La tua azienda è in difficoltà, i conti non tornano e i debiti aumentano mese dopo mese? Ti stai chiedendo se sia arrivato il momento di dichiarare lo stato di crisi aziendale, ma non sai da dove partire, come farlo e quali conseguenze comporti?
Riconoscere tempestivamente una crisi d’impresa è un passo delicato, ma fondamentale. Farlo nel momento giusto – con il supporto di un professionista – ti permette di proteggere la tua azienda, il tuo patrimonio personale e le persone che lavorano con te. Ignorare il problema, invece, può portare a conseguenze ben più gravi: responsabilità personali, sanzioni e, nei casi peggiori, il fallimento.
Ma quando si può dire che un’azienda è in crisi? Chi deve dichiararlo? E cosa succede dopo?
Lo stato di crisi aziendale si dichiara quando l’impresa non è più in grado di far fronte ai debiti in modo regolare, oppure quando si prevede che non riuscirà a farlo nel breve termine. È il momento in cui, per legge, l’amministratore ha il dovere di attivarsi, segnalare il problema e avviare percorsi previsti dal Codice della Crisi, come la composizione negoziata, la ristrutturazione del debito o, nei casi più gravi, la liquidazione.
Non è un’ammissione di colpa, ma un atto di responsabilità e prevenzione. E se fatto nei tempi giusti, ti permette di negoziare con i creditori, sospendere le azioni esecutive e salvare l’azienda o, quantomeno, chiuderla senza danni personali.
In questa guida, lo Studio Monardo – avvocati esperti in crisi d’impresa, diritto societario e tutela dell’imprenditore – ti spiega quando e come dichiarare lo stato di crisi aziendale, quali documenti servono, cosa prevede la legge e come possiamo aiutarti a scegliere il percorso giusto, proteggendo te e la tua attività.
Temi che la tua azienda non riesca a reggere ancora a lungo? Vuoi capire se è già il momento di agire, ma senza fare scelte affrettate?
Alla fine della guida puoi richiedere una consulenza riservata con l’Avvocato Monardo: analizzeremo insieme la tua situazione, individueremo i segnali oggettivi di crisi e ti guideremo passo dopo passo per dichiarare lo stato di crisi in modo sicuro, protetto e strategico.
Introduzione
Il Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII), emanato con D.Lgs. 14/2019, ha riformato radicalmente la disciplina italiana in materia di dissesto aziendale. Esso ha sostituito integralmente la vecchia Legge Fallimentare del 1942, segnando il passaggio da un approccio prevalentemente liquidatorio (incentrato sul fallimento) a un sistema moderno che privilegia l’emersione precoce della crisi e il risanamento aziendale ove possibile. L’entrata in vigore del Codice, inizialmente prevista nel 2020, è stata più volte rinviata a causa della pandemia e per recepire la Direttiva UE 2019/1023 (cd. Direttiva Insolvency). Il CCII è divenuto pienamente efficace il 15 luglio 2022, contestualmente a una serie di modifiche correttive che ne hanno adeguato il contenuto ai principi europei e alle mutate esigenze economiche. Successivamente, il legislatore è intervenuto con tre decreti correttivi per affinare la disciplina: tra essi, il D.Lgs. 83/2022 (correttivo-bis) ha introdotto nuovi strumenti e recepito la Direttiva Insolvency, mentre il D.Lgs. 136/2024 (correttivo-ter) ha apportato ulteriori modifiche sostanziali, risolvendo dubbi interpretativi e introducendo alcune novità attese dagli operatori. Questa guida – aggiornata a giugno 2025 – tiene conto di tutte le ultime modifiche normative (incluso il correttivo-ter) e delle più significative pronunce giurisprudenziali intervenute sino ad oggi.
Obiettivi e principi del nuovo Codice. Il CCII mira a prevenire le crisi d’impresa e, quando possibile, a favorire il risanamento piuttosto che la liquidazione. Tra i principi ispiratori fondamentali vi sono: (a) la tempestiva emersione delle difficoltà aziendali tramite strumenti di allerta precoce che incentivino l’imprenditore ad attivarsi volontariamente; (b) la valorizzazione dell’autonomia privata nelle soluzioni della crisi, mediante procedure stragiudiziali o semplificate e una minore invasività dell’autorità giudiziaria; (c) la tutela della continuità aziendale come valore da preservare ove l’impresa sia risanabile, così da salvaguardare posti di lavoro e valore economico. In sintesi, l’insolvenza non viene più affrontata soltanto a posteriori (con il fallimento), ma attraverso una gamma di strumenti preventivi e negoziali volti a evitare esiti distruttivi e a massimizzare la soddisfazione dei creditori.
Prospettiva del debitore. Questa guida adotta il punto di vista del debitore (l’imprenditore in crisi), focalizzandosi sugli obblighi, le facoltà e le tutele previste in suo favore dal nuovo Codice. Il taglio sarà divulgativo ma con il necessario rigore giuridico, per risultare utile sia a professionisti legali (avvocati, commercialisti) sia a imprenditori e privati interessati a comprendere come gestire uno stato di crisi aziendale. Verranno affrontate tutte le forme giuridiche d’impresa – dalla società a responsabilità limitata (S.r.l.) alla società per azioni (S.p.A.), dall’impresa individuale (ditte individuali) alle società di persone e cooperative – evidenziando, ove presenti, discipline particolari per ciascuna di esse. Saranno inoltre ricomprese le soluzioni predisposte per i piccoli imprenditori sotto-soglia, non soggetti a liquidazione giudiziale, attraverso le procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento.
Contenuti e struttura. Nelle sezioni che seguono esamineremo in dettaglio: (1) le definizioni chiave di stato di crisi e insolvenza, nonché l’ambito di applicazione del Codice; (2) gli strumenti di allerta interna e gli indicatori di crisi (art. 3 CCII e seguenti), che il debitore deve attivare per rilevare precocemente lo stato di difficoltà; (3) il funzionamento delle procedure di regolazione della crisi previste dal Codice – dalle soluzioni stragiudiziali come la composizione negoziata e il piano attestato di risanamento, agli strumenti giudiziali come il concordato preventivo (in continuità aziendale o liquidatorio) e gli accordi di ristrutturazione del debito, fino alle procedure di liquidazione (concordato semplificato e liquidazione giudiziale, nuovo termine per il fallimento); (4) gli obblighi e responsabilità che gravano sull’imprenditore (e sugli organi sociali e di controllo) in caso di ritardata emersione della crisi; (5) alcune simulazioni pratiche di applicazione delle procedure per ciascun tipo di impresa (S.r.l., S.p.A., ditta individuale, cooperativa); (6) una sezione di Domande Frequenti (FAQ) sui dubbi più comuni; (7) un elenco finale di fonti normative, prassi e giurisprudenza di riferimento, incluse le sentenze più recenti (aggiornate a giugno 2025) di rilievo per la materia.
Di seguito, la guida è strutturata con capitoli e sottoparagrafi numerati per facilitare la consultazione. Verranno incluse tabelle riepilogative e schemi per riassumere i punti chiave in modo chiaro. Le parti salienti e i concetti tecnici importanti saranno evidenziati in grassetto, e ogni istituto sarà illustrato anche con esempi concreti per chiarirne la logica operativa. Iniziamo dunque dalle nozioni fondamentali di stato di crisi e dagli strumenti di allerta introdotti dal Codice.
1. Stato di crisi e insolvenza: definizioni e obblighi generali
Prima di addentrarci nelle procedure, è essenziale capire cosa si intende per stato di crisi d’impresa dal punto di vista giuridico, in distinzione dallo stato di insolvenza. L’art. 2 CCII fornisce le definizioni chiave:
- “Crisi”: è definita come lo stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza del debitore. Per le imprese, la crisi si manifesta in particolare come inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte regolarmente alle obbligazioni pianificate. In parole semplici, un’impresa è in stato di crisi quando, pur non essendo (ancora) insolvente, si trova in un disequilibrio finanziario tale da far prevedere che, senza interventi correttivi, essa diventerà insolvente in un futuro non lontano.
- “Insolvenza”: è lo stato del debitore che si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori indicatori dell’impossibilità non temporanea di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni. In sostanza, l’impresa insolvente non è più in grado, in via stabile, di pagare i propri debiti alle scadenze. L’insolvenza ha dunque una connotazione più grave e irreversibile rispetto alla crisi e tradizionalmente legittima l’apertura di procedure concorsuali liquidatorie (fallimento, ora liquidazione giudiziale).
Occorre evidenziare che il CCII enfatizza la zona grigia precedente all’insolvenza conclamata: lo stato di crisi (o insolvenza incipiente). L’idea di fondo è incentivare l’imprenditore a rilevare i segnali di crisi con anticipo e ad attivarsi per tempo, anziché attendere che la situazione degeneri in insolvenza conclamata. In quest’ottica è stato modificato anche il Codice Civile: l’art. 2086 c.c., comma 2, impone all’imprenditore che operi in forma societaria o collettiva di istituire assetti organizzativi adeguati “ai fini della rilevazione tempestiva della crisi e della perdita della continuità aziendale”. In parallelo, l’art. 3 CCII ha introdotto specifici obblighi di allerta interna a carico dell’imprenditore, come vedremo tra breve.
Va sottolineato che il nuovo Codice si applica non solo agli imprenditori commerciali medio-grandi, ma – con alcune differenze – anche ai debitori di minori dimensioni e non fallibili (c.d. imprenditori minori). Secondo l’art. 2, comma 1, lett. d) CCII, è considerata impresa minore quella che non supera congiuntamente determinati parametri dimensionali: attivo patrimoniale annuo ≤ €300.000 nei tre esercizi precedenti, ricavi annui ≤ €200.000 e debiti ≤ €500.000. Gli imprenditori sotto tali soglie, così come l’imprenditore agricolo e il professionista, non sono assoggettabili alla liquidazione giudiziale (ex fallimento). Essi tuttavia rientrano nel campo del sovraindebitamento, ovvero in procedure ad hoc (piani di ristrutturazione dei debiti, concordato minore, liquidazione controllata) pensate per consentire anche al piccolo debitore di gestire e risolvere la propria crisi. Approfondiremo queste procedure specifiche più avanti (§ 9).
In ogni caso, dal punto di vista del debitore, la dichiarazione (o constatazione) formale di trovarsi in stato di crisi rappresenta un passaggio cruciale: segnala il momento in cui l’imprenditore prende atto delle difficoltà e decide di attivare gli strumenti predisposti dalla legge per il risanamento o, se questo non è possibile, per la composizione ordinata della crisi. Nei paragrafi che seguono, analizzeremo dapprima tali strumenti di allerta e prevenzione che l’ordinamento mette a disposizione del debitore per dichiarare e affrontare tempestivamente lo stato di crisi.
2. Strumenti di allerta precoce e monitoraggio interno della crisi
Uno degli aspetti più innovativi del CCII è l’introduzione di strumenti di allerta precoce (early warning) volti a favorire una emersione tempestiva della crisi. Dal punto di vista del debitore, ciò si traduce in una serie di obblighi organizzativi e comportamentali finalizzati a intercettare i segnali di difficoltà e ad adottare misure correttive prima che la situazione diventi irreparabile. Tali obblighi gravano innanzitutto sugli amministratori dell’impresa (se società) o sull’imprenditore stesso (se ditta individuale), e sono strettamente collegati al dovere di corretta gestione. In questa sezione esamineremo: (i) gli assetti organizzativi “adeguati” e le misure interne di monitoraggio che il debitore deve predisporre (c.d. allerta interna); (ii) gli indicatori di crisi e le segnalazioni esterne da parte di creditori pubblici qualificati (c.d. allerta esterna).
2.1 Adeguati assetti organizzativi e obblighi di monitoraggio (allerta interna)
L’art. 3 CCII impone all’imprenditore di attivarsi proattivamente per rilevare la crisi. In particolare, l’imprenditore collettivo (società o ente) deve dotarsi di “assetti organizzativi, amministrativi e contabili adeguati” alla natura e dimensioni dell’impresa, idonei a rilevare tempestivamente l’emergere della crisi e della perdita di continuità aziendale. Parallelamente, l’imprenditore individuale deve adottare “misure idonee” a tenere sotto controllo la propria situazione finanziaria. In termini pratici, ciò significa implementare sistemi di contabilità gestionale, pianificazione finanziaria e controllo di gestione che permettano di monitorare costantemente l’andamento dell’impresa e di individuare squilibri o segnali di allarme.
La norma di riferimento (art. 3 CCII) esplicita che un assetto adeguato deve consentire in concreto di:
- Rilevare eventuali squilibri di carattere patrimoniale o economico-finanziario (indicatori come perdite sistematiche, erosione del capitale, mancanza di liquidità, ecc.);
- Verificare la sostenibilità dei debiti e degli altri impegni finanziari almeno per i successivi 12 mesi, cioè valutare se la tesoreria prevista coprirà il servizio del debito su un orizzonte annuale;
- Individuare eventuali segnali di crisi indicati dall’art. 3, comma 4 CCII e dall’art. 25-novies CCII (segnalazioni dei creditori pubblici).
In altri termini, all’imprenditore è richiesto di guardare avanti (forward looking), simulando l’andamento futuro dei flussi di cassa e diagnosticando per tempo eventuali situazioni di tensione finanziaria che possano preludere all’insolvenza. Questo cambio di paradigma gestionale è rafforzato da modifiche al Codice Civile: ad esempio l’art. 2477 c.c. ha abbassato le soglie oltre le quali è obbligatoria la nomina di un organo di controllo o revisore nelle S.r.l. e società cooperative (basta superare per due esercizi uno dei seguenti limiti: attivo €4 milioni, ricavi €4 milioni, dipendenti > 20) al fine di garantire un monitoraggio professionale dei conti societari. Ciò implica che molte società di piccole e medie dimensioni, prima esonerate, oggi devono dotarsi di un collegio sindacale o revisore, il quale ha a sua volta precisi doveri di segnalazione della crisi (v. infra).
Indicatori significativi di crisi (interni). Il Codice non si limita a principi generali, ma individua alcuni indicatori-chiave che, se presenti, segnalano una probabile crisi in corso. Oltre al dato centrale del DSCR (Debt Service Coverage Ratio) < 1 per i successivi 6-12 mesi – indicatore che misura la capacità dell’impresa di generare cassa sufficiente a pagare il debito nei prossimi mesi – il legislatore elenca espressamente alcuni segnali d’allarme oggettivi. In particolare, costituiscono segnali di crisi (art. 3, comma 4 CCII):
- Retribuzioni scadute: l’esistenza di debiti per retribuzioni verso i dipendenti scaduti da oltre 30 giorni per un ammontare superiore alla metà dell’ammontare complessivo mensile delle retribuzioni. (Esempio: se il monte stipendi mensile è €100.000, avere più di €50.000 di paghe arretrate da oltre un mese è un serio campanello d’allarme).
- Debiti verso fornitori: l’esistenza di debiti scaduti da oltre 90 giorni verso fornitori per un ammontare superiore a quello dei debiti non scaduti. In pratica, se i debiti scaduti (>90 gg) superano i debiti correnti, significa che l’impresa sta finanziando il proprio ciclo operativo con ritardi sistematici nei pagamenti – segnale di tensione finanziaria acuta.
- Esposizioni bancarie: l’esistenza di esposizioni verso banche o altri intermediari finanziari scadute da oltre 60 giorni, oppure oltrepassate rispetto ai limiti degli affidamenti per più di 60 giorni, purché rappresentino almeno il 5% del totale delle esposizioni. Ciò indica che l’impresa ha sconfini di conto o rate scadute significative, segno di difficoltà nel rispettare gli impegni finanziari.
