cancellazione di una società di persone faccia comunque scattare il limite del beneficio della preventiva escussione del patrimonio sociale esaurito – ma in pratica, poiché la società una volta cancellata non ha più patrimonio, i soci rispondono tendenzialmente illimitatamente. Esempio: una S.n.c. si scioglie con €100.000 di debiti tributari e nessun attivo; il Fisco potrà chiedere l’intero importo ai soci, ciascuno obbligato solidalmente (salvo regresso interno in base alle quote). Se invece c’era un attivo e i soci hanno ripreso qualcosa, comunque rispondono illimitatamente dell’eventuale differenza (non c’è tetto della somma ricevuta, quello vale solo per soci di capitale con responsabilità limitata originaria). Pertanto, l’esigenza di perseguire il liquidatore per il pagamento preferenziale di altri creditori è teoricamente meno sentita, perché nella S.n.c. il Fisco può rifarsi sui soci direttamente. Tuttavia, immaginiamo una S.n.c. con due soci, Alfa e Beta, e liquidatore Beta che chiude distribuendo l’attivo a sé medesimo e lasciando impagate imposte: Alfa (altro socio) e il Fisco subiranno il danno; Alfa potrà fare causa al liquidatore Beta per mala gestio e il Fisco potrà chiedere comunque a Beta (in quanto socio illimitatamente responsabile, oltre che liquidatore) il pagamento. Quindi, la tutela del Fisco nelle società di persone è garantita dal combinato di: responsabilità illimitata dei soci + generali azioni di responsabilità per mala gestione. Non vi sono, infatti, pronunce che applichino l’art. 36 DPR 602/73 a liquidatori di società di persone, proprio perché la norma non li contempla espressamente. E per i soci accomandanti (che hanno responsabilità limitata)? Questi soci, per legge, non rispondono delle obbligazioni sociali oltre la quota conferita, quindi se alla fine della liquidazione di una S.a.s. rimangono debiti tributari non pagati, il Fisco potrà escutere solo gli accomandatari (illimitatamente). Gli accomandanti potrebbero essere chiamati in causa solo se hanno ricevuto somme in conto di liquidazione in pregiudizio dei creditori: in tal caso, più che l’art. 36 (inapplicabile perché non soggetti IRES), opererebbe una sorta di revocatoria o la teoria generale dell’ingiustificato arricchimento. In pratica, però, l’accomandante di solito non riceve nulla se ci sono debiti impagati, e se riceve, quei crediti sociali si considerano pagati e non rimane debito. Insomma, per le società di persone la responsabilità del liquidatore si confonde con quella dei soci: spesso il liquidatore è egli stesso uno dei soci illimitatamente responsabili, dunque risponderà comunque come socio dei debiti fiscali insoddisfatti, a prescindere dalla specifica norma tributaria. E se il liquidatore fosse un terzo estraneo (caso raro ma possibile)? Allora i soci restano debitori illimitati verso il Fisco; il terzo liquidatore potrebbe rispondere verso i soci per inadempienza del mandato se ha leso il patrimonio sociale a vantaggio di alcuni creditori. In conclusione, nelle società di persone le norme generali offrono al Fisco garanzie maggiori: non c’è scudo societario da penetrare, perché era già trasparente.
  • Imprese individuali: qui non c’è separazione tra persona fisica e impresa. Il titolare dell’impresa individuale (artigiano, commerciante, ditta individuale) è personalmente obbligato verso il Fisco per tutte le imposte e i contributi. In caso di cessazione dell’attività, egli dovrà comunque pagare i debiti tributari maturati. Non esiste un “liquidatore” distinto: l’imprenditore stesso gestisce la liquidazione dei propri beni (salvo procedure concorsuali). Se l’imprenditore individuale diventa insolvente e viene dichiarato fallito, si applica la liquidazione giudiziale del suo patrimonio personale. In quel contesto, un curatore fallimentare liquiderà i beni e pagherà i debiti secondo i privilegi; eventuali debiti fiscali rimasti dopo la chiusura del fallimento del soggetto fallito non saranno più esigibili (nei confronti dell’ex fallito, salvo riacquisto capacità patrimoniale e riapertura fallimento in casi eccezionali). Tuttavia, non c’è alcuna norma come l’art. 36: l’ex imprenditore individuale non può “scaricare” su altri i debiti fiscali, neanche parzialmente. Non avendo soci, non c’è nessun altro soggetto verso cui il Fisco possa rivolgersi; l’unica eccezione potrebbe essere se vi erano coobbligati (es. un fideiussore, oppure gli eredi in caso di morte, che rispondono uti heredes). In sintesi, per il liquidatore di impresa individuale il discorso della responsabilità non si pone, coincidendo figura del debitore e liquidatore. Si può al più osservare che se l’imprenditore nomina un procuratore o curatore particolare per liquidare l’azienda (in ipotesi di amministrazione straordinaria dei beni per infermità, o simili), e costui distribuisse beni senza pagare imposte, il Fisco potrebbe comunque rivalersi sui beni personali dell’imprenditore stesso (che risponde illimitatamente). Eventuali inadempienze del procuratore sarebbero un problema tra questi e l’imprenditore.
  • Enti non commerciali (associazioni, fondazioni): se dotati di personalità giuridica (es. associazioni riconosciute, fondazioni), questi enti rispondono delle obbligazioni tributarie solo con il proprio patrimonio. Molti enti non profit sono però titolari di partita IVA o comunque debitori d’imposta (si pensi a un’associazione che ha dipendenti: deve versare le ritenute; o che svolge marginalmente attività commerciale: paga IRES su quella). In caso di scioglimento volontario di un ente non commerciale, l’autorità (es. Prefettura o atto costitutivo) nomina un liquidatore. Egli avrà il dovere di pagare i debiti dell’ente con le attività disponibili, analogamente a quanto avviene per le società. Applicabilità dell’art. 36 DPR 602/73: se l’ente era soggetto passivo IRES (anche solo per parte delle sue attività), si può ritenere di sì. La norma parla di “liquidatori dei soggetti all’imposta sul reddito delle società”: una associazione riconosciuta paga IRES (con aliquota ridotta al 12% sui redditi istituzionali, in certi casi, ma comunque è soggetto IRES). Quindi un liquidatore di un ente non profit che non paga un debito d’imposta e distribuisce beni (per esempio agli associati residuati, o li devolve in modo scorretto) potrebbe incorrere nella responsabilità personale per quei tributi. Bisogna dire che, diversamente dalle società, gli enti non commerciali non distribuiscono utili ai soci (per definizione statutaria, eventuali avanzi devono essere devoluti a fini di utilità sociale o analoghi). Pertanto, casi in cui gli associati “ricevono beni sociali” in sede di scioglimento sono più rari – spesso il patrimonio residuo va devoluto ad enti analoghi o a fini pubblici, secondo statuto o legge (si pensi alle ONLUS, APS, ecc. che hanno obbligo di devoluzione). Se però vi fossero state attribuzioni di beni a soci o associati negli ultimi due anni (magari in frode), la norma dell’art. 36 comma 3 potrebbe chiamare anche costoro a rispondere nei limiti del valore ricevuto. In ogni caso il liquidatore dell’ente deve saldare i debiti tributari come prioritari sul patrimonio dell’ente e, se l’attivo non basta, seguiranno le regole generali: l’ente, una volta estinto, non esiste più e i crediti tributari non soddisfatti non possono essere riscossi, a meno di responsabilità personali del liquidatore o degli amministratori per mala gestione. Se l’ente è non riconosciuto (privo di personalità giuridica), allora già in partenza gli amministratori rispondono personalmente delle obbligazioni non adempiute dall’ente (art. 38 c.c.). In tale situazione, il Fisco può sempre chiedere agli amministratori il pagamento dei tributi dell’associazione non pagati con i fondi sociali. Di nuovo, l’art. 36 DPR 602/73 diventa superfluo: c’è già la responsabilità personale diretta ex lege. Per esempio, una associazione non riconosciuta viene sciolta e il presidente-liquidatore lascia impagate delle IVA: l’Agenzia Entrate potrà notificare un avviso di accertamento a ciascun rappresentante in solido, in base all’art. 38 c.c., per recuperare l’imposta (questo avviene anche senza scioglimento, a dire il vero: se l’associazione non paga, Equitalia può iscrivere a ruolo verso il legale rappresentante pro tempore). Quindi, ricapitolando: enti con personalità giuridica seguono disciplina simile alle società di capitali (limitazione di responsabilità ma possibilità di escutere liquidatore e chi ha ricevuto beni ai sensi art. 36), enti senza personalità seguono disciplina simile alle società di persone (responsabilità personale diretta dei gestori).

Abbiamo dunque un panorama diversificato. In questa guida, il focus centrale sarà sulle società di capitali, perché è lì che l’assetto normativo dell’art. 36 DPR 602/73 trova massima applicazione e dove sono sorti più problemi interpretativi. Manterremo però a mente queste differenze: ad esempio, quando si dirà “il Fisco può agire contro i soci entro il valore avuto”, ciò vale per S.r.l./S.p.A., ma per una S.n.c. i soci rispondono ben oltre tale valore (illimitatamente). Ogni qualvolta sia rilevante, lo preciseremo.

Responsabilità Civile del Liquidatore per i Debiti Tributari Non Pagati

Entriamo ora nel cuore dell’argomento: in quali casi il liquidatore di una società viene chiamato a pagare personalmente i debiti tributari di quest’ultima. La fonte primaria è l’art. 36 del D.P.R. 602/1973, che conviene riportare nei suoi elementi essenziali:

  • Art. 36, co.1, DPR 602/73 (Responsabilità dei liquidatori)“I liquidatori dei soggetti all’imposta sul reddito delle società (IRES) che non adempiono all’obbligo di pagare, con le attività della liquidazione, le imposte dovute per il periodo della liquidazione stessa e per quelli anteriori, rispondono in proprio del pagamento delle imposte ove non provino di aver soddisfatto i crediti tributari anteriormente all’assegnazione di beni ai soci o associati, ovvero di aver soddisfatto crediti di ordine superiore a quelli tributari.”

In parole più semplici, il liquidatore è personalmente responsabile dei debiti tributari della società (sia imposte relative alla gestione liquidatoria, sia imposte pregresse non ancora pagate) se, e solo se, ha distribuito ai soci beni o denaro prima di pagare tali imposte (salvo che quei beni siano stati usati per pagare crediti con privilegio ancora superiore al Fisco, come ad esempio i dipendenti). Questa responsabilità è quindi condizionata da un comportamento colposo o quantomeno errato del liquidatore: la legge non punisce il liquidatore per il semplice fatto che la società non aveva abbastanza attivo da pagare le imposte, ma per aver utilizzato quell’attivo in modo difforme dalla graduatoria dei crediti. Si tratta, come già detto, di una forma di obbligazione “per fatto proprio” ex lege: il liquidatore non eredita tutti i debiti fiscali, ma diventa debitore dell’Erario nella misura in cui il suo operato ha leso le chance di recupero del Fisco.

Analizziamo i vari elementi della norma e le questioni applicative emerse:

Soggetti a cui si applica: liquidatori di soggetti passivi IRES (società di capitali, enti commerciali, ecc.). Estensione agli amministratori: Il co.2 dell’art. 36 prevede che la stessa responsabilità ricade “anche sugli amministratori in carica al momento dello scioglimento” qualora non sia stato nominato il liquidatore. Ciò copre l’ipotesi di società sciolta di diritto ma senza formale fase liquidatoria (ad esempio società cancellata d’ufficio, oppure scioglimento e mancata nomina del liquidatore): in tali casi gli amministratori che avevano il controllo sono trattati come “liquidatori di fatto” e rispondono allo stesso modo. Inoltre, il co.3 estende la responsabilità agli amministratori che nei due anni precedenti la liquidazione hanno compiuto operazioni di liquidazione o occultato attività sociali anche mediante omissioni contabili. Questo per evitare furbizie: se nei due anni prima dello scioglimento gli amministratori avessero, ad esempio, svuotato la società distribuendo utili o beni ai soci sotto banco, oppure non avessero contabilizzato ricavi distraendo attivo, essi ne rispondono come se fossero stati liquidatori. Questa previsione si collega anche al fatto che la norma copre non solo ciò che accade durante la liquidazione formale, ma anche eventuali assegnazioni ai soci fatte nei due esercizi precedenti (infatti, come vedremo tra poco, i soci che hanno ricevuto utili o patrimoni in quel periodo possono essere chiamati a rispondere, e parallelamente gli amministratori che le hanno eseguite ne rispondono pure). Dunque, soggetti potenzialmente obbligati verso il Fisco sono: liquidatori ufficiali, amministratori-liquidatori di fatto, amministratori degli ultimi due anni se hanno compiuto atti di liquidazione o occultamento. Va sottolineato che il curatore fallimentare non rientra, e in genere per procedure concorsuali diverse servirebbe una norma ad hoc (che non c’è, quindi non si applica art. 36).

Natura del debito tributario coperto: il testo parla di “imposte dovute” per il periodo di liquidazione e anteriori. La Cassazione e la prassi hanno chiarito che ciò non include sanzioni e interessi di mora – soltanto le imposte (tributi) in sé. Dunque, se la società aveva un debito per IVA non versata di €50.000 più sanzioni e interessi per €15.000, la responsabilità del liquidatore al massimo riguarderà i €50.000 di imposta (più interessi legali maturati eventualmente fino alla liquidazione, ma non le sanzioni amministrative). L’Agenzia delle Entrate non può pretendere dal liquidatore il pagamento delle sanzioni tributarie proprie della società, perché le sanzioni amministrative fiscali hanno carattere “personale” e non si trasmettono a terzi (c’è un principio generale nello Statuto del Contribuente, L. 212/2000, che vieta di trasferire le sanzioni a soggetti diversi dall’autore della violazione, salvo successione nel patrimonio). La Cassazione (sent. n. 30011/2022) ha confermato che, ad esempio, le sanzioni per violazioni tributarie non si trasferiscono ai soci di una società estinta – analogamente non possono trasferirsi al liquidatore. Pertanto, quando parliamo di “debiti tributari” ai fini di questa responsabilità, intendiamo imposte e eventuali interessi. Se il liquidatore viene chiamato, l’atto impositivo rivolto a lui dovrà quantificare l’imposta dovuta e gli interessi, ma non l’importo delle sanzioni (che semmai restano a carico solo della società, la quale però essendo estinta non può più pagarle, per cui in pratica decadono). Questo è un punto a favore del liquidatore: la sua responsabilità è tendenzialmente più limitata del debito complessivo che gravava sulla società, perché esclusa la parte sanzionatoria.

