Cosa Si Può Fare Se Un’Azienda È In Perdita? Strategie Legali

La tua azienda chiude in perdita da mesi, i costi superano gli incassi e non sai più come andare avanti? Ti stai chiedendo cosa si può fare quando l’attività non genera più utili, ma i debiti continuano ad aumentare?

Questa è una delle situazioni più delicate per un imprenditore. Ma è anche il momento in cui non puoi permetterti di restare fermo. Perché se l’azienda è in perdita, la legge ti impone di agire in modo tempestivo, trasparente e responsabile.

Cosa prevede la legge per le imprese in crisi? Come può tutelarsi l’amministratore? E quali strumenti legali si possono attivare prima che sia troppo tardi?

Oggi esistono soluzioni concrete per affrontare la crisi aziendale senza arrivare al fallimento: la composizione negoziata, i piani di ristrutturazione, gli accordi con i creditori, oppure – nei casi più gravi – la liquidazione assistita. L’importante è non aspettare che la situazione degeneri, perché l’inattività può portare a responsabilità personali per l’amministratore.

Anche la semplice omissione di un controllo o il ritardo nell’intervento può esporre chi gestisce l’azienda a conseguenze legali e patrimoniali.

Ecco perché è fondamentale farsi affiancare da un legale esperto, in grado di leggere i numeri, valutare lo stato economico-finanziario della società e indicare la strategia giuridica più sicura ed efficace, in base alla situazione concreta.

In questa guida, lo Studio Monardo – avvocati specializzati in crisi d’impresa, diritto societario e tutela dell’amministratore – ti spiega cosa si può fare quando un’azienda è in perdita, quali sono i segnali da non ignorare, quali strumenti legali puoi attivare, e come possiamo aiutarti a proteggere la tua impresa e il tuo patrimonio.

Temi che la tua azienda non possa più reggere? Non sai se è meglio ristrutturare, liquidare o tentare un accordo con i creditori?

Alla fine della guida puoi richiedere una consulenza riservata con l’Avvocato Monardo: analizzeremo lo stato di salute della tua impresa, valuteremo insieme le strategie percorribili e ti guideremo in ogni fase, per affrontare la crisi in modo sicuro, strutturato e senza rischi inutili.

Introduzione

Quando un’azienda si trova in perdita, ossia registra risultati d’esercizio negativi e accumula debiti che erodono il capitale, diventa essenziale valutare tempestivamente quali strategie legali adottare per salvaguardarne la continuità e tutelare gli interessi di soci e creditori. Nel diritto societario italiano esistono precisi obblighi in capo agli amministratori in caso di perdite rilevanti, e negli ultimi anni è entrata in vigore una nuova normativa organica – il Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII), D.Lgs. 12 gennaio 2019 n. 14, come modificato dal D.Lgs. 17 giugno 2022 n. 83 – che ha ridefinito gli strumenti a disposizione per la gestione della crisi aziendale. Questa guida, aggiornata a giugno 2025, fornisce un approfondimento in linguaggio chiaro ma rigoroso per avvocati, imprenditori e privati sulle possibili azioni da intraprendere quando una società di capitali (S.p.A. o S.r.l.) versa in perdite significative.

L’obbiettivo principale è anticipare il più possibile l’emersione dello stato di sofferenza dell’impresa ed evitare, ove possibile, la liquidazione distruttiva del valore aziendale. A tal fine, la nuova disciplina della crisi d’impresa ha introdotto il concetto stesso di “crisi” (distinto dalla vera e propria insolvenza conclamata) e ha ampliato il ventaglio degli strumenti di soluzione disponibili, sia di natura civilistica (strumenti stragiudiziali o negoziali) sia di natura concorsuale (procedure giudiziali). Questa guida tratterà in particolare i seguenti strumenti e strategie, esclusivamente nell’ambito delle società di capitali:

  • Gli obblighi societari in caso di perdite previsti dal Codice Civile, inclusi gli adeguamenti del capitale sociale (artt. 2446-2447 c.c. per S.p.A. e artt. 2482-bis e 2482-ter c.c. per S.r.l.);
  • La gestione della crisi d’impresa secondo il Codice della Crisi e dell’Insolvenza, con i doveri di monitoraggio a carico degli amministratori e le procedure di allerta precoce;
  • Gli strumenti di composizione negoziata della crisi (in particolare la Composizione Negoziata introdotta nel 2021) per favorire soluzioni stragiudiziali assistite da esperti;
  • Le soluzioni di ristrutturazione del debito in sede civile, tra cui il Piano attestato di risanamento (ex art. 56 CCII) – un piano di risanamento aziendale asseverato da un esperto – e gli Accordi di ristrutturazione dei debiti (ex artt. 57 e ss. CCII) nelle varie forme (ordinari, agevolati, ad efficacia estesa);
  • Le procedure concorsuali giudiziali come il Concordato preventivo, nelle sue varianti liquidatorio e in continuità aziendale, finalizzate a evitare la liquidazione giudiziale (il “fallimento”, ora denominato liquidazione giudiziale) attraverso un accordo coi creditori omologato dal tribunale;
  • Strumenti innovativi introdotti di recente, come il Piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione (art. 64-bis CCII, spesso abbreviato PRO) e il Concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio (art. 25-sexies CCII), evidenziando quando e come possono essere utilizzati;
  • Tabelle riepilogative che confrontano i requisiti e le caratteristiche fondamentali di ciascuna procedura;
  • Una sezione di Domande e Risposte su casi tipici dal punto di vista del debitore, per chiarire i dubbi più frequenti;
  • Esempi pratici o simulazioni di applicazione di queste strategie in alcuni settori d’impresa rilevanti (commercio, costruzioni, manifattura, servizi), per mostrare concretamente come le soluzioni legali si calano nelle diverse realtà aziendali;
  • Un approfondimento normativo e giurisprudenziale con riferimenti aggiornati al 2025, inclusa una raccolta finale di fonti (norme e sentenze) citate nel testo.

Il taglio della guida è volutamente pratico-divulgativo, ma basato su riferimenti normativi puntuali e sui più recenti orientamenti giurisprudenziali, in modo da fornire al lettore sia le conoscenze di base che gli elementi di approfondimento professionale. Nei capitoli che seguono, esamineremo dapprima gli obblighi e le responsabilità degli organi sociali di fronte alle perdite (per evitare di incorrere in violazioni della legge societaria), e successivamente passeremo in rassegna i diversi strumenti di risanamento o composizione della crisi, dalle soluzioni stragiudiziali a quelle concorsuali, evidenziandone requisiti, modalità di funzionamento, vantaggi e limiti in relazione al caso concreto.

La “crisi d’impresa” e gli obblighi degli amministratori di società in perdita

Prima di addentrarci nelle singole procedure di risanamento, è fondamentale capire il quadro normativo generale che si applica quando una società di capitali accumula perdite ingenti. La legge distingue tra un’azienda semplicemente “in perdita” (che registra risultati negativi ma potrebbe ancora essere solvibile) e un’azienda in stato di crisi o di insolvenza conclamata. Vediamo le definizioni e i relativi obblighi:

Definizione di “crisi” e differenza con l’insolvenza

Il Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII) ha introdotto per la prima volta nel nostro ordinamento una definizione normativa di crisi d’impresa. Ai sensi dell’art. 2 CCII, per “crisi” si intende “lo stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza del debitore, e che per le imprese si manifesta come l’inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate”. In altre parole, una società è in stato di crisi quando, pur non essendo ancora insolvente (cioè pur riuscendo ancora a pagare i propri debiti), mostra segnali di squilibrio finanziario prospettico tali da far temere che in futuro possa diventare incapace di adempiere regolarmente alle obbligazioni assunte. Si confronti questa situazione con la nozione di insolvenza, definita dallo stesso art. 2 CCII come “lo stato del debitore che si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori i quali dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni”. Dunque l’insolvenza è uno stadio più grave e conclamato, in cui l’impresa non paga più i debiti alle scadenze ed emerge una situazione irreversibile di incapacità patrimoniale.

La distinzione è importante perché molti degli strumenti legali di cui parleremo – ad esempio i piani di risanamento e gli accordi di ristrutturazione – sono pensati per essere attivati nella fase di crisi incipiente, quando l’insolvenza non è ancora definitiva ma si profilerebbe all’orizzonte se non si interviene. Prevenire l’insolvenza agendo già allo stato di crisi è uno dei principi cardine del nuovo Codice, che mira a “anticipare il più possibile l’emersione dello stato di sofferenza dell’impresa”. Riconoscere i segnali di crisi (ad esempio: perdite di esercizio reiterate, flussi di cassa futuri insufficienti, significativo indebitamento a breve non sostenibile, ecc.) consente agli amministratori di attivarsi subito con le contromisure legali appropriate, anziché attendere che la situazione degeneri in insolvenza e liquidazione giudiziale (il nuovo nome del fallimento).

Obblighi di monitoraggio e adeguati assetti organizzativi (art. 2086 c.c.)

In parallelo alla riforma delle procedure concorsuali, il legislatore ha rafforzato i doveri degli amministratori di società riguardo al monitoraggio della situazione economico-finanziaria e alla pronta reazione alle perdite. Una pietra miliare in tal senso è la modifica dell’art. 2086 del Codice Civile, che dal 2019 impone a ogni imprenditore che operi in forma societaria o collettiva di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa, funzionale alla rilevazione tempestiva della crisi e della perdita della continuità aziendale. In pratica, ogni S.p.A. o S.r.l. deve dotarsi di sistemi di controllo interno e di pianificazione finanziaria tali da poter cogliere precocemente i segnali di difficoltà (ad esempio budget, reporting, indici di allerta) e consentire di attivare in tempo gli strumenti di regolazione della crisi. Questo obbligo di predisporre “adeguati assetti” è sancito dall’art. 2086 co.2 c.c. e ulteriormente ribadito dall’art. 3 CCII, ed è parte integrante dei doveri di diligenza degli amministratori.

Correlativamente, il CCII all’art. 3 e art. 24 impone agli amministratori il dovere di attivarsi tempestivamente al manifestarsi della crisi. Come evidenziato in dottrina, gli amministratori devono “adottare tempestivamente misure idonee a rilevare la crisi e assumere iniziative atte al suo superamento”, cosa possibile solo se sono stati predisposti assetti organizzativi adeguati. Tale obbligo di attivazione sorge già nelle situazioni di pre-crisi, ossia di squilibrio patrimoniale o finanziario che rendono probabile la crisi. In termini di buona gestione societaria, ciò significa che il management deve continuamente valutare lo stato di salute dell’impresa e, non appena rileva un deterioramento significativo (perdite rilevanti, calo di liquidità, indici negativi), ha il dovere di studiare e adottare soluzioni per superare tali difficoltà prima che sia troppo tardi. Oltre a ciò, durante l’eventuale successiva procedura concorsuale scelta, gli amministratori devono gestire l’impresa nell’interesse prioritario dei creditori (soprattutto se l’insolvenza è già conclamata) evitando atti che aggravino il dissesto.

In sintesi, già prima di attivare uno strumento specifico, la legge impone all’organo amministrativo di vigilare attivamente sulla presenza di perdite e di non lasciare aggravare la situazione. La mancata predisposizione di assetti adeguati o l’inerzia di fronte a perdite può esporre gli amministratori a responsabilità civili verso la società e i creditori. Ad esempio, se gli amministratori colposamente proseguono l’attività sociale con capitale azzerato dalle perdite, causando un peggioramento del passivo, potranno risponderne dei danni ex art. 2486 c.c. (gestione non conservativa oltre la soglia di scioglimento). Questo contesto di obblighi generali fa da cornice alle singole strategie legali che ora vedremo in dettaglio.

Perdite rilevanti e obblighi sul capitale sociale (artt. 2446–2447 c.c. e 2482-bis–ter c.c.)