Oltre a questi indicatori interni (desumibili dalla contabilità aziendale e dalla situazione finanziaria propria dell’impresa), il Codice prevede anche segnali derivanti da creditori pubblici qualificati, analizzati nel prossimo paragrafo. È importante sottolineare che gli amministratori e i dirigenti dell’impresa devono sorvegliare costantemente tali indici e, al loro manifestarsi, sono tenuti ad attivarsi senza indugio. Il mancato tempestivo intervento, oltre a peggiorare il dissesto, può comportare responsabilità personali: ad esempio, il CCII ha inserito nell’art. 2486 c.c. una presunzione di danno a carico degli amministratori inerti, pari alla differenza tra patrimonio netto alla data in cui avrebbero dovuto attivarsi e patrimonio netto al momento dell’apertura della liquidazione (o, in mancanza, l’aumento dell’indebitamento nel medesimo periodo). In altre parole, la legge presume che la continuazione abusiva dell’attività in crisi abbia arrecato un danno ai creditori quantificabile nelle perdite ulteriori generate: gli amministratori possono essere chiamati a risponderne con il proprio patrimonio. Si tratta di un forte incentivo ad attivare gli strumenti di regolazione della crisi per tempo, anziché rimandare.
2.2 Segnalazioni dei creditori pubblici qualificati (allerta esterna)
Accanto all’allerta interna volontaria, il legislatore ha introdotto un meccanismo di allerta esterna obbligatoria affidato ad alcuni creditori pubblici qualificati (Agenzia delle Entrate, INPS, INAIL, agente della riscossione). L’obiettivo è far sì che alcuni indicatori oggettivi – legati a omessi pagamenti verso Fisco ed Enti previdenziali – non passino inosservati, ma vengano portati all’attenzione dell’imprenditore (e dell’organo di controllo, se esiste) in modo formale. In pratica, quando i debiti fiscali o contributivi superano determinate soglie e anzianità, gli enti pubblici devono inviare una segnalazione al debitore. Questa segnalazione non è pubblica né immediatamente giudiziale, ma costituisce un pungolo affinché l’impresa corra ai ripari attivando una procedura di soluzione della crisi.
Gli indicatori di allerta esterna (art. 25-novies CCII) sono così individuati:
- Debiti previdenziali (INPS): ritardo di oltre 90 giorni nel versamento di contributi previdenziali per un ammontare superiore a €15.000 (imprese con dipendenti) o superiore a €5.000 (imprese senza dipendenti).
- Debiti assicurativi (INAIL): debiti per premi assicurativi scaduti da oltre 90 giorni e non pagati per oltre €5.000.
- Debiti IVA (Agenzia Entrate): debiti IVA risultanti dalle liquidazioni periodiche non versati, di importo superiore a €5.000 e contemporaneamente superiore al 10% del volume d’affari dell’anno precedente (in ogni caso, la segnalazione scatta se il debito IVA supera €20.000, a prescindere dal fatturato).
- Debiti verso l’agente della riscossione (Agenzia Entrate-Riscossione): crediti affidati all’agente della riscossione (cartelle esattoriali) scaduti da oltre 90 giorni, per importi superiori a €100.000 (imprenditori individuali), €200.000 (società di persone) o €500.000 (società di capitali e altri enti).
Quando uno di questi sforamenti si verifica, l’ente creditore pubblico ha l’obbligo di avvisare l’imprenditore (nonché, se presente, l’organo di controllo societario, ad es. il presidente del collegio sindacale) mediante PEC o raccomandata. Nella comunicazione deve essere indicato quale soglia è stata superata e deve essere espresso un invito formale a presentare istanza di composizione negoziata della crisi (di cui diremo a breve), se ne ricorrono i presupposti. Questa “lettera di allerta” non viene inviata al tribunale né ad altri creditori, ma serve a mettere l’imprenditore di fronte all’evidenza del proprio indebitamento verso l’erario/enti e a spronarlo ad attivarsi volontariamente.
È importante notare che, in base alle disposizioni transitorie, l’allerta esterna dei creditori pubblici è entrata in vigore solo dal 1° gennaio 2024 (essendo stata rinviata durante l’emergenza Covid). Dunque, solo da tale data Agenzia Entrate, INPS etc. hanno iniziato ad inviare queste PEC di avviso alle imprese oltre soglia. L’imprenditore avveduto, tuttavia, non dovrebbe aspettare la segnalazione esterna: se i suoi debiti fiscali/previdenziali hanno superato le soglie, la crisi è già in fase avanzata. Il vantaggio, per chi agisce prima, è poter negoziare con il Fisco condizioni migliori attraverso gli strumenti offerti dal Codice (ad es. la transazione fiscale all’interno di concordati o accordi) piuttosto che subire cartelle e pignoramenti.
Riassumendo, il sistema di allerta disegnato dal CCII responsabilizza il debitore a 360 gradi: dentro l’azienda, devono esistere procedure di controllo che facciano scattare l’allarme in caso di squilibri o insoluti significativi; fuori dall’azienda, alcuni creditori qualificati fungono da “sentinelle” pronte a segnalare ritardi gravi nei pagamenti dovuti allo Stato. Dal punto di vista pratico, appena l’imprenditore constata uno stato di crisi (sia autonomamente sia grazie a una segnalazione ricevuta), è chiamato a dichiararlo e affrontarlo attivando uno degli strumenti di regolazione della crisi predisposti dal Codice. Nel prossimo capitolo, passeremo in rassegna tali strumenti – dal nuovo istituto della composizione negoziata alle varie soluzioni concordatarie e accordi – evidenziando per ciascuno caratteristiche, condizioni di accesso, tempistiche e tutele.
3. Strumenti di regolazione della crisi d’impresa: panoramica generale
Il Codice della Crisi prevede una pluralità di procedure e strumenti, giudiziali e stragiudiziali, attraverso cui il debitore in difficoltà può gestire e risolvere lo stato di crisi o insolvenza. È utile anzitutto offrire una visione d’insieme di questi strumenti, prima di approfondirli singolarmente nei paragrafi successivi. Nella Tabella 1 seguente riportiamo i principali istituti previsti dal CCII, con la loro natura, finalità e le modalità di coinvolgimento dei creditori (consenso richiesto):
Strumento | Natura/Tipo | Finalità | Consenso dei creditori |
---|---|---|---|
Allerta interna (assetti adeguati, segnalazioni organi di controllo) | Obblighi organizzativi e procedurali interni (non è una procedura concorsuale) | Prevenire e intercettare tempestivamente la crisi | N/A (adempimento interno dell’impresa, nessun coinvolgimento diretto dei creditori) |
Composizione negoziata (artt. 17-25 septies CCII) | Procedura volontaria e stragiudiziale assistita da un esperto indipendente, riservata (non pubblica) | Risanare l’impresa tramite accordi volontari con i creditori, evitando procedure concorsuali più invasive | Consenso negoziale dei creditori alle proposte (accordi volontari individuali raggiunti col supporto dell’esperto; non c’è voto collettivo) |
Piano attestato di risanamento (art. 56 CCII, ex art. 67 L.Fall.) | Accordo privato unilaterale, con attestazione di veridicità e fattibilità da parte di un professionista indipendente | Ristrutturazione extragiudiziale dell’azienda, con protezione dagli effetti delle revocatorie fallimentari per gli atti eseguiti in attuazione del piano | Consenso integrale dei creditori coinvolti nei termini del piano (accordo puramente contrattuale, non impone nulla ai dissenzienti) |
Accordo di ristrutturazione dei debiti (ARD, art. 57 e ss. CCII) | Accordo negoziato con i creditori, soggetto a omologazione del tribunale (procedura giudiziale semplificata) | Ristrutturazione con efficacia legale estesa e protezione giudiziaria (stay delle azioni esecutive, ecc.), evitando il fallimento | Adesione di creditori rappresentanti ≥ 60% dei crediti. Vincola solo i creditori aderenti (salvo casi speciali di estensione ai non aderenti). Possibili varianti: accordo agevolato (>=30% e pagamento integrale dei dissenzienti entro l’omologa); accordo ad efficacia estesa (categorie di crediti omogenee con ≥75% adesione, ridotto a 60% se preceduto da composizione negoziata). |
Concordato preventivo (artt. 84 e ss. CCII) | Procedura concorsuale giudiziale (tradizionale) | Regolazione collegiale della crisi con due possibili finalità: risanamento dell’azienda (concordato in continuità) oppure liquidazione concordata dell’attivo (concordato liquidatorio) evitando la liquidazione giudiziale. | Voto dei creditori suddivisi in classi (obbligatorie in certi casi). Approvazione con maggioranza di crediti > 50% e maggioranza di classi (se più classi). Omologazione del tribunale necessaria, anche in caso di dissenso di classi minoritarie (possibile cram-down giudiziale). (Dettaglio: concordato in continuità: azienda prosegue attività, con obbligo di soddisfare creditori in misura non inferiore al ricavabile da liquidazione e ulteriori vincoli; concordato liquidatorio: cessione integrale dei beni. Ammissibile solo se assicura almeno il 20% ai chirografari e un apporto di risorse esterne ≥10% dell’attivo liquidabile).* |
Concordato “semplificato” (art. 25-sexies CCII) | Procedura concorsuale straordinaria e residuale, liquidatoria semplificata | Liquidazione rapida del patrimonio post-composizione negoziata, sotto controllo del tribunale, evitando la liquidazione giudiziale | Non è previsto voto dei creditori. La proposta di concordato è valutata dal tribunale ai fini dell’omologazione, tenuto conto dell’esito delle trattative nella composizione negoziata. I creditori possono formulare osservazioni o opposizioni ma non votano. |
PRO – Piano di Ristrutturazione Omologato (artt. 64-bis e ss. CCII) | Procedimento concorsuale flessibile introdotto nel 2022 (recepimento Dir. UE 2019/1023) | Risanamento consensuale con intervento del giudice: consente di realizzare ristrutturazioni anche con deroghe alle regole di parità di trattamento tra creditori (ordine dei privilegi), purché vi sia un consenso qualificato | Approvazione a maggioranza in tutte le classi di creditori. I creditori sono suddivisi in classi omogenee e il piano deve essere approvato dalla maggioranza di ciascuna classe coinvolta. È richiesto dunque il consenso di tutte le classi (non necessariamente l’unanimità individuale). Se anche una sola classe vota contro, il PRO non è omologabile – occorrerà eventualmente ripiegare su un concordato preventivo ordinario. |
Liquidazione giudiziale (art. 121 e ss. CCII, ex fallimento) | Procedura concorsuale liquidatoria giudiziale | Liquidazione del patrimonio dell’imprenditore insolvente e riparto del ricavato ai creditori, con cessazione dell’attività d’impresa | N/A (procedura avviabile d’ufficio su istanza di creditore, del debitore o del PM in caso di insolvenza conclamata). I creditori non votano un piano, subiscono la liquidazione; intervengono solo tramite l’insinuazione al passivo e possono esprimersi sul programma di liquidazione redatto dal curatore, ma la decisione spetta agli organi della procedura. |
Tabella 1 – Panoramica dei principali strumenti di regolazione della crisi d’impresa previsti dal CCII.
Come si evince dalla tabella, il legislatore offre al debitore un ventaglio di opzioni: dagli strumenti stragiudiziali volontari (es. piano attestato) che richiedono il consenso totale dei creditori coinvolti, a strumenti ibridi con omologazione giudiziale (accordi di ristrutturazione) che vincolano solo i consenzienti salvo eccezioni, fino alle vere e proprie procedure concorsuali (concordati, liquidazione) dove vi è un intervento autoritativo del tribunale e decisioni prese a maggioranza o d’ufficio. Nella scelta di quale strada intraprendere, il debitore – coadiuvato dai suoi consulenti – dovrà valutare la gravità della crisi, le prospettive di continuità aziendale, il grado di consenso che può ottenere dai creditori e la necessità di misure protettive immediate. Nei paragrafi seguenti analizziamo in dettaglio ciascuno di questi strumenti, in un possibile percorso cronologico: si parte dalle misure pre-concorsuali di allerta e composizione negoziata (che spesso rappresentano il primo tentativo, volontario e riservato, di soluzione), per poi passare agli strumenti concorsuali giudiziali (concordati e accordi omologati) da attivare se il risanamento negoziale fallisce o non è praticabile, fino alla liquidazione giudiziale come ultimo rimedio. Particolare attenzione sarà data alle novità introdotte dagli ultimi correttivi (come il concordato semplificato e il PRO) e alle differenze procedurali in base alla forma dell’impresa (imprese individuali, piccole imprese, società, cooperative).
4. La composizione negoziata della crisi d’impresa
Il primo strumento operativo, spesso destinato a essere il “primo approdo” per l’imprenditore in crisi, è la composizione negoziata per la soluzione della crisi d’impresa. Introdotta originariamente nel 2021 come misura urgente anti-Covid (D.L. 118/2021, convertito con L. 147/2021) e poi confluita nel CCII agli artt. 17–25-septies, la composizione negoziata è una procedura volontaria, riservata e non giudiziale che consente all’imprenditore in difficoltà di tentare un risanamento con l’assistenza di un esperto indipendente, al di fuori delle aule tribunali. Si tratta, in sostanza, di un percorso di negoziazione assistita: l’imprenditore, riconosciuta la propria situazione di crisi (o di insolvenza reversibile), chiede la nomina di un esperto terzo che lo aiuti a gestire le trattative con i creditori e altri stakeholder, allo scopo di individuare una soluzione concordata che eviti l’aggravarsi della crisi e scongiuri procedure concorsuali più invasive come il concordato o la liquidazione. Questa procedura, inizialmente concepita come misura “ponte” nell’emergenza, è divenuta strutturale ed è oggi un elemento centrale del sistema di gestione anticipata della crisi.
Accesso alla procedura e nomina dell’esperto. Può richiedere la composizione negoziata qualsiasi imprenditore commerciale o agricolo, di qualsiasi dimensione, che si trovi in condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario tali da far presumere lo stato di crisi o insolvenza, pur se non ancora formalmente insolvente. Anzi, l’idea è proprio quella di muoversi prima possibile: non è necessario essere già insolventi per accedere, ed è anzi auspicabile attivarsi ai primi segni di difficoltà. È ammesso però anche l’imprenditore già insolvente, purché si tratti di un’insolvenza reversibile – ad esempio una temporanea carenza di liquidità in un’azienda che però ha buone prospettive di recupero. In ogni caso è una procedura volontaria: solo l’imprenditore può attivarla (non i creditori né il tribunale).
Per avviarla, il debitore presenta istanza mediante una piattaforma telematica dedicata (gestita dalle Camere di Commercio). Devono essere caricati una serie di documenti: ultimi bilanci, situazione debitoria, relazione sull’attività, etc., e una autodichiarazione sulla propria situazione di crisi e sulle cause. Entro 5 giorni dalla domanda, viene nominato dalla commissione apposita un esperto indipendente con specifiche competenze in materia di risanamento (di norma un commercialista, avvocato o consulente con esperienza in ristrutturazioni). La nomina tiene conto anche del track record dell’esperto in precedenti composizioni negoziate (come introdotto dal correttivo-ter 2024). L’esperto, terzo e imparziale, una volta accettato l’incarico, esamina la situazione aziendale e convoca l’imprenditore per definire le modalità delle trattative.
Svolgimento delle trattative e misure di supporto. La fase negoziale dura inizialmente 3 + 3 mesi (tre mesi prorogabili di altri tre su accordo delle parti e riscontro dell’esperto). Durante questo periodo, l’imprenditore rimane alla guida dell’azienda – non vi è spossessamento – ma deve gestire l’impresa in buona fede e con correttezza, sotto la supervisione dell’esperto. L’esperto funge da facilitatore: convoca i principali creditori, valuta con le parti possibili soluzioni (piani di rientro, accordi di ristrutturazione, ricerca di nuovi investitori, cessione di asset, ecc.) e monitora che le trattative si svolgano lealmente. Importante: la procedura è riservata (coperta da riservatezza), per cui la situazione di crisi non diviene di dominio pubblico durante le trattative – ciò per evitare che la divulgazione del negoziato danneggi ulteriormente l’azienda. Solo se l’imprenditore richiede misure protettive (vedi oltre), verrà iscritta al registro imprese l’adesione alla composizione negoziata, ma le informazioni dettagliate restano confidenziali.