Condotta che genera la responsabilità: il cuore è nella frase “non adempiono all’obbligo di pagare con le attività della liquidazione le imposte dovute” e “non provano di aver soddisfatto i crediti tributari prima di assegnare beni ai soci o di aver soddisfatto crediti di ordine superiore”. Qui ci sono due scenari che esonerebbero il liquidatore:

  1. Prova di aver pagato le imposte dovute prima di distribuire beni ai soci. È la situazione ideale: il liquidatore ha pagato tutti i tributi dovuti (o almeno li ha pagati fino all’importo di capienza dell’attivo) e poi quel che residuava l’ha dato ai soci. Se può provare questo, non risponde (di fatto ha già fatto il suo dovere).
  2. Prova di aver soddisfatto crediti di grado superiore a quelli tributari. Significa che il liquidatore può giustificare il mancato pagamento delle imposte perché c’erano altri crediti privilegiati da pagare prima. Esempio: la società aveva €100 di attivo, debiti verso dipendenti per €80 e debiti verso Erario per €50. I salari dei dipendenti hanno privilegio superiore al Fisco, quindi il liquidatore paga €80 ai dipendenti, residuano €20 con cui paga in parte il Fisco (gli altri €30 di imposte restano scoperti). Qui il liquidatore non è in colpa: ha soddisfatto crediti di ordine superiore, per definizione correttamente. Egli dovrà poter provare di aver fatto questa graduatoria. In tal caso, niente responsabilità personale per i €30 rimasti scoperti, perché la legge gli riconosce che le risorse erano state legittimamente usate altrove.

In ogni altra situazione, il liquidatore è esposto. In particolare, il caso tipico è: ha assegnato beni ai soci senza pagare prima le imposte. L’assegnazione di beni ai soci può essere palese (distribuzione di liquidazione formalizzata) o occulta (magari il liquidatore “dimentica” di incassare un credito verso un socio, condonandoglielo, che è equiparabile a dare un’utilità a quel socio). Anche pagare creditori non privilegiati (chirografari) prima del Fisco rientra nella condotta censurata. Ad esempio, se il liquidatore paga fornitori ordinari e poi non rimangono soldi per pagare l’IVA, egli avrà di fatto assegnato beni ad altri soggetti pretermettendo il Fisco. La norma infatti tutela i crediti tributari parificandoli ai chirografari privilegiati nel loro grado. Esempio concreto: La società Alfa ha €50.000 in cassa in liquidazione; deve €30.000 di IVA e €20.000 a un fornitore non privilegiato. Il liquidatore, magari per pressioni del fornitore, paga quest’ultimo integralmente (€20k) e usa i restanti €30k per l’IVA, che però copre solo in parte (€10k restano scoperti). In tal caso, sebbene abbia usato tutte le risorse, ha violato l’ordine dei privilegi (il Fisco andava soddisfatto prima del fornitore chirografario). Dunque per quei €10k di IVA non pagati è responsabile personalmente: infatti, con €50k avrebbe potuto coprire l’IVA per intero e dare zero al fornitore; pagando prima il fornitore ha causato il mancato pagamento di €10k di imposta. Sarà chiamato a pagare quei €10k di tasca sua all’Erario, mentre il fornitore non dovrà restituire nulla (ha ricevuto lecitamente per carità dal suo punto di vista; semmai, se c’è fallimento, quel pagamento potrebbe essere revocato, ma in liquidazione normale no).

Limite della responsabilità (quantum): il liquidatore risponde “nei limiti dell’importo dei crediti d’imposta che avrebbero trovato capienza” nelle attività di liquidazione. Ciò significa che non è detto debba coprire tutto il debito tributario della società, ma solo la parte che effettivamente si sarebbe potuta pagare se avesse gestito correttamente. In altri termini, la sua responsabilità è commisurata al danno arrecato al creditore fiscale dalla violazione dell’obbligo. Se il patrimonio sociale era insufficiente comunque, il liquidatore non paga oltre quello. Riprendendo l’esempio precedente: debito IVA €30k, attivo €50k, pagati impropriamente €20k a fornitore – il Fisco recupera €10k dal liquidatore (oltre ai €20k incassati dal fornitore, che però non può toccare); non gli può chiedere magari €30k interi. Questo calcolo avviene facendo riferimento alla graduatoria civile: come chiarito dall’Agenzia Entrate (Circ. 6/E del 2015, §13.5) e dalla giurisprudenza, si applica l’art. 2777 c.c. per individuare quanta parte del debito tributario sarebbe stata soddisfatta in sede di riparto. Quindi bisogna simulare un “conto di riparto” corretto: la differenza tra quanto il Fisco avrebbe preso e quanto ha preso per effetto delle scelte del liquidatore è l’ammontare imputabile al liquidatore. Questo a tutela del liquidatore onesto: non lo si punisce per ciò che eccede le sue colpe. Va da sé però che spesso, se il liquidatore ha proprio ignorato il Fisco, la capienza sarebbe stata totale, quindi risponde dell’intero. Ad esempio, liquidatore che distribuisce tutto ai soci e lascia imposte totalmente impagate: l’attivo era magari capiente, quindi risponderà di tutta l’imposta. Se invece l’attivo era esiguo, risponderà solo di quell’esiguità.

Onere della prova: originariamente la giurisprudenza riteneva che spettasse al Fisco dimostrare il presupposto della responsabilità (es. l’avvenuta distribuzione ai soci di attivo che avrebbe potuto pagare imposte) e, in particolare, richiedeva che il debito tributario fosse già certo e liquido (iscritto a ruolo) prima di poter agire contro il liquidatore. In altre parole, il vecchio orientamento prevedeva che il Fisco dovesse prima accertare il debito a carico della società e tentare la riscossione (anche solo avviandola con un ruolo, pure se la società poi non pagava) e solo dopo, constatato il mancato pagamento con attività di liquidazione, potesse chiamare in causa il liquidatore. Su questo c’è stata evoluzione importante: la Cassazione a Sezioni Unite n. 32790/2023 ha stabilito che non è necessario attendere la “certezza legale” del debito e l’iscrizione a ruolo della società, potendo l’Ufficio agire direttamente verso il liquidatore emettendo un avviso di accertamento a suo nome. Questo significa che oggi l’Agenzia Entrate, se viene a conoscenza della chiusura di una società con debiti fiscali, può notificare direttamente al liquidatore un atto che quantifica l’imposta dovuta dalla società e contesta al liquidatore la responsabilità per il mancato pagamento con le attività liquidatorie. Sarà poi il liquidatore, impugnando l’atto in Commissione Tributaria, a poter contestare sia l’esistenza/titolo del debito d’imposta (ad esempio che l’imposta non era dovuta, o era in contestazione) sia la sussistenza dei presupposti di responsabilità (ad esempio provando che non c’era attivo, o che ha pagato crediti con diritto di prelazione superiore). La prova liberatoria è dunque a carico del liquidatore: la norma stessa dice “se non provano di aver soddisfatto i tributi prima delle assegnazioni…”. Dunque, in giudizio, una volta che il Fisco dimostra di avere un credito tributario non pagato e un’attività liquidatoria che è andata a soci o creditori inferiori, spetta al liquidatore dimostrare eventualmente il contrario (ad esempio: “i soci non hanno ricevuto nulla”, oppure “i beni assegnati ai soci erano gravati da pegno, quindi non c’era margine per il Fisco”, oppure ancora “il debito tributario era inesigibile o incerto all’epoca”). Da notare: questa impostazione è stata oggetto di modifica normativa nel 2014. Prima, come accennato, la prassi era più favorevole al liquidatore; col Decreto Semplificazioni 2014 (D.Lgs. 175/2014) si è esplicitato l’onere della prova a carico del liquidatore e si è eliminato ogni dubbio sul fatto che l’Agenzia potesse agire subito. La dottrina ha parlato di inversione dell’onere della prova e aggravamento della posizione del liquidatore. In pratica: oggi il liquidatore deve dimostrare di aver ben operato, altrimenti si presume la sua responsabilità. Se ad esempio non tiene le pezze giustificative di come ha pagato i debiti, sarà difficile difendersi. Al Fisco basta dimostrare che c’era un debito d’imposta e che c’è stato un attivo liquidato distribuito altrove. Si consideri anche che il Fisco, grazie alla norma sulla sopravvivenza quinquennale, può notificare l’atto anche a nome della società entro 5 anni dalla cancellazione, ma può scegliere di colpire direttamente liquidatore e soci con atti separati. Spesso notifica un avviso di accertamento sia alla società (presso il liquidatore) sia contestualmente uno al liquidatore ex art.36. Ciò può apparire duplicazione, ma in verità il secondo è condizionato: se paga la società, quell’importo non sarà dovuto dal liquidatore. In mancanza della società solvibile, si procede contro liquidatore.

Procedura di accertamento e riscossione verso il liquidatore: l’art. 36 ultimo comma stabilisce che la responsabilità del liquidatore “è accertata con atto motivato da notificare […] avverso il quale è ammesso ricorso secondo le disposizioni sul contenzioso tributario”. Ciò configura che l’Agenzia Entrate emette un avviso di accertamento (o atto assimilato) nei confronti del liquidatore, spiegando le ragioni (importo dell’imposta dovuta e non pagata, disponibilità di attivo liquidato ad altri, comportamento del liquidatore). Questo atto può essere impugnato dal liquidatore davanti alla Commissione Tributaria Provinciale competente, entro 60 giorni, seguendo le regole generali. Il ricorso non sospende automaticamente la riscossione: l’Agenzia può iscrivere a ruolo l’importo e notificarlo con cartella al liquidatore, salvo che conceda sospensione (art. 39 DPR 602/73). In pratica però, di solito il liquidatore chiede la sospensione al giudice tributario se ritiene di aver buone ragioni. Se perde il ricorso in primo grado, può appellare e così via fino in Cassazione. Durante questo iter, come detto, potrà far valere sia motivi di merito tributario (es. “la pretesa fiscale era infondata”) sia motivi propri (“non c’era capienza, ho pagato crediti superiori, etc.”). I giudici valuteranno caso per caso.

Esempi di casi decisi in giurisprudenza:

  • Caso 1: Liquidatore che ripartisce l’attivo ai soci e non paga un avviso di accertamento già emesso alla società. Cassazione ha ritenuto responsabile il liquidatore, a condizione che il debito fosse iscritto a ruolo e non soddisfatto, e ha cassato decisioni di merito che l’avevano esonerato senza tale verifica. (Questo era prima dell’intervento SS.UU. 2023; oggi la giurisprudenza di legittimità si allinea al fatto che non serve il ruolo definitivo, ma il principio rimane che se c’era attivo andato ai soci, il liquidatore paga).
  • Caso 2: Cass. 21987/2016 penale e Cass. 8995/2018 penale (citate più avanti) – Liquidatore imputato per omesso versamento di ritenute: la Cassazione penale ha evidenziato che il reato scatta solo se il liquidatore ha distratto l’attivo ad altri scopi, altrimenti il “mero inadempimento” non basta. Questo riflette in ambito penale un concetto simile: se non c’erano soldi, niente colpa. Traslato sul civile, se non c’era attivo, niente responsabilità ex art.36.
  • Caso 3: Cass. SS.UU. 3625/2025 – Soci che non avevano ricevuto nulla in base al bilancio finale: la Cassazione ha detto che ciò non basta da solo a escludere l’azione del Fisco se emergono che i soci hanno ricevuto altri beni (non risultanti formalmente dal bilancio) o benefici indiretti. Per il liquidatore, analogamente, potrebbe emergere responsabilità se si scopre che aveva assegnato beni di fatto al socio anche se il bilancio finale ufficiale pareva in pareggio. Quindi attenzione: la sostanza prevale sulla forma. Se un liquidatore “regala” un macchinario a un socio senza passarlo per contabilità, ciò è comunque un’attività distratta verso soci.

Riassumendo questa sezione, abbiamo: (a) quando scatta la responsabilità del liquidatore (quando paga soci o creditori postergati lasciando imposte impagate); (b) quanto paga (fino concorrenza imposte che si sarebbero potute pagare col patrimonio gestito); (c) come viene accertata (atto impugnabile in Commissione); (d) su chi oltre al liquidatore ricade (amministratori precedenti, soci per la loro parte).

È utile a questo punto proporre una tabella riepilogativa dei casi tipici in cui il liquidatore è o non è responsabile:

Situazione in liquidazioneEsito per il liquidatore
Attivo insufficiente e interamente utilizzato per pagare creditori con privilegio superiore (es. dipendenti) senza riuscire a pagare le imposteNessuna responsabilità personale. Il liquidatore ha rispettato l’ordine legale di pagamento e i tributi sono rimasti insoddisfatti solo per insufficienza di attivo.
Attivo sufficiente a pagare in parte i tributi, ma il liquidatore paga creditori chirografari (non privilegiati) o distribuisce somme ai soci, lasciando imposte non pagateResponsabilità personale del liquidatore per l’importo delle imposte che avrebbe potuto soddisfare evitando quei pagamenti indebiti. Ha violato la par condicio a danno dell’Erario.
Assegnazione di beni ai soci (denaro o asset) effettuata prima di pagare completamente le imposte dovute (anche se il liquidatore paga alcuni debiti tributari parzialmente)Responsabilità personale fino a concorrenza dell’imposta non pagata. L’assegnazione ai soci è precisamente il comportamento sanzionato dalla norma.
Nessuna assegnazione ai soci, attivo utilizzato pro-quota per pagare parzialmente tutti i creditori inclusi il Fisco (riparto proporzionale fra chirografari)Caso borderline: se il liquidatore dimostra di aver messo il Fisco sullo stesso piano degli altri chirografari e di non aver privilegiato indebitamente altri, potrebbe evitare la responsabilità. Tuttavia, poiché i crediti tributari hanno privilegio generale, il liquidatore avrebbe dovuto soddisfarli prima dei chirografari: un pagamento solo parziale ai tributi insieme ai chirografari può configurare responsabilità per la parte non versata, a meno che sia conseguenza obbligata di incapienza (es. un concordato tra creditori). In generale, meglio ottenere accordo formale del Fisco (transazione) in tali situazioni.
Nessun attivo da liquidare; la liquidazione si chiude senza distribuire nulla ai soci e con debiti tributari insolutiNessuna responsabilità ex art.36, salvo che il Fisco provi che in realtà c’erano beni occultati o distratti. Il liquidatore dovrà comunque provare l’assenza di attivo (ad es. esibendo bilancio finale a zero). Se l’attivo è zero, non c’è condotta colposa (nulla da distribuire).
Liquidatore paga il Fisco integralmente per imposte dovute, ma non paga sanzioni amministrative della societàNessuna responsabilità per le sanzioni, che non ricadono su di lui. (Le sanzioni restano a carico della società estinta e di fatto irrecuperabili).
Liquidatore non versa IVA o ritenute dovute perché mancava liquidità temporanea, e decide di pagare altri costi urgenti sperando di versare il Fisco più tardi (ma poi la società chiude)Responsabilità civile sussiste, perché ha comunque destinato risorse altrove durante la liquidazione. (Sul piano penale, se il mancato versamento era dovuto a forza maggiore, può essere non punibile; ma civilisticamente il debito d’imposta rimane e il liquidatore ne risponde se ha usato diversamente le disponibilità).
Liquidatore accantona somme per un accertamento fiscale non definitivo e distribuisce ai soci solo il resto, poi l’accertamento diventa definitivo ma l’accantonamento copre l’impostaNessuna responsabilità, ha operato con diligenza. Dovrà usare l’accantonamento per pagare il Fisco; i soci non ricevono quella parte. (Se invece non avesse accantonato e avesse dato tutto ai soci, sarebbe responsabile dell’imposta sopravvenuta).