Le società di capitali sono soggette a una disciplina specifica quando le perdite d’esercizio intaccano gravemente il capitale sociale. Il capitale sociale, lo ricordiamo, rappresenta la quota di patrimonio netto vincolata a garanzia dei creditori sociali; pertanto la legge impone che, oltre certi livelli di perdita, si intervenga formalmente su di esso. In particolare, il Codice Civile prevede due soglie critiche per le perdite nelle S.p.A. (artt. 2446 e 2447 c.c., applicabili in gran parte anche alle S.r.l. tramite gli artt. 2482-bis e 2482-ter c.c.):

  • Perdita superiore a un terzo del capitale sociale (ma capitale ancora sopra il minimo legale): scatta l’obbligo per gli amministratori di convocare senza indugio un’assemblea straordinaria dei soci per adottare opportuni provvedimenti. Devono essere presentati ai soci una relazione sulla situazione patrimoniale della società corredata dal parere del collegio sindacale (o revisore), nonché una situazione patrimoniale aggiornata (un bilancio straordinario infrannuale) da cui risulti l’entità effettiva della perdita. L’assemblea può decidere di ripianare la perdita (ad esempio utilizzando riserve disponibili o apporti dei soci), oppure può ridurre proporzionalmente il capitale. Se la perdita non viene coperta immediatamente, è ammesso rinviare la decisione all’esercizio successivo nella speranza di un utile di compensazione; tuttavia, se entro l’esercizio successivo la perdita non si riduce a meno di un terzo, l’assemblea dovrà poi ridurre obbligatoriamente il capitale in proporzione alle perdite accertate (art. 2446 co.2 c.c.). La violazione di questi obblighi (mancata tempestiva convocazione dell’assemblea o mancata adozione di misure) espone gli amministratori a responsabilità: proseguire l’attività con capitale diminuito di oltre un terzo costituisce una gestione non conforme alla legge e fonte di responsabilità verso società e creditori.
  • Perdita che riduce il capitale al di sotto del minimo legale: questa situazione, disciplinata da art. 2447 c.c. (per S.p.A., e 2482-ter per S.r.l.), è ancora più grave. Se a causa delle perdite il patrimonio netto scende sotto il minimo di legge (ad esempio sotto €50.000 per una S.p.A.), gli amministratori devono convocare senza indugio l’assemblea la quale deve deliberare uno dei seguenti provvedimenti (la cosiddetta regola “ricapitalizza o liquida”):
    1. Riduzione del capitale a zero e contestuale aumento del capitale ad un importo almeno pari al minimo legale (immediata ricapitalizzazione da parte dei soci o nuovi investitori); oppure
    2. Trasformazione della società in un tipo sociale che non richiede un capitale minimo (ad esempio trasformazione in S.r.l. semplificata, cooperativa, o società di persone, a seconda dei casi).
    Se l’assemblea non esegue né l’uno né l’altro, la società è per legge sciolta (art. 2484 c.c.) e deve essere posta in liquidazione. Gli amministratori devono accertare la causa di scioglimento e iscriverla al Registro delle Imprese; omettere questa comunicazione o ritardarla li rende personalmente responsabili verso soci e creditori dei danni subiti per la continuazione abusiva dell’attività. Infatti, dopo che il capitale è azzerato sotto il minimo, gli amministratori possono compiere solo atti conservativi ai sensi dell’art. 2486 c.c., ossia atti finalizzati alla salvaguardia del patrimonio in vista della liquidazione, e non possono invece proseguire la normale gestione d’impresa (pena appunto responsabilità per le perdite ulteriori).

In altri termini, quando le perdite erodono significativamente il capitale sociale, la legge impone una scelta netta: o i soci ricapitalizzano la società immettendo mezzi freschi per riportare il capitale nei limiti, oppure la società deve essere sciolta e liquidata. Questa disciplina mira a evitare che società praticamente decapitalize continuino a operare a rischio dei creditori. Va segnalato che durante l’emergenza COVID-19 tali obblighi sono stati temporaneamente sospesi (il legislatore aveva disposto che le perdite 2020-2021 potessero essere trattate con più flessibilità, rinviando gli adempimenti), ma al 2025 tali sospensioni non sono più vigenti e si applica nuovamente la regola ordinaria.

In sintesi: se un’azienda è in forte perdita, i primi interventi legali da valutare sono spesso quelli societari interni: ricapitalizzazione, riduzione del capitale, o eventualmente trasformazione o liquidazione volontaria. Queste mosse sono spesso il preludio necessario (o il complemento) alle più complesse procedure di ristrutturazione del debito. Ad esempio, i soci possono decidere di coprire parzialmente le perdite con nuovo capitale di rischio per migliorare gli indici patrimoniali, e contestualmente avviare una trattativa con i creditori per ristrutturare il debito residuo. Se invece i soci non sono in grado o non vogliono ricapitalizzare e la situazione è compromessa, può rendersi inevitabile l’avvio di una procedura concorsuale (concordato preventivo o liquidazione giudiziale). Nel prossimo paragrafo inizieremo a esplorare gli strumenti diversi dalla liquidazione pura e semplice, volti proprio a ristrutturare l’impresa e il suo debito, preservando dove possibile l’attività aziendale.

Strumenti legali per affrontare la crisi: panoramica generale

Una volta compresi gli obblighi immediati, vediamo quali strategie legali di più ampio respiro l’ordinamento mette a disposizione per affrontare una situazione di perdite e crisi. Il Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII) del 2019 (in vigore dal 15 luglio 2022) ha riordinato e ampliato le procedure di risanamento aziendale. Esso parla di “strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza”, comprendendo sia strumenti stragiudiziali (o negoziali) sia procedure concorsuali giudiziali. Di seguito forniamo una panoramica, che poi sarà approfondita singolarmente:

  • Strumenti stragiudiziali (negoziali): sono soluzioni in cui l’accordo con i creditori avviene al di fuori di una procedura concorsuale formale. Rientrano in questa categoria il piano attestato di risanamento ex art. 56 CCII e gli accordi in esecuzione di tale piano, nonché le convenzioni di moratoria e, in parte, la stessa Composizione negoziata della crisi (che pur prevedendo un ausilio “pubblico” tramite un esperto, non è inizialmente un procedimento giudiziario). Questi strumenti si basano sul consenso volontario dei creditori e non coinvolgono tutti i creditori in modo coercitivo (vincolano solo i partecipanti all’accordo). Il vantaggio è la maggiore riservatezza e flessibilità, l’assenza di pubblicità di una procedura concorsuale e spesso tempi più brevi; di contro, mancano poteri coercitivi sui dissenzienti e non vi è una moratoria generale salvo accordi specifici.
  • Strumenti concorsuali (giudiziali): sono vere e proprie procedure aperte dinanzi all’autorità giudiziaria, che coinvolgono la generalità dei creditori e producono effetti verso tutti, anche i non aderenti. Appartengono a questa categoria il concordato preventivo (in continuità o liquidatorio) e le varie forme di accordi di ristrutturazione omologati dal tribunale (accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 57 CCII, nelle sue varianti agevolato e ad efficacia estesa, nonché il nuovo piano di ristrutturazione soggetto a omologazione ex art. 64-bis CCII). Queste procedure offrono potenti effetti legali: ad esempio la sospensione delle azioni esecutive dei creditori (stay), la possibilità di imporre il concordato anche ai creditori dissenzienti (entro certi limiti, tramite omologazione), l’esenzione da revocatorie fallimentari per gli atti compiuti in esecuzione del piano, ecc. Di contro, sono soluzioni più formalizzate e pubbliche, che richiedono il controllo del tribunale e il rispetto di una disciplina rigorosa a tutela paritaria dei creditori (par condicio).
  • Strumenti “ibridi” o speciali: il CCII (anche per recepire la Direttiva UE 2019/1023) ha introdotto istituti che combinano elementi negoziali e concorsuali. Ad esempio, la Composizione negoziata della crisi è un percorso volontario e riservato in cui un esperto terzo assiste l’imprenditore nella negoziazione con i creditori; non è una procedura concorsuale, ma può sfociare in accordi che godono di taluni benefici legali (come vedremo, si possono ottenere misure protettive dal tribunale durante le trattative, e gli atti compiuti in coerenza col piano negoziato godono di esenzioni da revocatoria e responsabilità penale). Un altro esempio è il già menzionato piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione (PRO): sostanzialmente un accordo di ristrutturazione negoziato con i creditori, ma sottoposto all’omologazione del tribunale anche senza il voto di tutti i creditori (basta l’approvazione per classi), il che gli conferisce efficacia concorsuale con minori formalità rispetto al concordato. Infine, va citato il concordato semplificato per la liquidazione, riservato al caso di esito negativo della composizione negoziata, in cui il tribunale può omologare un piano di liquidazione dei beni proposto dal debitore senza passare per il voto dei creditori (è una sorta di “ultima spiaggia” per evitare il fallimento quando la negoziazione assistita non ha prodotto accordi).

Una utile distinzione concettuale è la seguente: ci sono strumenti che richiedono un certo consenso qualificato dei creditori e altri che permettono di superare il dissenso di una parte di essi. Ad esempio, il piano attestato di risanamento richiede in pratica l’accordo individuale di ogni creditore coinvolto nelle modifiche (non vincola terzi estranei); l’accordo di ristrutturazione vincola solo i creditori che vi aderiscono, ma grazie all’omologazione può offrire una moratoria sulle azioni dei non aderenti fino a 120 giorni dal deposito e comunque consente al debitore di ristrutturare il debito con una maggioranza (60% o 30% nel caso agevolato). Il concordato preventivo, invece, è uno strumento che – se approvato dalle maggioranze di legge ed omologato – impone il suo effetto su tutti i creditori, anche dissenzienti o non votanti: è il più “universale” e coercitivo, ma richiede maggioranze e controlli più stringenti ed è soggetto a regole di distribuzione della ricchezza molto rigorose.

Di seguito forniremo un quadro dettagliato di ciascuno di questi strumenti (in particolare quelli indicati dal quesito: piano attestato, accordi di ristrutturazione, concordato preventivo – liquidatorio e in continuità – e collegati), con tabelle riassuntive dei requisiti e risposte ai quesiti pratici. Inizieremo dagli strumenti stragiudiziali di risanamento per poi passare a quelli concorsuali. Prima però vale la pena approfondire il ruolo della Composizione negoziata della crisi, introdotta di recente, che rappresenta un possibile percorso iniziale per molte imprese in difficoltà.

La Composizione Negoziata della Crisi d’Impresa

Tra le novità più rilevanti degli ultimi anni vi è la Composizione negoziata per la soluzione della crisi d’impresa, introdotta con il D.L. 118/2021 (conv. in L. 147/2021) e ora integrata nel CCII (artt. 12-25 CCII). Si tratta di una procedura volontaria e stragiudiziale assistita: un imprenditore in condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario (anche prima dello stato di crisi conclamata) può richiedere tramite una piattaforma telematica l’affiancamento di un esperto indipendente nominato dalla Camera di Commercio, con il compito di facilitare le trattative con i creditori e individuare una soluzione per il risanamento. La composizione negoziata è accessibile a tutte le imprese, di qualsiasi dimensione (anche agricole), purché vi sia una “ragionevole prospettiva di risanamento” (criterio valutato preliminarmente dall’esperto).

Caratteristiche principali: la procedura è riservata (non comporta un automatico coinvolgimento pubblico finché non si adottano misure protettive) e l’imprenditore conserva la gestione dell’azienda durante le trattative (non c’è spossessamento). L’esperto ha poteri limitati di controllo e di stimolo: convoca le parti, propone possibili soluzioni, redige relazioni sull’andamento delle trattative. Su richiesta dell’imprenditore, il tribunale può concedere misure protettive temporanee, in particolare il blocco o la sospensione delle azioni esecutive e cautelari da parte dei creditori durante la negoziazione (inizialmente per un massimo di 4 mesi, prorogabili). Ciò crea di fatto uno stay simile a quello del concordato, ma con la differenza che la composizione negoziata non è una procedura concorsuale: i creditori non votano un piano comune, bensì si cerca di raggiungere accordi consensuali. In caso di necessità, l’imprenditore può anche chiedere al tribunale autorizzazioni per atti di straordinaria amministrazione o per finanziamenti prededucibili, sempre per favorire il risanamento durante le trattative.

Esiti della composizione negoziata: Se le trattative hanno successo, possono sfociare in uno o più accordi stragiudiziali con i creditori (ad esempio, accordi di ristrutturazione dei debiti, o convenzioni moratorie, o aumenti di capitale con nuovi soci). Tali accordi, se sottoscritti dall’esperto e se soddisfano certe condizioni, possono beneficiare di importanti incentivi: esenzione da azioni revocatorie e da alcune fattispecie di reati fallimentari per gli atti compiuti in esecuzione dell’accordo, e perfino la possibilità di ottenere il cram-down sui crediti fiscali (riduzione o dilazione di imposte) se l’esperto attesta che l’accordo assicura la continuità aziendale per almeno 2 anni. In sostanza, la composizione negoziata funge da “ombrello protettivo” e da occasione di negoziazione assistita: consente di congelare temporaneamente le pressioni dei creditori e di operare in un regime controllato per trovare una soluzione di mercato.