Durante la composizione negoziata, il debitore può beneficiare di alcune misure di sostegno e protezione: ad esempio può chiedere al tribunale l’applicazione di misure protettive che sospendono o impediscono azioni esecutive individuali e precauzioni (come pignoramenti, sequestri) da parte dei creditori. Tali misure protettive (moratoria) servono a creare un “ombrello” temporaneo, proteggendo l’azienda dalle aggressioni mentre si tenta l’accordo. Le misure protettive, se richieste, vengono pubblicate (l’istanza è iscritta nel registro delle imprese) e hanno durata iniziale di 120 giorni, prorogabili fino a 240. Esse tuttavia non pregiudicano i diritti dei creditori: se la negoziazione fallisce, i creditori potranno riprendere le azioni sospese.
Inoltre, l’imprenditore può contrarre finanziamenti prededucibili (cioè destinati ad essere rimborsati con priorità, prededuzione, in caso di successivo fallimento) purché l’esperto ne attesti la funzionalità al migliore soddisfacimento dei creditori. Ciò incoraggia la finanza ponte: soci o terzi possono iniettare liquidità durante le trattative sapendo di avere un privilegio in caso di esito negativo. Anche la disciplina dei contratti pendenti è flessibile: l’imprenditore può chiedere al tribunale l’autorizzazione a sospendere o sciogliere contratti in corso (ad es. forniture divenute troppo onerose), se funzionale a un accordo.
Un’importante novità introdotta dal correttivo-ter (D.Lgs. 136/2024) è la possibilità di includere una vera e propria transazione fiscale all’interno della composizione negoziata. In pratica, ora durante le trattative l’imprenditore può proporre formalmente a Agenzia Entrate e Enti previdenziali il stralcio o la dilazione di parte dei debiti tributari/contributivi, con l’intervento dell’esperto. Questo consente di affrontare in sede negoziale anche il “nodo” del debito fiscale, cruciale in molte crisi. Prima, il Fisco poteva partecipare alle trattative solo informalmente e l’eventuale accordo fiscale doveva poi transitare per un concordato o accordo di ristrutturazione; ora invece la transazione fiscale in composizione negoziata è ammessa (senza bisogno di omologa giudiziale), rendendo più incisiva la procedura. Restano fermi alcuni limiti di legge: ad esempio, per ottenere il cram-down forzoso del Fisco in sede di concordato/accordo occorre offrire il pagamento di almeno il 30% del credito tributario chirografario – ma se il Fisco aderisce spontaneamente nella composizione negoziata, queste soglie possono essere modulate nell’accordo.
Esiti possibili della composizione negoziata. La composizione negoziata non è una procedura con esito predeterminato; è piuttosto un contenitore entro cui si cercano soluzioni. Può portare a diversi risultati a seconda di come vanno le trattative:
- Esito positivo con accordo stragiudiziale: l’impresa e i creditori trovano un’intesa volontaria (es. un piano di rientro dilazionato, un accordo transattivo con banche e fornitori, una moratoria, ecc.). In tal caso, l’accordo può restare privato oppure, se si vuole dargli efficacia esecutiva, può assumere la forma di un contratto legalmente riconosciuto (ad es. un accordo di ristrutturazione ex art.182-bis L.F./art.57 CCII omologato in tribunale, o un piano attestato di risanamento asseverato depositato presso il registro delle imprese). L’esperto conclude i lavori certificando che è stato raggiunto un accordo idoneo a superare la crisi, e la composizione si chiude. L’azienda prosegue l’attività secondo i nuovi patti, evitando il default.
- Esito positivo con soluzione concorsuale: se durante la negoziazione emerge che la soluzione richiede comunque un intervento dell’autorità giudiziaria per vincolare i dissenzienti (ad es. servirebbe obbligare una minoranza di creditori non disponibili), l’esperto può indirizzare l’imprenditore verso l’accesso a uno strumento concorsuale semplificato. Ad esempio, le parti potrebbero predisporre un accordo di ristrutturazione dei debiti da sottoporre a omologazione, oppure un concordato preventivo in continuità se serve il voto dei creditori. In alcuni casi, la composizione negoziata funge da incubatore: l’imprenditore elabora con l’aiuto dell’esperto un piano di risanamento fattibile, lo fa attestare da un professionista indipendente e poi lo utilizza come base per un piano attestato o un concordato. Il vantaggio è di avere già svolto gran parte delle trattative con i creditori in sede riservata, aumentando le chance di successo nella successiva procedura concorsuale.
- Esito negativo ma con concordato semplificato: non sempre i negoziati vanno a buon fine. Può accadere che i creditori rimangano rigidi o che non si raggiunga una maggioranza sufficiente. In tal caso, l’esperto dichiara chiusa senza accordo la composizione. Tuttavia, il legislatore ha previsto una via d’uscita per evitare il tracollo immediato dell’azienda: entro 60 giorni dalla comunicazione della relazione finale negativa dell’esperto, l’imprenditore può proporre al tribunale un concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio (art. 25-sexies CCII). Di questo strumento – un vero unicum nel panorama, pensato come extrema ratio post-negoziazione – parleremo dettagliatamente al §5.
- Esito negativo totale: se l’impresa è priva di qualunque prospettiva di risanamento e non vi sono neppure le condizioni per un concordato, la composizione negoziata fallisce e l’imprenditore dovrà probabilmente prendere atto dell’insolvenza, aprendo la strada alla liquidazione giudiziale su istanza propria o dei creditori. In questo caso l’esperto nella sua relazione finale darà conto dell’impraticabilità di soluzioni alternative. Da notare: la tempestiva attivazione della composizione negoziata, ancorché fallita, potrà essere valutata come indice di correttezza dell’imprenditore ed evitargli possibili azioni di responsabilità per tardivo ricorso ai creditori (l’art. 4 CCII prevede espressamente che la tempestiva segnalazione della crisi è considerata ai fini di attenuare le responsabilità ex art. 2486 c.c.).
In sintesi, la composizione negoziata è uno strumento flessibile e “morbido” che mette al centro l’imprenditore e la sua volontà di risanare l’azienda. Dal suo punto di vista, i vantaggi sono la riservatezza, il mantenimento della gestione dell’impresa durante le trattative e la possibilità di ottenere uno standstill dai creditori (misure protettive) continuando l’attività. Lo svantaggio è che richiede comunque una disponibilità al dialogo da parte dei creditori: se questi sono totalmente refrattari, l’azienda avrà solo guadagnato un po’ di tempo. In ogni caso, la composizione negoziata è diventata uno snodo quasi obbligato: persino i creditori pubblici, come visto, nelle loro segnalazioni invitano l’imprenditore ad attivarla. Si può dunque affermare che oggi un debitore diligente, all’insorgere della crisi, dichiara lo stato di crisi avviando una composizione negoziata: ciò rappresenta il tentativo di risanamento in extremis che, se funziona, salva l’impresa, e se non funziona, prepara il terreno per l’inevitabile liquidazione in modo meno traumatico.
5. Il concordato preventivo
Se la crisi non è risolvibile con strumenti stragiudiziali o se è già troppo avanzata, il debitore può ricorrere a una procedura concorsuale giudiziale per gestire la crisi in modo organizzato: il concordato preventivo. Il concordato preventivo è la più nota e collaudata tra le procedure concorsuali italiane. Si tratta di una procedura formalmente aperta dinanzi al tribunale, su iniziativa volontaria del debitore (salva la possibilità di proposte concorrenti dei creditori in certe condizioni), in cui l’impresa propone ai creditori un piano per regolare la propria crisi – piano che può consistere nel risanamento dell’impresa (concordato in continuità aziendale) oppure nella sua liquidazione nell’interesse dei creditori (concordato liquidatorio). Il termine “preventivo” indica che questa procedura dovrebbe intervenire prima dell’eventuale fallimento (liquidazione giudiziale), evitandolo appunto tramite un accordo con i creditori.
In parole semplici, il concordato preventivo è uno strumento negoziale collettivo gestito però in sede giudiziaria: il debitore sottopone ai creditori un’offerta di soddisfacimento (in denaro o altre utilità) dei loro crediti secondo un certo piano e chiede che essi la approvino; se la maggioranza accetta, il tribunale omologa l’accordo, che diventa vincolante per tutti i creditori (anche per la minoranza dissenziente). Durante il processo, l’impresa normalmente continua ad operare, ma sotto la vigilanza di organi nominati dal tribunale (commissario giudiziale). Vediamo i punti chiave di questo istituto dal punto di vista del debitore:
5.1 Concordato in continuità aziendale
Un concordato in continuità aziendale è essenzialmente un piano di ristrutturazione dell’impresa che prevede la prosecuzione dell’attività, in tutto o in parte, come mezzo per soddisfare i creditori. In questo scenario, l’imprenditore ritiene che l’azienda abbia ancora valore come going concern (in esercizio) e propone ai creditori di ristrutturare i debiti mentre l’impresa continua a operare, generando flussi finanziari futuri con cui pagare, almeno parzialmente, i crediti pregressi. Il fine è duplice: evitare la dispersione del valore aziendale (che sarebbe causata da una liquidazione “spezzatino”) e massimizzare la soddisfazione dei creditori rispetto all’alternativa liquidatoria.
Il concordato in continuità può assumere due forme: continuità diretta (quando la stessa società debitrice prosegue la gestione d’impresa durante e dopo il concordato) o continuità indiretta (quando è prevista la cessione o conferimento dell’azienda a un altro soggetto che la proseguirà – tipicamente un terzo investitore – assicurando però che il ricavato di tale cessione vada ai creditori). In entrambi i casi, l’idea è che l’azienda non venga fermata ma mantenga la produzione, i contratti, i dipendenti, generando utilità che, in tutto o in parte, andranno a beneficio dei creditori.
Contenuto della proposta e classi di creditori. Nel concordato in continuità, il piano può essere molto articolato: può prevedere la ristrutturazione del debito (es. dilazioni di pagamento, haircut ovvero stralci parziali dei crediti, conversione di debiti in strumenti partecipativi), la riorganizzazione aziendale (taglio di rami d’azienda non profittevoli, riduzione di costi, nuove linee di credito per finanziare il circolante), eventuali apporti di finanza esterna (nuovi soci o finanziatori), ecc. La legge richiede che nel piano sia indicato in modo specifico come si intende assicurare la continuità e con quali mezzi si otterranno i fondi per pagare i creditori. Inoltre, il Codice della Crisi ha introdotto l’obbligo di inserire nel piano di concordato indicazioni sul “valore di liquidazione” dell’azienda: il valore stimato che si otterrebbe liquidandola nel fallimento. Questo serve come parametro per valutare l’offerta concordataria (i creditori non possono in continuità ricevere meno di quanto otterrebbero in liquidazione). Il correttivo-ter 2024 ha chiarito per legge che il valore di liquidazione corrisponde al netto ricavo della vendita di beni/azienda in fallimento, tenuto conto se possibile di cessioni in esercizio.
Sul versante creditori, il debitore deve suddividerli in classi quando richiesto: in continuità è praticamente obbligatorio formare classi omogenee di creditori se vi sono posizioni giuridiche differenti. Ad esempio, si faranno classi separate per banche, fornitori chirografari, creditori con garanzie, ecc. (Il correttivo-ter ha ampliato il concetto di classi obbligatorie, richiedendo di mettere in classe separata i piccoli fornitori entro certi limiti). Ogni classe voterà separatamente la proposta.
Maggiori tutele e vincoli. Poiché l’impresa continua l’attività durante il concordato in continuità, la legge prevede alcune garanzie aggiuntive per i creditori: ad esempio, i crediti che derivano dalla gestione corrente autorizzata dal tribunale sono in prededuzione (devono essere pagati prima dei debiti anteriori, altrimenti nessuno fornirebbe più beni/servizi all’azienda in concordato). Inoltre, è fatto divieto di pagare crediti anteriori non autorizzati, e in generale l’impresa opera sotto la vigilanza del commissario giudiziale, nominato dal tribunale al momento dell’ammissione. Il debitore in continuità mantiene l’amministrazione ordinaria, ma per atti straordinari serve autorizzazione del giudice delegato.
Un punto cruciale è che nel concordato in continuità il piano può prevedere anche la parziale soddisfazione non integrale dei crediti privilegiati, purché sia assicurato ai creditori di grado inferiore un trattamento non deteriore rispetto a quello che avrebbero se i privilegiati fossero soddisfatti integralmente (c.d. relative priority rule introdotta dal D.Lgs. 83/2022 in recepimento della direttiva). Ad esempio, si può proporre a una banca ipotecaria di accettare l’immobile a saldo del suo credito (anche se vale meno del credito) e prevedere che la parte residua non pagata del suo credito ipotecario degradi a chirografario e prenda qualcosa insieme ai chirografari (questo è il meccanismo della falcidia dei privilegiati). L’importante è che i chirografari non vengano trattati peggio per via di queste falcidie: su questo aspetto interviene l’attestatore che deve certificare il rispetto della regola di convenienza e di priorità.
In definitiva, dal punto di vista dell’imprenditore, il concordato in continuità è uno strumento impegnativo (richiede un piano industriale credibile e un monitoraggio giudiziario), ma consente di salvare l’azienda e contemporaneamente liberarsi da una parte dei debiti, con il consenso dei creditori. La sfida maggiore è ottenere l’adesione delle classi di creditori al piano: serve convincerli che la proposta in continuità conviene di più rispetto alla liquidazione immediata. Se il piano è ben congegnato e sostenuto da una maggioranza qualificata, il tribunale potrà omologarlo anche contro il dissenso di eventuali classi minoritarie (cram-down interclassi, art. 112 CCII). Il correttivo-ter ha confermato espressamente che il tribunale può omologare il concordato in continuità anche in caso di voto contrario del Fisco o di altri enti pubblici, computando comunque la classe dissenziente ai fini delle maggioranze (eccetto il caso limite di unica classe maltrattata). Ciò recepisce l’orientamento ormai prevalente in giurisprudenza (Cass., ord. n. 27782/2024) secondo cui il voto negativo dell’Erario non può bloccare l’omologazione se la proposta offerta è più vantaggiosa per il Fisco rispetto alla liquidazione fallimentare.
5.2 Concordato preventivo liquidatorio
Quando, purtroppo, non vi sono prospettive di risanamento dell’impresa come going concern, il debitore può proporre un concordato liquidatorio. In questa forma di concordato, l’obiettivo è evitare la liquidazione giudiziale (fallimento) attraverso una liquidazione concordata dei beni dell’impresa, con distribuzione del ricavato ai creditori secondo le percentuali offerte. In pratica, l’imprenditore ammette che l’azienda non è più salvabile come attività in esercizio, ma anziché subire un fallimento “classico” propone ai creditori di cedere o liquidare tutto il patrimonio sotto il controllo del tribunale e di ripartirne il valore in modo più efficiente e rapido. Spesso il concordato liquidatorio prevede la vendita unitaria dell’azienda o di rami di azienda a terzi (cosiddetta continuità indiretta limitata alla cessione immediata), oppure la messa all’asta dei beni, con eventuale coinvolgimento degli stessi soci o di nuovi investitori disposti ad acquisire l’attività una volta depurata dai debiti.