Come si evince dalla tabella, il caso chiave di responsabilità è l’aver favorito soci o creditori subordinati a scapito del Fisco. In pratica, il liquidatore deve fungere da “garante” dell’Erario nella fase di liquidazione: se antepone altri al Fisco indebitamente, ne risponde di persona. Se invece rispetta le regole e comunque le imposte non si riescono a pagare per mancanza di fondi, non gli verrà addebitato.

Una domanda che spesso viene posta è: “il liquidatore risponde anche dei debiti tributari non ancora accertati al tempo della liquidazione?” Ad esempio, la società si chiude senza che l’Agenzia Entrate abbia notificato nulla, ma anni dopo emerge (tramite accertamento) un maggior reddito su anni passati. Il liquidatore ha distribuito l’attivo ai soci ignorando quel debito non noto. Può l’Agenzia rivalersi su di lui? La giurisprudenza più recente tende a dire di sì, entro certi limiti. La Cassazione ha affermato che l’azione contro liquidatori e soci prescinde dalla definitività del debito al momento della liquidazione, potendo essere esercitata anche per imposte accertate dopo. Ciò però richiede che il Fisco provi che, se il debito fosse stato noto, avrebbe trovato capienza nell’attivo distribuito. Il liquidatore, dal canto suo, può difendersi dicendo che l’accertamento è infondato oppure che al tempo nulla lasciava presagire quel debito (in sostanza invocare la buona fede). Non esiste una risposta univoca: certamente l’art.36 non distingue debiti già accertati da debiti “sconosciuti”. Formalmente copre tutte le imposte dovute. Quindi sì, se a posteriori risulta che c’era un’imposta evasa negli anni passati, il liquidatore che ha svuotato la società ne risponde. La Sezioni Unite 2025 hanno chiarito che l’interesse a colpire soci/liquidatore c’è anche se questi non hanno riscosso nulla in base al bilancio finale, purché abbiano avuto magari altri trasferimenti. Traslando: anche se il liquidatore non era a conoscenza del debito, se ha consegnato beni ai soci che lasciavano i creditori a bocca asciutta, potrà essere chiamato dal Fisco. Questo invita i liquidatori ad essere prudenti e, come detto, magari ottenere un certificato di regolarità fiscale o far fare una verifica prima di chiudere, per ridurre la probabilità di sorprese.

Abbiamo coperto la responsabilità civile/tributaria del liquidatore verso l’Erario. Prima di passare ai soci, chiudiamo questo capitolo con un sotto-paragrafo: che succede se più liquidatori si sono succeduti o se c’è un collegio di liquidatori? La norma non lo dice espressamente, ma in genere la responsabilità è attribuita a chi effettivamente ha compiuto l’atto di distribuzione lesivo. Se c’erano più liquidatori contestualmente, essi sono di solito considerati solidalmente responsabili (analogamente agli amministratori con poteri disgiunti: se uno firma un pagamento illecito, l’altro ne risponde se era corresponsabile della gestione). In un recente caso, la Cassazione ha specificato che va verificato se il liquidatore era in carica al momento in cui maturava il presupposto di imposta e al momento del riparto, escludendo responsabilità di chi nel frattempo si era dimesso prima della dichiarazione e del bilancio finale. Quindi, un liquidatore che ha operato solo per una fase potrebbe non rispondere di ciò che accade dopo la sua cessazione. Viceversa, un ex amministratore che compie atti di liquidazione prima della nomina del liquidatore formale può rientrare. Insomma, bisogna guardare il periodo di competenza e l’azione compiuta.

Dopo aver analizzato il ruolo del liquidatore, spostiamo ora l’attenzione su un altro attore: i soci e gli altri soggetti (amministratori precedenti), per capire in quali casi anche loro sono chiamati a pagare i debiti tributari residui.

Responsabilità dei Soci per Debiti Tributari della Società Estinta

Lo scenario tipico in cui si parla di responsabilità dei soci è il seguente: la società è stata liquidata e cancellata, ma alcuni debiti (qui ci focalizziamo su quelli fiscali) sono rimasti insoddisfatti. Il Fisco, non potendo più agire contro la società ormai estinta, cerca soddisfazione presso i soci. Il fondamento giuridico di tale azione si trova su due piani normativi: il piano civilistico generale (art. 2495 c.c.) e il piano tributario speciale (art. 36 DPR 602/73 commi 3 e 4).

Art. 2495, comma 2, c.c.“Dopo la cancellazione della società, i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci, fino a concorrenza delle somme da questi riscosse in base al bilancio finale di liquidazione, nonché nei confronti dei liquidatori, se il mancato pagamento è dipeso da colpa di questi.”

Questa norma del Codice Civile, introdotta nel 2003, è generale per tutti i creditori (non solo il Fisco). Stabilisce due cose importanti:

  • I soci di una società di capitali (nel caso di persone con responsabilità limitata) rispondono dei debiti rimasti, ma solo entro l’importo che hanno ricevuto in sede di riparto finale. In pratica, non si può chiedere a un socio indietro più di quanto ha incassato sciogliendo la società. Se non ha ricevuto nulla, in teoria il creditore non avrebbe interesse ad agire (recupererebbe zero).
  • I liquidatori possono essere chiamati a rispondere verso i creditori se la mancata soddisfazione è dovuta a loro colpa (qui vediamo il collegamento con art. 36: se la colpa consiste nell’aver pagato male, Fisco o creditori possono agire contro di loro, come già trattato).

In ambito fiscale, l’art. 2495 c.c. vale, ma c’è anche la norma speciale. Art. 36, commi 3 e 4, DPR 602/73 (nuova numerazione dopo modifiche) riguarda direttamente soci e associati:

  • Comma 3 (ora, dopo modifiche, sarebbe il comma 4): “I soci o associati, che hanno ricevuto nel corso degli ultimi due periodi di imposta precedenti alla messa in liquidazione denaro o altri beni sociali in assegnazione dagli amministratori o hanno avuto in assegnazione beni sociali dai liquidatori durante il tempo della liquidazione, sono responsabili del pagamento delle imposte dovute dai soggetti di cui al primo comma nei limiti del valore dei beni stessi, salvo le maggiori responsabilità stabilite dal codice civile.”

Traducendo: i soci (o membri di enti) che hanno ricevuto beni dalla società sia poco prima che iniziasse la liquidazione (negli ultimi due esercizi ante scioglimento), sia durante la liquidazione, sono tenuti a pagare le imposte dovute dalla società, entro il limite del valore di quanto ricevuto. E resta ferma ogni ulteriore responsabilità prevista dal Codice Civile (ad esempio, se erano soci illimitatamente responsabili per legge, rimangono tali, “maggiori responsabilità”). In pratica, questa disposizione colma una lacuna dell’art. 2495: quest’ultimo parlava di somme ricevute in base al bilancio finale, quindi formalmente alla fine. L’art. 36 include anche le eventuali attribuzioni ai soci avvenute nei due anni prima (quando ancora non c’era un bilancio finale, ma di fatto si stava già disinvestendo) e quelle avvenute durante la liquidazione. L’esempio classico del periodo pre-liquidazione è: l’amministratore, l’anno prima di sciogliere la società, distribuisce riserve ai soci o assegna un immobile ai soci (magari lo toglie dall’attivo sociale). Poi l’anno dopo liquida la società formalmente ormai impoverita. Ecco, quei soci hanno ricevuto beni in frode ai creditori: l’art. 36 li rende responsabili. Parallelamente, come già visto, l’amministratore che ha fatto ciò ne risponde (co.3). Durante la liquidazione, invece, la situazione è palese: il liquidatore ripartisce un attivo ai soci -> i soci ne rispondono in solido per le imposte non pagate.

Limite “valore dei beni stessi”: questo conferma il concetto di responsabilità limitata pro quota per i soci. Ciascun socio risponde al più di quanto ha ricevuto. Non c’è una “solidarietà illimitata tra soci” per il totale del debito fiscale (a meno che altre norme non prevedano diversamente, come per soci illimitatamente responsabili). Dunque, se un socio ha avuto 10 e un altro 20, il Fisco potrà chiedere 10 al primo e 20 al secondo, non di più. Questo è stato oggetto di contenzioso, perché l’Agenzia delle Entrate talvolta pretendeva di più sostenendo una solidarietà passiva. La Cassazione a SS.UU. 2013 (sent. 6070/2013) aveva già chiarito che non vi è solidarietà tra soci di capitale oltre i limiti di legge: ognuno risponde del suo (si veda principio in). Le Sezioni Unite 2025 hanno sostanzialmente confermato questa impostazione: nessuna responsabilità “in solido” per l’intero debito a carico dei soci, ma solo nei limiti della rispettiva quota di attivo riscosso. Quindi il Fisco deve mirare a ciascun socio pro-quota.

Condizione per l’azione contro i soci – il “percepito”: l’art. 36 co.4 (ex co.3) parla di soci che hanno ricevuto beni. Se un socio non ha ricevuto nulla, letteralmente non rientrerebbe nella fattispecie. La Cassazione in passato aveva interpretato rigidamente questa condizione, ritenendo che se un socio non aveva riscosso somme dal bilancio finale, non c’era titolo per agire contro di lui (mancava l’interesse ad agire). Le Sezioni Unite 2025 (sent. 3625/2025) hanno rivisto la questione in modo più elastico: hanno affermato che la riscossione di somme da parte del socio è non solo il limite dell’obbligazione, ma anche il presupposto per l’azione (se contestato). Cioè, se il socio eccepisce di non aver ricevuto nulla, spetta al Fisco provare che invece quel socio ha tratto beneficio (ad es. ha ricevuto beni fuori bilancio, o un rimborso di capitale, etc.). Inoltre, la SU ha esteso il concetto di “somme riscosse in base al bilancio finale” includendo anche altre evenienze: “beni e diritti che, per quanto non ricompresi nel bilancio, si siano trasferiti ai soci, ovvero anche il caso di escussione di garanzie”. Ad esempio, se un socio si era fatto anticipare un immobile prima del bilancio finale (non risultante formalmente come assegnazione), o se era garante di un debito sociale poi escusso riducendo il suo patrimonio, questi elementi possono far scattare la responsabilità. In sostanza, la Cassazione ha detto che anche se formalmente un socio non ha avuto niente alla fine, il Fisco può agire contro di lui se dimostra che ha beneficiato di un qualche trasferimento di valore dall’azienda. Resta il fatto che se un socio davvero non ha ottenuto alcun valore né prima né durante la liquidazione, e il Fisco non può provare il contrario, quell’azione contro il socio non potrà avere successo (manca il presupposto). Quindi i soci “passivi” che non hanno mai preso utili restano tendenzialmente al riparo, mentre i soci che hanno drenato risorse (in qualunque forma) ne rispondono.

Rapporto tra azione contro soci e azione contro liquidatore: spesso l’Agenzia Entrate procede parallelamente. Soci e liquidatore possono essere tutti destinatari di atti separati. Non si esclude infatti il cumulo: il Fisco può chiedere ai soci fin dove arriva il loro beneficio e al liquidatore il resto (o l’intero se i soci magari non rispondono perché i beni sono stati dati a creditori e non a loro). Ad esempio, se il liquidatore ha pagato un credito chirografario invece delle imposte, i soci magari non hanno ricevuto nulla (quindi non pagano, perché non hanno percepito attivo), ma il liquidatore risponde. Viceversa, se il liquidatore ha pagato i soci lasciando imposte, rispondono sia i soci (ciascuno la propria parte) sia lui in solido? In teoria, liquidatore e ciascun socio possono essere coobbligati in relazione allo stesso debito (uno per averlo causato, gli altri per aver beneficiato). La Cassazione ha definito la responsabilità ex art.36 “sui generis” e autonoma, non strettamente tributaria: essendo autonomo il titolo, si potrebbe prospettare un cumulo. Tuttavia, c’è da presumere che il Fisco non possa incassare due volte la stessa imposta: se un socio paga, la pretesa verso liquidatore si riduce di conseguenza, e viceversa. Infatti il liquidatore risponde solo per la parte non soddisfatta con l’attivo; se recuperano dal socio quell’importo, l’Erario è soddisfatto. In pratica, sarà un concorso di responsabilità di natura civile dove chi paga libera l’altro in misura corrispondente (e poi eventualmente si faranno cause di regresso tra loro).

Esonero dei soci in caso di procedure concorsuali: se la società è finita in fallimento, i soci di capitali non ricevono nulla e dunque non pagano nulla (nessun attivo distribuito). Il Fisco se la società fallisce di solito non può agire sui soci di capitali (non hanno colpa se l’attivo non c’è, e art.2495 opera uguale con limite zero). Diverso per i soci illimitati che falliscono pure loro. Nel concordato preventivo liquidatorio, invece, i soci spesso parimenti non prendono nulla (tutto va ai creditori): quindi non avranno da rispondere ex 2495. Inoltre, se il Fisco ha accettato un concordato con stralcio di imposte, poi non potrebbe richiederle ai soci: sarebbe in frode al concordato stesso (questione complessa, ma si consideri che l’adesione vincola il creditore). Insomma, i soci di regola diventano bersaglio quando c’è stata liquidazione “privata” e attivo devoluto.