Se invece le trattative non conducono ad alcun accordo, l’esperto chiude la procedura con una relazione finale negativa. A quel punto, l’imprenditore dovrà valutare gli strumenti concorsuali disponibili. Importante novità: in caso di esito negativo attestato dall’esperto, l’imprenditore può comunque presentare al tribunale una proposta di concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio (art. 25-sexies CCII). Si tratta, come accennato, di una procedura di concordato “speciale” senza voto dei creditori, in cui il tribunale – verificati i presupposti – può omologare un piano che prevede la liquidazione dei beni ai creditori (eventualmente anche mediante cessione d’azienda). Il concordato semplificato è riservato ai casi di crisi irreversibile in cui l’unica soluzione è liquidatoria ma si preferisce evitare il fallimento classico: non essendo richiesto il voto, viene però sottoposto a stringenti controlli di convenienza da parte del giudice (deve offrire ai creditori almeno quanto otterrebbero dalla liquidazione giudiziale).

In conclusione, la Composizione negoziata è divenuta uno strumento chiave per affrontare precocemente la crisi: va utilizzata preferibilmente prima che l’impresa diventi insolvente. Rappresenta un tentativo intermedio: se riesce, evita di ricorrere a procedure concorsuali pubbliche; se fallisce, prepara comunque il terreno per un eventuale concordato (anche semplificato) o per la liquidazione, avendo nel frattempo congelato il deterioramento. Nel prosieguo, daremo per assodato che l’imprenditore abbia valutato, laddove opportuno, questo percorso negoziale iniziale. Passiamo ora ad esaminare i singoli strumenti di ristrutturazione del debito in dettaglio.

Il Piano Attestato di Risanamento (art. 56 CCII)

Il Piano attestato di risanamento è uno strumento disciplinato dall’art. 56 CCII, che riprende e rafforza l’analogo istituto già presente nella previgente legge fallimentare (art. 67, co.3, lett. d, l.fall.). Si tratta di un piano di risanamento aziendale totalmente stragiudiziale, basato su un accordo volontario tra l’impresa debitrice e i suoi creditori, accompagnato però da una relazione di un professionista indipendente che attesta la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano. Il piano attestato non comporta un procedimento davanti al tribunale né un’omologazione: la sua efficacia si fonda sul consenso dei creditori coinvolti. Vediamo in dettaglio caratteristiche e funzionamento:

Finalità e natura: il piano attestato è volto a permettere la ristrutturazione dei debiti e il riequilibrio della situazione finanziaria di un’impresa in crisi, mantenendone la continuità aziendale. Può consistere, ad esempio, in un insieme di accordi con banche per la dilazione del debito, in una rinegoziazione di forniture, nell’apporto di nuova finanza da parte dei soci, nella dismissione di asset non strategici, ecc., il tutto coordinato in un piano che mostri la sostenibilità futura dell’impresa. Il termine “attestato” deriva dal fatto che un esperto indipendente (revisore o professionista con i requisiti di legge) deve esaminare il piano e rilasciare un’attestazione sull’idoneità dello stesso a risanare l’esposizione debitoria e a riequilibrare la situazione finanziaria. Importante: per legge il piano attestato è utilizzabile solo se c’è prospettiva di continuità aziendale: non è pensato per liquidare l’azienda, ma per risanarla. Se l’intento è meramente liquidatorio, occorrerà semmai un concordato o altra procedura.

Contenuto del piano: l’art. 56 CCII elenca gli elementi essenziali che un piano attestato deve contenere. In sintesi, il piano deve descrivere:

  • La situazione dell’impresa (attività, passività, posizione finanziaria, organico del personale);
  • Le cause della crisi o dell’insolvenza che si vuole superare;
  • Le strategie di intervento previste (es. riorganizzazione aziendale, taglio costi, aumento ricavi, vendita cespiti, conversione debiti in capitale, ecc.);
  • L’elenco dei creditori coinvolti e l’ammontare dei debiti da rinegoziare, con lo stato delle trattative in corso, nonché l’elenco dei creditori che restano estranei al piano e come saranno soddisfatti integralmente (per legge i creditori estranei devono essere pagati integralmente e regolarmente alle scadenze, altrimenti l’atto singolo potrebbe essere revocabile in caso di fallimento successivo);
  • Eventuali apporti di finanza nuova (nuove risorse finanziarie) con indicazione delle ragioni per cui sono necessari;
  • Una tempistica dettagliata delle azioni previste, con obiettivi intermedi verificabili e piani di contingenza in caso di scostamenti;
  • I dati economico-finanziari prospettici (un vero e proprio piano industriale pluriennale con proiezioni di costi, ricavi, fabbisogno finanziario, modalità di copertura del fabbisogno, effetti sul conto economico e sui flussi finanziari), evidenziando come e in quanto tempo tali misure condurranno al riequilibrio.

Il piano deve avere data certa (ad esempio mediante registrazione presso il registro delle imprese o tramite atto notarile) e deve essere accompagnato da tutta una serie di documenti, in particolare: gli ultimi bilanci approvati, una situazione patrimoniale aggiornata, l’elenco dettagliato dei creditori e dei debiti, e – elemento chiave – la relazione di attestazione dell’esperto indipendente. L’attestatore verifica che i dati aziendali siano veritieri e che le assunzioni del piano siano realistiche, certificando che il piano “appare idoneo a consentire il risanamento dell’esposizione debitoria e a riequilibrare la situazione finanziaria”. Questa relazione è fondamentale per dare credibilità al piano presso i creditori.

Pubblicazione e effetti legali: Il piano attestato in sé, essendo un accordo privato, non vincola i creditori che non vi aderiscono. Tuttavia la legge gli attribuisce alcuni effetti incentivanti se viene “pubblicato” nel Registro delle Imprese su richiesta del debitore. In particolare:

  • Gli atti unilaterali e i contratti posti in essere in esecuzione del piano attestato (ad esempio pagamenti, concessioni di garanzie, vendite di beni per attuare il risanamento) non sono soggetti a revocatoria fallimentare in caso di successivo fallimento dell’impresa. Ciò significa che se anche il piano dovesse fallire e l’impresa venisse dichiarata insolvente, i creditori o il curatore non potranno far annullare quegli atti sostenendo che fossero pagamenti preferenziali; la legge li protegge a patto che fossero compiuti in attuazione di un piano attestato regolarmente pubblicato. Si tratta di un forte incentivo per i partner contrattuali a collaborare nel piano (ad esempio una banca che estende nuove linee di credito o un fornitore che continua le forniture a condizioni agevolate, saprà che tali atti non saranno revocati come preferenze se il piano era attestato e pubblicato).
  • Sempre per gli atti esecutivi del piano, è prevista un’esenzione da eventuali reati di bancarotta preferenziale: ad esempio, se il debitore paga un creditore in esecuzione del piano attestato, tale pagamento non sarà punibile come bancarotta preferenziale se poi vi sarà un fallimento (purché, ovviamente, il piano e la sua attestazione siano genuini e non costituiscano frode).

Questi scudi legali (esenzione da revocatoria e da responsabilità penale) valgono solo “in caso di eventuale e successiva liquidazione giudiziale”, cioè se poi si aprirà un fallimento o liquidazione giudiziale. In pratica il piano attestato offre una rete di salvataggio: i terzi sanno che, collaborando nel piano, non verranno penalizzati retroattivamente se le cose dovessero andare male.

Limiti del piano attestato: Il principale limite è che non è una procedura concorsuale: non c’è nessuna forzatura sui creditori dissenzienti. Occorre quindi il consenso dei singoli creditori coinvolti nelle modifiche. Se uno o più creditori importanti non accettano di aderire, il piano può non essere sufficiente a risanare l’azienda. Inoltre, il piano attestato di per sé non produce una moratoria generale: i creditori che non partecipano restano liberi di agire esecutivamente (salvo eventualmente ottenere dal tribunale misure protettive temporanee attraverso la composizione negoziata, che potrebbe affiancarsi). Dunque il piano funziona bene in situazioni in cui si ha un numero relativamente limitato di creditori da convincere e nessuno di essi si oppone drasticamente. È spesso utilizzato per ristrutturazioni finanziarie con banche e obbligazionisti (dove c’è già una maggioranza disposta a accordarsi) o per crisi aziendali non troppo gravi in cui basta una rinegoziazione “mirata”.

Esempio pratico: Alfa S.r.l., azienda manifatturiera, inizia ad accusare perdite per il calo di ordini. Ha debiti verso due banche principali e alcuni fornitori strategici. Prevede che, con una ristrutturazione dei reparti e il lancio di nuovi prodotti, potrebbe tornare in utile in 2 anni, ma ha bisogno di diluire i rientri del debito bancario e di nuova finanza per €500.000. I soci non vogliono perdere la proprietà ma sono disposti a finanziare parte del fabbisogno. In questo scenario, Alfa S.r.l. potrebbe ricorrere a un piano attestato: incarica un professionista attestatore, redige un piano dettagliato in cui i soci apportano €300.000 di nuovi mezzi (aumento di capitale o finanziamento soci postergato), le banche accettano di allungare le scadenze dei mutui di 5 anni e ridurre il tasso, e i fornitori chiave accettano una lieve dilazione sui pagamenti. L’attestatore verifica il piano e lo dichiara fattibile, attestando che con quelle misure Alfa tornerà liquida e solvibile. Il piano viene sottoscritto da banche e fornitori coinvolti e pubblicato al registro imprese. Da quel momento gli atti esecutivi (es. pagamento di alcuni debiti secondo il piano) sono protetti. Se Alfa rispetta il piano, evita la crisi; se malauguratamente fallisse più avanti, le banche che hanno collaborato non rischiano la revocatoria per aver ottenuto pagamenti secondo piano. In questo modo, il piano attestato offre una soluzione rapida e confidenziale, evitando procedure concorsuali formali.

Ricapitolando i punti chiave del Piano attestato di risanamento:

  • Ambito di applicazione: imprese in crisi o insolvenza reversibile con prospettiva di continuità. Non adatto per liquidazioni.
  • Consenso richiesto: 100% dei creditori coinvolti (accordi individuali). Non vincola i non aderenti.
  • Procedura: totalmente stragiudiziale (nessun tribunale), ma con asseverazione di un esperto e facoltà di pubblicazione.
  • Documenti necessari: piano dettagliato + documentazione di bilancio + relazione di attestazione indipendente.
  • Effetti legali speciali: esenzione da revocatorie fallimentari e da alcune responsabilità penali per gli atti esecutivi del piano.
  • Vantaggi: rapidità, riservatezza, flessibilità nelle soluzioni (è un “abito su misura”); non stigmatizza l’azienda come insolvente; tutela da revocatoria incoraggia nuovi finanziamenti.
  • Svantaggi: nessuna tutela automatica contro azioni dei creditori esterni; richiede un alto grado di consenso volontario; se la crisi è molto grave o diffusa tra molti creditori, potrebbe non essere fattibile; inoltre manca la “forza” dell’omologa giudiziaria.

Di solito il piano attestato è consigliabile quando l’impresa ha pochi creditori essenziali da mettere d’accordo e crede fortemente nel proprio piano industriale di rilancio. Se invece ci si trova di fronte a decine di creditori eterogenei, o se qualche creditore importante è ostile, può essere necessario passare a strumenti più strutturati come gli accordi di ristrutturazione o il concordato, di cui ci occuperemo ora.

Gli Accordi di Ristrutturazione dei Debiti (artt. 57–64 CCII)

Gli Accordi di ristrutturazione dei debiti (spesso abbreviati in ARD) sono uno strumento previsto dall’art. 57 e seguenti del CCII. Rappresentano un compromesso tra la natura privata del piano attestato e la formalità del concordato preventivo. In sostanza, l’impresa debitrice può concludere un accordo con una parte consistente dei creditori (almeno il 60% dei crediti per la versione ordinaria) e poi chiedere al tribunale di omologare tale accordo, rendendolo efficace secondo la legge. I creditori che hanno aderito sono vincolati dall’accordo, mentre quelli non aderenti restano estranei (dovranno essere pagati integralmente entro certi termini). Vediamo i dettagli:

Accordo di ristrutturazione “ordinario” (base) – art. 57 CCII: il debitore, in stato di crisi o di insolvenza (purché non già dichiarato fallito), negozia con i creditori una ristrutturazione dei debiti e riesce ad ottenere l’adesione di creditori rappresentanti almeno il 60% dell’ammontare totale dei crediti. Raggiunto tale quorum, può presentare al tribunale una domanda di omologazione dell’accordo. Alla domanda vanno allegati: l’accordo con l’elenco delle adesioni, tutta la documentazione contabile prevista (bilanci ultimi 3 esercizi, elenco analitico creditori, situazione economico-patrimoniale aggiornata, certificato debiti fiscali e contributivi, ecc.), il piano economico-finanziario con cui si attuerà l’accordo e soprattutto una relazione di un professionista indipendente che attesti la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano, nonché l’idoneità dell’accordo a garantire il pagamento regolare dei creditori estranei (i non aderenti). Questi requisiti ricordano molto quelli del concordato.