Il CCII, per evitare abusi, condiziona l’ammissibilità del concordato liquidatorio al rispetto di requisiti stringenti: (i) deve garantire ai creditori chirografari (senza garanzie) una soddisfazione minima del 20% dei loro crediti; (ii) deve prevedere un apporto di risorse esterne (cioè risorse apportate dall’imprenditore o da terzi, aggiuntive rispetto a quanto otterrebbero i creditori dalla liquidazione dei soli beni dell’azienda) pari ad almeno il 10% dell’attivo liquidabile. Questi requisiti, introdotti dal Codice, assicurano che il concordato liquidatorio offra “qualcosa in più” rispetto a una liquidazione fallimentare, sia in termini di percentuale minima sia di fresh money. Ad esempio, i soci potrebbero conferire nuovi fondi o rinunciare a crediti verso la società, così da innalzare l’attivo destinato ai creditori concordatari di almeno il 10%. Se tali condizioni non sono soddisfatte, la legge considera il concordato liquidatorio inammissibile (si vuole evitare concordati “al ribasso” in cui i creditori prendono meno che in fallimento solo per favorire il debitore). In alternativa, se il debitore non può assicurare il 20%, rimane la strada della liquidazione giudiziale.
Procedura e votazione. Sia nel concordato in continuità sia in quello liquidatorio, la procedura segue alcune tappe comuni: il debitore deposita un ricorso di concordato presso il tribunale contenente proposta, piano e documenti contabili; il tribunale verifica i presupposti di ammissibilità e, se li ritiene presenti, ammette la società alla procedura, nominando un commissario giudiziale (figura di controllo). Viene fissata un’adunanza dei creditori per la votazione. Nel frattempo, si pubblica l’ammissione al registro imprese e i creditori presentano le domande di ammissione al passivo. All’adunanza (o entro 20 giorni dopo, esprimendo il voto scritto) ogni creditore vota sì o no alla proposta di concordato. Per l’approvazione serve il voto favorevole di creditori che rappresentino la maggioranza dei crediti ammessi al voto. Se vi sono più classi, occorre anche la maggioranza delle classi (calcolata per teste di classi votanti). Se tali maggioranze sono raggiunte (o se, in caso di classi dissenzienti, il tribunale ritiene di poter forzare l’omologazione con cram-down, verificata la convenienza e gli altri requisiti di legge), si passa alla fase di omologazione. Il tribunale, con decreto, dichiara omologato il concordato e nomina il liquidatore giudiziale (se è un concordato liquidatorio) che si occuperà di attuare il piano (vendere i beni, distribuire i fondi). Da quel momento il debitore è vincolato alle obbligazioni assunte nel piano e i creditori sono soddisfatti secondo le percentuali concordate, perdendo la parte residua di credito (che rimarrà inesigibile). Se invece le maggioranze non si raggiungono o l’omologazione viene negata, il tribunale dichiara l’insolvenza e apre la liquidazione giudiziale (salvo che il debitore non opti per rinuncia prima del voto, se possibile).
Vantaggi e considerazioni per il debitore. Il concordato preventivo, pur essendo una procedura complessa e soggetta a formalità, offre al debitore alcuni vantaggi chiave: (a) blocca le azioni esecutive individuali non appena viene pubblicato il ricorso (automatic stay), mettendo fine all’assedio dei creditori; (b) consente al debitore di mantenere l’iniziativa nella gestione della crisi, proponendo egli stesso le modalità di soddisfacimento e conservando l’amministrazione sotto vigilanza (differentemente dal fallimento dove un curatore prende il controllo); (c) permette di ridurre il debito in modo concordato, ottenendo l’esdebitazione parziale in bonis (a differenza dell’esdebitazione post-fallimento che arriva solo a fine procedura, qui la discharge parziale dei debiti avviene con l’omologa); (d) evita le conseguenze più afflittive del fallimento (restrizioni personali, possibile interdizione agli affari, ecc.). Di contro, il concordato richiede di convincere i creditori e necessita di un piano solido e attestato: un compito non banale, specie se la fiducia verso l’imprenditore è compromessa.
In questa prospettiva, il ruolo dell’attestatore indipendente è cruciale: deve redigere una relazione in cui attesta la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano, condicio sine qua non per l’ammissione (art. 87 CCII). Un piano poco credibile o privo di concrete prospettive non otterrà attestazione o verrà bocciato dal tribunale.
Va aggiunto che il correttivo-ter ha introdotto alcune novità tecniche (ad es. disciplina delle garanzie pubbliche: il piano deve prevedere fondi rischi per eventuali escussioni di garanzie statali tipo SACE su finanziamenti ricevuti) e ha dimezzato la soglia per le proposte concorrenti dei creditori (ora bastano crediti pari al 5% per presentare un piano alternativo, ex art. 90 CCII). Questi aspetti rendono il concordato ancor più competitivo ma anche più “controllato”: il debitore non può ignorare che, se la sua proposta non soddisfa abbastanza i creditori, questi potrebbero contrattaccare con una proposta concorrente più allettante.
5.3 Procedimento: dalla domanda all’omologazione
Per completezza, riassumiamo in ordine temporale le fasi procedurali di un concordato preventivo tipico (sia esso in continuità o liquidatorio):
- Domanda di concordato: il debitore presenta il ricorso in tribunale. Può farlo in due modi: o con proposta e piano già completi (“concordato pieno”), oppure con una domanda “in bianco” o con riserva (art. 44 CCII, ex art. 161 co.6 L.Fall.) ove chiede il termine (fino a 120-180 giorni) per depositare il piano. Il concordato in bianco serve a congelare subito la situazione e ottenere le protezioni, guadagnando tempo per definire il piano. Anche il concordato semplificato è ora ammissibile con riserva entro i 60 giorni, come vedremo.
- Fase pre-ammissione: se la domanda è completa, il tribunale verifica la documentazione e la fattibilità sommaria. Se è in bianco, nomina un commissario provvisorio e concede il termine per il piano, durante il quale l’impresa è protetta dai creditori. Alla scadenza, presentato il piano definitivo (o in caso di domanda già completa inizialmente), il tribunale procede.
- Ammissione alla procedura: con decreto, il tribunale ammette il debitore al concordato, nomina il commissario giudiziale (solitamente un commercialista esperto in crisi) e convoca l’adunanza dei creditori (fissando la data, di norma entro 120-180 giorni). Il decreto stabilisce anche le misure protettive (divieto di azioni esecutive, sospensione interessi per chirografari, ecc.) e le eventuali autorizzazioni a continuare l’esercizio di impresa. Da questo momento, l’impresa opera sotto la supervisione del commissario: ogni mese deve consegnare un rapporto di gestione. Gli atti di straordinaria amministrazione richiedono autorizzazione.
- Adunanza e voto: i creditori vengono informati dal commissario (che invia una relazione e il suo parere). Essi possono votare nell’adunanza (di persona o per delega) oppure esprimere il voto per iscritto entro 20 giorni. Il quorum deliberativo come detto è maggioranza di crediti e, se classi, maggioranza di classi. Se il concordato non ottiene i voti, il tribunale emette sentenza di fallimento (liquidazione giudiziale) su istanza del commissario o di creditori. Se invece ottiene l’approvazione, si passa all’omologazione.
- Omologazione: il tribunale verifica il rispetto di tutte le norme (percentuali, eventuale soddisfacimento minimo, regolarità del voto). Eventuali creditori dissenzienti possono proporre opposizione all’omologazione lamentando ad es. violazione della par condicio o convenienza insufficiente. Il tribunale esamina le opposizioni. Se tutto è in regola, emette decreto di omologazione del concordato. Da quel momento, il piano concordatario diviene vincolante per tutti i creditori anteriori (anche per chi non ha votato o ha votato no). Viene nominato un commissario liquidatore (se c’è da liquidare beni) o un atto di nomina di eventuali assuntori (se un terzo assume l’incarico di eseguire il piano). Il debitore da lì in poi esegue il piano sotto controllo del commissario/giudice.
- Chiusura e esecuzione: il concordato si chiude formalmente una volta eseguite le obbligazioni pianificate verso i creditori. Se il debitore in bonis non adempie, si può arrivare alla risoluzione del concordato e alla riapertura del fallimento, ma ciò è raro. In genere, con l’omologa il debitore ottiene la liberazione dei debiti secondo il piano (ad es., paga il 40%, ed è esdebitato del restante 60% dal decreto di omologa stesso).
Questa procedura, come evidente, è più strutturata e complessa rispetto agli strumenti stragiudiziali. Tuttavia è spesso l’unica percorribile quando il numero di creditori è elevato e non vi è unanimità.
5.4 Casi particolari e giurisprudenza sul concordato preventivo
La pratica del concordato preventivo è ultra-decennale, e la giurisprudenza ha affrontato negli anni innumerevoli questioni. Con l’entrata in vigore del CCII, alcuni nodi interpretativi sono stati risolti ex lege, altri restano dibattuti. Dal punto di vista del debitore, vale la pena menzionare alcune pronunce recenti di rilievo che incidono sul “potere contrattuale” del debitore nella proposta:
- Cram-down fiscale: Come accennato, storicamente il voto del Fisco poteva bloccare i concordati che prevedevano stralci di IVA o ritenute, poiché la legge fallimentare imponeva il pagamento integrale di tali tributi salvo adesione. La Cassazione (ord. 27782/2024) ha sancito che, ai fini dell’omologazione, il tribunale può approvare il concordato nonostante il voto negativo dell’Amministrazione finanziaria, qualora la proposta garantisca al Fisco una soddisfazione più vantaggiosa rispetto alla liquidazione fallimentare. Questo orientamento estensivo – ora recepito nel CCII tramite l’art. 88 modificato dal correttivo-ter – tutela il debitore proponente: non può essergli negata l’omologa solo perché il Fisco rifiuta la transazione fiscale, se la proposta è oggettivamente conveniente per l’erario. Si supera così definitivamente l’idea che serva sempre il sì del Fisco; basta rispettare i minimi di legge (oggi è richiesto almeno il 30% del credito fiscale chirografario in caso di cram-down) e dimostrare la convenienza.
- Esdebitazione e “fresh start”: Un altro tema cruciale per il debitore è la liberazione dai debiti residui. Nel concordato preventivo, il debitore in bonis ottiene già con l’omologa la liberazione parziale (ex art. 114 CCII, i creditori anteriori non soddisfatti integralmente restano tali per la quota eccedente ma non possono agire oltre quanto previsto dal piano). Per l’eventuale debito residuo non soddisfatto, tuttavia, se l’impresa viene poi liquidata, c’è la possibilità di chiedere l’esdebitazione totale (soprattutto per l’imprenditore individuale). Ebbene, in tema di esdebitazione post-concordato o post-liquidazione, la Cassazione (sent. 27562/2024) ha chiarito che non è richiesta alcuna soglia minima di pagamento ai creditori per ottenere l’esdebitazione. Conta invece la condotta: l’assenza di frode, la cooperazione e la “meritevolezza” del debitore. Questa pronuncia conferma l’impostazione pro-debitore del CCII (art. 280) che ha eliminato il requisito del pagamento almeno parziale ai fini del fresh start. Tradotto: anche se il concordato (o fallimento) ha soddisfatto solo in minima parte i creditori, l’imprenditore persona fisica onesto può ottenere la cancellazione dei debiti residui, liberandosi completamente per ripartire.
- Continuità indiretta e affitto d’azienda: Nella prassi dei concordati in continuità indiretta, spesso l’azienda viene data in affitto a un terzo nelle more dell’omologa, in vista della successiva cessione post-omologa all’affittuario (che magari è una newco collegata ai soci originari o un investitore). La giurisprudenza ha fissato paletti: l’affitto d’azienda nel concordato è ammesso se autorizzato e a condizioni di mercato, e la successiva cessione deve apportare vantaggi concreti (prezzo di cessione competitivo). I tribunali vigilano per evitare che il concordato sia usato per “riciclare” l’azienda a soci o parenti a scapito dei creditori. Linee guida sono state emanate (ad es. Trib. Milano, Trib. Roma) imponendo procedure competitive per selezionare l’affittuario/acquirente.
- Concordati di gruppo: Una novità del CCII (Titolo V) è la disciplina dei gruppi di imprese. Dal punto di vista del debitore, se si tratta di un gruppo societario in crisi, è ora possibile presentare un concordato preventivo di gruppo o comunque procedure coordinate. Ciò consente di avere un solo esperto nominato per la composizione negoziata di gruppo, o un solo tribunale competente, e piani coordinati. La legge consente anche finanziamenti infragruppo in prededuzione se effettuati nell’ambito di un concordato o accordo di gruppo. Per l’imprenditore facente parte di un gruppo, questa è un’opportunità di gestire la crisi in modo unificato (utile ad es. se una società immobiliare del gruppo garantisce i debiti di una società operativa: il concordato di gruppo può risolvere congiuntamente la posizione).
In conclusione, il concordato preventivo resta uno strumento cardine: dal lato del debitore è una via complessa ma potenzialmente salvifica, che dichiara e regola lo stato di crisi coinvolgendo attivamente i creditori. La sua riuscita richiede trasparenza, un piano credibile e spesso il sacrificio (anche economico) da parte dell’imprenditore stesso o dei soci (ad es. attraverso nuovi apporti). Dove c’è ancora un core business valido, i concordati in continuità permettono di salvarlo; dove invece tutto ciò che resta è da liquidare, il concordato liquidatorio permette di farlo in modo ordinato evitando le asprezze del fallimento. E se neppure il concordato è attuabile, non resta che la procedura di liquidazione giudiziale, di cui ora trattiamo le particolarità, insieme all’innovativo concordato semplificato che, come visto, si colloca a metà strada tra concordato e fallimento, attivabile solo dopo una composizione negoziata senza successo.
6. Il concordato “semplificato” per la liquidazione del patrimonio
Tra le innovazioni più recenti introdotte in materia di crisi vi è il concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio (art. 25-sexies CCII). Introdotto dapprima dal D.L. 118/2021 e poi stabilizzato nel Codice, il concordato semplificato è – come suggerisce il nome – una procedura concorsuale liquidatoria “semplificata”. Semplificata in che senso? In primis perché non prevede il voto dei creditori né la complessa fase di ammissione con nomina di commissario: consiste in un piano di liquidazione proposto direttamente al tribunale per l’omologazione, senza passare per l’approvazione dei creditori. Inoltre, è una procedura di carattere straordinario e residuale: può essere utilizzata solo dopo aver tentato senza successo una composizione negoziata della crisi. In altri termini, il concordato semplificato è un “paracadute” che l’imprenditore può aprire quando tutte le ipotesi di risanamento o accordo sono fallite, per arrivare comunque a una liquidazione controllata dell’azienda evitando il fallimento e le sue conseguenze più gravose.
Vediamo gli aspetti essenziali:
- Presupposto di accesso: l’imprenditore deve aver esperito una composizione negoziata che si è conclusa con esito negativo delle trattative. Ciò deve risultare dalla relazione finale dell’esperto indipendente. Entro e non oltre 60 giorni dalla comunicazione di tale relazione finale, l’imprenditore può depositare in tribunale la domanda di concordato semplificato. Il termine di 60 giorni è perentorio: serve ad evitare che il debitore attenda troppo, magari peggiorando ancora la situazione, dopo la chiusura della negoziazione. Se il termine decorre inutilizzato, il debitore “perde il treno” del concordato semplificato e rimangono solo le procedure ordinarie (concordato preventivo se fattibile, oppure liquidazione giudiziale su iniziativa dei creditori). Il correttivo-ter 2024 ha introdotto la possibilità, analoga a quella del concordato ordinario, di presentare la domanda di concordato semplificato “in bianco” entro i 60 giorni, riservandosi di depositare il piano dettagliato successivamente. Ciò consente al debitore di bloccare subito eventuali azioni esecutive, rispettando il termine, e poi completare la proposta; tuttavia i tempi restano stretti (di solito il tribunale concede 30-60 giorni per presentare il piano completo).