Caso dei soci di società di persone: come già detto, questi erano già responsabili illimitatamente ab origine. L’art. 36 li menziona comunque (“soci o associati”), ma poi rimanda alle “maggiori responsabilità stabilite dal codice civile”. Quindi, per una S.n.c., il socio risponde illimitatamente oltre il valore ricevuto. Se per ipotesi una S.n.c. viene liquidata e un socio incassa 0 perché tutto l’attivo è andato a pagare un creditore ipotecario lasciando un debito IVA scoperto, nonostante il socio non abbia incassato nulla il Fisco può comunque pretendere da lui l’IVA (illimitatamente) in base alla regola generale della responsabilità solidale dei soci. Dunque, le norme speciali come art.36 co.4 aggiungono poco per le società di persone: semmai ampliano la responsabilità dei soci accomandanti di una S.a.s. se questi avessero ricevuto qualcosa in violazione della par condicio (perché normalmente sarebbero limitati alla quota conferita, ma se ricevono extra, quell’extra lo devono restituire per i debiti). In letteratura, si è evidenziato che il “salvo maggiori responsabilità ex cod. civ.” serve appunto a dire: se i soci rispondevano già illimitatamente, ciò prevale.

Procedura di accertamento verso i soci: similmente al liquidatore, il Fisco notifica un atto (avviso) a ciascun socio, motivato con riferimento all’art. 36, al bilancio finale ecc. I soci possono far opposizione in Commissione Tributaria eccependo di non aver ricevuto nulla o altri motivi. Le Sezioni Unite 2025 hanno specificato che l’accertamento del presupposto (somme percepite) deve essere oggetto di specifico atto verso ciascun socio; inoltre, non può essere affrontato incidenter nel giudizio originariamente promosso dalla società sull’accertamento del tributo. In pratica: se la società aveva fatto ricorso contro un avviso di accertamento, e poi si estingue e proseguono i soci come successori, in quel giudizio non si può decidere “anche” sulla responsabilità ex art.36 dei soci, che richiede un accertamento dedicato e soggetti chiamati in proprio. È una questione processuale ma importante: i soci non vengono incastrati in contumacia in cause già in corso, ma devono essere attivamente destinatari di un nuovo atto e poter far valere le loro difese (compresa la prova di non aver ricevuto distribuzioni). Quindi, la tutela processuale è garantita.

Esempio pratico: Una S.r.l. si liquida nel 2024 con un attivo di €100.000. Il liquidatore paga €50.000 di fornitori chirografari e distribuisce €50.000 ai soci. Rimane un debito verso l’Agenzia Entrate di €30.000 per imposte non pagate. Cosa può fare l’Agenzia? Nel 2025, notifica: un avviso al liquidatore chiedendo €30.000 (perché ha violato la legge pagando i fornitori e i soci prima del Fisco) e avvisi ai soci ciascuno per la sua parte: supponiamo due soci al 50%, ricevettero €25k a testa, allora l’Agenzia chiede fino a €25k a ciascuno per coprire quel debito. In totale così chiede €30k al liq. e €30k (25+5 da uno e 25+5 dall’altro)? No, calibrerà: non può incassare 60 su 30 dovuto. Dovrebbe chiederli in via solidale parziale: tipicamente, chiederà €15k a un socio e €15k all’altro (per totale €30k) – ma in realtà la norma direbbe 25k limite ciascuno, quindi anche di più potrebbe chiedere, però essendo il debito totale 30, non ha senso chiederne 50. Il liquidatore in teoria sarebbe responsabile pure di 30. Forse l’Agenzia in questi casi tende a far valere prima su chi è solvibile: ad esempio se i soci sono persone scomparse e il liquidatore è facile da colpire, punterà sul liquidatore; se il liquidatore è nullatenente ma i soci no, punterà sui soci. Formalmente li chiama tutti e poi gestirà la riscossione. Chi paga per primo libera gli altri. In sede di ricorso, liquidatore potrebbe argomentare che i soci hanno già avuto quei soldi quindi dovrebbero restituirli loro; i soci magari diranno che la colpa è del liquidatore. Ma agli occhi del Fisco, entrambi sono responsabili, ciascuno secondo legge. Tra di loro, però, potrebbero poi litigare (il liquidatore magari può rivalersi sui soci per quanto pagato ecc., tema di rapporti interni sul quale sorvoliamo qui).

Sanzioni e interessi verso i soci: vale lo stesso discorso di prima. I soci non ereditano formalmente le sanzioni tributarie della società. Quindi l’avviso a loro carico di solito richiederà l’imposta e interessi legali (forse gli interessi per il ritardato pagamento sì, perché sono accessori del debito principale e art.36 non li esclude espressamente – anche se su questo la giurisprudenza non è chiarissima, ma tendenzialmente sì includono interessi). Le sanzioni restano inesigibili. Dunque i soci pagano al massimo il capitale d’imposta più interessi di mora.

Coordinate temporali: l’art.36 è norma sostanziale, ma gli atti vanno emessi entro determinati termini. L’azione verso soci/liquidatore sembra soggetta ai termini di decadenza dell’accertamento tributario “originale”. Ad esempio, se la società omette un reddito nell’anno X e viene cancellata nell’anno Y, l’Agenzia ha fino al 31/12 dell’anno Z per notificare l’accertamento (in base a regole ordinarie). Notificandolo ai soci/liquidatore entro quel termine, è ok. La finzione quinquennale assicura che se anche la società è estinta in Y, fino a Y+5 la notifica fatta alla società (ancorché estinta) è valida, ma parallelemente o successivamente può farla ai soci. Di solito fanno tutto insieme. Se però trascorrono i termini di accertamento (magari anche prorogati di 1 anno in caso di cessazione anticipata del periodo d’imposta, ecc.), il Fisco decade. Ci sono contenziosi su quando inizia a decorrere il termine per agire contro i soci: c’è tesi che dice dal momento cancellazione (5 anni?), ma la Cassazione ha trattato l’azione ex art.36 come parte del potere di accertamento dell’imposta. Quindi sembra allineata ai termini dell’accertamento tributario. In altre parole, i soci/liquidatori non rimangono appesi indefinitamente oltre i limiti di legge. Questo però è un tecnicismo, basti sapere che il Fisco deve attivarsi tempestivamente (in genere lo fa, perché ha la traccia della cancellazione e sa di dover recuperare in fretta).

Confronto con art.2495 c.c.: l’azione ex 2495 c.c. è un’azione civilistica tipica (il creditore potrebbe citarvi i soci in tribunale ordinario). Nel nostro caso, invece di passare dal giudice civile, il Fisco usa la scorciatoia del procedimento tributario ex art.36. Cassazione ha detto che la responsabilità ex art.36 è “autonoma dal 2495 c.c., anche se simile”, e che prevede un procedimento proprio (avviso impugnabile in Commissione). Dunque il Fisco solitamente segue questa via. Nulla vieterebbe che l’Agenzia Entrate-Riscossione (Equitalia) provi un decreto ingiuntivo ex 2495 c.c. contro un socio, ma è più complicato e raro, visto che l’art.36 offre uno strumento disegnato apposta. Inoltre, la soggezione al giudice tributario è preferita perché questi è competente in materia d’imposte, mentre il giudice civile potrebbe sollevare conflitti o dover interpretare fiscalità (non di rado casi di 2495 c.c. finiscono comunque con valutazioni di giurisdizione – a chi appartiene decidere, civile o tributario? La Cassazione ha stabilito: se l’Agenzia agisce ex 36, è materia tributaria; se il creditore qualsiasi agisce ex 2495, è civile. Quindi due piani separati).

Conclusioni su soci: I soci di società di capitali sono in gran parte al riparo dal rischio di dover pagare i debiti sociali, grazie al velo societario. Ma questa protezione cade in fase di liquidazione per i debiti tributari: i soci non possono fare “cassa” con i beni sociali lasciando lo Stato a mani vuote. Se lo fanno, devono restituire quanto incassato, per saldare il Fisco (fino a capienza). Se non hanno incassato nulla, in linea di principio non pagano nulla – a meno di situazioni abusive individuate (percepimenti indiretti). I soci illimitatamente responsabili di società personali, dal canto loro, erano sempre responsabili comunque; l’art.36 è per loro quasi irrilevante, se non per ribadire che anche eventuali assegnazioni fatte prima della liquidazione formale li impegnano a pagare i tributi.

Chiudiamo qui la parte civil-tributaria. A questo punto abbiamo: liquidatore che rischia sul proprio patrimonio per condotte scorrette e soci che rischiano di dover restituire l’attivo ricevuto. Rimane da trattare la dimensione penale. Infatti, oltre alle conseguenze patrimoniali, certe condotte del liquidatore o degli amministratori durante la liquidazione possono configurare reati. Questo è particolarmente rilevante per omessi versamenti di imposte e manovre distrattive del patrimonio finalizzate a non pagare il Fisco. Passiamo dunque ai profili penali, completando la nostra guida con l’analisi dei reati tributari e affini.

Profili Penali Rilevanti per Liquidatori e Amministratori (reati tributari e fallimentari)

La chiusura di un’impresa con debiti fiscali insoluti può esporre liquidatori e amministratori non solo a responsabilità economiche, ma anche a responsabilità penali. Il legislatore considera infatti particolarmente gravi alcune condotte, quali l’omesso versamento di imposte dovute o l’occultamento di beni per sfuggire al pagamento delle stesse. In questa sezione esamineremo i reati principali contemplati dal D.Lgs. 74/2000 (la legge penale tributaria) che possono coinvolgere i liquidatori, nonché cenni ai reati fallimentari connessi alla liquidazione.

Omesso versamento di ritenute certificate (art. 10-bis D.Lgs. 74/2000)

Cosa prevede la norma: l’art. 10-bis punisce con la reclusione chiunque non versa, entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto d’imposta, ritenute dovute sulla base di tale dichiarazione, per un ammontare superiore a 150.000 euro per ciascun periodo d’imposta. In parole semplici, se una società (in persona del suo legale rappresentante o liquidatore) trattiene sulle buste paga dei dipendenti le ritenute IRPEF o su compensi di autonomi, ma non le versa allo Stato entro il termine dell’anno successivo, e l’importo omesso supera 150mila €, scatta il reato.

Chi ne risponde: formalmente il reato è a carico di chi aveva l’obbligo di versamento in quel momento – tipicamente l’amministratore o il liquidatore come sostituto d’imposta. Dunque, se durante la liquidazione la società non versa le ritenute sulle retribuzioni pagate, il liquidatore può rispondere penalmente. Se l’omissione riguarda ritenute di periodi antecedenti la liquidazione, la giurisprudenza ha inizialmente ritenuto responsabile il liquidatore se egli, subentrato all’amministratore, non provvede al pagamento entro il termine di legge. In passato, alcune sentenze di merito condannavano il liquidatore “per eredità”: cioè, se l’ex amministratore non aveva versato, ma il liquidatore era in carica alla scadenza (generalmente 31 luglio dell’anno successivo per versare quanto indicato nel modello 770), consideravano il liquidatore come soggetto attivo del reato. Questo orientamento è poi stato corretto: la Cassazione Penale ha affermato che il liquidatore non risponde penalmente solo per il mero inadempimento, a meno che non abbia distratto le risorse dall’assolvimento del debito tributario. In altre parole, c’è bisogno del dolo: bisogna provare che il liquidatore volontariamente ha destinato l’attivo della società ad altro anziché al pagamento delle ritenute, volendo non versarle. Se invece la situazione di liquidazione non consentiva il versamento per mancanza di liquidità, e il liquidatore non ha colpe specifiche (non ha preferito pagare altri potendo pagare il Fisco), allora la condotta non è considerata criminoso, bensì un semplice inadempimento privo di rilevanza penale. Cass. pen. sez. III n.8995/2018 ha chiarito che il liquidatore “non risponde del reato di omesso versamento di ritenute … per il mero fatto del mancato pagamento, con le attività di liquidazione, delle imposte dovute…, ma solo qualora distragga l’attivo … e lo destini a scopi differenti [dal pagamento del Fisco]”. Questo principio rispecchia la logica già vista in ambito civile.

Evoluzioni normative recenti: il reato di omesso versamento ritenute ha soglie e criteri fissati (150.000 € per periodo d’imposta). Nel 2015 tali soglie sono state alzate (prima era 50.000 €). Nel 2024 c’è una novità rilevante: il D.Lgs. 75/2020 (di recepimento direttive UE) e poi il D.Lgs. 87/2024 (attuazione riforma penale tributaria) hanno introdotto cause di non punibilità in caso di crisi di liquidità non imputabile al contribuente. In particolare, dal 2024 è in vigore il nuovo art. 13 comma 3-bis D.Lgs. 74/2000, che dispone che “i reati di omesso versamento di ritenute e IVA non sono punibili se il fatto dipende da cause non imputabili all’autore, sopravvenute all’effettuazione delle ritenute o all’incasso dell’IVA”. La norma indica anche che il giudice deve valutare la natura non transitoria della crisi di liquidità e fornisce esempi: insolvenza di clienti, mancati pagamenti dalla Pubblica Amministrazione, impossibilità di ottenere credito, sovraindebitamento conclamato. Questa è una novità di enorme rilievo: significa che se il liquidatore (o amministratore) può provare che l’omesso versamento non è dipeso dalla sua volontà ma da circostanze oggettive di forza maggiore, il fatto non costituisce reato. È una “esimente” che ufficializza quanto già a volte riconosciuto come caso di forza maggiore o assenza di dolo. Ad esempio, se la società non ha versato le ritenute perché il suo unico cliente è fallito e non ha pagato, lasciandola senza entrate, e il liquidatore ha fatto tutto il possibile (non ha pagato altri indebitamente, ha cercato invano fondi, ecc.), potrà invocare la non punibilità. La Cass. pen. n.13134/2025 ha già applicato questo concetto, chiarendo però che spetta all’imputato l’onere di provare rigorosamente la sussistenza delle cause esimenti (documentare i crediti insoluti, dimostrare di aver tentato tutto) e che la crisi deve essere non temporanea e non imputabile (cioè non dovuta a scelte imprudenti come distribuire utili ai soci invece di pagare imposte, circostanza che renderebbe la crisi “colpevole”). Questa innovazione tutela in particolare i liquidatori onesti: se uno assume l’incarico in una situazione di decozione dove proprio non è possibile pagare, potrà evitare il penale.