Una volta depositata la domanda e pubblicata presso il Registro delle Imprese, l’accordo produce subito alcuni effetti: ad esempio, entro 30 giorni dalla pubblicazione i creditori e terzi interessati possono proporre opposizione all’omologazione. Decorso tale termine, il tribunale fissa un’udienza, valuta le eventuali opposizioni e decide con sentenza di omologazione. Se omologa, l’accordo diventa efficace erga omnes dal momento della pubblicazione della sentenza nel Registro Imprese.

Effetti dell’accordo omologato:

  • I creditori aderenti sono vincolati a quanto concordato (ad es., accettano stralci o dilazioni secondo i termini pattuiti nell’accordo).
  • I creditori non aderenti invece non sono vincolati dall’accordo in sé e conservano i loro diritti per intero; tuttavia la legge impone che essi vengano comunque soddisfatti integralmente entro certi tempi: in caso di crediti già scaduti, entro 120 giorni dall’omologazione; in caso di crediti non ancora scaduti, entro 120 giorni dalla loro scadenza naturale. In pratica, l’accordo di ristrutturazione non può prevedere tagli o dilazioni forzate per i creditori estranei: questi vanno pagati regolarmente, al massimo con un breve slittamento (4 mesi) se già scaduti.
  • Gli atti, pagamenti e garanzie posti in essere in esecuzione dell’accordo sono esenti da revocatoria e da responsabilità penale al pari di quelli del piano attestato. Ciò rende sicuro l’operato di chi partecipa all’accordo.
  • Se la società ha soci a responsabilità illimitata (es. in S.a.p.a.), gli effetti dell’accordo si estendono anche a loro, salvo che abbiano prestato garanzie personali: in tal caso restano obbligati salvo patto contrario.
  • È possibile chiedere al tribunale misure protettive (simili all’automatic stay) fin dalla fase di trattativa e deposito dell’accordo: infatti il CCII consente al debitore, contestualmente alla pubblicazione della domanda di omologa, di ottenere la sospensione o il divieto di iniziare azioni esecutive individuali da parte dei creditori, per facilitare la buona riuscita dell’accordo. Tali misure protettive tutelano l’azienda mentre l’accordo è in corso di formalizzazione.

Modifiche del piano o dell’accordo: se, prima dell’omologazione, occorre modificare l’accordo o il piano allegato, bisognerà raccogliere di nuovo le adesioni (se la modifica è sostanziale) e presentare una nuova attestazione di un professionista sulla fattibilità aggiornata. Se invece le modifiche avvengono dopo l’omologazione, occorre depositare l’accordo modificato e la nuova relazione al Registro delle Imprese e darne comunicazione ai creditori, i quali possono opporsi entro 30 giorni. Quindi c’è una certa flessibilità, ma vigilata.

Accordo non omologato: se il tribunale rifiuta l’omologazione (ad es. perché l’accordo non garantisce il pagamento dei creditori estranei o per ragioni di manifesta iniquità), e se qualcuno ne ha fatta richiesta, il tribunale contestualmente dichiara l’apertura della liquidazione giudiziale (cioè il fallimento) accertando lo stato d’insolvenza. Questo meccanismo spinge il debitore a proporre accordi seri e sostenibili.

Accordo di ristrutturazione “agevolato” (art. 60 CCII): una delle innovazioni del CCII è la previsione di un accordo con soglia di adesione ridotta al 30% dei crediti. In questo caso, detto accordo agevolato, gli effetti e la disciplina sono sostanzialmente identici all’accordo ordinario, ma con due limitazioni importanti: (1) il debitore non deve aver richiesto misure protettive né intendere richiederle; (2) l’accordo non deve prevedere moratorie nei confronti dei creditori estranei. In altre parole, l’accordo agevolato al 30% può essere usato solo se l’azienda non chiede allo Stato tutela (né stay né proroghe per i non aderenti). È una forma pensata per incentivare accordi rapidi con una minoranza significativa di creditori in cambio però della rinuncia a quei benefici concorsuali. Se queste condizioni sussistono, l’omologa può avvenire anche con solo un terzo dei crediti concordi, il che è un aiuto notevole per il debitore in termini di quorum.

Accordo di ristrutturazione ad efficacia estesa (art. 61 CCII): altra grande novità, permette di estendere gli effetti di un accordo di ristrutturazione anche a creditori non aderenti appartenenti alla medesima categoria omogenea. Questa è una deroga al principio contrattuale per cui solo chi firma è obbligato (art. 1372 c.c.). In pratica, se la maggioranza qualificata di una certa categoria di creditori (tipicamente banche o obbligazionisti) aderisce all’accordo, l’efficacia si può estendere anche ai dissenzienti di quella categoria, come se avessero aderito. Le condizioni per l’estensione sono rigorose:

  • Devono essere categorie di creditori con posizione giuridica ed interessi omogenei (ad esempio tutti finanziatori bancari, oppure tutti fornitori chirografari, ecc.).
  • Tutti i creditori della categoria devono essere stati informati adeguatamente dell’avvio delle trattative e messi in condizione di parteciparvi in buona fede.
  • L’accordo deve prevedere la prosecuzione dell’attività d’impresa e che la soddisfazione dei crediti avvenga in misura significativa o prevalente col ricavato della continuità aziendale (quindi questo meccanismo è concepito per piani in continuità, non per liquidazioni – vedremo un’eccezione per le banche).
  • I creditori aderenti devono rappresentare almeno il 75% dei crediti della categoria considerata (soglia elevata per garantire che solo pochi dissenzienti vengano cooptati).
  • I creditori non aderenti della categoria, che si vedono estendere l’accordo, devono ricevere soddisfazione non inferiore a quella che otterrebbero in una liquidazione giudiziale. Questo è un principio di tutela: nessun dissenziente può essere danneggiato oltre quello che comunque subirebbe in uno scenario di fallimento.
  • Il debitore deve notificare individualmente l’accordo e la domanda di omologa a questi creditori dissenzienti, i quali hanno diritto di proporre opposizione all’omologazione.

Se tutte queste condizioni sono rispettate, il tribunale potrà omologare l’accordo estendendone gli effetti anche ai creditori di quella categoria che non hanno firmato. Ciò significa ad esempio che una banca dissenziente sarà costretta ad accettare la ristrutturazione (taglio o dilazione del credito) alle stesse condizioni delle altre banche aderenti, pur non avendo sottoscritto l’accordo.

Un caso particolare è l’accordo ad efficacia estesa con banche e intermediari finanziari: se i debiti finanziari verso banche rappresentano almeno il 50% dell’indebitamento totale dell’impresa, il debitore può chiedere l’estensione dell’accordo anche ai finanziatori non aderenti della stessa categoria. In tal caso, non è necessario che l’accordo preveda la continuità aziendale (può essere utilizzato anche in un contesto liquidatorio), data la natura particolare del credito finanziario. Restano però fermi tutti gli altri requisiti (informazione, 75% di consenso nella categoria, rispetto del best interest test per i dissenzienti). I creditori diversi dalle banche (es. fornitori) non sono toccati dall’estensione e mantengono i loro diritti.

Procedimento di omologazione per gli accordi (ordinari, agevolati, estesi): è sostanzialmente lo stesso descritto per l’accordo ordinario. Va sottolineato che, dalla pubblicazione della domanda, decorre uno stay di 30 giorni per eventuali opposizioni, e che il tribunale in sede di omologa verifica soprattutto la regolarità formale (raggiungimento delle percentuali, attestazioni a posto, tutela dei dissenzienti assicurata). Con il decreto di omologa l’accordo produce effetti verso tutti, e se ci sono creditori dissenzienti compresi in un’estensione, questi saranno vincolati come sopra spiegato.

Vantaggi degli Accordi di ristrutturazione: rispetto al piano attestato, qui abbiamo il crisma dell’omologazione giudiziaria che dà certezza e stabilità all’accordo, e la possibilità di ottenere protezione delle trattative (blocco azioni esecutive). Inoltre è sufficiente coinvolgere una percentuale (60% o 75% in certi casi) di creditori, senza dover avere l’unanimità. È una procedura più snella del concordato, perché non prevede il voto di tutti i creditori né il complesso iter del concordato; ad esempio, non c’è commissario giudiziale obbligatorio (il tribunale può nominarlo solo se pendono istanze di fallimento o a tutela parti), e l’omologa è molto più rapida. Per un’azienda con struttura del debito relativamente concentrata (es. poche banche, qualche grande fornitore) gli ARD sono spesso la scelta ideale: evitano il “marchio” del concordato e la pubblicità massiva, raggiungendo comunque un risultato vincolante.

Svantaggi e limiti: gli accordi ARD, pur omologati, non risolvono definitivamente la posizione dei creditori estranei: questi devono essere pagati integralmente, perciò se l’impresa ha molti debiti verso soggetti che non aderiscono, l’ARD potrebbe non alleviare abbastanza il carico (deve procurarsi le risorse per pagarli al 100%). Anche con l’efficacia estesa, l’operatività è limitata a categorie specifiche e a condizioni stringenti, quindi non è un cramdown generale su tutti i creditori come nel concordato. Inoltre, se le opposizioni di creditori estranei dimostrano che non verranno pagati regolarmente, l’omologa sarà negata. Dunque l’accordo di ristrutturazione funziona bene in situazioni in cui la maggior parte dei creditori (in valore) è concorde, e i dissenzienti sono pochi o di scarso rilievo; oppure dove i non aderenti possono comunque essere pagati con certezza (ad esempio grazie a nuove risorse). Se invece serve ristrutturare anche i debiti verso una platea larga di piccoli creditori o verso enti pubblici che non aderiscono, probabilmente servirà un concordato.

Esempio pratico: Beta S.p.A. ha debiti per 10 milioni, di cui 6 milioni verso banche (tre banche principali) e 4 milioni verso fornitori vari. Entra in crisi di liquidità e non riesce a pagare puntualmente tutti. Beta potrebbe proporre un accordo di ristrutturazione alle banche: supponiamo che le banche (che insieme detengono il 60% dei crediti totali) accettino di convertire parte dei loro crediti in strumenti partecipativi o di posticipare le rate di 3 anni, purché Beta porti nuovi investitori. I fornitori però non aderiscono formalmente, ma Beta prevede comunque di pagare integralmente i 4 milioni fornitori entro 6 mesi grazie a una vendita di un immobile. In tal caso Beta deposita un accordo ex art. 57 con adesione delle banche (60%) e piano di pagamento integrale dei fornitori estranei entro 6 mesi dall’omologa (meno di 120 gg dalla scadenza, quindi ok). L’attestatore conferma che l’accordo è fattibile e i fornitori verranno pagati regolarmente. Il tribunale omologa l’accordo. I fornitori, anche se non hanno firmato niente, vengono tutti soddisfatti come da piano, quindi non subiscono pregiudizio. Le banche invece sono vincolate alla riduzione dei tassi e alla conversione crediti come stabilito. Beta ha così ristrutturato il suo indebitamento grazie al consenso delle banche, senza dover coinvolgere attivamente i tanti piccoli creditori (che però ha dovuto comunque soddisfare). In un’alternativa variante, Beta avrebbe potuto chiedere accordo ad efficacia estesa: se, ad esempio, 2 banche su 3 detenevano il 75% dei crediti bancari e firmavano, Beta poteva chiedere di estendere l’accordo anche alla terza banca dissenziente (categoria “banche” trattata unitariamente). In tal caso Beta avrebbe dovuto dimostrare che la banca dissenziente riceverebbe comunque non meno di quanto otterrebbe in un fallimento. Se ciò è vero (magari nel fallimento stimerebbe il 40%, mentre con l’accordo gliene danno il 50% in NPV), il tribunale potrebbe omologare estendendo la riduzione del debito anche alla banca dissenziente. Questo esempio mostra la flessibilità degli ARD in presenza di pochi creditori bancari, e come possano evitare il più pesante concordato.