- Natura della proposta: Il concordato semplificato ha per oggetto la liquidazione del patrimonio dell’imprenditore, quindi è assimilabile a un concordato preventivo liquidatorio, ma con alcune peculiarità. Può prevedere sia una liquidazione atomistica (bene per bene) sia una liquidazione in forma aggregata con continuità indiretta – ad esempio mediante il trasferimento in blocco dell’azienda o di rami di essa a un acquirente, se ciò offre maggior ricavato per i creditori. Se si opta per questa soluzione (vendita in continuità), è essenziale dimostrare che la cessione dell’azienda come unicum fornisce una soddisfazione dei creditori superiore a quella di una liquidazione atomistica e frammentata. In altre parole, se c’è un soggetto interessato a rilevare l’azienda o parte di essa e a pagarla più di quanto renderebbe lo smembramento, il piano di concordato semplificato può includere tale cessione “chiavi in mano”.
- Procedimento e ruolo dei creditori: Diversamente dal concordato ordinario, non c’è voto dei creditori. Il debitore deposita la proposta di concordato semplificato corredata dal piano liquidatorio e dalla documentazione (attestazione delle cause di crisi, elenco creditori, inventario beni, relazione dell’esperto della composizione negoziata, ecc.). Il tribunale valuta in prima battuta l’ammissibilità formale (presenza dei presupposti soggettivi e del rispetto del termine). Se la domanda è completa e tempestiva, nomina un giudice delegato e fissa un’udienza di comparizione delle parti (debitoriale e eventuali creditori) per discutere l’omologazione. Nel frattempo, il debitore può chiedere misure protettive come la sospensione di pignoramenti in corso – e generalmente il tribunale le concede per evitare che durante l’iter il patrimonio venga aggredito.
I creditori, pur non votando, possono interloquire: ricevono comunicazione del ricorso e possono presentare opposizioni od osservazioni al piano, contestandone la convenienza o la legittimità. Ad esempio, un creditore potrà lamentare che un bene è sottostimato o che la ripartizione proposta viola le cause di prelazione. Tali contestazioni saranno valutate all’udienza. Il tribunale, se ritiene il piano conveniente e conforme alla legge, procede comunque all’omologa anche di fronte al dissenso dei creditori, purché ritenga le loro ragioni infondate rispetto all’interesse collettivo dei creditori nel complesso.
- Omologazione e fase esecutiva: All’udienza, il tribunale esamina il piano e le eventuali opposizioni. Per poter omologare, deve verificare che: (a) siano rispettati i requisiti di legge (ad esempio, analogamente al concordato ordinario liquidatorio, anche qui occorre garantire che i creditori ricevano almeno quanto otterrebbero in una liquidazione giudiziale – principio di convenienza – e in generale che non vi siano preferenze indebite); (b) il piano appaia realistico e attuabile, con particolare riguardo alla stima dei valori di realizzo dei beni; (c) il debitore abbia agito in buona fede durante la composizione negoziata (il tribunale può negare l’omologa se riscontra che le trattative sono state condotte in malafede solo per arrivare al semplificato, come evidenziato da alcune pronunce: ad es. Trib. Napoli 25.10.2023 ha avvertito che la composizione negoziata non dev’essere una mera scorciatoia per accedere al concordato semplificato senza seria volontà di negoziare). Se ritiene tutto a posto, il tribunale emette decreto di omologazione del concordato semplificato.
Con il decreto di omologa, viene nominato un liquidatore che sovrintende alla vendita dei beni secondo il piano e alla distribuzione delle somme ai creditori secondo l’ordine delle cause di prelazione e le percentuali indicate. Il debitore è tenuto a collaborare con il liquidatore, ma perde la disponibilità dei beni (di fatto la nomina del liquidatore implica uno spossessamento simile a quello del fallimento, ma concordato nei termini del piano). Una volta eseguita la liquidazione e i riparti, la procedura si chiude. Il debitore persona fisica potrà poi chiedere l’esdebitazione per i debiti eventualmente rimasti insoddisfatti, secondo le regole generali.
Differenze dal fallimento (liquidazione giudiziale). Il concordato semplificato conduce in sostanza a una liquidazione dell’impresa, ma con alcuni vantaggi per il debitore rispetto alla liquidazione giudiziale ordinaria: (1) Tempi più rapidi e controllo del piano: il debitore stesso propone come liquidare, selezionando eventualmente acquirenti o modalità di realizzo più efficienti; non subisce passivamente la liquidazione ad opera di un curatore, ma concorda un piano (seppur poi lo esegue un liquidatore nominato). (2) Nessuno stigma di fallimento: pur essendo simile negli effetti, il concordato omologato non comporta la dichiarazione di fallimento e relative incapacità personali (ad esempio, l’imprenditore non subisce interdizioni legali tipiche del fallito). (3) Esdebitazione più vicina: essendo frutto di un percorso “collaborativo”, l’esdebitazione finale dell’imprenditore è quasi scontata se ha rispettato le regole. (4) Risparmio di costi e procedure: l’assenza di comitato dei creditori, di accertamento giudiziario del passivo (non c’è stato voto, quindi non serve uno stato passivo formale, anche se di fatto i crediti erano noti dalla composizione negoziata) e la concentrazione delle fasi rendono il tutto meno costoso e lungo.
Naturalmente, dal lato dei creditori, il concordato semplificato toglie potere (niente voto) e potrebbe essere visto con sospetto. Per questo il tribunale deve vagliare con attenzione l’equità della proposta. In dottrina si è osservato che il concordato semplificato, pur nato per situazioni disperate, può rivelarsi un mezzo efficiente di liquidazione, specie per imprese piccole, evitando il dispendioso iter del fallimento. I numeri dei primi anni mostrano un crescente utilizzo: nel 2023 vi sono stati diversi concordati semplificati omologati nei tribunali italiani, segno che lo strumento – se ben utilizzato – è utile.
Esempio pratico: una piccola S.r.l. artigiana, dopo aver invano cercato un accordo con i creditori tramite composizione negoziata, si trova con €500.000 di debiti e un’attività ferma. Un concorrente si offre di rilevare i macchinari e il marchio per €100.000. La società propone un concordato semplificato: cede beni e attività al concorrente per €100.000, che saranno distribuiti ai creditori (stima di soddisfo: 20% ai chirografari). Il tribunale verifica che in un fallimento quei beni frutterebbero probabilmente meno (dismessi all’asta magari 60-70k) e che non ci sono irregolarità, quindi omologa la proposta nonostante qualche creditore contrario. In pochi mesi il liquidatore incassa i 100k, paga i creditori in percentuale e chiude la procedura. L’ex imprenditore ha evitato il fallimento e può ripartire da capo, magari collaborando con l’acquirente.
7. Gli accordi di ristrutturazione dei debiti (ARD)
Accanto ai concordati, un altro pilastro delle soluzioni negoziali della crisi è rappresentato dagli accordi di ristrutturazione dei debiti (spesso abbreviati in ARD). Si tratta di uno strumento ibrido tra il piano puramente negoziale e la procedura concorsuale. Introdotto nell’ordinamento a partire dal 2005 (art. 182-bis L.F.) e potenziato dal CCII, l’accordo di ristrutturazione è essenzialmente un accordo di natura contrattuale fra l’imprenditore in stato di crisi/insolvenza e una parte significativa dei suoi creditori, avente ad oggetto la ristrutturazione dei debiti dell’impresa. Una volta raggiunto con una maggioranza qualificata di creditori, tale accordo viene presentato al tribunale per l’omologazione (approvazione formale). Con l’omologa, l’accordo acquisisce efficacia legale e vincola tutti i creditori che vi hanno aderito, producendo effetti di protezione (ad es. esenzione da revocatorie per gli atti eseguiti in adempimento dell’accordo). In determinate circostanze, alcuni effetti possono estendersi anche ai creditori non aderenti.
Finalità e quando utilizzarlo. Dal punto di vista del debitore, l’ARD è utile quando l’impresa è in crisi ma riesce a trovare un’intesa bilaterale/multilaterale con i suoi principali creditori, senza dover coinvolgere necessariamente tutti i creditori in un voto collettivo come nel concordato. È uno strumento che consente di evitare il fallimento tramite una soluzione concordata del dissesto, valorizzando l’autonomia privata e limitando l’intervento giudiziario al momento finale dell’omologazione. Rispetto al concordato, l’accordo di ristrutturazione è più snello e riservato (la procedura giudiziale è minima) e può essere calibrato coinvolgendo solo i creditori strategici. Tuttavia, a differenza del concordato, non vincola i creditori estranei: quindi se vi sono molti piccoli creditori non consenzienti potrebbe non risolvere interamente la crisi.
Requisiti di adesione e forme speciali. Il requisito base è che l’accordo sia sottoscritto da creditori che rappresentino almeno il 60% dei crediti totali (art. 57 CCII). Questa soglia è più bassa di quella richiesta per approvare un concordato (maggioranza oltre 50%), ma va considerato che qui contano solo le adesioni effettive: i creditori che non aderiscono restano fuori dall’accordo e conservano i loro diritti integrali (salvo come vedremo alcune eccezioni). L’accordo deve garantire che i creditori estranei vengano comunque integralmente pagati entro 120 giorni dall’omologa (se già scaduti) o entro 120 giorni dalla scadenza (se non ancora scaduti), a meno che non siano anch’essi soddisfatti in altra forma nel piano. In pratica, il debitore deve dimostrare di avere le risorse per “sistemare” i non aderenti in tempi brevi: per questo spesso i debitori tendono a escludere dall’accordo i creditori minori, prevedendo di pagarli per intero, così da concentrarsi a trattare solo con i maggiori (banche, obbligazionisti, ecc.).
Il CCII ha introdotto due varianti importanti agli ARD standard:
- Accordi di ristrutturazione “agevolati”: se l’imprenditore si accorda con creditori che rappresentano solo il 30% dell’indebitamento complessivo (invece del 60%), può comunque chiedere l’omologazione di un accordo agevolato a due condizioni stringenti: (a) tutti i creditori estranei all’accordo devono essere pagati integralmente entro 120 giorni dall’omologa (o da scadenza); (b) non può ottenere misure protettive automatiche nel frattempo. In sostanza, l’accordo agevolato è pensato per situazioni in cui il debitore ha pochi creditori strategici da ristrutturare (≥30%) mentre gli altri – spesso piccoli fornitori – può permettersi di pagarli cash: in tal caso la legge gli consente di procedere con un quorum ridotto, visto che i dissenzienti non subiscono decurtazioni (vengono pagati per intero). È un’opzione utile per imprese con molti piccoli creditori facilmente soddisfabili e pochi grandi creditori da rinegoziare.
- Accordi ad efficacia estesa: il CCII (artt. 61-64) prevede che in alcuni casi l’accordo possa essere esteso anche ai creditori non aderenti appartenenti a categorie omogenee. In particolare, se i creditori finanziari (es. banche) rappresentanti almeno il 75% di quella categoria aderiscono, l’accordo omologato è esteso alle banche dissenzienti della stessa categoria. Questa forma, evoluzione degli accordi “ad efficacia estesa” introdotti nel 2015, consente di superare l’opposizione di singoli istituti di credito che rappresentino una minoranza. La soglia del 75% scende al 60% se l’imprenditore ha prima tentato una composizione negoziata, incentivando così l’uso dell’allerta negoziale. Inoltre, un’altra forma di efficacia estesa riguarda il Fisco e gli enti previdenziali: se questi non aderiscono all’accordo, il tribunale può omologare ugualmente l’accordo purché abbiano ricevuto una soddisfazione almeno pari a quella minima prevista per il cram-down fiscale (oggi 30% per chirografari tributari, 10% se privilegiati) e che l’accordo sia più conveniente del fallimento. È il c.d. cram-down fiscale negli accordi, anch’esso rafforzato dal correttivo-ter.
Procedura di omologazione e misure protettive. Il debitore deposita l’accordo firmato dai creditori aderenti, accompagnato da una relazione di un attestatore indipendente che certifica che l’accordo è idoneo ad assicurare l’integrale pagamento dei creditori estranei nei termini di legge e, in generale, che è fattibile. Può contestualmente chiedere al tribunale la sospensione temporanea delle azioni esecutive (misure protettive) mentre si avvicina all’omologa – NB: se è un accordo agevolato 30%, non sono concesse misure protettive, come da vincolo normativo, perché tanto i dissenzienti vanno pagati subito. Il tribunale pubblica il ricorso e fissa un termine per eventuali opposizioni di creditori estranei o dissenzienti (che però possono contestare solo la convenienza rispetto al fallimento, non potendo pretendere di più di quanto spetterebbe loro in caso di liquidazione giudiziale). Se non vi sono opposizioni o queste vengono rigettate, il tribunale omologa l’accordo con decreto. Da quel momento, l’accordo omologato è giuridicamente efficace e vincolante per i creditori aderenti (e per quelli non aderenti delle categorie soggette a efficacia estesa, se del caso).
Effetti pratici per il debitore e esempio: Una volta omologato, il debitore esegue l’accordo come pattuito. Ad esempio, se l’accordo prevede che le banche A, B, C (aderenti con 70% crediti finanziari) rinuncino al 30% dei loro crediti e si accontentino del 70% pagato in 5 anni, e che i fornitori minori siano pagati in 3 mesi al 100%, allora il debitore dovrà corrispondere puntualmente tali somme. L’accordo gli ha permesso di ridurre l’indebitamento (stralciando il 30% con le banche) e di dilazionare il resto. I fornitori, pur non aderendo formalmente, vengono soddisfatti integralmente subito, per cui non subiscono danno. Le banche eventualmente dissenzienti in quella categoria vengono comunque trascinate (ad es., se B non firmava ma A e C avevano 80%, l’efficacia estesa la vincola a quell’accordo). Il risultato è che l’impresa può proseguire l’attività con un debito molto ridotto e sostenibile.
Un esempio concreto: la società Delta S.p.A. ha debiti per 10 milioni, di cui 6 verso tre banche e 4 verso vari fornitori. Trova un accordo con due banche (che hanno il 80% dell’esposizione bancaria totale) per una moratoria di 6 mesi e una ristructuring del loro credito con rimborso al 70%. La terza banca dissenziente (20%) viene coinvolta suo malgrado grazie alla regola del ≥75% finanziario: la moratoria di 6 mesi vale anche per lei. Nel frattempo, Delta paga regolarmente i fornitori minori (estranei) per mantenere rapporti. Presenta l’accordo al tribunale: i fornitori non oppongono nulla (liquidati integralmente), la terza banca oppone ma il giudice respinge l’opposizione perché l’accordo è conveniente (la banca riceverà 70% invece di forse 50% in caso di fallimento). Il tribunale omologa. Delta con questo ARD evita il fallimento, riduce il debito bancario, e dopo 6 mesi riprende i pagamenti secondo i nuovi patti, tornando in bonis.
Vantaggi e svantaggi dal lato debitore: Gli accordi di ristrutturazione presentano alcuni vantaggi notevoli: (a) Riservatezza – fino all’omologa, il procedimento non è pubblico (tranne eventuale protezione richiesta); (b) Flessibilità – il debitore può negoziare con chi è necessario e lasciare fuori chi può pagare, modellando l’accordo sulle proprie esigenze; (c) Rapidità – l’iter giudiziale è semplificato e di solito più veloce di un concordato; (d) Minor stigma – spesso l’azienda può presentare l’accordo come un “piano di rientro” piuttosto che come un quasi-fallimento; (e) Protezione limitata – l’esenzione da revocatoria: gli atti eseguiti in esecuzione dell’accordo omologato non sono soggetti a revocatoria fallimentare, ciò incentiva i creditori ad aderire senza timore (specie per rifinanziamenti, nuova finanza, ecc. c’è la safe harbour normativa).
Di contro, il principale limite è che richiede un elevato consenso: benché non totalitario, un 60% – o 30% + pagamento integrale dei restanti – non è sempre facile da raggiungere. Inoltre, finché non è omologato, un creditore estraneo può comunque tentare azioni esecutive (a meno di protective stay concesso, il che però è pubblicizzato e quindi svela la crisi). Anche dopo omologa, i creditori estranei conservano diritto di avere il 100% (entro 120gg) – quindi serve liquidità per soddisfarli.