Ricapitolando art.10-bis per il liquidatore: Egli rischia il penale se doloso. Se fu impossibilitato a pagare per cause a lui non imputabili, oggi può essere dichiarato non punibile. Naturalmente resta il fatto che il debito fiscale esiste (non punibilità penale ≠ condono del tributo, salvo estinzione per pagamento tardivo integrale).

Omesso versamento IVA (art. 10-ter D.Lgs. 74/2000)

La fattispecie: l’art. 10-ter punisce chi non versa l’IVA dovuta in base alla dichiarazione annuale entro il termine (di solito 16 marzo dell’anno successivo) per importi superiori a 250.000 euro per periodo d’imposta. È analogo al 10-bis ma riferito all’IVA.

Applicazione al liquidatore: se durante la liquidazione o al termine di essa la società non versa l’IVA risultante (ad esempio IVA sulle vendite di beni liquidati, o IVA annuale a debito) oltre soglia, il liquidatore può essere imputato. Molto spesso, le società in crisi accumulano debiti IVA cospicui. Chi era in carica alla scadenza di pagamento del saldo IVA rischia l’accusa. Se la scadenza era posteriore alla nomina del liquidatore, anche qui in passato c’è stato dibattito se risponde lui o il precedente amministratore. La Cassazione (sent. n. 41745/2019, resa nota per aver escluso punibilità del liquidatore subentrato) ha chiarito che non può essere punito il liquidatore per l’omesso versamento dell’IVA autoliquidata dal precedente amministratore se manca prova che abbia avuto la provvista e l’abbia destinata altrove (questo era definito il “dietrofront” 2019 della Cassazione). In sostanza, come per le ritenute, serve la distrazione attiva.

Crisi di liquidità non imputabile: quanto detto per l’art. 10-bis vale anche per l’omesso versamento IVA. La nuova causa di non punibilità si applica pure qui. Quindi, se un liquidatore non versa IVA perché l’azienda è travolta da una crisi straordinaria (es. un terremoto ha distrutto il magazzino, o i clienti sono falliti), potrà evitare condanna se dimostra i requisiti di cui sopra. Va notato però che l’IVA, essendo spesso un importo elevato e legato alle vendite, ha attirato attenzione giurisprudenziale: secondo molte sentenze, l’imprenditore avrebbe dovuto farsi carico di accantonare l’IVA incassata, e la semplice “crisi di liquidità” non giustifica l’omissione (la Cassazione parlava di rischio d’impresa che non esime dall’obbligo). La riforma 2024 sposta l’ago a favore del contribuente serio, ma resta applicabile solo se la crisi è davvero eccezionale. Cass. 13154/2025 ha infatti rigettato il ricorso dell’imputato perché aveva addotto genericamente difficoltà economiche, non provando circostanze specifiche esimenti. Insomma, la soglia (250k) già implica casi gravi; per convincere i giudici serve documentare bene.

Liquidatore di società fallita e omesso versamento IVA: se la società poi fallisce, c’è un’interferenza col diritto fallimentare: è stato dibattuto se il reato si consumi comunque al 16 marzo o se sia anticipato dal fallimento. La giurisprudenza recente dice che il reato di omesso versamento IVA si perfeziona alla scadenza del termine, anche se la società fallisce prima della dichiarazione annuale (in tal caso termine spostato a 4 mesi dalla chiusura esercizio). Non entriamo troppo: per il liquidatore, se la società viene dichiarata fallita prima che lui possa pagare l’IVA annuale, potrebbe invocare che ormai non poteva. Alcune pronunce hanno escluso il reato se il mancato versamento deriva dalla sopravvenuta indisponibilità dell’attivo per intervento del fallimento (forza maggiore). Ad esempio, se al 16 marzo la società è in mano al curatore che blocca i conti, il liquidatore non ha colpa. Il D.Lgs. 14/2019 (Codice Crisi) ha introdotto istituti come il “certificato di esdebitazione tributaria” per concordati preventivi (che rileva penalmente, v. art. 25 D.Lgs. 74/2000): ma è dettaglio troppo spinto qui.

Riassunto art.10-ter: Il liquidatore è punibile se volontariamente non versa IVA dovuta (>250k), specie se ha preferito altri pagamenti. Non punibile se dimostra che non aveva risorse colpevolmente (ora codificato). Soggetti attivi: come sopra, amministratore o liquidatore in carica alla scadenza.

Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 11 D.Lgs. 74/2000)

Questo reato è cruciale quando qualcuno compie atti dispositivi su beni dell’azienda al fine di evitare che il Fisco li aggredisca. La formulazione prevede la reclusione (da 6 mesi a 4 anni) per chiunque, al fine di sottrarsi al pagamento di imposte sui redditi o IVA (anche dovute in base a cartelle esattoriali), alieni simulatamente o compia atti fraudolenti sui propri o altrui beni idonei a rendere inefficace la riscossione, se il debito supera 50.000 €. Quindi c’è un soglia: l’ammontare delle imposte il cui pagamento si vuole evadere dev’essere > 50k (non per anno, ma come “complessiva pretesa erariale” a cui il soggetto vuole sottrarsi). Non serve che sia in corso un accertamento formale: basta anche un debito iscritto a ruolo non pagato.

Esempi di condotte tipiche: durante la liquidazione, un liquidatore potrebbe: vendere un bene aziendale a prezzo irrisorio a un parente simulando una cessione, così che il ricavato non vada ai creditori (Fisco compreso); oppure occultare merci in magazzino trasferendole ad altra società di comodo; oppure pagare preferenzialmente un creditore amico con accordo che questi restituisca poi i soldi sottobanco al liquidatore. Qualsiasi stratagemma per far sparire attivo e non farlo trovare al Fisco configura questo reato. Anche la semplice distruzione o occultamento delle scritture contabili può rientrare (perché rende difficile il recupero crediti da parte del Fisco), ma talvolta è inquadrato anche come reato a sé (art. 10 D.Lgs. 74/2000, ma quello tecnicamente riguarda occultamento scritture per evadere imposte, diverso scopo). Nel contesto della liquidazione, art. 11 è il reato da tenere presente se il liquidatore cerca di favorire soci o terzi consapevolmente per fregare il Fisco.

Applicazione al liquidatore: sicuramente, se un liquidatore compie atti di mala gestio come quelli detti con l’intento specifico di frodare il Fisco, commette questo reato. Ad esempio, dichiara ai creditori che la società non ha più niente, ma in realtà ha trasferito tutti i fondi a un’altra società da lui controllata: ecco la frode. Le soglie attuali (50k) sono facilmente superabili se la società aveva debiti IVA o IRES consistenti. Quindi i liquidatori disonesti rischiano seriamente condanne per sottrazione fraudolenta. L’art. 11 è anche spesso contestato agli amministratori che svuotano società portandole al “fallimento pilotato” lasciando debiti fiscali: tipicamente, vendono l’azienda a una newco per salvare gli asset e lasciano la vecchia società senza nulla (scatola vuota con i debiti). Queste operazioni, se provate come fraudolente, integrano il reato.

Da notare: l’art. 11 punisce anche chiunque compie atti simulati sui beni altrui – es. il socio che nasconde beni sociali. Dunque, pure un socio può concorrere, così come il classico prestanome a cui vengono intestati beni per sottrarli alle pretese. Nella pratica liquidatoria, il liquidatore, i soci e eventuali terzi complici possono essere tutti imputati per concorso se ordiscono la frode insieme.

Pene ed effetti: pena fino a 4 anni (quindi reato “non gravissimo” ma comunque detentivo). Possibile sequestro/confisca per equivalente del profitto (che di solito è il valore imposte non riscosse, ma tecnicamente in questi reati il profitto è il “risparmio d’imposta”, concetto elaborato in giurisprudenza). Ad esempio se liquidatore nasconde 100k di beni per non pagare 50k imposte, i 50k di imposta non pagata sono profitto del reato, confiscabili su suoi beni. Inoltre, se nel frattempo ha venduto i beni veri, i compratori potrebbero vedersele sequestrare come atto simulato. Questo succede: vendite di immobili a familiari a prezzo irrisorio vengono talvolta annullate e i beni tolti ai familiari per confiscare.

Concorrenza con reati fallimentari: se poi la società fallisce, atti simili di occultamento diventano anche bancarotta fraudolenta (artt. 322 e 323 Codice della Crisi, già art. 216 L.F.). C’è concorso fra reato tributario e fallimentare? Sì, in teoria uno può rispondere di entrambi se con un atto unico viola due beni giuridici (erario e massa creditoria). Spesso però la giurisprudenza cerca di non duplicare: la Cass. SS.UU. n. 3440/2017 ha escluso il concorso di norme tra bancarotta e sottrazione fraudolenta se l’evento è il medesimo (preferendo punire col più severo bancarotta). Quindi, se arriva il fallimento, di solito prevalgono i reati fallimentari (che hanno pene più alte: bancarotta fraudolenta patrimoniale va da 3 a 10 anni). Se invece la società viene liquidata senza fallire, l’art. 11 rimane applicabile in pieno.

Altri reati tributari e connessi

Oltre ai due “omessi versamenti” e alla frode in danno del Fisco, il liquidatore potrebbe incorrere in:

  • Dichiarazione infedele (art. 4 D.Lgs. 74/2000): se in una dichiarazione fiscale della società (anche in fase di liquidazione) vengono occultati elementi imponibili per oltre 100.000 € d’imposta evasa, c’è il reato. Un liquidatore potrebbe commetterlo, ad esempio, se redige il bilancio finale sotto-stimando attivi o non dichiarando una plusvalenza per ridurre le imposte. Non è frequente che in liquidazione si facciano false dichiarazioni per evadere (di solito se c’è nulla da perdere alcuni non presentano proprio dichiarazione – v. reato successivo), ma è teoricamente possibile.
  • Omessa dichiarazione (art. 5 D.Lgs. 74/2000): se il liquidatore non presenta la dichiarazione dei redditi finale (o IVA) e l’imposta evasa supera 50.000 €, può esserne imputato. Questo è plausibile: magari chiude la società e dimentica la dichiarazione finale perché tanto la società è morta. Ma se c’erano operazioni con imposte dovute, rischia il penale. Quindi i liquidatori dovrebbero sempre presentare le dichiarazioni, anche a zero, per non incorrere in guai. Se non c’è imposta evasa (magari perché avevano credito d’imposta), non scatta soglia -> niente reato, ma sanzione amministrativa sì.
  • Occultamento/distruzione di documenti contabili (art. 10 D.Lgs. 74/2000): se il liquidatore (o l’amministratore prima di lui) ha fatto sparire o distrutto le scritture contabili per impedire la ricostruzione dei redditi, si configura questo reato. Spesso un liquidatore disonesto potrebbe far sparire libri e fatture per nascondere atti di mala gestio. Questo reato però richiede il dolo specifico di evadere o far evadere imposte. In contesto liquidazione, l’intento potrebbe essere di impedire accertamenti, quindi sì, potrebbe capitare. Pene da 3 a 7 anni.
  • Reati fallimentari: se la società viene dichiarata fallita (entro l’anno dalla cancellazione, come visto), il liquidatore e gli amministratori possono rispondere di bancarotta fraudolenta per distrazione (se hanno sottratto beni), per preferenze (se hanno pagato un creditore preferendolo scientemente: bancarotta preferenziale, punita fino a 2 anni), o documentale (se hanno fatto sparire libri). Ad esempio, un liquidatore che paga un fornitore non privilegiato invece del Fisco, in sede penale fallimentare potrebbe essere accusato di bancarotta preferenziale (ha favorito quel fornitore pregiudicando la par condicio dei creditori concorsuali, tra cui il Fisco) oltre che il reato fiscale. Le soglie non contano per i reati fallimentari: anche una preferenza di 10.000 € può costare una condanna (sempre che il fatto sia doloso e con scientemente alterazione par condicio). Naturalmente, se la società non viene dichiarata fallita, i reati fallimentari non si applicano. Ma attenzione: la liquidazione coatta amministrativa ha analoghi reati (in legge speciale), e una liquidazione volontaria non seguita da fallimento non genera reati fallimentari, ma le condotte equivalenti possono essere inquadrate come appropriazioni indebite o altri illeciti comuni (ad esempio un liquidatore che si intasca soldi società commette appropriazione indebita aggravata verso la società e i creditori). Comunque, questo trascende l’ambito tributario.
  • Responsabilità 231/2001: segnalazione per completezza, i reati tributari come 5,10,10-bis,10-ter,11 oggi comportano anche responsabilità amministrativa della società ex D.Lgs. 231/2001 (grazie a riforme recenti), con sanzioni pecuniarie a carico dell’ente. Se però la società è estinta, tale procedimento rimane teorico. Nella prassi, se la società viene liquidata e cancellata, non c’è ente su cui applicare 231. Però se venisse scoperto il reato prima della fine, potrebbero sanzionare la società (ma poi la sanzione rimane a carico del liquidatore finché c’è attivo, come debito prededucibile concorsuale). È tecnicismo, ma in contesti di liquidazione spesso non si arriva a tanto.

In sintesi per i liquidatori:

  • Se operano correttamente e la società non può pagare le imposte per motivi oggettivi, non avranno conseguenze penali (anche se, ahimè, dovranno forse affrontare un processo per dimostrarlo).
  • Se invece dolosamente non pagano il Fisco potendolo fare (pagando altri o portando via beni), rischiano sia la condanna penale (per omesso versamento oltre soglia e/o frode) sia l’azione civile di recupero (ex art.36). Le due cose non si escludono: anzi, spesso un liquidatore infedele si troverà a fronteggiare sia l’accertamento dell’Agenzia Entrate che un procedimento penale. Un caso reale: liquidatore che incassa un risarcimento per la società e ripartisce ai soci senza pagare le imposte su quel provento – la Cassazione (sent. n. 10508/2008) ha annullato la cartella a suo carico perché l’Ufficio non aveva iscritto a ruolo il tributo prima, ma sul piano penale un comportamento simile potrebbe configurare reato (distrazione di attivo destinato a tributi). Con la SU 2023, quell’escamotage procedurale è caduto, quindi ora il Fisco può colpirlo e il penale pure.
  • Se la vicenda degenera in fallimento, i reati fallimentari generalmente saranno al centro e includeranno anche le condotte contro il Fisco come parte del disegno criminoso (es. pagare soci e saltare Fisco = bancarotta fraudolenta per distrazione e preferenziale, potenzialmente).