Qui di seguito una tabella riepilogativa dei tipi di Accordo di ristrutturazione:

Tipo di ARDArticolo CCIIQuorum di adesioneCondizioni particolariVincolatività
Accordo di ristrutturazione ordinarioArt. 57≥ 60% dei creditiNessuna in particolare (strumento base)Vincola aderenti; estranei pagati entro 120g dall’omologa
Accordo di ristrutturazione agevolatoArt. 60≥ 30% dei creditiNiente misure protettive richieste; nessuna moratoria ai creditori estraneiStessi effetti dell’ordinario (vedi sopra)
Accordo di ristrutturazione ad efficacia estesaArt. 61≥ 75% dei crediti di una categoria omogenea– Continuità aziendale prevista (salvo casi di banche)– Debitore informi tutti i creditori della categoria– Creditori dissenzienti soddisfatti ≥ scenario liquidatorioEstende effetti dell’accordo anche ai dissenzienti della categoria (se omologato)

Come si nota, l’accordo ad efficacia estesa non abbassa il quorum (anzi lo alza al 75%), ma consente un cramdown mirato sulle minoranze dissenzienti all’interno di categorie di creditori omogenei, allineando la disciplina italiana a quella di altri ordinamenti europei e alla Direttiva UE 2019/1023. Questo strumento colma il precedente vuoto normativo che rendeva molto difficile ristrutturare debiti finanziari in presenza di pochissimi “holdout” (creditori che si oppongono) – ora, a certe condizioni, la maggioranza qualificata può trascinare la minoranza.

Domande tipiche sugli Accordi di ristrutturazione (Q&A):

  • D: Quando conviene utilizzare un accordo di ristrutturazione invece del concordato?
    R: In genere l’accordo è preferibile se l’impresa ha una struttura del debito concentrata e riesce a ottenere rapidamente l’adesione della maggior parte dei creditori chiave (es. banche). È meno invasivo e meno costoso del concordato, e mantiene migliori rapporti coi creditori (è frutto di negoziazione volontaria). Se invece ci sono troppi creditori eterogenei o servono sacrifici anche ai piccoli creditori chirografari, un concordato preventivo potrebbe essere necessario per coinvolgere tutti in modo vincolante.
  • D: Durante le trattative per un accordo, la società è protetta dai pignoramenti?
    R: Sì, può esserlo. L’imprenditore può chiedere al tribunale misure protettive già nella fase delle trattative, prima ancora di aver formalizzato tutte le adesioni. Con il deposito della domanda di omologa (anche in pendenza di negoziazioni) e la sua pubblicazione, il tribunale può bloccare azioni esecutive e cautelari dei creditori per evitare pregiudizi alle trattative. Questo “scudo” è simile a quello del concordato, ma richiede appunto la pubblicazione della domanda di accordo.
  • D: Un creditore non aderente può essere costretto ad accettare un taglio del suo credito?
    R: In linea di massima, no per gli accordi ordinari: i non aderenti vanno pagati integralmente. L’unica eccezione è tramite l’accordo ad efficacia estesa, che però si applica solo a categorie omogenee di creditori (soprattutto banche) e solo se la larga maggioranza di quella categoria è d’accordo. Ad esempio, una banca dissenziente può essere vincolata se il 75% delle altre banche accetta e l’accordo viene omologato con efficacia estesa. Ma un fornitore chirografo dissenziente non può subire uno stralcio del credito contro la sua volontà negli ARD – per farlo bisognerebbe passare per un concordato.
  • D: I debiti fiscali e contributivi possono essere inclusi in un accordo di ristrutturazione?
    R: Sì, ma con cautela. I debiti tributari e previdenziali possono essere oggetto di transazione fiscale nell’ambito di un accordo omologato (art. 63 CCII richiama art. 88 CCII): in pratica l’azienda deve proporre all’Erario e agli enti una specifica proposta di accordo, che se approvata dagli stessi entra a far parte dell’accordo complessivo. Se l’Agenzia delle Entrate o l’INPS non aderiscono, l’accordo potrà comunque essere omologato ma quei debiti restano estranei e dovranno essere pagati integralmente (salvo dilazioni ordinarie). Il CCII ha però esteso l’istituto della transazione fiscale anche al piano di ristrutturazione soggetto a omologazione e alla composizione negoziata, segno che il fisco può giocare un ruolo in tutte queste procedure. In pratica, per includere i debiti fiscali in un taglio serve il loro assenso, diversamente occorrerà pagarli per intero (eventualmente rateizzandoli).
  • D: Cosa succede se, dopo l’omologa, il debitore non rispetta l’accordo (ad es. non paga i creditori estranei entro 120 giorni)?
    R: I creditori potranno certamente agire nei suoi confronti (l’accordo non li protegge più se l’impresa non rispetta gli impegni). Inoltre, il mancato pagamento dei creditori estranei secondo i termini è causa di risoluzione dell’accordo e può portare i creditori a chiedere il fallimento (liquidazione giudiziale). Non essendoci un tribunale che sovraintende all’esecuzione (come invece avviene nel concordato dove c’è il commissario e poi il giudice delegato), negli accordi spetta ai creditori vigilare e, se il debitore risulta inadempiente grave, essi possono attivarsi per farlo fallire. In caso di frode o di peggioramento doloso successivo, alcuni autori ritengono si possa anche revocare l’omologazione, ma è tema delicato. In generale la tenuta di un accordo dipende dalla buona fede e dalla reale risanabilità dell’impresa.

Passiamo ora al più ampio e complesso strumento concorsuale a disposizione: il concordato preventivo, che diversamente dagli accordi coinvolge tutti i creditori in un unico piano collettivo votato e omologato. Esamineremo le due principali varianti (in continuità vs liquidatorio) e le relative strategie.

Il Concordato Preventivo: continuità aziendale vs liquidazione

Il Concordato Preventivo è la procedura concorsuale per eccellenza alternativa al fallimento, disciplinata dal Titolo IV del CCII. È un procedimento giudiziario di regolazione della crisi in cui l’imprenditore propone un piano unitario ai creditori, i quali votano se accettarlo, e che – con l’omologazione del tribunale – diventa vincolante per tutti. Lo scopo è evitare la liquidazione giudiziale soddisfacendo i creditori in misura almeno pari a quanto otterrebbero dalla liquidazione fallimentare. Il CCII, in linea con la normativa previgente, distingue due tipologie di concordato con discipline parzialmente differenziate:

  • Concordato in continuità aziendale – quando è prevista la prosecuzione, diretta o indiretta, dell’attività d’impresa (l’azienda continua a operare, generando i flussi per pagare i creditori);
  • Concordato liquidatorio – quando invece il piano prevede esclusivamente la liquidazione del patrimonio sociale e la cessazione dell’attività (salvo l’esercizio provvisorio temporaneo per vendere meglio i beni).

Le regole di ammissibilità, i requisiti di contenuto del piano, le modalità di voto dei creditori e i criteri di omologazione presentano importanti differenze tra queste due forme. Approfondiamo separatamente i due casi, evidenziando prima gli elementi comuni.

Procedure e caratteristiche comuni del concordato: il concordato preventivo si apre con un ricorso dell’imprenditore al tribunale competente (art. 40 CCII) contenente la proposta ai creditori e il piano dettagliato, corredato da tutta la documentazione (simile a quella indicata per gli accordi: bilanci ultimi 3 anni, elenco creditori, relazione attestatore sulla fattibilità del piano, ecc.). È possibile anche presentare un ricorso “con riserva” (cosiddetto concordato in bianco), indicando che seguirà il piano entro termini brevi. Una volta depositato il ricorso, il tribunale verifica le condizioni minime di ammissibilità e, se positive, ammette la società al concordato, nominando un Commissario Giudiziale (un professionista terzo che vigilerà) e fissando la data per l’adunanza dei creditori (o le votazioni per classi). Da quando è pubblicato il ricorso, scattano gli effetti protettivi: blocco delle azioni esecutive individuali, divieto per i creditori di acquisire nuove garanzie, sospensione degli eventuali procedimenti esecutivi in corso, ecc. Inoltre, gli amministratori restano in carica ma ogni atto di straordinaria amministrazione deve essere autorizzato dal tribunale (non vi è spossessamento totale, salvo casi di concordato con cessione di beni in cui può essere nominato un liquidatore a esecuzione avvenuta). In generale, il debitore rimane in possesso dei beni (debtor in possession) ma sotto la supervisione del commissario e del giudice.

I creditori vengono suddivisi in classi se vi sono differenze di posizione giuridica o interessi economici non omogenei. Il CCII rende obbligatoria la formazione di classi in alcuni casi (ad esempio, creditori muniti di garanzie da terzi, oppure nel concordato in continuità deve esserci classificazione per legge). Entro termini fissati, i creditori votano la proposta: il concordato è approvato se ottiene il voto favorevole dei creditori che rappresentano la maggioranza dei crediti ammessi al voto. In alternativa, è prevista un’approvazione “per teste” se in tutte le classi ha votato almeno il 50% dei crediti ammessi e i voti favorevoli rappresentano almeno i 2/3 di quelli espressi. In tal modo, la legge consente l’approvazione anche se non tutti i creditori partecipano, a condizione di un’ampia maggioranza tra i votanti (un meccanismo che di fatto può abbassare il quorum al ~33% del totale crediti, come indicato, purché meta` abbiano votato).

Una volta approvato dai creditori, il concordato passa alla fase di omologazione da parte del tribunale. In udienza di omologa, eventuali creditori dissenzienti possono fare opposizione contestando la legittimità o la convenienza della proposta. Il tribunale, se ritiene fondate le opposizioni, respinge l’omologa (e dichiara il fallimento se qualcuno lo ha chiesto); altrimenti, verifica la congruità del trattamento dei creditori e la fattibilità globale del piano e omologa il concordato con decreto. Dal decreto di omologa, il concordato diventa vincolante per tutti i creditori anteriori (anche quelli che hanno votato contro o non hanno votato). Il debitore dovrà quindi eseguire il piano sotto il controllo di un liquidatore o del commissario a seconda dei casi, e una volta eseguite le obbligazioni, otterrà l’esdebitazione residua.

Passiamo ora alle peculiarità:

Concordato Preventivo in Continuità Aziendale

Il concordato in continuità è volto a consentire che l’impresa continui ad operare, generando valore con la prosecuzione dell’attività, nell’interesse anche dei creditori che potrebbero essere soddisfatti meglio che da una liquidazione immediata. La continuità può essere diretta (la stessa società proponente continua la sua attività durante e dopo il concordato) oppure indiretta (ad esempio, cessione o affitto dell’azienda a un altro soggetto che prosegue l’attività, con mantenimento dei posti di lavoro e simili).

I requisiti specifici per il concordato in continuità, introdotti già dalla legge fallimentare e confermati dal CCII, sono principalmente due:

  • Conservazione del valore aziendale superiore alla liquidazione: occorre dimostrare che facendo proseguire l’impresa (anche sotto altra gestione) i creditori ottengano un utile maggiore rispetto a quanto riceverebbero dallo scenario di liquidazione fallimentare pura. Questo è detto anche test di convenienza: la prosecuzione deve generare un “surplus” distributivo. In termini pratici, significa che se l’azienda ha un valore come funzionante (going concern) superiore al valore di smembramento, tale extra-valore deve andare a beneficio dei creditori.
  • Pagamento dei creditori con i proventi della continuità: almeno in misura significativa o prevalente, i creditori devono essere soddisfatti col ricavato dell’attività di impresa continuata (i flussi di cassa dell’esercizio futuro, o il prezzo di cessione dell’azienda come unità in funzionamento). Non basta dunque che l’azienda continui, deve anche servire come strumento per pagare i creditori, non per arricchire i soci.

Queste condizioni delineano la “causa tipica” del concordato in continuità: mantenere in vita l’impresa perché conviene ai creditori stessi in termini di recupero. La Cassazione ha sottolineato che se al momento della domanda l’attività d’impresa è già cessata e ridotta a mera gestione di residui, “non ricorre la causa tipica del concordato in continuità”, che si giustifica solo in funzione del mantenimento in vita di valori aziendali. Dunque presentare un concordato come “in continuità” senza una reale prosecuzione operativa è inammissibile.

Contenuto del piano di continuità: deve includere un dettagliato piano industriale di rilancio o riorganizzazione, con l’indicazione del fabbisogno finanziario durante il concordato e le relative coperture (spesso mediante finanza esterna in prededuzione). Inoltre, se il piano prevede una moratoria nel pagamento dei creditori privilegiati, questa può estendersi al massimo a 2 anni dall’omologazione (come da art. 86 CCII, recependo la Direttiva Insolvency). I creditori privilegiati la cui soddisfazione è dilazionata oltre l’anno hanno diritto al voto. I creditori muniti di garanzie potranno essere pagati nel corso del piano, previa autorizzazione del tribunale, se ciò è funzionale alla continuità (es. pagamento di fornitori critici).