La giurisprudenza negli anni ha affinato vari aspetti: ad es. la Corte di Cassazione ha chiarito che in sede di omologa l’accordo va valutato nel suo complesso di convenienza per i creditori estranei e che il controllo del giudice non si spinge alla verifica di fattibilità economica, demandata all’attestatore. Il correttivo-ter 2024 ha introdotto percentuali minime per il cram-down su Fisco/INPS (come detto, 30%/10%), recependo orientamenti giurisprudenziali.
In sintesi, per un debitore con una platea concentrata di creditori (ad es. solo banche), l’ARD è spesso la soluzione ideale: più agevole del concordato, meno costosa e con minor perdita di controllo. Rappresenta un modo di “dichiarare lo stato di crisi” in forma contrattuale invece che concorsuale: l’imprenditore riconosce le difficoltà e le supera sedendosi a tavolino coi creditori. Se c’è collaborazione reciproca, l’accordo può essere omologato in tempi brevi e ridare fiato all’azienda.
8. I piani attestati di risanamento
Il piano attestato di risanamento è lo strumento più snello e totalmente stragiudiziale previsto dall’ordinamento. Disciplina all’art. 56 CCII (già art. 67, co.3, lett. d) legge fall.), consiste in un piano di risanamento dell’impresa predisposto dall’imprenditore e attestato da un professionista indipendente circa la sua veridicità e fattibilità. Non prevede alcun intervento del tribunale né pubblicità. Il suo scopo principale è di permettere al debitore di effettuare operazioni di ristrutturazione del debito in via privata, godendo però di una tutela: gli atti, pagamenti e garanzie posti in essere in esecuzione di un piano attestato idoneo a risanare l’impresa non sono soggetti a revocatoria fallimentare (in caso poi di fallimento). È dunque un incentivo per i creditori a sostenere un risanamento extragiudiziale senza paura che, se la società fallisce lo stesso, i pagamenti ricevuti vengano revocati.
In cosa consiste un piano attestato? L’imprenditore, magari coadiuvato da un advisor finanziario, elabora un piano industriale e finanziario pluriennale volto a superare la crisi. Ad esempio, il piano può prevedere la ristrutturazione del debito (accordi individuali con banche per allungare i mutui, con fornitori per stralci sui crediti, ecc.), la dismissione di asset non strategici, l’ingresso di nuovi capitali, un periodo di cassa concordato, ecc. Il piano deve essere “idoneo a garantire il risanamento” dell’impresa e il riequilibrio finanziario. Un professionista indipendente (es. un commercialista esperto in crisi, diverso dagli eventuali consulenti che hanno redatto il piano) viene incaricato di verificare i dati aziendali e attestare in una relazione che: (a) i dati di partenza sono veritieri; (b) il piano è fattibile e ragionevolmente idoneo a risanare l’impresa e a assicurare il regolare pagamento dei debiti come da nuova scadenza. Questa “attestazione” fornisce credibilità al piano.
Cos’ha di speciale? Il piano attestato è un atto unilaterale del debitore (non richiede adesione formale di alcun creditore per esistere), ma di fatto coinvolge i creditori su base volontaria: l’imprenditore negozia individualmente con ciascun creditore critico e li convince ad accettare le modifiche proposte (es: banca A accetta di non revocare gli affidamenti e prorogare i prestiti, fornitore B accetta un pagamento parziale a saldo, ecc.). Spesso il piano viene poi “formalizzato” con accordi bilaterali: contratti di ristrutturazione bilaterali, transazioni, nuova finanza erogata, ecc. Non c’è un voto collettivo: ogni creditore decide per sé. I creditori che non aderiscono rimangono con i loro diritti invariati, e il debitore li dovrà comunque pagare regolarmente (o includere in eventuale successivo concordato se il piano fallisse).
Il grande vantaggio è la riservatezza totale e la rapida esecuzione: il piano non viene reso pubblico (non serve deposito da nessuna parte, anche se prassi vuole che almeno la data certa dell’attestazione venga ottenuta depositando il piano presso il registro imprese in busta chiusa, per poter dimostrare a posteriori l’esistenza del piano in una certa data e usufruire dell’esenzione da revocatoria). Inoltre, il debitore evita i costi e le rigidità delle procedure concorsuali. Può modulare gli accordi con flessibilità massima, senza dover sottostare a percentuali minime di legge (si può anche fare un piano che paga i chirografari al 5%, purché quelli chiave accettino e l’attestatore ritenga che così si risana). Il trade-off è che nessun effetto protettivo automatico è concesso: se un creditore non sta alle intese e vuol agire esecutivamente, non c’è uno “scudo” come nel concordato.
Quando usarlo? Il piano attestato è indicato quando la crisi è ancora gestibile in modo consensuale con i principali creditori e si prevede un risanamento completo (non solo una liquidazione parziale). Spesso è utilizzato in situazioni “borderline”: ad esempio per evitare di innescare obblighi di riduzione capitale per perdite, i soci immettono capitali freschi e le banche rischedulano i debiti a medio termine, il tutto formalizzato in un piano attestato di risanamento. È uno strumento tipicamente usato dalle imprese che vogliono evitare di apparire insolventi: dal momento che non c’è pubblicità, l’azienda continua a presentarsi sul mercato come solvente, mentre in back-office ristruttura il debito. Ovviamente serve la fiducia dei creditori: questi accettano su base volontaria di sacrificare parte dei loro diritti confidando che l’impresa si riprenda (spesso perché l’alternativa – farla fallire – darebbe loro un risultato peggiore).
Esempio: Gamma S.r.l. ha accumulato perdite e uno stock di debiti scaduti con fornitori. Tuttavia, ha buone commesse future. I soci decidono di investire €200k per ricapitalizzare. Viene redatto un piano triennale: prevede la riduzione dei costi, il consolidamento di un debito bancario con nuova linea a 5 anni, il pagamento parziale (50%) dei fornitori vecchi con risorse apportate dai soci e incassi futuri. Un esperto indipendente attesta che i numeri tornano e che l’azienda, con questi interventi, tornerà solvibile e pagherà regolarmente i debiti ristrutturati. Le banche e l’80% dei fornitori aderiscono informalmente: firmano accordi bilaterali di stralcio e dilazione. Alcuni piccoli fornitori, non aderenti, vengono comunque pagati per intero con le nuove risorse (il piano li considera “fuori piano”, pagati normalmente). Gamma esegue il piano, torna in utile e nessuno avvia azioni legali. Se per ipotesi Gamma dovesse fallire tra 2 anni, i pagamenti fatti ai fornitori in esecuzione del piano (es. il 50% a saldo del loro credito) non potranno essere revocati perché coperti dall’esenzione del piano attestato, avendo i requisiti di legge. Ciò dà sicurezza ai fornitori nell’accettare l’accordo.
Collegamento con gli altri strumenti: Il piano attestato può essere utilizzato anche in esito alla composizione negoziata: l’esperto può consigliare al debitore di predisporre un piano attestato fattibile e seguirne l’implementazione. Questo è frequente quando la crisi è risolvibile con pochi aggiustamenti e non richiede misure concorsuali. All’opposto, se il piano attestato fallisce (cioè se nonostante l’esecuzione, l’impresa ricade in crisi), allora si dovrà probabilmente ricorrere ad un accordo di ristrutturazione o concordato successivo. Un piano attestato ben fatto può costituire la base di un concordato: spesso l’azienda tenta prima un piano “privato”, e se i risultati sono insufficienti, trasforma quel piano in una domanda di concordato preventivo per imporlo anche ai dissenzienti.
In termini di tutela del debitore, il piano attestato è lo strumento più “artigianale” e libero, ma richiede grande cura: una attestazione non veritiera o incompleta può avere conseguenze (anche penali, per false attestazioni). Inoltre i creditori non coinvolti potrebbero comunque agire: pertanto il debitore deve essere certo di poterli gestire (pagandoli fuori piano, ad esempio). Non a caso, spesso il piano attestato si accompagna a patti di standstill informali anche con i non aderenti (ad es. tutti i finanziatori vengono messi al corrente e si impegnano informalmente a non aggredire l’impresa per un certo periodo, confidando nel risanamento).
In definitiva, il piano attestato rappresenta lo strumento di auto-aiuto per l’imprenditore in crisi: totalmente volontario e contrattuale, senza intervento giudiziario, adatto a crisi “lievi” o incipienti dove c’è ancora fiducia e margine di manovra. È la forma più pura di dichiarazione dello stato di crisi dal punto di vista del debitore: è il debitore stesso che, onestamente, riconosce la crisi, elabora una cura e la mette in atto con l’assenso individuale di chi necessario, evitando pubblicità e stigma. Richiede però disciplina e credibilità: non c’è rete di sicurezza se le cose vanno male.
9. Il Piano di Ristrutturazione Omologato (PRO)
Tra le novità di maggiore rilievo apportate dal recepimento della Direttiva UE 2019/1023 c’è l’introduzione, nel nostro ordinamento, del Piano di Ristrutturazione soggetto ad Omologazione, comunemente abbreviato in PRO. Disciplina dal Capo I-bis del Titolo IV CCII (artt. 64-bis, 64-ter, 64-quater), il PRO rappresenta un nuovo strumento concorsuale che consente al debitore di proporre ai creditori un piano di risanamento altamente flessibile, a patto di ottenere l’approvazione dello stesso da parte delle classi di creditori e l’omologazione del tribunale.
In sostanza, il PRO si presenta come un “concordato preventivo su misura”. La sua caratteristica distintiva è la possibilità di derogare alle regole legali di graduazione dei crediti – i principi di parità di trattamento e rispetto dell’ordine dei privilegi ex artt. 2740-2741 c.c. – distribuendo il valore generato dal piano in modo non strettamente proporzionale ai privilegi, bensì secondo quanto concordato nelle classi di creditori. In altre parole, con il PRO il debitore può proporre che taluni creditori privilegiati non vengano soddisfatti integralmente, oppure che alcuni creditori chirografari ricevano più di creditori di grado superiore, cose normalmente vietate (salvo consenso unanime) nei concordati preventivi. Questa elasticità nel trattamento dei crediti è consentita però a una condizione stringente: il piano deve essere approvato (a maggioranza) da tutte le classi di creditori che il debitore ha formato. Infatti, i creditori devono essere suddivisi in classi omogenee per posizione giuridica ed interesse economico, e il piano deve ottenere il voto favorevole della maggioranza dei crediti in ciascuna classe. Solo così il tribunale potrà omologarlo. Differenza chiave rispetto al concordato preventivo: in quest’ultimo è sufficiente la maggioranza del totale crediti e delle classi (col cram-down persino non tutte le classi devono dire sì), mentre nel PRO serve il consenso di tutte le classi – beninteso, consenso maggioritario all’interno di ciascuna classe, non unanimità individuale. Ciò significa che ogni categoria di creditori coinvolta deve essere persuasa dal piano, altrimenti il PRO non va in porto.
Per questo il PRO viene spesso descritto come un concordato “consensuale”. È pur sempre un procedimento concorsuale dinanzi al giudice, ma richiede un ampio accordo dei creditori, quasi come un accordo negoziale privato. In assenza di tale consenso, non c’è omologa: se anche una sola classe vota contro, il debitore dovrà optare per un concordato preventivo tradizionale (dove potrà tentare il cram-down su quella classe dissenziente, se ne ricorrono i presupposti).
A cosa serve quindi il PRO? Serve a dare uno strumento in più al debitore quando c’è consenso quasi unanime sul piano di ristrutturazione, ma quel piano per essere attuato richiede di derogare a regole legali altrimenti inderogabili. Ad esempio, immaginiamo un’impresa con due classi di creditori: banche con ipoteca e fornitori chirografari. Poniamo che tutti concordino su un piano dove le banche ipotecarie accettano un pagamento parziale (80%) e i fornitori ricevono una percentuale più alta (mettiamo 50%) se l’azienda continua, benché normalmente i fornitori (chirografari) dovrebbero venire dopo e prendere forse meno. Se tutte le classi (banche e fornitori) approvano, il PRO consente di omologare questa distribuzione “non lineare” del valore, considerata migliore nell’ottica del risanamento dell’azienda. Nel concordato normale una simile proposta sarebbe problematica perché violerebbe l’ordine dei privilegi (dando il 50% ai chirografi mentre i privilegiati prendono il 80% anziché 100%). Nel PRO invece è permesso, perché si basa sul consenso informato dei creditori.
In pratica, il PRO è pensato per ristrutturazioni complesse, dove per salvare l’impresa occorre la flessibilità massima nel trattare diversamente creditori diversi (ad esempio per coinvolgere nuovi investitori può servire convertire parte dei crediti in capitale, ecc.), ma al contempo il debitore ha la capacità di ottenere l’accordo di tutte le categorie di creditori su questo. In uno scenario del genere, il PRO evita di dover ricorrere a escamotage o classamenti forzati nel concordato preventivo: offre un veicolo ad hoc, con meno rigidità normative ma con la soglia di consenso più elevata possibile.
Procedura di PRO: Molto simile a un concordato preventivo in continuità: il debitore presenta ricorso con piano e attestazione, chiede l’apertura della procedura PRO, il tribunale fissa udienza per l’omologa direttamente (non essendoci voto formalmente in adunanza, perché le classi esprimono già il consenso). È previsto comunque che i creditori votino per classi – di fatto il meccanismo è identico al concordato, solo che serve l’unanimità delle classi. Anche qui si possono chiedere misure protettive interim (la legge ora le consente anche nel PRO). Una peculiarità: il PRO può convertirsi in concordato preventivo e viceversa. Se un debitore presenta un PRO e poi non ottiene tutte le classi consenzienti, su sua richiesta il tribunale può trattarlo come concordato preventivo (in modo da valutare eventuale omologa nonostante dissensi); al contrario, se presenta un concordato e ottiene tutte le classi concordi, può chiedere che si omologhi come PRO (questo recepisce la direttiva UE che chiedeva procedure flessibili).
Esempio d’uso del PRO: Una grande società ha obbligazionisti (chirografari), banche (garantite) e fornitori. Il piano di rilancio prevede che un investitore immetta nuovi capitali ma solo se i vecchi obbligazionisti convertiranno metà dei loro bond in quote di capitale, e le banche rinunceranno a parte delle garanzie. Inoltre, per premiare i fornitori che restano in rapporti, prevede di pagare interamente i fornitori strategici e tagliare di più altri creditori non strategici. Tutti i gruppi di creditori concordano (perché credono nel rilancio). Un concordato tradizionale avrebbe problemi: non si può imporre conversione forzata di debiti in equity, non si possono trattare diversamente chirografi di pari grado senza classi separate e relative majority rule. Col PRO, invece, si possono costruire classi su misura (es. obbligazionisti in una classe che accetta conversione 50%, banche in una classe che accetta haircuts su ipoteche, fornitori strategici in una classe che prende 100%, altri in classe con 30%), e se ogni classe vota sì a maggioranza, il tribunale omologa anche se il trattamento non rispetta la par condicio stretta. È uno strumento potente ma richiede quell’accordo multisoggetto.
In conclusione, il PRO dal punto di vista del debitore è un’arma in più per dichiarare e regolare la crisi quando si ha la fortuna/abilità di avere tutti i creditori (per gruppi) dalla propria parte. Si può quindi personalizzare il piano di salvataggio senza i vincoli rigidi di concordato e accordo di ristrutturazione, ottenendo però comunque un titolo giudiziario (l’omologa) che rende il piano obbligatorio erga omnes e protegge da successive aggressioni o revocatorie. Se invece manca il pieno consenso di una categoria, il debitore dovrà ripiegare sugli strumenti tradizionali (concordato o ARD) che prevedono meccanismi di cram-down per superare i dissensi.