Consigli pratici per evitare guai penali:
Per un liquidatore, il consiglio è: pagare il Fisco almeno in parte. La legge penale prevede infatti una sorta di “causa di non punibilità per pagamento integrale” (art. 13 D.Lgs. 74/2000 c.1): se l’imposta omessa (IVA o ritenute) viene versata integralmente prima che inizi il processo penale di primo grado, il reato è estinto. E c’è un’attenuante se pagata dopo (c.2). Questo vuol dire: se proprio vi trovate costretti a omettere un versamento entro la scadenza, cercate almeno di porvi rimedio in seguito pagando il dovuto (magari utilizzando istituti come il ravvedimento operoso, o comunque raccogliendo i fondi). Nel contesto di liquidazione, ciò è difficile perché se non c’erano soldi al momento, figuriamoci dopo. Però a volte, vendendo qualche asset in extremis o recuperando crediti, si può pagare (ad esempio, se la soglia è sforata di poco, cercare di versare quell’importo). La riforma 2024 ha abbassato la sanzione amministrativa per ritardati versamenti (dal 30% al 25%) e predisposto misure per facilitare la regolarizzazione: quindi, se il liquidatore riesce a pagare, anche il penale svanisce. E con la nuova esimente delle “cause di forza maggiore”, se non paga deve almeno documentare minuziosamente la crisi (mancati incassi, ecc.) così da avere arma difensiva. Un liquidatore che semplicemente decide “pago i fornitori e se non resta per l’IVA pazienza” potrebbe essere condannato, perché quello è considerato scelta imprudente imputabile. Se invece può provare che pagando i dipendenti (super privilegiati) ha esaurito risorse e non poteva far altrimenti, e l’IVA è rimasta indietro per quello, forse potrà giovarsi dell’esimente (o almeno convincere il giudice che non c’era dolo).

Chiudendo i profili penali, sottolineiamo: le sanzioni penali si rivolgono alla persona fisica del liquidatore (o amministratore), non alla società. Dunque la liquidazione della società non libera da queste: anzi, spesso è proprio la liquidazione disordinata a far emergere condotte penalmente rilevanti. Pertanto un liquidatore responsabile deve operare con trasparenza e nel rispetto delle precedenze nei pagamenti, comunicando con i creditori e magari informando il Fisco se ci sono difficoltà (esistono strumenti come il ravvedimento operoso o la richiesta di rateazione di cartelle – se il liquidatore mostra collaborazione chiedendo una rateazione delle cartelle fiscali durante la liquidazione, riduce il rischio di essere accusato di volontaria omissione; certo poi se non la paga, il debito resta, ma penalmente ha evidenziato la volontà di pagare).

Dopo questo approfondimento tecnico, è utile passare a una sezione più discorsiva: rispondere alle domande frequenti per ricapitolare i concetti in forma di Q&A, e proporre qualche scenario esemplificativo che aiuti a comprendere come le norme si applicano a situazioni reali.

Domande Frequenti (FAQ) sulla Responsabilità del Liquidatore

D: Il liquidatore di una società risponde personalmente di tutti i debiti tributari rimasti?
R: No, il liquidatore non diventa automaticamente debitore di tutti i debiti fiscali della società. La responsabilità scatta solo se il liquidatore ha commesso specifiche violazioni: in particolare, se ha usato le disponibilità della liquidazione per pagare soci o creditori subordinati prima di saldare le imposte dovute. In tal caso risponde solo fino all’importo che avrebbe dovuto destinare al Fisco. Se invece il patrimonio sociale era insufficiente e il liquidatore lo ha destinato correttamente ai crediti con precedenza (es. privilegiati di grado superiore, come stipendi) senza riuscire a pagare le imposte, non sarà chiamato a pagare la differenza. In breve: il liquidatore risponde dei debiti tributari insoddisfatti per causa a lui imputabile (mala gestio), non di qualsiasi debito a prescindere. Inoltre, non risponde mai delle sanzioni tributarie della società, ma solo delle imposte (e relativi interessi legali).

D: Se la società non aveva liquidità per pagare le tasse durante la liquidazione, il liquidatore può essere accusato penalmente per il mancato versamento?
R: In linea di principio, l’ordinamento penale punisce l’omesso versamento di IVA o ritenute solo quando c’è dolo, ossia volontà di non pagare pur potendo. Se davvero mancavano le risorse finanziarie e il liquidatore non ha causato lui tale situazione (ad esempio non ha distratto fondi altrove), già la Cassazione escludeva la punibilità per difetto di dolo. Oggi, poi, è stata introdotta una specifica causa di non punibilità: se l’omesso pagamento dipende da cause di forza maggiore non imputabili (es. insolvenza improvvisa dovuta al fallimento di un cliente, mancati pagamenti dalla PA, crisi di liquidità grave e documentata), il fatto non è reato. Resta comunque a carico del liquidatore provare queste circostanze in sede penale in modo rigoroso (ad esempio esibendo bilanci, lettere di sollecito ai clienti morosi, ecc.). Quindi, se davvero non c’erano soldi, il liquidatore non andrà incontro a condanna penale. Attenzione però: se invece i fondi c’erano ma sono stati usati per altri scopi (pagare fornitori non privilegiati, soci, o spese non essenziali), allora , il liquidatore rischia l’accusa di omesso versamento doloso (soggetto a reclusione) e difficilmente potrà invocare la non punibilità, perché la crisi sarebbe considerata “self-inflicted” (autoindotta). In pratica: la legge non punisce chi non paga per vera impossibilità, ma punisce chi sceglie di non pagare il Fisco potendo fare altrimenti.

D: Se dopo la chiusura della società emergono nuovi accertamenti fiscali (per redditi non dichiarati, ecc.), possono rivalersi sul liquidatore?
R: Sì, è possibile. L’art. 36 DPR 602/73 si applica anche a debiti d’imposta accertati dopo l’estinzione della società, riferiti a periodi anteriori. In pratica, l’Agenzia Entrate può notificare un avviso di accertamento al liquidatore per far valere la sua responsabilità senza dover aver prima accertato il debito a nome della società. Naturalmente, il liquidatore in quel caso potrà contestare sia la fondatezza dell’accertamento sia il fatto di non aver avuto modo di pagare quel tributo perché non conosciuto all’epoca. Se però l’accertamento rivela che la società aveva evaso imposte, e che se il liquidatore avesse condotto accuratamente la liquidazione quell’imposta avrebbe potuto essere soddisfatta con l’attivo distribuito, allora il liquidatore può essere chiamato a pagarla. Facciamo un esempio: nel 2025 l’Agenzia scopre che la società (chiusa nel 2023) nel 2021 aveva occultato ricavi per cui sono dovuti €20.000 di imposte. Se nel 2023 il liquidatore ha distribuito attivo ai soci e lasciato il Fisco a secco, l’Agenzia potrà chiedergli quei €20.000 oggi, perché avrebbe dovuto tenerli da parte in previsione di eventuali imposte. Viceversa, se la società non aveva proprio più nulla nel 2023 (attivo zero), il liquidatore potrà difendersi dicendo: “anche se c’è il debito accertato ora, non c’erano beni con cui pagarlo, non li ho certo dirottati altrove”. Sarà una questione probatoria: la Cassazione ha stabilito che è onere del Fisco provare che il socio o liquidatore abbiano ricevuto beni o valori su cui far valere il credito. Quindi, in generale: nuovi debiti affiorati dopo la cancellazione non sono automaticamente persi per il Fisco, può rivalersi su soci/liquidatore; ma se questi dimostrano che non c’erano risorse, potranno evitare il pagamento.

D: I soci di una SRL sono tenuti a pagare le tasse non pagate dalla società dopo la liquidazione?
R: Dipende da cosa hanno ricevuto. I soci beneficiano della responsabilità limitata, ma con l’eccezione che, se in sede di liquidazione (o poco prima) hanno ricevuto distribuzioni di denaro o beni dalla società, devono restituirle fino a coprire i debiti tributari rimasti. In termini di legge, i soci rispondono “nei limiti del valore dei beni ricevuti”. Ciò significa che ciascun socio dovrà versare al Fisco al massimo l’importo che ha incassato dalla liquidazione. Esempio: se un socio ha avuto €10.000 quale quota di riparto finale e ci sono imposte impagate, il Fisco potrà chiedergli fino a €10.000 (non oltre). Se invece un socio non ha ricevuto nulla (perché magari la liquidazione si è chiusa a zero attivo), in linea di massima non dovrà pagare nulla al Fisco. Attenzione però: la Cassazione ha chiarito che rileva non solo ciò che risulta formalmente distribuito col bilancio finale, ma qualsiasi trasferimento di valore ai soci in prossimità della liquidazione. Quindi, se un socio ha incassato somme o beni dalla società negli ultimi due anni prima dello scioglimento (magari riduzioni di capitale con rimborso, dividendi, assegnazioni di immobili) o durante la liquidazione, quelle operazioni vengono prese in conto. In sintesi: i soci di SRL e SPA rischiano di dover restituire ciò che hanno incassato dalla società, se questa non ha pagato i suoi debiti tributari. Non diventano debitori illimitati per l’eccedenza (a differenza dei soci di società di persone), ma non possono tenere l’attivo quando il Fisco è rimasto a bocca asciutta. Peraltro, i soci possono essere chiamati dall’Agenzia Entrate con un avviso di accertamento individuale; in tale sede, se affermano di non aver ricevuto nulla, sarà onere del Fisco dimostrare il contrario (ad esempio esibendo i bilanci che mostrano somme distribuite ai soci, o altri atti). Va aggiunto che i soci illimitatamente responsabili (società di persone) invece rispondono comunque di tutti i debiti tributari sociali non pagati, indipendentemente da quanto ricevuto, perché lo prevede il Codice Civile. Quindi la domanda in pratica riguarda i soci di SRL: per loro la regola è “limite = utili percepiti”. Se non c’erano utili né capitale da ripartire, i soci non pagano nulla al Fisco (il quale potrà però rifarsi sul liquidatore se c’è stata colpa di quest’ultimo).

D: Se la società viene dichiarata fallita, il liquidatore (o il curatore) è responsabile delle imposte non pagate?
R: In caso di fallimento (liquidazione giudiziale), la distribuzione dell’attivo avviene secondo la legge fallimentare e sotto controllo del tribunale. Il curatore fallimentare non è considerato un “liquidatore” ex art.36 DPR 602, quindi non subisce quella responsabilità personale. Se a chiusura del fallimento le imposte restano non pagate (evento comune, perché spesso il ricavato non basta per tutti i creditori), nessuno può chiederle al curatore né, di regola, ai soci di capitale. Le imposte residue rimangono insoddisfatte e il creditore erariale deve rinunciarvi (salvo che vi siano soci illimitatamente responsabili, i quali falliscono anch’essi e dunque pagano col loro patrimonio personale nel fallimento in estensione). In pratica: nel fallimento i crediti tributari concorrono con gli altri e ricevono quello che ricevono; oltre a ciò, il Fisco non ha ulteriori azioni verso curatore o soci limitatamente responsabili. L’unico spiraglio è se emergesse che prima del fallimento i soci avessero ricevuto qualcosa in liquidazione: in tal caso, quell’atto magari verrebbe revocato dal curatore per recuperare le somme. Ma se la domanda è sulla responsabilità diretta, no, il curatore non paga di tasca sua le imposte (a meno di condotte anomale da parte sua, perseguibili però con altre azioni di responsabilità, non con l’art.36). Anche il liquidatore che ha preceduto il fallimento di norma sfugge all’art.36 perché poi subentra il fallimento: l’Agenzia può comunque segnalare le sue condotte al curatore, il quale potrà valutarle per un’eventuale azione di responsabilità da parte del fallimento (ad esempio se il liquidatore ha dissipato attivo prima del fallimento, il curatore può citare in giudizio il liquidatore per danni ai creditori). Ma questa è un’azione civilistica interna al fallimento, non un meccanismo automatico come art.36. Dunque, semplificando: con il fallimento, la sanzione per il liquidatore infedele si sposta sul piano delle azioni di responsabilità fallimentare o addirittura penale (bancarotta), più che sulla norma tributaria.

D: Quali sanzioni penali rischia un liquidatore che non paga le imposte dovute?
R: Può rischiare principalmente due categorie di reati:

  1. i reati di “omesso versamento” (art. 10-bis e 10-ter D.Lgs. 74/2000) che puniscono il mancato pagamento di ritenute fiscali o IVA oltre certe soglie (rispettivamente 150.000 € e 250.000 €) con la reclusione fino a 2 anni. Se il liquidatore aveva la liquidità ma ha deliberatamente deciso di non versare quanto dovuto al Fisco entro le scadenze, superando le soglie, può essere perseguito penalmente. Viceversa, come detto, se la mancanza di pagamento è dovuta a vera impossibilità finanziaria, oggi può invocare la non punibilità per crisi non imputabile.
  2. il reato di “sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte” (art. 11 D.Lgs. 74/2000), più grave moralmente, che punisce gli atti volti a occultare o distrarre i beni per non farli prendere dal Fisco, con pena fino a 4 anni. Un liquidatore che trasferisce beni a terzi, simula vendite fittizie, nasconde attivo sociale per non pagare le imposte, commette questo reato. È abbastanza comune nelle operazioni di “svuotamento” societario finalizzate a far perdere le tracce al Fisco. Ad esempio, se il liquidatore cede macchinari sottoprezzo a una società di un prestanome e non paga l’IVA dovuta, oltre a rispondere dell’omesso versamento IVA può rispondere di frode fiscale ex art.11.
    In aggiunta a ciò, se la società viene dichiarata insolvente e c’è bancarotta, le sue azioni (pagamenti preferenziali o distrazioni di attivo) possono configurare reati fallimentari (bancarotta fraudolenta, bancarotta preferenziale) puniti con pene significative (anche >5 anni).
    Riassumendo: il liquidatore che non versa imposte per scelta o che devia patrimoni per non pagare il Fisco rischia la reclusione, tipicamente con condanne attorno a 6 mesi – 2 anni per i singoli reati tributari (spesso convertibili in pene alternative se incensurato) ma cumulabili in caso di pluralità di condotte. Va notato che la legge incentiva il ravvedimento: se il liquidatore poi paga tutto prima del dibattimento, i reati di omesso versamento si estinguono. Quindi c’è la possibilità di evitare conseguenze penali tardivamente.