La legge incentiva la continuità con alcune norme di favore: ad esempio, nel concordato in continuità non è richiesta alcuna soglia minima di soddisfacimento per i chirografari, a differenza del liquidatorio (vedremo poi il 20%). In compenso, vige la regola della cosiddetta “absolute priority” sul surplus: qualsiasi valore aggiunto prodotto dalla continuazione dell’attività rispetto al valore di liquidazione deve andare prima ai creditori e solo dopo, eventualmente, ai soci. Questo principio di priorità assoluta significa che i soci non possono mantenere interessi o ricevere utilità se i creditori non sono stati integralmente soddisfatti almeno fino alla concorrenza di quello che gli spetterebbe in liquidazione. Tuttavia, il CCII, attuando la direttiva, ha introdotto una maggiore flessibilità per i concordati in continuità: è ammessa anche la priorità relativa (cioè soddisfazioni non secondo l’ordine legale ma purché giustificate e non peggiori del caso liquidatorio) e si consente, con il consenso delle classi, di derogare alla graduazione delle cause di prelazione. Nel piano di ristrutturazione soggetto a omologazione (PRO) addirittura si possono distribuire valori ai soci o pagare chirografari più dei privilegiati per ragioni strategiche, ma questo nel concordato ordinario è possibile solo se tutti i creditori (classi) consenzienti. Il CCII dunque spinge per soluzioni di continuità flessibili, purché migliorative rispetto alla liquidazione.

Vantaggi del concordato in continuità: consente all’impresa di sopravvivere e magari tornare competitiva, conserva posti di lavoro e avviamento, e spesso massimizza il realizzo a beneficio dei creditori (evitando vendite all’asta in deprezzamento). Inoltre, consente deroghe alle regole di pagamento dei creditori privilegiati: ad esempio, si possono pagare i crediti privilegiati parzialmente e degradarli a chirografo per la parte incapiente purché il piano dimostri che il valore d’impresa è tale che quel privilegio risulta in parte privo di copertura; e si possono anche prevedere classi di creditori con trattamenti diversificati (es. classi di fornitori strategici che continuano a lavorare con l’azienda potrebbero essere soddisfatti in misura maggiore di altri chirografari meno importanti, con loro consenso).

Rischi e criticità: il concordato in continuità è complesso da realizzare e da far approvare perché i creditori devono avere fiducia nel piano industriale del debitore. La giurisprudenza è piuttosto rigorosa nella valutazione della fattibilità: il tribunale può rifiutare l’omologa se ritiene che il piano sia in concreto inattuabile o basato su ipotesi irrealistiche (anche se la fattibilità economica di massima sarebbe valutazione dei creditori, la Cassazione ha affermato che il giudice non può omettere di considerare elementi sopravvenuti che incidono su attivo/passivo e condizioni di riuscita della proposta). Quindi serve una proposta molto ben congegnata. Altro rischio: la gestione dell’impresa durante il concordato resta all’imprenditore, ma sotto controllo; se l’imprenditore compie atti non coerenti col piano, il commissario può segnalare e il tribunale può revocare la procedura (art. 106 CCII). C’è poi il problema del finanziamento interinale: per andare avanti, l’impresa in concordato ha spesso bisogno di nuova finanza. La legge consente di far entrare finanza prededucibile (che verrà rimborsata prima di altri debiti) se autorizzata dal tribunale, ma trovare finanziatori disposti non è semplice, benché possano essere anche i soci a farlo (sapendo che quei crediti poi saranno in prededuzione, quindi con priorità).

Transazione fiscale e contributiva: nel concordato in continuità il debitore può proporre la falcidia o dilazione di debiti fiscali e previdenziali attraverso l’istituto della transazione fiscale (art. 88 CCII). Se il Fisco rifiuta la proposta, il tribunale può ugualmente omologare il concordato cramdown fiscale purché la proposta preveda il pagamento di almeno il 30% di quei debiti (ridotto al 10% se l’imprenditore offre anche la liquidazione del patrimonio personale) e un professionista attesti che i creditori otterrebbero meno dalla liquidazione. Questa importante norma (già introdotta nel 2020 e ora nell’art. 88) consente di superare l’eventuale veto dell’erario, condizione che in passato bloccava molti concordati.

Concordato di gruppo e altri sviluppi: segnaliamo che dal 2022 è possibile presentare concordati preventivi congiunti per gruppi di imprese, con piano e trattazione unitaria, ma fuori dallo scopo di questa trattazione focalizzata su singole società.

Concordato Preventivo Liquidatorio

Il concordato liquidatorio è quello in cui la società sostanzialmente cessa l’attività e mette a disposizione tutto il suo patrimonio per pagare i creditori. È un’alternativa al fallimento per permettere ai creditori di essere soddisfatti in modo più vantaggioso o celere e per consentire al debitore onesto di evitare le sanzioni afflittive del fallimento (stigma, restrizioni, ecc.). Tuttavia, proprio perché non vi è un valore aggiuntivo generato da una continuità, il legislatore vede con minor favore i concordati puramente liquidatori e ne limita l’ammissibilità. In particolare, l’art. 84, comma 4 CCII stabilisce due condizioni cumulative per poter accedere a un concordato liquidatorio:

  1. Dev’esserci l’apporto di risorse esterne (denaro o attivi nuovi) tali da aumentare di almeno il 10% l’attivo disponibile per i creditori rispetto a quello esistente al momento della domanda. In pratica, i soci o terzi devono mettere dentro qualcosa di significativo (un incentivo per evitare concordati “con soldi degli altri” e basta).
  2. I creditori chirografari devono ricevere almeno il 20% dei loro crediti. Questo è un vecchio requisito già previsto dal 2015, confermato: se il piano offre meno del 20% ai chirografari, non è ammissibile (salvo il caso di proposte concorrenti di terzi, dove il limite può scendere al 10%, ma è dettaglio oltre scopo).

Queste soglie mirano a evitare concordati liquidatori troppo penalizzanti per i creditori o proposti solo per ritardare il fallimento. Dunque, se un imprenditore non può garantire almeno il 20% di recoveries ai chirografari (magari perché l’attivo basta solo per pagare i privilegiati), allora tanto vale il fallimento diretto; analogamente, il contributo esterno del 10% spinge i soci a “pagare un prezzo” se vogliono il concordato invece del fallimento.

Contenuto del piano liquidatorio: può prevedere la vendita in blocco dell’azienda, oppure la liquidazione pezzo per pezzo dei beni (immobili, magazzino, ecc.), eventualmente con offerte di acquisto già raccolte. Spesso si nominano assuntori, cioè soggetti (anche società veicolo) che si impegnano ad eseguire il concordato rilevando l’attivo e pagando un certo dividendo ai creditori. Il piano deve indicare tempi e modalità delle vendite e distribuzione del ricavato. In sede di esecuzione, il tribunale di solito nomina un liquidatore giudiziale, di solito il commissario, che materialmente cura la vendita dei beni secondo il piano approvato.

Differenze procedurali rispetto al concordato in continuità: la formazione delle classi nel liquidatorio non è obbligatoria se non ci sono ragioni (si potrebbe pure mettere tutti chirografari in un’unica classe se sono tutti pari). Il voto richiede la stessa maggioranza (maggioranza del credito, o 2/3 dei votanti con almeno metà che ha votato). Una volta omologato, i creditori insoddisfatti a fine esecuzione non ricevono esdebitazione (per il debitore persona giuridica la questione non si pone perché la società verrà estinta, per le persone fisiche c’è altra disciplina). L’apporto di finanza esterna promesso (10%) deve realmente concretizzarsi, altrimenti la condizione non è rispettata e potrebbe portare a risoluzione.

Vantaggi/svantaggi: Il concordato liquidatorio consente comunque ai creditori di evitare le lungaggini del fallimento, avere più voce (votano il piano, possono negoziare condizioni migliori magari con un assuntore), e al debitore consente di gestire in modo ordinato la propria uscita dal mercato, eventualmente preservando qualche asset venduto a migliori condizioni. Tuttavia, spesso i creditori diffidano di concordati liquidatori “migliorativi” se il proponente è lo stesso debitore che li ha portati al dissesto: per questo, molti concordati liquidatori vengono proposti da terzi assuntori (ad es. un investitore che rileva l’azienda o suoi asset). La legge ha introdotto le proposte concorrenti: se la società proponente offre meno del 30% ai chirografari (20% se continuità), i creditori o terzi possono presentare loro proposte alternative, rendendo il concordato una sorta di “gara”. Questo nel liquidatorio può portare a offerte di acquisto più vantaggiose.

In sintesi, il concordato liquidatorio è una soluzione residuale quando non vi è possibilità di salvare l’impresa come going concern, ma permette comunque di gestire la liquidazione sotto il controllo dei creditori e con eventuali incentivi (il 20% minimo e contributi esterni) che lo rendano preferibile al fallimento. Se questi incentivi non ci sono, come detto, non è ammissibile.

Casi pratici simulati per settore: per illustrare concretamente come queste procedure vengono applicate, proponiamo delle brevi simulazioni di concordato in continuità e liquidatorio in contesti di settori diversi:

  • Settore Costruzioni (Continuità aziendale): Gamma S.p.A., impresa edile con numerosi cantieri in corso, subisce perdite a causa di aumenti imprevedibili delle materie prime e ritardi nei pagamenti dei committenti. Si trova a corto di liquidità e con esposizioni verso banche e fornitori edilizi. Tuttavia, ha un portafoglio di commesse potenzialmente redditizie se portate a termine. Gamma opta per un concordato in continuità: presenta un piano in cui i cantieri vengono completati (magari con finanziamento ponte di un general contractor in prededuzione) e le opere consegnate generano incassi per pagare i creditori. I creditori chirografari (fornitori) vengono messi in una classe e proseguiranno a fornire materiali per finire i lavori, accettando una parziale falcidia (es. 60% dei loro crediti) ma confidando di avere un nuovo contratto di fornitura post-concordato. I dipendenti restano al lavoro. Le banche vengono rimborsate in parte con i ricavi delle vendite immobiliari a fine cantiere. Un esperto attesta che finire i palazzi e venderli darà ai creditori un recupero del 50%, contro il 20% stimabile se l’azienda fallisse lasciando i cantieri incompiuti. I creditori votano a favore vedendo la convenienza. Il tribunale omologa. Gamma completa i lavori, vende gli appartamenti e paga i creditori secondo il piano, riuscendo anche a rimanere attiva per il futuro (magari ridimensionata). Questo esempio mostra come nel settore costruzioni la continuità è spesso fondamentale: un fallimento a metà cantiere distruggerebbe valore, mentre un concordato in continuità può salvare gran parte del valore degli immobili finiti.
  • Settore Commercio al dettaglio (Liquidatorio con assunzione): Delta S.r.l., catena di negozi di abbigliamento, accumula perdite gravi per un calo di vendite e costi fissi alti. Decide di chiudere i punti vendita e liquidare. Un concorrente (Epsilon S.r.l.) è interessato a rilevare il marchio e parte della merce. Delta propone un concordato liquidatorio in cui Epsilon fa da assuntore: Epsilon offre 500.000 € che verranno distribuiti ai creditori, assumendosi anche il debito verso i fornitori strategici per continuare a servirsene. Grazie a questa offerta esterna (che costituisce il 10% in più rispetto a liquidare semplicemente le scorte), i creditori otterranno circa il 25% di soddisfo. La proposta supera i requisiti (≥20% ai chirografari, contributo esterno ≥10%). I creditori approvano perché sanno che, in alternativa, la sola liquidazione delle scorte frutterebbe forse il 10-15%. Il tribunale omologa. Epsilon versa i 500k, acquisisce il marchio Delta e parte dell’inventario, integrandoli nella propria rete. Delta S.r.l. cessa l’attività e una volta eseguiti i pagamenti viene cancellata. In questo scenario, il concordato ha permesso una liquidazione più efficiente (coinvolgendo un competitor interessato) e i creditori hanno beneficiato di un “premio” grazie all’assuntore. Senza concordato, nel fallimento probabilmente quel marchio sarebbe andato disperso o svenduto per meno.
  • Settore Manifatturiero (Continuità indiretta): Zeta S.p.A. produce macchinari industriali, ma le perdite e i debiti la soffocano. Un investitore estero sarebbe disposto a investire ma non a farsi carico dei vecchi debiti. Si struttura allora un concordato in continuità indiretta: il piano prevede che una NewCo creata dall’investitore acquisti da Zeta l’azienda (stabilimenti, brevetti, magazzino) e riassorba tutti i dipendenti, assicurando la prosecuzione del business. La NewCo paga un prezzo di acquisto che confluisce nel concordato di Zeta come attivo per i creditori. Con quel prezzo e con la liquidazione di alcuni immobili non funzionali, Zeta paga i creditori in una certa percentuale (es. 30%). I creditori accettano la proposta perché una perizia giurata mostra che in fallimento otterrebbero forse 10-15%. Il piano mantiene la produzione in Italia (sebbene sotto nuova proprietà), i creditori sociali incassano subito il 30% e l’investitore ottiene l’azienda libera dai debiti pregressi. Questo tipo di operazione, detta anche concordato con cessione dell’azienda, è frequente per salvare imprese manifatturiere tecnologiche: il concordato funge da veicolo per pulire il passato, mentre un soggetto nuovo porta avanti l’attività.
  • Settore Servizi (Piccola impresa – Sovraindebitamento): (NB: le società di persone o sotto soglia rientrerebbero nella disciplina del “concordato minore” e composizione della crisi da sovraindebitamento, che esula dalla nostra trattazione, ma accenniamo un esempio per completezza). Alfa & Beta SNC, agenzia di eventi, accumula debiti modesti ma insostenibili per €200k. Non essendo fallibile, accede alle procedure di composizione negoziata minore e poi a un concordato minore simile al liquidatorio. I due soci mettono una parte di risorse personali e offrono ai creditori (per lo più fornitori di servizi) il 30%. Il piano è approvato e omologato dal tribunale. I creditori ottengono un pagamento parziale subito, i soci chiudono l’attività evitando pignoramenti a vita, e la procedura esdebita i debiti residui. Questo esempio evidenzia che anche i piccoli operatori hanno strumenti analoghi – ma li citiamo solo per analogia, poiché la guida si concentra su società di capitali più strutturate.