10. La liquidazione giudiziale (il “nuovo fallimento”)
Nonostante l’enfasi del Codice sul salvataggio e la ristrutturazione, rimane naturalmente la procedura destinata ai casi in cui l’insolvenza non può essere né evitata né composta: la liquidazione giudiziale. La liquidazione giudiziale è il nuovo nome dato al fallimento, e ne ricalca in larga parte struttura e finalità, pur introducendo alcuni aggiornamenti terminologici e procedurali. Dal punto di vista del debitore, la liquidazione giudiziale rappresenta lo scenario peggiore, quello da evitare attivando per tempo gli strumenti di allerta e concordatari. Tuttavia, se si giunge all’insolvenza conclamata senza alcuna soluzione alternativa, la liquidazione giudiziale ha il merito di cristallizzare la situazione e di avviare un processo ordinato di dismissione del patrimonio sotto controllo giudiziario, garantendo (per quanto possibile) parità di trattamento dei creditori.
Presupposti e apertura della procedura. La liquidazione giudiziale si apre quando ricorrono i presupposti di insolvenza (art. 121 CCII) e viene attivata tramite un ricorso al tribunale. Possono chiedere l’apertura il debitore stesso (che “si dichiara fallito” in proprio, cosa rara ma possibile, ed eventualmente auspicabile se vuole ottenere subito l’esdebitazione), uno o più creditori, o il Pubblico Ministero (in presenza di interesse pubblico, ad es. insolvenza di grande impresa). Sono soggetti passivi della liquidazione gli imprenditori commerciali sopra le soglie di fallibilità e tutti gli altri debitori previsti dall’art. 121. Restano esclusi gli imprenditori minori, l’imprenditore agricolo, i professionisti e consumatori (per i quali vi è la parallela “liquidazione controllata” di cui diremo più avanti). Il procedimento è simile al vecchio fallimento: il tribunale convoca l’imprenditore per un’udienza prefallimentare, accerta lo stato di insolvenza e – se ne ricorrono i presupposti – dichiara l’apertura della liquidazione giudiziale con sentenza. La sentenza di apertura nomina gli organi della procedura: un giudice delegato (magistrato che la sovrintende) e soprattutto un curatore (professionista, di regola commercialista o avvocato, che gestirà la procedura). Inoltre ordina al debitore (se persona fisica) il ritiro del passaporto e altri documenti di espatrio, ne dispone eventualmente la custodia dei beni, etc., e fissa termini per l’insinuazione dei crediti.
Effetti per il debitore. La conseguenza immediata più impattante è il cd. spossessamento: il debitore è privato dell’amministrazione e della disponibilità dei suoi beni, presenti e futuri. Ciò significa che l’imprenditore non può più gestire l’azienda né disporre del patrimonio: subentra il curatore, che esercita anche eventuali azioni legali in sua vece. Gli atti compiuti dal debitore dopo la sentenza sono nulli. Inoltre, i creditori concorsuali (quelli con crediti anteriori) non possono più iniziare né proseguire azioni esecutive individuali, né acquisire cause di prelazione (pegni, ipoteche) su beni del debitore, pena nullità. È il c.d. automatic stay concorsuale, che concentra nell’unica procedura tutte le pretese creditori. I debiti cessano di produrre interessi (salvo i crediti privilegiati, nei limiti di capienza delle garanzie). Il nome dell’imprenditore persona fisica viene annotato in appositi registri (Registro delle imprese, casellario fallimentare) per trasparenza.
Dal punto di vista personale, l’imprenditore fallito (se persona fisica, e se con fallimento di una certa rilevanza) subisce alcune incapacità: non può per tutta la procedura esercitare attività d’impresa, non può ricoprire cariche societarie, perde temporaneamente il diritto di voto se persona fisica (incapacità che comunque cessa con l’esdebitazione). Non esiste più il reato di bancarotta semplice per chi ritarda il fallimento, ma restano i reati di bancarotta fraudolenta se l’insolvenza è aggravata da atti distrattivi.
Svolgimento in sintesi: Dopo la dichiarazione, i creditori devono presentare entro un termine (30-60 giorni) la domanda di insinuazione al passivo al curatore. Il curatore raccoglie tutte le domande, verifica i crediti e redige lo stato passivo. Viene tenuta un’udienza di verifica in cui il giudice delegato decide su eventuali contestazioni (crediti ammessi, esclusi, riservati). Intanto, il curatore predispone un programma di liquidazione: decide cosa vendere e come (es. asta competitiva per beni, oppure esercizio provvisorio dell’azienda se opportuno, ecc.). Dopo l’approvazione del programma, procede a liquidare i beni: vendite all’asta, cessioni di crediti, ecc. Man mano che si ricavano somme, il curatore effettua riparti ai creditori secondo l’ordine di prelazione: prima si pagano le spese prededucibili (in primis i compensi della procedura), poi eventuali creditori con pegni/ipoteche (nei limiti del ricavato dai beni dati in garanzia), poi creditori privilegiati (per il residuo non coperto dalle garanzie), infine i chirografari in proporzione. Spesso si fanno più riparti (parziali e uno finale). Al termine, il curatore presenta il rendiconto finale e, eseguiti i riparti, la procedura viene chiusa con decreto di chiusura.
Esdebitazione del fallito. Una delle innovazioni più favorevoli al debitore introdotta negli ultimi decenni – e mantenuta dal CCII – è la possibilità per l’imprenditore persona fisica di ottenere l’esdebitazione, ossia la liberazione dai debiti residui non pagati in procedura. L’esdebitazione (artt. 278-279 CCII) può essere concessa dal tribunale su istanza del debitore, se questi ha cooperato lealmente, non ha commesso irregolarità gravi e non è stato già esdebitato di recente. Non è subordinata al pagamento di una percentuale minima ai creditori (la Cassazione ha confermato che anche chi non paga nulla può essere esdebitato, se meritevole), a differenza del passato. L’esdebitazione restituisce al debitore la piena capacità e lo libera dall’incubo dei debiti pregressi, permettendogli un nuovo inizio (principio di fresh start). Questa è una forte spinta a incentivare i falliti onesti a riprovare nell’attività economica e a non operare nell’ombra per evitare creditori.
Differenze con la vecchia legge e aspetti particolari: La liquidazione giudiziale, al di là del nome, ricalca molto il fallimento. Vale la pena segnalare che il CCII ha introdotto la figura del “certificato dei debiti insoddisfatti” con cui, a fine procedura, i creditori possono far valere eventuali residui verso coobbligati o fideiussori del fallito (prima era la “chiusura per insufficienza attivo” a permetterlo). Inoltre, è prevista la possibilità di chiusura anticipata della liquidazione se non ci sono attivo o se i costi superano benefici, e la possibilità di esdebitazione immediata di diritto per il piccolo debitore persona fisica “meritevole” anche senza attendere la fine (in alcune circostanze per facilitare il reinserimento).
Dal punto di vista del debitore, la liquidazione giudiziale significa la perdita totale del controllo dell’azienda e del patrimonio. Per un imprenditore, specialmente persona fisica o piccolo imprenditore, è spesso vissuta come una sconfitta personale. Tuttavia, il Codice cerca di attenuare l’aspetto punitivo del vecchio fallimento: l’accento è posto sulla soluzione ordinata della crisi, più che sulla punizione del fallito. L’esdebitazione è ora più accessibile e automatica, e il termine “fallito” è stato espunto dal linguaggio legislativo, sostituito da “debitore assoggettato a liquidazione giudiziale”. Permangono comunque, per esigenze di tutela del mercato, alcune restrizioni temporanee (non poter avviare nuova impresa senza soddisfare certe condizioni, etc.).
In sintesi, la liquidazione giudiziale è il “piano B” (o piano Z…) quando la crisi non è stata né prevenuta né curata per tempo: è dichiarare lo stato di crisi al suo stadio finale, lasciando che sia l’ordinamento a gestire lo spossessamento e il pagamento parziale dei creditori col patrimonio residuo. Tutto ciò che il debitore poteva fare prima (allerta, accordi, concordati) è finalizzato ad evitare questo esito. Se non ci è riuscito, il Codice comunque gli offre, a fine percorso, una chance di risollevarsi con l’esdebitazione, imparando dalla lezione per il futuro.
11. Procedure per le piccole imprese e il sovraindebitamento
Le procedure fin qui esaminate (concordato, accordi, liquidazione giudiziale) si applicano agli imprenditori commerciali assoggettabili al fallimento, cioè in generale alle imprese sopra certe soglie dimensionali. Ma il Codice della Crisi, coerentemente con l’intento di universalizzare gli strumenti di soluzione delle crisi, dedica un intero Titolo (Titolo IV) alle procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento, destinate ai debitori non fallibili. Rientrano in questa categoria: gli imprenditori minori sotto soglia, l’imprenditore agricolo, i professionisti, le start-up innovative, le persone fisiche consumatrici, e in genere ogni debitore civile che non possa essere soggetto a liquidazione giudiziale. In passato, tali soggetti avevano una disciplina separata (legge n. 3/2012), ora completamente integrata nel CCII.
Dal punto di vista del debitore non fallibile, le procedure disponibili sono analoghe nelle finalità a quelle viste per i fallibili, ma semplificate e adattate:
- Concordato minore (artt. 74-83 CCII): è la versione “mini” del concordato preventivo, destinata agli imprenditori minori e agli altri debitori non fallibili con debiti di origine imprenditoriale o professionale. È chiamato “minore” perché riguarda debiti che non derivano da obbligazioni da attività di consumo (per i consumatori c’è uno strumento a parte). In sostanza, è una procedura concorsuale che permette al piccolo imprenditore insolvente di proporre ai creditori un piano di ristrutturazione, anche con continuità aziendale, analogo al concordato preventivo. Le regole sono però più flessibili: ad esempio, non è previsto un limite minimo di soddisfacimento del 20% per i chirografari come nel concordato preventivo liquidatorio (limite che il correttivo-ter ha peraltro abbassato o eliminato in tal sede), e le formalità sono ridotte. Si parla di concordato “minore” perché destinato a realtà piccole, ma lo scopo primario è consentire la continuità quando possibile. Il piano di concordato minore può prevedere la liquidazione o la continuità dell’azienda, analogamente al concordato grande, e anche qui occorre la maggioranza dei crediti per essere approvato. Una differenza importante è che nel concordato minore tutti i debitori non fallibili possono accedervi se svolgono attività d’impresa o professionale, mentre il consumatore puro no (per lui c’è il piano del consumatore). In pratica, il concordato minore è l’analogo del concordato preventivo per il piccolo imprenditore: ne condivide la struttura (domanda, eventuale omologa anche con opposizioni, ecc.), con adattamenti sui quorum (i voti possono esprimersi anche in forme semplificate). Ad esempio, non è previsto un termine fisso per esprimere il voto come nel concordato preventivo, ciò per renderlo più snello.
- Ristrutturazione dei debiti del consumatore: è la procedura specifica per la persona fisica consumatore, cioè che ha contratto obbligazioni estranee all’attività imprenditoriale. È anch’essa un accordo concorsuale, che però non prevede voto dei creditori: il consumatore propone un piano di rientro dei suoi debiti (es. pagamento parziale con stipendio futuro) e il tribunale può omologarlo se lo ritiene fattibile e se i creditori ottengono almeno quanto otterrebbero nella liquidazione. I creditori possono opporsi, ma non votano; conta la meritevolezza del consumatore e la convenienza del piano per loro. Questo strumento è l’evoluzione del “piano del consumatore” della legge 3/2012, pensato per famiglie sovraindebitate che vogliono evitare il pignoramento totale dei beni proponendo un rientro sostenibile.
- Accordo di composizione per i sovraindebitati: il CCII prevede che anche un debitore non fallibile possa seguire la strada di un accordo con i creditori, simile agli accordi di ristrutturazione, ma con quorum differenti. Sostanzialmente, anche qui c’è un meccanismo di voto: se i creditori che rappresentano 60% dei crediti approvano il piano proposto dal debitore sovraindebitato, il tribunale può omologarlo e renderlo vincolante anche per i dissenzienti, con eventuale cram-down sui creditori pubblici analogamente agli ARD. Questa procedura era già presente come “accordo di composizione” nella legge 3/2012 e viene ora chiamata semplicemente concordato minore quando c’è attività d’impresa (la terminologia infatti è stata razionalizzata: il concordato minore copre l’accordo per l’imprenditore minore, mentre per il consumatore c’è il piano del consumatore che non ha voto).
- Liquidazione controllata del sovraindebitato (artt. 268-277 CCII): è la versione per i non fallibili della liquidazione giudiziale. Viene aperta su richiesta del debitore stesso sovraindebitato o di un creditore, e consiste nella liquidazione di tutti i beni con procedure analoghe al fallimento, ma condotta da un liquidatore nominato dal tribunale e con regole semplificate. Ad esempio, qui spesso opera un Organismo di Composizione della Crisi (OCC) locale che aiuta il giudice nella gestione del caso. La liquidazione controllata permette anche al debitore persona fisica sovraindebitato di ottenere l’esdebitazione finale, con criteri di meritevolezza analoghi all’esdebitazione del fallito ma ancora più favorevoli: addirittura il CCII ha introdotto l’esdebitazione del sovraindebitato incapiente, ossia la possibilità per chi non ha nulla da distribuire di essere esdebitato comunque, una volta nella vita, se soddisfa certe condizioni di meritevolezza. Questo è un istituto di grande umanità che riconosce il “fallimento di fatto” del debitore civile, liberandolo dai debiti definitivamente per dargli una seconda chance, pur senza nessun pagamento (è l’esdebitazione del debitore totalmente incapiente, possibile grazie alla Dir. 2019/1023 sui consumatori).
- Ruolo degli OCC: Una peculiarità delle procedure da sovraindebitamento è il coinvolgimento degli Organismi di Composizione della Crisi (OCC), istituiti presso gli Ordini professionali o gli enti pubblici, che fungono da ausilio tecnico. L’OCC nomina un gestore che aiuta il debitore a predisporre il piano o l’accordo, verifica i requisiti, e svolge un po’ le funzioni che nel fallimento svolge il curatore/commissario. Questo per supportare i debitori più piccoli, spesso privi di assistenza qualificata. Con il CCII, gli OCC restano centrali nelle procedure minori, e sono spesso gli stessi attivati per la composizione negoziata (presso Camere di Commercio).
Dal punto di vista dell’imprenditore individuale sotto soglia o della piccola società di persone, le procedure di sovraindebitamento ora integrate nel Codice rappresentano un enorme passo avanti: prima del 2012 tali soggetti non avevano alcuna procedura concorsuale disponibile – di fatto restavano in un “limbo” con debiti impagabili a vita, salvo accordi privati o pignoramenti a oltranza. Ora, invece, anche il piccolo imprenditore può dichiarare formalmente il proprio stato di crisi e accedere a una procedura giudiziale per regolarlo. Può proporre un concordato minore, e se i creditori maggiori sono d’accordo, ottiene l’omologazione e taglia i debiti. Oppure, se proprio non ce la fa, può subire/attivare una liquidazione controllata e comunque, dopo aver messo a disposizione i (pochi) beni, liberarsi dei debiti residui con l’esdebitazione. Questo consente anche ai piccoli di avere quel fresh start tipico degli imprenditori fallibili.
Differenze dal regime per grandi imprese: In generale, le procedure minori sono più semplificate, i termini sono più brevi, e vi è maggiore attenzione alla persona del debitore. Ad esempio, nel concordato minore il giudice valuta molto la meritevolezza (se il debitore ha colposamente causato il sovraindebitamento, può rigettare l’omologa anche se i creditori sono favorevoli, cosa non prevista nel concordato grande dove conta più la volontà dei creditori). Questo perché spesso trattasi di situazioni con profili psicologici/sociali (es. famiglia che ha fatto il passo più lungo della gamba con i prestiti).