D: La responsabilità del liquidatore si estende anche ai contributi INPS non versati?
R: Non in base all’art. 36 DPR 602/73, che parla solo di “imposte”. Tuttavia, i contributi previdenziali godono anch’essi di un forte privilegio e la legge prevede tutele analoghe per l’ente previdenziale. Ad esempio, se il liquidatore non versa i contributi dei dipendenti e nel contempo distribuisce attivo ai soci, l’INPS potrebbe agire in via civile contro di lui per mala gestio. La giurisprudenza ha inquadrato la questione talora nell’ambito dell’art. 2495 c.c. (creditori insoddisfatti vs soci e liquidatori per colpa). Ad esempio, il Tribunale di Siracusa 16/5/2023 ha affermato che, in un’opposizione a cartella Inps, spetta all’INPS provare che il liquidatore aveva patrimonio attivo e non ha pagato i contributi dovuti – altrimenti il liquidatore non può essere obbligato. In quel caso, non avendo l’INPS dimostrato che l’attività proseguiva e che c’erano risorse, il liquidatore è stato esonerato. Quindi c’è un’analogia: se l’INPS prova che c’erano fondi e il liquidatore li ha distratti, può chiedergli i contributi. Se non prova, niente. Inoltre, sul piano penale, il mancato versamento di contributi previdenziali per importi oltre una soglia (oggi circa €10.000 annui) è reato ai sensi dell’art. 2 comma 1-bis D.L. 463/1983, punito con la reclusione fino a 3 anni. Il liquidatore, in quanto legale rappresentante al momento della scadenza, può esserne imputato. Similmente ai reati fiscali, è prevista causa di non punibilità se paga entro determinati termini (entro 3 mesi dalla contestazione, estingue il reato). In conclusione: anche per i contributi vale il principio che il liquidatore deve pagarli prima di distribuire attivo ai soci. Se non lo fa, l’INPS può agire contro di lui (anche se non c’è un articolo identico al 36, userà le vie ordinarie civilistiche o contributive). E se la condotta è dolosa, rischia sanzioni penali.

D: Cosa può fare un liquidatore per tutelarsi da richieste successive del Fisco?
R: Alcune buone prassi:

  • Pagare per quanto possibile i debiti tributari prima di chiudere, o se non può pagarli integralmente, quantomeno accordarsi con il Fisco. Ad esempio, potrebbe proporre un piano di rateazione delle cartelle esattoriali: se viene accettato e le prime rate pagate, al momento della cancellazione si è in una situazione più favorevole (il Fisco difficilmente attiverà subito l’art.36 finché vede un piano in corso – e se poi il piano fallisce, la responsabilità del liquidatore potrebbe comunque ridursi all’eventuale riparto ai soci fatto senza considerare le rate).
  • Accantonare riserve per imposte potenziali: se sa che c’è un accertamento in corso, il liquidatore dovrebbe mettere da parte prudenzialmente fondi prima di distribuire l’attivo. Può perfino depositarli su un conto vincolato. Così, se l’accertamento diventa definitivo, paga subito e nessuno potrà accusarlo di aver disperso attivo.
  • Ottenere un certificato dei carichi pendenti fiscali: prima di procedere al piano di riparto finale, chiedere all’Agenzia Entrate un elenco di debiti noti (ruoli, accertamenti notificati, etc.). Non copre l’ignoto, ma almeno fotografa il noto. Se risultano carichi, li soddisfi (o li contesti per via giudiziaria prima di chiudere la società, se credi siano indebiti).
  • Documentare ogni passo: tenere traccia scritta delle decisioni, far approvare ai soci il bilancio finale e il piano di riparto con esplicito riferimento ai debiti noti. In caso di contestazioni future, potrà mostrare che i soci erano informati e magari che si è comportato secondo il loro indirizzo (non esime da responsabilità vs Fisco, ma aiuta a mostrare buona fede).
  • Non assegnare beni ai soci se ci sono debiti: sembra ovvio, ma a volte i soci pressano per riavere capitale o beni residui. Il liquidatore dovrebbe resistere: meglio vendere quei beni e pagare il Fisco almeno parzialmente. Se proprio i soci vogliono l’immobile residuo, che se lo prendano accollandosi il debito fiscale equivalente! (Si potrebbe formalizzare – ad esempio con accordo transattivo col Fisco – ma non è semplice; altrimenti, il liquidatore può almeno farsi rilasciare dai soci una manleva per eventuali pretese fiscali future, il che non oppone il Fisco ma gli permette di rifarsi sui soci se lui dovesse pagare).
  • Valutare procedure concorsuali se insolvente: se la società ha debiti fiscali e altri che superano l’attivo e non c’è intesa coi creditori, forse era già insolvente e la via corretta sarebbe stata il concordato preventivo o il fallimento. Il liquidatore che si ostina con la liquidazione volontaria in uno scenario di palese insolvenza rischia molto di più (perché ogni pagamento che fa può essere visto come preferenziale e lui come responsabile). A volte, paradossalmente, è meglio far dichiarare il fallimento, così il liquidatore esce di scena e subentra il curatore: il liquidatore eviterà di incorrere in art.36 (perché la procedura concorsuale sostituisce il quadro) e di certo non risponderà penalmente per omesso pagamento di IVA/ritenute se ormai la gestione passa al curatore (il quale non le paga perché c’è legge speciale, e quell’omissione non genera reato). Ovviamente, questa scelta va ponderata perché il fallimento ha altre implicazioni; ma dal punto di vista del liquidatore come persona, a volte è “salvifica” (il peso passa altrove).
  • Consultare un esperto fiscale/legale: ogni situazione ha sfumature. Far verificare ad un professionista il piano di liquidazione, la graduatoria dei crediti e eventuali rischi residui è saggio. Ad esempio, un commercialista potrà calcolare esattamente quanta IVA finale sarà dovuta e consigliare di accantonarla, un avvocato tributarista potrà suggerire come gestire un accertamento pendente. I costi di consulenza sono ben spesi se evitano al liquidatore futuri esborsi di tasca propria o, peggio, guai penali.

Esempi pratici e scenari reali

Esempio 1 – Liquidazione ordinaria con attivo sufficiente e corretto pagamento delle imposte:
La società Gamma S.r.l. decide di sciogliersi volontariamente. Il liquidatore, nominato nel 2024, vende i beni aziendali ricavando €200.000. La società ha debiti per €50.000 di IVA arretrata e €30.000 verso fornitori chirografari. Il liquidatore paga prima l’IVA dovuta (€50.000) e utilizza i restanti €150.000 per pagare integralmente i fornitori (€30.000) e poi distribuisce il residuo (€120.000) ai soci. In questo caso, le imposte sono state soddisfatte per intero prima di assegnare attivo ai soci, quindi né il Fisco né altri creditori potranno rivalersi sul liquidatore. I soci hanno ricevuto €120.000 complessivi, ma non esistono debiti tributari insoluti – quindi l’Agenzia Entrate non avrà motivo di chiedere nulla a loro (e comunque sarebbero entro il limite di 120k). Il liquidatore ha agito diligentemente seguendo l’ordine corretto di pagamento: prima debiti tributari, poi altri. Non emergono profili di responsabilità personale. (Nota: Se l’IVA fosse stata di importo molto elevato e non interamente pagabile, il liquidatore avrebbe dovuto destinare l’intero attivo al pagamento parziale dell’IVA e distribuire zero ai soci; se avesse fatto ciò, anche in quel caso nessuna responsabilità – avrebbe pagato i tributi per quanto possibile e nulla ai soci, che dunque non percependo nulla non rispondono).

Esempio 2 – Liquidazione con violazione dell’ordine di pagamento e responsabilità conseguente:
La società Delta S.p.A. viene posta in liquidazione nel 2023. Ha in cassa €100.000; deve €60.000 di imposte (tra IVA e IRES) e €40.000 a un fornitore chirografario. Il liquidatore, temendo azioni legali dal fornitore, decide di pagare subito il fornitore per intero (€40.000) e con i restanti €60.000 paga solo parte dei debiti fiscali (diciamo che versa l’IVA €30.000 ma omette di versare €30.000 di IRES). Chiusa la liquidazione, distribuisce nulla ai soci (non c’era avanzo). In questo scenario, il liquidatore ha pagato un creditore chirografario (senza privilegio) prima di soddisfare integralmente il Fisco. Il risultato è che €30.000 di imposte sono rimaste impagate pur essendoci stati fondi. Responsabilità civile: l’Agenzia Entrate potrà notificare al liquidatore un atto ex art.36 chiedendogli quei €30.000, poiché se avesse rispettato la prelazione avrebbe destinato tutti i €60.000 al Fisco (coprendo l’intero debito tributario) e nulla al fornitore. Egli potrà eventualmente rivalersi sul fornitore (ma in pratica il pagamento al fornitore non è ripetibile a meno di fallimento). I soci non hanno ricevuto nulla, quindi a loro il Fisco non può chiedere (nessun “valore ricevuto”). Responsabilità penale: inoltre, il liquidatore ha compiuto volontariamente un omesso versamento di €30.000 di IRES. Se la soglia di punibilità (50k per omessa dichiarazione o 150k se fosse ritenuta) non è superata, non scatta reato di per sé per omesso versamento (IRES non ha fattispecie specifica se non dichiarazione infedele). Però pagare un chirografario preferendo lui al Fisco configura il dolo di voler sottrarre quel denaro al Fisco: l’atto potrebbe essere visto come atto fraudolento idoneo a rendere inefficace la riscossione (perché i €40k dati al fornitore non sono più attaccabili dal Fisco). Dunque potrebbe integrarsi il reato di sottrazione fraudolenta ex art.11 D.Lgs.74/2000. L’importo del debito cui si è sottratto è €30k (sotto soglia 50k, dunque forse non punibile penalmente perché la norma richiede >50k). In questo esempio quindi penalmente forse non è imputabile (ammesso non vi siano altre imposte), ma civilmente sì. Se le cifre fossero maggiori (es. €300k a fornitori e €200k di IVA non versata), allora sicuramente sarebbe imputato per omesso versamento IVA (>250k) e sottrazione fraudolenta (>50k). Insomma, il liquidatore ha anteposto un creditore chirografario al Fisco: sebbene animato magari da buone intenzioni (evitare causa del fornitore), ha violato la legge e ne subisce le conseguenze economiche e possibili sanzioni.

Esempio 3 – Soci che ricevono attivo e debiti tributari rimasti:
La società Beta S.r.l. si liquida con queste cifre: attivo realizzato €50.000, debiti verso Erario €20.000 (IVA) e altri debiti €10.000. Il liquidatore paga i fornitori (€10.000) e versa solo €5.000 al Fisco, dopodiché — erroneamente — ritiene di poter distribuire ai soci i €35.000 residui. La società viene cancellata, rimanendo €15.000 di IVA non pagata. Che succede? Soci: avendo ricevuto complessivamente €35.000 dal riparto finale, sono responsabili verso il Fisco entro tale importo. L’Agenzia Entrate potrà notificare ad essi (proporzionalmente alle somme da ciascuno avute, ad esempio se erano due soci paritari, €17.500 ciascuno) un avviso chiedendo il pagamento di €15.000 (in solido fra di loro fino a concorrenza delle rispettive quote). Ciascun socio dovrà pagare fino al massimale di ciò che ha incassato (qui, €17.5k > €15k, quindi i €15k possono essere chiesti per intero suddivisi). Se uno dei due ha già speso i soldi e non paga, l’altro non è tenuto a coprire la quota altrui (non c’è solidarietà integrale, solo pro-quota). Il Fisco deve provare che quei soci hanno ricevuto quei €35.000 (basterà il bilancio finale/piano di riparto). Liquidatore: anche lui è chiamato in causa, perché ha assegnato €35k ai soci senza soddisfare un debito fiscale esigibile di €15k. Dunque l’Agenzia gli chiederà €15k ex art.36 c.1. In pratica c’è concorso di responsabilità: liquidatore e soci (ciascuno per la sua parte) sono tutti obbligati a pagare quei €15k. Ovviamente, il Fisco può riscuotere la somma una volta sola: se ad esempio i soci rimborsano €15k spontaneamente, il debito del liquidatore si estingue; se il liquidatore paga, i soci noleggeranno. Tra loro poi potrebbero regolarsi (il liquidatore potrebbe rivalersi sui soci per la parte di imposta “di competenza” delle somme incassate da loro). Per l’Agenzia comunque è indifferente: manderà cartelle a tutti e cercherà di recuperare dov’è più agevole. Penale: il liquidatore qui ha omesso €15k di IVA – soglia penale 250k non superata, quindi nessun reato di omesso versamento; però ha comunque distratto €35k a soci invece di pagare IVA, che potrebbe essere considerato atto fraudolento. Tuttavia, come sopra, importo 15k <50k soglia reato sottrazione, dunque in questo caso niente penale. Se cifre più alte, sarebbe analogo all’Esempio 2 in conseguenze penali.

Esempio 4 – Società di persone in liquidazione:
Una S.n.c. (Alfa SNC) con due soci alfa e beta si scioglie. Attivo liquidato €20.000, debiti verso Fisco €50.000. Il liquidatore (che è il socio alfa) paga i €20.000 pro quota al Fisco (non soddisfacendo tutto) e nulla ai soci. I creditori (Fisco incluso per la parte residua €30k) possono rivalersi direttamente sui soci in base alle regole ordinarie: essendo una SNC, i soci sono illimitatamente e solidalmente responsabili. L’art.36 DPR 602/73 qui non serve nemmeno: il Fisco notifica ai soci un’intimazione di pagamento del residuo €30k in virtù della loro obbligazione ex art.2291 c.c. (spesso lo fa comunque via cartella esattoriale intestata alla SNC ma poi procede sui soci). I soci dovranno pagare €30k con diritto di regresso tra loro. Il liquidatore socio-alfa, avendo gestito bene (ha dato tutto al Fisco che poteva), non ha una particolare responsabilità aggiuntiva; però, come socio illimitato, paga anch’egli la sua parte di quei €30k (in pratica li pagherà quasi tutti lui se l’altro socio beta è insolvente). Se invece il liquidatore di questa SNC avesse dolosamente favorito un socio accomandante (es. restituendogli conferimenti) o speso i soldi altrove, l’INPS o Fisco avrebbero potuto citarlo per danni ma in ogni caso i soci restano comunque obbligati per il resto. Insomma, nelle società di persone il Fisco non ha bisogno di art.36 per colpire soci e liquidatori – li colpisce come coobbligati naturali.