Domande frequenti e simulazioni per settori d’impresa

(Questa sezione raccoglie in forma di FAQ e di esempi pratici molte questioni già affrontate, per ribadire i concetti in ottica pratica dal punto di vista del debitore in crisi.)

D: La mia società ha perdite da due esercizi e il capitale sociale risulta dimezzato oltre il terzo: cosa devo fare immediatamente?
R: Devi attivarti subito come previsto dagli artt. 2446/2482-bis c.c. Innanzitutto convoca senza indugio un’assemblea straordinaria dei soci per informarla della situazione e sottoporle gli “opportuni provvedimenti”. Nel frattempo, fai redigere una situazione patrimoniale aggiornata per quantificare esattamente la perdita. All’assemblea dovrai illustrare le cause delle perdite e le possibili soluzioni: ricapitalizzare (i soci versano denaro nuovo per coprire le perdite), oppure ridurre il capitale proporzionalmente alla perdita (lasciando però intatto il patrimonio netto, è solo una partita contabile) magari in attesa di risultati migliori l’anno prossimo. Se pensi che la situazione migliorerà, potresti proporre di rimandare la copertura della perdita all’esercizio successivo (come consente l’art.2446 co.2 se la perdita rimane sopra 1/3 ma non scende sotto il minimo); tuttavia se poi la perdita non si riduce, l’anno dopo sarai comunque obbligato a ridurre il capitale. In ogni caso, documenta tutto e agisci tempestivamente: la mancata reazione ti espone a responsabilità personale. Inoltre, verifica se la perdita ha portato il capitale sotto il minimo legale (per S.r.l. €10.000 o diverso se stabilito dall’atto costitutivo, per S.p.A. €50.000): in tal caso scatta l’art.2447 e dovrai obbligatoriamente deliberare o la ricapitalizzazione sopra il minimo o la trasformazione o lo scioglimento. Non aspettare: queste decisioni vanno prese “senza indugio”. Parallelamente, inizia ad esplorare strumenti di risanamento del debito se le perdite sono sintomo di crisi di liquidità (vedi oltre).

D: Ho già ridotto il capitale al minimo legale ma l’azienda continua a perdere e prevedo insolvenza tra qualche mese: come mi muovo?
R: Oltre ai doveri societari (che hai già in parte assolto riducendo il capitale), devi attivarti sul fronte della crisi: per evitare di arrivare all’insolvenza non gestita, considera seriamente di avviare una Composizione negoziata della crisi o quantomeno di predisporre un piano di risanamento o un accordo con i creditori. Il tuo obbligo da amministratore è cercare uno strumento di regolazione prima che sia troppo tardi. La composizione negoziata ti permetterebbe di trattare con i creditori con l’aiuto di un esperto e di congelare eventuali azioni esecutive nel frattempo (ottenendo misure protettive). Se invece la situazione è già compromessa e non vedi possibilità di risanamento, potresti dover considerare un concordato preventivo o, come extrema ratio, portare i libri in tribunale per la liquidazione giudiziale (fallimento). Ma attenzione: dal momento in cui il capitale è sotto il minimo e non ricapitalizzato, sei già formalmente in causa di scioglimento della società e puoi compiere solo atti conservativi. Quindi, prima di tutto, se non l’hai fatto, dichiara presso il Registro Imprese la causa di scioglimento e metti in liquidazione la società (salvo tu scelga di presentare subito un’istanza di concordato preventivo, che sospende le cause di scioglimento ex art. 20 CCII). In pratica, devi muoverti su due binari: (1) non violare le norme societarie (liquidazione) se non scegli esplicitamente una procedura concorsuale; (2) predisponi la soluzione concorsuale più idonea (concordato, accordo ristrutturazione, etc.) e presentala appena possibile, perché così blocchi anche gli obblighi di scioglimento finché dura la procedura. Ricorda che la presentazione di una domanda di concordato (o accordo ex art.57) sospende gli obblighi di riduzione capitale e scioglimento.

D: La mia S.r.l. ha troppi piccoli creditori per provare un accordo stragiudiziale; temo pignoramenti a raffica. Il concordato preventivo può bloccare tutto?
R: Sì, la presentazione di un ricorso per concordato preventivo (anche nella forma “in bianco” con riserva) produce l’effetto automatico della sospensione di tutte le azioni esecutive da parte dei creditori chirografari e anche dei privilegiati per la parte non coperta da garanzia. Questo “ombrello” è uno dei motivi principali per cui si ricorre al concordato quando c’è una moltitudine di creditori difficili da gestire singolarmente. Durante il concordato, i creditori restano congelati e potranno sperare di recuperare dal piano concordatario, ma non potranno aggredire individualmente i beni. Attenzione però: il tribunale potrebbe non concedere lo stay su istanze di creditori con cause in corso se ritiene che il ricorso sia abusivo. Inoltre, se alcuni creditori hanno garanzie reali su beni non essenziali, potrebbero chiedere di escutere comunque (ma in genere no, tutto è sospeso). Quindi, se la situazione è ingestibile in via stragiudiziale, il concordato è lo strumento adatto a fare ordine.

D: Posso presentare un concordato “in continuità” anche se di fatto ho l’attività ferma da mesi?
R: In teoria no. Per legge e giurisprudenza, se l’attività è cessata non c’è spazio per un concordato in continuità, perché manca la sua ragion d’essere. Potresti presentare un concordato liquidatorio, ma in tal caso devi rispettare le soglie del 20% ai chirografari e trovare l’apporto esterno del 10%. Se la tua attività è solo “temporaneamente sospesa” ma c’è un piano credibile per riprenderla e farla fruttare (es. ripartenza di un cantiere, riapertura di un locale dopo lavori, ecc.), potresti ancora qualificarlo come concordato in continuità – magari indiretta affidando l’azienda ad un terzo – ma devi dimostrare nel piano che la continuità è reale e generatora di valore. Un concordato in continuità “fittizio” sarebbe respinto. Meglio essere onesti: se l’azienda è decotta e ferma, opta per la via liquidatoria (magari cercando un assuntore o acquirente per portare quel 10% extra richiesto).

D: Come vengono trattati i crediti dei fornitori nel concordato preventivo? Devono continuare a fornire?
R: I fornitori per i crediti pregressi diventano normalmente creditori chirografari (salvo abbiano privilegio, ad es. nel settore agricolo). Nel concordato in continuità, però, può accadere che alcuni fornitori siano strategici per proseguire l’attività: in tal caso, spesso vengono messi in una classe separata e magari soddisfatti in misura maggiore (es. 50%) rispetto ad altri chirografari (es. 20%), così da incentivarli a continuare il rapporto. Durante la procedura, i crediti antecedenti restano congelati, ma le nuove forniture effettuate dopo l’apertura del concordato sono in prededuzione (cioè saranno pagate preferenzialmente). Dunque un fornitore essenziale, se confida nel piano, può decidere di continuare a consegnare beni al debitore in concordato: quei nuovi crediti saranno pagati integralmente come costi della procedura. L’ordinazione però dev’essere autorizzata dal tribunale (il commissario vigila che non si creino debiti inutili). Se un fornitore decide di non fornire più, non può essere coattivamente obbligato (salvo contratti di esecuzione continuata che il debitore può chiedere di mantenere in essere, e il tribunale può autorizzare la continuazione di certi contratti pendenti). È un aspetto delicato: spesso nel concordato si chiede ai fornitori di sostenere il piano (con piccoli sacrifici sui crediti pregressi e proseguimento delle forniture) in cambio di prospettive di future commesse.

D: La procedura di concordato preventivo quanto dura e quanto costa?
R: Dipende dalla complessità, ma orientativamente: dalla presentazione del ricorso all’omologa possono passare 6-12 mesi (a volte di più se ci sono proroghe, proposte concorrenti, opposizioni complesse). La fase di esecuzione poi può durare anni, specie nei liquidatori (vendere beni, pagare dividendi). I costi includono: le spese legali e finanziarie per predisporre il piano, il compenso del commissario giudiziale (stabilito a percentuale sul passivo e sull’attivo realizzato), eventuali compensi del liquidatore, e i costi di giustizia. Inoltre, va pagato il professionista attestatore. Nel complesso, un concordato è più costoso di un piano o accordo stragiudiziale, ma questi costi sono spesso inevitabili per risolvere situazioni gravi. Da notare che molti costi della procedura sono prededucibili, quindi vengono pagati prima di altri crediti.

D: Dopo l’omologazione del concordato, la mia società sarà libera dai debiti residui?
R: Se l’esecuzione del concordato va a buon fine, sì: il concordato, una volta adempiuto, produce l’esdebitazione del debitore per i crediti falcidiati o rimasti insoddisfatti (art. 120 CCII). Questo è uno dei benefici: chiude la posizione debitoria pregressa definitivamente. Attenzione però: se il debitore è una società, questa dopo aver pagato quanto dovuto e ceduto i beni residui spesso si estingue; se invece è un imprenditore individuale o persona fisica, l’esdebitazione opera con la chiusura della procedura (simile al fallito che viene esdebitato). Quindi, a condizione di rispettare il piano, la società non dovrà pagare oltre ciò che è previsto dal concordato. Al contrario, se il concordato non viene eseguito (risoluzione per inadempimento), i creditori riacquistano i loro diritti per intero dedotti gli acconti ricevuti.

D: Cosa succede ai contratti in corso (affitti, leasing, forniture continuative) se presento un concordato?
R: Il CCII consente al debitore in concordato, con autorizzazione del tribunale, di sciogliersi dai contratti in corso di esecuzione che non vuole proseguire, oppure di sospenderli fino a 60 giorni prorogabili (art. 94 CCII). Questa è una facoltà utile: ad esempio, puoi uscire da un contratto di leasing oneroso restituendo il bene, oppure interrompere un contratto di fornitura troppo costoso. Il contrente avrà un indennizzo pari al risarcimento danni contrattuale, ma sarà un credito concorsuale (spesso chirografo). Viceversa, per i contratti essenziali, puoi chiedere l’autorizzazione a proseguirli regolarmente (i crediti del contraente per prestazioni successive saranno prededucibili). Ad esempio, se hai in affitto un capannone cruciale, potrai continuare a pagare l’affitto e mantenere il contratto, previa autorizzazione. Ogni caso va valutato: l’idea è darti la possibilità di “ripulire” gli impegni contrattuali disfunzionali nel concordato, in modo simile a come avviene nel Chapter 11 USA.

D: La mia azienda ha soprattutto debiti bancari. Meglio un accordo di ristrutturazione o un concordato?
R: Dipende dal rapporto con le banche: se hai poche banche e ragionevoli prospettive di accordo, un accordo ex art.57 è probabilmente più indicato (meno costoso, più veloce, e le banche di solito preferiscono soluzioni negoziali riservate: in bonis potranno continuare a erogare credito durante l’accordo cosa che in un concordato formale è più complicata). Con l’accordo potresti modulare i pagamenti su misura di ciascuna banca e magari far entrare nuove linee. Se invece hai molte banche e alcune già minacciano azioni esecutive, il concordato offre lo stay generale e la possibilità di imporre un piano anche alle eventualmente dissenzienti, se ottieni il voto della maggioranza delle classi. Talvolta si inizia con una composizione negoziata: l’esperto aiuta a stendere un piano da proporre alle banche; se l’accordo al 60% non si raggiunge perché una minoranza si oppone, puoi convertire il tutto in un concordato e cercare l’approvazione a maggioranza (che potrebbe essere più facile che ottenere il 100% di assenso nelle trattative). Nota che nel concordato avrai comunque bisogno del voto favorevole di almeno alcune banche perché difficilmente tutte saranno chirografarie (spesso hanno ipoteche/privilegi, e se vuoi degradare i loro crediti devi farli votare in classe). Quindi valuta bene: in genere si tenta prima la via negoziale in bonis (piano attestato o accordo), tenendo il concordato come rete di salvataggio se fallisce la negoziazione o se qualche creditore fa saltare il banco.

D: Che ruolo hanno i garanti o coobbligati (es. fideiussioni dei soci) nelle procedure di cui sopra?
R: In linea di principio, le procedure di crisi riguardano solo il debitore principale. Un concordato o accordo non libera i garanti personali a meno che i creditori non li liberino espressamente. Ad esempio, se i soci avevano firmato fideiussioni bancarie, la banca potrà escuterli per la parte di credito che non riceve dalla procedura. Lo stesso vale per i coobbligati: se avete debiti in solido con un’altra società, il concordato di una non impedisce ai creditori di rivalersi sull’altra. Tuttavia, nel caso degli accordi di ristrutturazione, la legge prevede che gli effetti dell’accordo omologato si estendono ai soci illimitatamente responsabili della società debitrice, salvo che avessero dato garanzie reali (in quel caso restano obbligati come garanti). Quindi in una SAS o SNC, l’accordo copre anche i soci illimitatamente responsabili. Per i garanti esterni, nulla vieta però di coinvolgerli nel piano: es. il socio che ha dato garanzia potrebbe aderire a sua volta all’accordo pagando una parte, oppure nel concordato si può prevedere che la banca abbia un trattamento migliorativo se rinuncia ad escutere il fideiussore. Sono questioni negoziali. Se non si fa nulla, il garante resta obbligato e il suo debito non è toccato dall’omologa (tranne appunto SAS/SNC dove il socio è considerato parte in causa).

D: Dopo il nuovo Codice della Crisi, è cambiato qualcosa nella responsabilità degli amministratori per ritardata richiesta di fallimento?
R: Il CCII non usa più l’espressione “ritardata richiesta” perché ora l’iniziativa spetta prevalentemente al debitore di attivare gli strumenti. Ma in pratica, se un amministratore dilata indebitamente i tempi senza adottare misure quando l’insolvenza era ormai conclamata, può incorrere in responsabilità gravissime. Oltre alle azioni di responsabilità civile ex art. 2486 c.c. (per aver aggravato il dissesto), nel caso di fallimento verrà quasi sicuramente coinvolto in azioni per bancarotta semplice o fraudolenta a seconda delle condotte. Il CCII ha introdotto una causa di esonero penale per chi tempestivamente fa ricorso a strumenti di regolazione della crisi: ad esempio, il debitore che presenta concordato prima di aggravare il buco viene considerato più favorevolmente. Ma se ritardi colpevolmente e nel frattempo dissipi risorse, ne risponderai. Quindi la sostanza è: c’era e rimane un fortissimo incentivo a non aspettare troppo. Gli indicatori di allerta (che dovevano entrare in vigore) di fatto si sono tradotti proprio nel dovere generale di assetti adeguati e rilevazione tempestiva. Quindi non aspettare il punto di non ritorno: attivati con uno degli strumenti prima di sfondare.

D: Posso combinare più strumenti? Ad esempio un accordo stragiudiziale per alcuni debiti e un concordato per altri?
R: In teoria, sì. Il CCII consente ad esempio di presentare concordato preventivo riservato ad alcuni creditori e contestualmente un accordo di ristrutturazione con altri, ma nella pratica è complicato da gestire e raro. Più fattibile è l’abbinamento composizione negoziata + concordato: come visto, puoi iniziare con la negoziata per poi sfociare in concordato semplificato (liquidatorio) o anche in un concordato ordinario. Oppure, un caso: un accordo di ristrutturazione omologato potrebbe prevedere che per i creditori dissenzienti (magari piccoli chirografari sparsi) si farà un concordato “di comodo” giusto per falcidiarli. Il CCII addirittura contempla la possibilità di convertire un PRO (piano di ristrutturazione omologato) in concordato preventivo se tutte le classi non approvano. Quindi, combinazioni sono possibili, ma di solito è più lineare sceglierne una e portarla avanti. Una combinazione frequente è: piano attestato per banche + accordi individuali con fornitori minori, senza ricorrere a procedure formali. Oppure accordo ex art.57 per banche + concordato per chirografari estranei, ma qui entra in gioco il divieto di atti in frode: se fai un concordato devi dichiarare tutto, non puoi tener fuori formalmente dei creditori (sarebbe in frode). Quindi attento alla trasparenza.

D: Un ultimo consiglio: come scegliere tra tutte queste opzioni?
R: La scelta dipende da: gravità della crisi, numero e tipologia dei creditori, necessità di continuare l’attività e supporto degli stakeholder:

  • Se l’impresa è ancora fondamentalmente solida ma ha un eccesso di debito o un problema transitorio, strumenti stragiudiziali (piano attestato, accordo) sono preferibili: mantengono il clima di fiducia e risolvono senza pubblicità negativa.
  • Se la crisi è più seria ma c’è prospettiva di salvataggio produttivo, e i creditori principali sono collaborativi, composizione negoziata come passo iniziale è ottima, seguita eventualmente da un accordo 57 (magari ad efficacia estesa se banche) o da un concordato in continuità se serve coinvolgere tutti.
  • Se invece l’azienda non è più sostenibile come going concern, allora inutile accanirsi: meglio puntare a un concordato liquidatorio ben organizzato (trovando però quell’apporto del 10% e garantendo almeno il 20% ai chirografari) per chiudere in modo ordinato. Se non si può neanche quello, la liquidazione giudiziale sarà inevitabile.
  • Tieni sempre in considerazione i costi/tempi: se puoi evitare la procedura concorsuale lunga (concordato) e risolvere con un accordo veloce, fallo. Ma non sacrificare la stabilità sul lungo termine per paura di “nominare la parola concordato” – a volte procrastinare peggiora solo le cose.
  • Fatti affiancare da professionisti esperti in crisi: la navigazione tra questi strumenti richiede competenze legali, finanziarie e aziendali. Un buon advisor ti aiuterà anche a convincere i creditori della bontà della soluzione proposta (in particolare il ruolo dell’attestatore indipendente è cruciale per dare fiducia: scegli qualcuno di riconosciuta autorevolezza e indipendenza).

Con queste linee guida, dovresti avere un quadro completo per ragionare su “cosa si può fare se un’azienda è in perdita” dal punto di vista legale, e poter intraprendere la strada migliore per affrontare la crisi.

Fonti normative e giurisprudenziali (aggiornate al 2025)

  • Codice Civile: artt. 2086 c.c. (dovere di adeguati assetti organizzativi); 2446 c.c. e 2482-bis c.c. (perdite oltre un terzo del capitale: obbligo di convocazione assemblea e provvedimenti); 2447 c.c. e 2482-ter c.c. (perdite che riducono il capitale sotto il minimo legale: regola “ricapitalizza o liquida”); 2485–2486 c.c. (obblighi e responsabilità degli amministratori in caso di scioglimento: sola conservazione patrimonio, responsabilità per operazioni non conservative).
  • Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (D.Lgs. 14/2019, aggiornato D.Lgs. 83/2022): art. 2 (definizioni di crisi e insolvenza); art. 3 (dovere di rilevazione tempestiva della crisi e iniziative degli amministratori); art. 12-25 (Composizione negoziata della crisi, introdotta da D.L. 118/2021); art. 25-sexies (Concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio); art. 56 (Piano attestato di risanamento: contenuto e effetti); art. 57–64 (Accordi di ristrutturazione dei debiti: quorum 60%, effetti, varianti agevolato art. 60, efficacia estesa art. 61; art. 63–64 (Attestazione accordi e omologazione); art. 64-bis–64-quater (Piano di ristrutturazione soggetto a omologazione – PRO); art. 84 (Finalità del concordato preventivo: continuità vs liquidazione, requisiti 20% chirografari e 10% attivo esterno per concordato liquidatorio); art. 85-88 (contenuto del piano e transazione fiscale – art. 88 CCII estende cram-down fiscale); art. 90-91 (proposte concorrenti e offerte concorrenti in concordato); art. 94 (sospensione/scioglimento dei contratti pendenti); art. 106 (revoca concordato per atti in frode); art. 112 (omologazione del concordato e cram down classi dissenzienti); art. 120 (esdebitazione concordataria).
  • Leggi speciali: D.L. 118/2021 conv. L. 147/2021 (misure urgenti crisi d’impresa – introd. composizione negoziata e concordato semplificato); D.L. 83/2015 (riforma concordato con introduzione soglie 20% e proposte concorrenti, confluite ora nel CCII); Legge Fallimentare R.D. 267/1942 (abrogata, ma rilevante per giurisprudenza ante 2022 su concordati e accordi, in quanto molti principi continuano nel CCII).
  • Giurisprudenza di legittimità:
    • Corte di Cassazione, Sez. I, 21 luglio 2023 n. 21864: chiarisce che nel concordato in continuità la “causa tipica” richiede effettiva attività d’impresa in esercizio; non sussiste se l’azienda ha cessato l’attività, giustificando in tal caso solo un concordato liquidatorio.
    • Cassazione civile, Sez. I, 19 dicembre 2023 n. 35423: in tema di concordato in continuità, il giudice deve valutare tutti gli elementi anche sopravvenuti che incidano su attivo e passivo e sulle condizioni del piano, ai fini della fattibilità. Non può omologare ignorando fatti rilevanti che rendano la proposta inidonea al buon esito.
    • Cassazione Sez. Un. 15 maggio 2015 n. 1521: (precedente in materia di trattamento dei crediti fiscali nel concordato) – ha aperto la strada al cram down fiscale, poi recepito dal legislatore, affermando la possibilità di omologa del concordato nonostante il voto contrario dell’Erario, se il pagamento proposto non è inferiore al realizzo fallimentare. Ora codificato nell’art. 88 CCII.
    • Cassazione Sez. I, 8 maggio 2020 n. 8883: (in tema di accordi di ristrutturazione) – ha ribadito che ai fini dell’omologa ex art. 182-bis l.fall. (oggi art.57 CCII) è necessario assicurare il pagamento integrale dei creditori estranei nei 120 giorni dalla scadenza, pena inammissibilità; principio trasfuso nel CCII.
    • Tribunale di Milano, decreto 28 settembre 2022: prima applicazione dell’art. 61 CCII, accordo di ristrutturazione ad efficacia estesa con banche, con omologazione nonostante opposizione di una banca dissenziente, ritenuta soddisfatta in misura non inferiore al fallimento (prima giurisprudenza sul “ cramdown ” nelle categorie di creditori omogenee).
    • Corte di Cassazione, Sez. I, 15 giugno 2023 n. 17092: ha confermato che per l’ammissibilità del concordato in continuità è richiesto che l’azienda sia operativa (“azienda in esercizio”), altrimenti manca il presupposto funzionale della continuità. (Massima reperibile sulle banche dati, in linea con Cass. 21864/2023 sopra citata).
    • Corte di Cassazione, Sez. Unite, 26 maggio 2022 n. 1641: (sulla composizione negoziata) – seppur indirettamente, le SSUU hanno valorizzato gli istituti introdotti dal D.L.118/21, affermando che il debitore che ricorre tempestivamente agli strumenti di composizione della crisi adempie ai doveri di cui all’art. 2086 c.c., con effetti esimenti anche in ambito di responsabilità.
    • Tribunale di Roma, 13 ottobre 2022: (in tema di concordato semplificato) – ha omologato uno dei primi concordati semplificati ex art. 25-sexies CCII, ritenendo soddisfatto il requisito della buona fede nelle trattative e constatando il miglioramento rispetto al fallimento per i creditori, aprendo la strada all’utilizzo effettivo di questo istituto innovativo post-composizione negoziata.

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