Esempio 5 – Liquidatore e reati tributari:
Il liquidatore Tizio di Omega S.r.l. (in liquidazione nel 2022) decide di non versare l’IVA dovuta per il 2022 (pari a €300.000) perché utilizza la cassa per pagare una banca che faceva pressione. Nel 2023, la società è cancellata con €300k di IVA non versata. Profilo penale: Tizio ha omesso versamento IVA oltre soglia €250k, integrando il reato ex art.10-ter. Se porta in giudizio la giustificazione che “dovevo pagare la banca sennò escuteva il pegno”, probabilmente non verrà considerata forza maggiore: poteva comunque scegliere di non pagare la banca (che aveva garanzie magari) e pagare il Fisco. Difficile invocare la non punibilità: crisi di liquidità sì (ha dovuto scegliere chi pagare), ma la scelta di privilegiare la banca è imputabile a lui (tutela interessi propri o di socio magari garante). Quindi Tizio rischia una condanna (tipicamente intorno a 1 anno di reclusione, eventualmente con sospensione condizionale se incensurato). Profilo civile: l’Agenzia Entrate agirà contro Tizio per i €300k come liquidatore inadempiente, e anche contro i soci se hanno ricevuto qualcosa. I soci di Omega però non hanno ricevuto nulla (perché Tizio ha usato tutto per la banca), quindi i soci non devono nulla ex art.36; rimane Tizio. Questi però è in difficoltà finanziarie (non ha €300k personali) e viene dichiarato fallito come persona fisica: il suo fallimento includerà il debito verso l’Erario (che probabilmente non verrà soddisfatto completamente nemmeno lì). Nel frattempo Tizio viene processato penalmente: durante il processo riesce a versare, tramite familiari, €50k. Ciò non estingue il reato (bisognava pagarli tutti), ma la pena può essere attenuata. Morale: un caso drammaticamente comune, dove il liquidatore ha scelto di salvare un creditore privilegiato (banca con pegno, ipoteca, etc.) a scapito del Fisco. Sul piano civile la banca esce soddisfatta, il Fisco perde quasi tutto e Tizio ne porta il peso su di sé (pagherà per anni, e sconta pure condanna). Se Tizio avesse coinvolto il Fisco prima – magari chiedendo una dilazione – o avesse evitato di liquidare Omega in silenzio ma avesse valutato un concordato preventivo, forse poteva negoziare meglio: nel concordato il Fisco a volte accetta il pagamento parziale senza sanzioni e Tizio avrebbe evitato il reato (poiché il versamento entro l’omologazione esclude punibilità, art. 13 co.3). Ma da solo ha fatto la scelta sbagliata.

Questi esempi illustrano come la legge operi in concreto. Ogni caso reale ha proprie peculiarità, ma il filo conduttore è chiaro: il liquidatore deve comportarsi come un arbitro imparziale che applica rigorosamente le regole di prelazione. Se lo fa, non avrà nulla da temere (al di là del dispiacere di non poter pagare tutti i creditori). Se invece cede a pressioni o interessi (dei soci, di alcuni creditori, o propri), devierà dal percorso legale e incorrerà in responsabilità.


Riferimenti Normativi e Giurisprudenziali (Giugno 2025)

Normativa Civilistica e Fallimentare:

  • Codice Civile: artt. 2484–2496 c.c. (scioglimento e liquidazione delle società di capitali); art. 2495 c.c. (responsabilità di soci e liquidatori dopo cancellazione); artt. 2272–2312 c.c. (scioglimento e liquidazione società di persone; art. 2312 c.c. simile a 2495 per soci illimitatamente responsabili).
  • Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (D.Lgs. 14/2019): artt. 33 (fallimento entro 1 anno da cessazione attività, se insolvenza pregressa), 2086 c.c. riformulato (obbligo assetti adeguati e rilevazione crisi), 2476 co.6 c.c. riformulato (responsabilità verso i creditori sociali per amministratori di Srl in caso di inosservanza obblighi conservazione patrimonio).
  • Legge Fallimentare (R.D. 267/1942) previgente (per procedure aperte prima del 15/07/2022): art. 10 L.F. (fallimento entro 1 anno da cancellazione) – concetto trasfuso nell’art. 33 CCII; art. 216 L.F. (bancarotta fraudolenta e preferenziale) per cenni.

Normativa Tributaria:

  • D.P.R. 29/09/1973 n. 602: art. 36 (responsabilità di liquidatori, amministratori e soci per il pagamento delle imposte) – testo vigente post D.Lgs. 175/2014; art. 37 (responsabilità dei rappresentanti di persone fisiche decedute e di società sciolte, non direttamente trattato sopra); art. 39 (modalità di accertamento e riscossione coattiva verso liquidatori).
  • D.P.R. 29/09/1973 n. 600: art. 28, co.4 D.Lgs. 175/2014 inserito nel DPR 600/73 (estinzione società efficace dopo 5 anni ai fini fiscali). Artt. 23–25 DPR 600/73 (obblighi di ritenuta alla fonte) per contesto.
  • TUIR (D.P.R. 917/1986): art. 182 (redditi delle società in liquidazione – regime del conguaglio finale, ora modificato dal 2024).
  • D.Lgs. 175/2014 (“Decreto Semplificazioni Fiscali”): art. 28, comma 4 (fittizia sopravvivenza fiscale 5 anni); art. 28, comma 3 (modifica dell’art. 36 DPR 602/73 sul punto dell’inversione onere prova e privilegi – vedi relazione lavori preparatori).
  • Statuto del Contribuente (L. 212/2000): art. 7 (obbligo motivazione atti tributari) – rilevante perché gli avvisi a liquidatori/soci devono motivare su presupposti. Art. 8 (personalità delle sanzioni, non trasferibilità) – da cui discende principio niente sanzioni a soci/liquidatori.
  • D.Lgs. 472/1997: art. 14 (responsabilità solidale nelle sanzioni – prevede che sanzioni tributarie sono esclusivamente a carico dell’autore violazione salvo eccezioni).

Normativa Penale Tributaria:

  • D.Lgs. 74/2000: art. 5 (omessa dichiarazione, soglia €50k); art. 10-bis (omesso versamento di ritenute certificate > €150k); art. 10-ter (omesso versamento IVA > €250k); art. 10 (occultamento o distruzione di scritture contabili); art. 11 (sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte > €50k); art. 13 (cause di non punibilità ed attenuanti: pagamento integrale tributo + interessi prima del dibattimento – estingue reato; pagamento parziale attenuante; nuovo comma 3-bis 2024: non punibilità per crisi di liquidità non imputabile).
  • D.Lgs. 75/2020 e D.Lgs. 87/2024: interventi di modifica D.Lgs. 74/2000 (innalzamento soglie nel 2015, introduzione art.13 co.3-bis nel 2024, riduzione sanzioni amministrative omesso versamento dal 30% al 25%).
  • Codice Penale: art. 45 c.p. (forza maggiore come causa di esclusione dolo – citata per analogia con crisi liquidità); art. 131-bis c.p. (particolare tenuità del fatto – in materia fiscale applicabile solo in casi marginali).
  • Leggi speciali lavoro: art. 2, comma 1-bis, D.L. 463/1983 conv. L. 638/1983 (omesso versamento contributi previdenziali > €10k, depenalizzato sotto soglia, previsto pagamento tardivo entro 3 mesi per non punibilità).

Circolari e Prassi amministrativa:

  • Circolare Agenzia Entrate 6/E del 19/02/2015, §13.5 – Chiarimenti sull’art. 36 DPR 602/73 dopo le modifiche del 2014: conferma che la misura della responsabilità del liquidatore è commisurata alle imposte che avrebbero trovato capienza secondo la graduazione civilistica (richiamo all’art. 2777 c.c. sui privilegi).
  • Risoluzione Agenzia Entrate 77/E del 07/06/2011 – (es. tratta di notifica atti a società estinte prima della norma 2014: superata poi dalla norma stessa).
  • Messaggi/Note INPS: varie sul tema obblighi contributivi in liquidazione e responsabilità dei liquidatori (ad esempio, Msg INPS n. 3600/2019 su iscrizione d’ufficio liquidatore gestione commercianti – caso menzionato in Edotto).

Giurisprudenza – Sezioni Unite Civili:

  • Cassazione Civile, Sez. Unite, 12/02/2013 nn. 6070, 6071, 6072 – Principio: i soci di società estinta rispondono dei debiti sociali anche se non hanno riscosso nulla dal bilancio finale, potendo l’interesse ad agire del creditore trovare fondamento in attribuzioni patrimoniali anche non risultanti formalmente. (Indirizzo poi confermato nel 2025).
  • Cassazione Civile, Sez. Unite, 26/07/2021 n. 21970 – (non menzionata sopra ma rilevante su rapporti tra estinzione società e processo, successore ex lege soci/liquidatori).
  • Cassazione Civile, Sez. Unite, 25/02/2025 n. 3625 – Ultimo intervento SU su soci società estinta. Chiavi: necessità della riscossione di somme da parte del socio come presupposto dell’azione ex art.36; onere prova a carico Fisco di tale riscossione se contestata; interpretazione estensiva di “somme riscosse in base a bilancio finale” includendo beni non in bilancio o garanzie escusse; azione verso soci va fatta con atto autonomo e non all’interno del processo pendente della società.
  • Cassazione Civile, Sez. Unite, 29/07/2021 n. 20015 – (Sez.Un. in materia fiscale, prob. su notifica atti a società estinte o simili, citata in ricerche).
  • Cass. SS.UU. 3440/2017 (penale) – Ha escluso concorso formale tra bancarotta fraudolenta e sottrazione fraudolenta al pagamento imposte quando unico atto lesivo (principio di specialità).

Giurisprudenza – Sezioni semplici (Civile):

  • Cass. Civ. Sez. V, 12/03/2013 n. 6070 (coincide con SU n.6070 di stesso giorno?) – formula “i soci rispondono anche se non hanno riscosso nulla”.
  • Cass. Civ. Sez. V, 22/02/2008 n. 4601 – (precedente che richiedeva ruolo per attivare responsabilità liquidatore – orientamento poi superato).
  • Cass. Civ. Sez. V, 23/04/2008 n. 10508 – Liquidatore responsabile solo se tributi iscritti a ruolo e non soddisfatti; necessario che l’Ufficio provi iscrizione in ruoli, etc. (orientamento oggi superato da SU 2023, ma ancora citabile per contenziosi su casi antecedenti).
  • Cass. Civ. Sez. V, 30/11/2023 n. 32790 – (Sez. Unite fiscali 2023) Ha statuito che l’Amministrazione può far valere la responsabilità del liquidatore anche senza preventiva iscrizione a ruolo del debito a carico della società, mediante atto impositivo diretto. Supera orientamento per cui serviva “certezza legale del debito sociale” (es. Cass. 12546/2001, 7327/2012 citate). Caso concreto: liquidatore aveva pagato chirografari ignorando ritenute e IVA dichiarate e non versate. Decisione SU 2023: non serve accertare prima la società, si può colpire direttamente il liquidatore.
  • Cass. Civ. Sez. V, 13/05/2015 n. 9746 – (sulla non retroattività art.28 D.Lgs.175/2014: società cancellata prima del 13/12/14, accertamento oltre un anno = invalido; conferma Corte Cost 142/2020).
  • Cass. Civ. Sez. VI, 17/02/2022 n. 4536 – (riconferma non retroattività 5 anni, ecc.).
  • Cass. Civ. Sez. V, 21/10/2022 n. 30011 – Ha stabilito che le sanzioni tributarie non si trasmettono ai soci della società estinta, data la natura personale.
  • Cass. Civ. Sez. V, 19/10/2022 n. 32180 – (annulla avvisi a società estinte prima del 2014 notificati oltre l’anno, per non applicabilità retroattiva art.28, in linea con n.9746/15).

Giurisprudenza – Penale:

  • Cass. Pen. Sez. III, 27/02/2018 n. 8995 – Cassa sequestro preventivo vs liquidatore, afferma che il liquidatore “risponde del reato di omesso versamento ritenute (art.10-bis) non per il mero inadempimento… ma solo qualora distragga l’attivo… destinandolo a scopi differenti dal pagamento imposte”. Conferma inoltre che la somma sequestrata sul conto concordato non proveniva dal risparmio d’imposta e quindi andava dissequestrata. (Principio: serve prova del nesso tra attivo distratto e omesso pagamento per configurare il profitto del reato).
  • Cass. Pen. Sez. Unite, 28/03/2013 n. 37424 (Black Spirit) – Stabilì che dopo chiusura fallimento a soci ex socio illimitatamente resp. può applicarsi art.11 D.Lgs.74 (in parallelo a bancarotta) e coordinate in concorso reati. (Caso complesso).
  • Cass. Pen. Sez. III, 07/07/2016 n. 3196 (dep.2017) – Ha affermato non sussistere concorso tra bancarotta fraudolenta e sottrazione fraudolenta quando unico fatto (preferendo un assorbimento).
  • Cass. Pen. Sez. III, 10/06/2016 n. 25659 – Ha escluso punibilità ex art.10-ter del liquidatore subentrato se per mancanza provvista (società già senza liquidità). Probabilmente la sentenza citata nello Studio Ramelli 2019.
  • Cass. Pen. Sez. III, 28/05/2019 n. 22634 – (Ramelli 2019) “Dietrofront” su punibilità liquidatore per omesso versamento IVA: se l’imposta era stata autoliquidata da precedente amministratore e il liquidatore non ha avuto mezzi, non integra reato (dolo mancante).
  • Cass. Pen. Sez. III, 07/05/2021 n. 20188 – Conferma orientamento: liquidatore non punibile per omesso vers. IVA se mancano risorse e lui non ha colpa. (Ntplus diritto 2021).
  • Cass. Pen. Sez. III, 12/04/2021 n. 13154 – Prima applicazione art.13 co.3-bis: respinge ricorso imputato, afferma che difficoltà economiche generiche non bastano e serve prova rigorosa cause specifiche. Spiega criteri di non transitorietà e non imputabilità della crisi.
  • Cass. Pen. Sez. III, 30/03/2023 n. 13134 – (cfr. sopra, numero analogo, forse stessa?) Precisazioni su onere prova esimente crisi e su retroattività favorevole della norma (applicabile anche a processi in corso in quanto causa non punibilità sopravvenuta).
  • Cass. Pen. Sez. III, 05/10/2020 n. 27424 – Riconosce causa forza maggiore in caso di mancati pagamenti PA determinanti crisi (es. se azienda attendeva grossi crediti da PA e non incassa in tempo per versare IVA).
  • Cass. Pen. Sez. III, 29/09/2021 n. 3580/2022 (dep. 2022) – su art.11: conferma soglia 50k si riferisce all’importo del credito erariale frustrato e non al valore beni alienati.

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