Sentenze rilevanti aggiornate: In questo ambito, si segnala una recente decisione costituzionale (o di legittimità) che ha confermato la legittimità dell’esdebitazione dell’incapiente – misura discussa perché dà esdebitazione anche a chi non paga nulla, ma ritenuta conforme ai principi di proporzionalità ed uguaglianza, vista la funzione riabilitativa della norma (favor debitoris). Inoltre, la giurisprudenza di merito ha evidenziato come il concordato minore in continuità possa essere ammesso anche se non vi sono prospettive di pagare molto i creditori, purché vi sia l’utilità sociale di salvare l’azienda e un miglior soddisfacimento rispetto alla liquidazione: ciò mostra un orientamento pro-conservazione anche per le piccole realtà.
In conclusione, l’imprenditore di qualsiasi dimensione oggi ha a disposizione strumenti per affrontare la crisi. Se è grande, avrà composizione negoziata, concordati, accordi o al limite amministrazione straordinaria (per grandissime imprese insolventi strategiche). Se è piccolo, avrà concordato minore, accordi minori o la liquidazione controllata. In tutti i casi, il sistema mira a evitare l’irresponsabilità (nessuno può più “scappare dai debiti”: esiste una procedura anche per il più piccolo) ma anche a dare una seconda opportunità (tramite esdebitazione, possibilità di salvare l’attività se sostenibile, ecc.).
12. Esempi pratici di dichiarazione di crisi per diverse tipologie d’impresa
Dopo aver esposto la teoria e le procedure, può essere utile illustrare – con un taglio pratico – come un debitore dichiari e gestisca lo stato di crisi in alcuni scenari tipici, variando la forma giuridica e la dimensione dell’impresa. Di seguito proponiamo quattro casi simulati, corrispondenti ad altrettante tipologie: una S.r.l. (società a responsabilità limitata) di medie dimensioni, una S.p.A. (società per azioni) più grande, una piccola impresa individuale artigiana, e una cooperativa. Ciascun esempio mostrerà il percorso seguito dal debitore, dal momento in cui rileva la crisi alla conclusione della procedura attivata, evidenziando gli strumenti utilizzati e le particolarità dovute alla forma d’impresa.
Caso 1: S.r.l. manifatturiera di medie dimensioni – risanamento tramite composizione negoziata e concordato in continuità.
- Situazione iniziale: Alfa S.r.l. è un’azienda manifatturiera toscana (50 dipendenti, fatturato €10 milioni) che produce macchinari. Negli ultimi anni accumula perdite per calo di ordini e investimenti sbagliati; nel bilancio semestrale emergono indici di crisi: il DSCR a 6 mesi scende sotto 1 e i debiti verso fornitori scaduti 90gg superano quelli correnti. Gli amministratori, avvertiti anche dal collegio sindacale (organo di controllo interno), dichiarano lo stato di crisi al C.d.A. e ai soci: riconoscono cioè formalmente che l’azienda è in difficoltà e occorre attivare misure straordinarie. Nel farlo, adempiono agli obblighi di allerta interna. Decidono quindi di tentare il salvataggio.
- Allerta interna e composizione negoziata: Il C.d.A. convoca immediatamente l’assemblea dei soci per informarli ai sensi dell’art. 2086 c.c. della situazione. Viene deliberato di accedere alla composizione negoziata della crisi. Alfa S.r.l. invia tramite la piattaforma telematica la richiesta, allegando una prima bozza di piano di risanamento (che ipotizza una ristrutturazione del debito e il mantenimento in funzione dei reparti chiave) e una checklist di quali operazioni urgenti servono. Entro pochi giorni viene nominato l’esperto indipendente, il dott. B, esperto contabile. Questi, esaminati i numeri, convoca Alfa e i principali creditori (banche finanziatrici e fornitori strategici) e si avvia una trattativa riservata. Nel frattempo Alfa ottiene dal tribunale, su istanza, l’attivazione di misure protettive: il tribunale con decreto inibisce ai creditori (banche e altri) di iniziare o proseguire esecuzioni per 4 mesi, così nessuno può pignorare i macchinari né le merci in magazzino. Ciò dà “respiro” all’azienda.
- Esito delle trattative: Dopo 2 mesi di confronto, con la regia dell’esperto B, Alfa raggiunge un accordo di massima con: le banche (moratoria di un anno sui rimborsi mutui e disponibilità a una conversione di parte credito in quote societarie), i fornitori (accettano uno stralcio 30% dei loro crediti e pagamento del 70% residuo dilazionato in 2 anni), un investitore esterno (disposto a ricapitalizzare la società con €1 milione per avere il 30% delle quote, a condizione di pulizia dei debiti). Questo accordo viene formalizzato in un piano concordatario: i creditori chirografari (fornitori) saranno soddisfatti al 70%, le banche al 100% ma con scadenze allungate e dando equity in cambio di interessi, l’investitore entra con i fondi freschi. Il tutto garantirebbe la continuazione dell’attività (continuità diretta, mantenendo 45 dipendenti su 50).
- Passaggio al concordato preventivo: L’esperto B valuta che l’accordo è positivo ma nota che non tutti i fornitori sono d’accordo (un 20% di crediti è in mano a fornitori che non hanno partecipato o che non accettano lo stralcio). Dato che serve vincolare anche questi dissenzienti per avere successo, consiglia di “istituzionalizzare” l’accordo con un concordato preventivo. Alfa S.r.l., su suggerimento dell’esperto, deposita ricorso per concordato preventivo in continuità presso il tribunale competente. Allegati ci sono: il piano dettagliato (che ricalca l’accordo negoziato), la proposta (pagare 70% ai chirografari in 2 anni, integrale banche a scadenze prorogate, continuità aziendale con piano industriale allegato), e la relazione di un attestatore indipendente che certifica la fattibilità e la convenienza del piano (confrontando con ipotesi liquidatoria). Il tribunale ammette Alfa al concordato, nomina un commissario giudiziale, e fissa l’adunanza dei creditori.
- Votazione e omologazione: Grazie al lavoro preparatorio, nella votazione quasi tutti i creditori votano sì: le banche (classificate in classe separata) approvano unanimemente; i fornitori chirografari votano a grande maggioranza (80% in credito, segno che solo pochi piccoli dissenzienti restano). Si raggiunge la maggioranza abbondantemente. Il tribunale, esaminato il rispetto dei requisiti (nota che è offerto il 70% ai chirografi, quindi ben sopra il minimo 20%; c’è l’apporto dell’investitore di €1M, superiore al 10% attivo), omologa il concordato preventivo. I pochi fornitori contrari vengono comunque vincolati: riceveranno il 70% dilazionato come gli altri e non potranno agire per il resto.
- Esecuzione e uscita dalla crisi: Omologato il concordato, Alfa S.r.l. dà esecuzione al piano: l’investitore immette €1M nei tempi previsti, i debiti verso fornitori vengono pagati trimestralmente secondo scadenziario, le banche ottengono le azioni concordate e posticipano rate mutui. L’azienda prosegue l’attività, l’anno successivo torna in utile grazie anche alla nuova finanza. A tre anni dall’omologa, Alfa ha pagato integralmente quanto dovuto ai creditori secondo il piano, estinguendo il concordato. I debiti residui stralciati (30%) sono definitivamente perdonati. La crisi è risolta con successo: l’impresa è salva, i creditori hanno avuto un soddisfacimento dignitoso (molto migliore che nel fallimento, stimato al 40%), i lavoratori conservano il posto. L’imprenditore (i soci originari) ha diluito la propria quota al 70% ma continua l’attività. Questo caso mostra un uso virtuoso della composizione negoziata come preludio a un concordato, realizzando il favor continuitatis.
Caso 2: S.p.A. commerciale di grandi dimensioni – accordo di ristrutturazione “misto” e PRO con tutte le classi consenzienti.
- Situazione iniziale: Beta S.p.A. è una società di distribuzione all’ingrosso (settore alimentare) con fatturato €80 milioni e 200 dipendenti in varie filiali. Ha debiti molto elevati: 30 milioni con banche (vari istituti, mutui e fidi), 10 milioni verso fornitori, e un prestito obbligazionario di 15 milioni sottoscritto da investitori istituzionali. Nel 2024 subisce una crisi di liquidità gravissima per il fallimento di un suo importante cliente; Beta diventa insolvente (non paga più fornitori né banche da 2 mesi). I suoi indici di allerta sono tutti rossi: debiti fornitori > 90gg, esposizione oltre fidi… Inoltre l’Agenzia Entrate invia una segnalazione ex art. 25-novies perché Beta ha IVA non versata > €1 milione. Il CdA dichiara lo stato di crisi conclamata e decide di procedere in modo coordinato: convoca immediatamente i creditori principali (banche, rappresentanti obbligazionisti, fornitori maggiori) per comunicare la situazione e chiedere standstill.
- Nessun tempo per la composizione negoziata formale: Data l’urgenza (ci sono pignoramenti minacciati), Beta opta per una soluzione rapida: anziché attivare la composizione negoziata (che richiederebbe qualche settimana), tenta direttamente di negoziare un accordo di ristrutturazione dei debiti in via privata. Con l’aiuto di un advisor finanziario, propone ai creditori un piano: banche e obbligazionisti convertirebbero parte (20%) dei loro crediti in azioni di Beta (diventando così soci in quota), i fornitori accetterebbero un taglio del 30% pagato entro 6 mesi, un investitore terzo (una catena concorrente) apporterebbe nuova finanza per €5 milioni per rilevare il 51% di Beta e integrarla nel suo gruppo. Questo piano è molto particolare perché prevede trattamenti non lineari (ad es. alcuni fornitori strategici sarebbero pagati interamente, altri non strategici al 50%). Tuttavia, tutti i creditori principali si dichiarano d’accordo in linea di massima con queste misure, preferendole alla perdita totale in caso di fallimento di Beta.
- PRO anziché concordato o ARD: Dato che vi sono classi diverse di creditori (banche, obbligazionisti, fornitori strategici e non) e il piano prevede eccezioni all’ordine normale dei crediti (privilegiati bancari non integrali, chirografi strategici favoriti su altri), Beta S.p.A. sceglie lo strumento del Piano di Ristrutturazione Omologato (PRO) per dare veste legale all’intesa. Predispone con i legali un accordo di ristrutturazione molto dettagliato che tutti i creditori firmano: di fatto anticipa l’esito. Quindi presenta ricorso al tribunale chiedendo l’omologa di un PRO ex art. 64-bis: forma 4 classi (1: banche; 2: obbligazionisti; 3: fornitori strategici; 4: fornitori residuali) e allega il piano con i trattamenti concordati. Tutte le classi, avendo già aderito, votano sì (maggioranza schiacciante all’interno di ciascuna). Il tribunale verifica che tutte le classi hanno approvato e che nessuna lamenta violazione di convenienze (tutti consapevoli delle deroghe e consenzienti). Nonostante i fornitori residuali prendano solo 50% mentre i fornitori strategici 100%, essendo classi diverse e avendo entrambe accettato, il giudice può omologare. Omologa il PRO, autorizzando anche ante omologa (come da art. 64-bis CCII modificato dal correttivo-ter) la cessione di un ramo d’azienda a favore dell’investitore terzo, essendo parte integrante del piano e migliorativa per creditori (continuità indiretta).
- Esecuzione e esito: Con l’omologa, Beta attua subito il piano: l’investitore versa €5 milioni e rileva il ramo d’azienda (assorbendo anche 120 dipendenti su 200); i fornitori strategici vengono pagati regolarmente, quelli residuali ricevono un bonifico del 50% a saldo (entro 3 mesi dall’omologa); le banche e obbligazionisti vedono convertito formalmente il 20% dei loro crediti in azioni Beta (diventando azionisti di minoranza insieme all’investitore), per il resto 80% rimanente dei crediti viene rifinanziato con nuove scadenze. Beta S.p.A., ridimensionata e integrata nel gruppo dell’investitore, prosegue l’attività seppur in scala minore. La crisi è risolta evitando il fallimento, grazie a un ampio accordo negoziale formalizzato via PRO. In questo caso il debitore ha dichiarato e risolto la crisi senza passare per voti concorsuali ordinari, ma con uno strumento consensuale rafforzato. I creditori dissenzienti praticamente non esistevano, perché Beta si è mossa solo quando aveva tutti “a bordo” – ciò ha salvato più valore.
Caso 3: Impresa individuale artigiana sotto-soglia – liquidazione controllata e esdebitazione.
- Situazione iniziale: Carlo è un artigiano idraulico (ditta individuale, 3 dipendenti). Negli anni si è indebitato per acquistare attrezzature e un furgone; inoltre ha debiti personali (mutuo casa e prestiti di consumo). Non essendo un imprenditore grande, non è soggetto agli obblighi di nomina revisore ecc., ma comunque avrebbe dovuto monitorare i conti. Purtroppo, a causa di malattia e lockdown, Carlo accumula €150.000 di debiti (fornitori materiali idraulici €40k, banca €50k, Fisco €30k, resto vari). Le entrate calano e Carlo diventa sovraindebitato: non riesce più a pagare rate e fornitori. Nessuno strumento di allerta formale lo avvisa (non ha sindaci, e i creditori pubblici lo segnalano tardivamente quando ha già debiti INPS e IVA arretrati). Quando riceve ingiunzioni e pignoramenti su conto, riconosce di essere insolvente e cerca aiuto da un OCC (Organismo composizione crisi) locale.
- Scelta della procedura minore: Carlo, consigliato dall’OCC, potrebbe tentare un concordato minore, ma la sua attività non è più tanto sostenibile: i dipendenti se ne sono andati e lui pensa di chiudere bottega e cercare lavoro dipendente. Dunque, opta per la liquidazione controllata del proprio patrimonio (equivalente del fallimento). L’OCC lo assiste nel presentare ricorso al tribunale per l’apertura della liquidazione controllata da sovraindebitamento, offrendo i suoi beni: un furgone, l’attrezzatura e pochi risparmi.
- Procedura di liquidazione controllata: Il tribunale dichiara aperta la liquidazione controllata di Carlo. Nomina un liquidatore (in realtà l’OCC stesso gestisce la liquidazione). Vengono notiziati i creditori perché presentino le loro domande. In breve tempo, il liquidatore vende il furgone (€10k) e l’attrezzatura (€5k). Incassa magari il TFR e qualche credito residuo (€5k). Il totale attivo ricavato è €20k. Le spese procedurali sono €3k. Restano €17k da distribuire: andranno prima a pagare parzialmente il privilegio dello Stato (IVA, che è per fortuna solo €5k quindi paga integrale con privilegio), qualcosa a INPS, e il resto, molto poco, ai fornitori chirografari (riceveranno forse il 10% in tutto). Alla fine, oltre €120k di debiti rimarranno insoddisfatti.
- Esdebitazione di Carlo: Una volta chiusa la liquidazione, Carlo – che si è comportato correttamente e non ha aggravato la posizione – chiede al tribunale l’esdebitazione. Il tribunale gliela concede, constatando che è meritevole (i debiti derivavano da eventi sfortunati, non da dolo). Grazie a ciò, Carlo viene liberato da tutti i debiti residui. Egli perde i beni che aveva (furgone etc.), ma i creditori non potranno più avanzare pretese per la parte non pagata.
- Risultato: Carlo chiude la sua partita IVA di artigiano, ma esce dal tunnel dei debiti. Trova un impiego come idraulico dipendente in una ditta più grande. I creditori hanno avuto poco, ma comunque un processo trasparente e paritario. Questo esempio mostra come un piccolo imprenditore dichiara lo stato di crisi rivolgendosi all’autorità giudiziaria e utilizzando gli strumenti di sovraindebitamento: in sostanza per lui è stato come “fallire” però in modo guidato dalla legge – e con la pulizia finale dei debiti, che altrimenti l’avrebbero perseguitato a vita. Senza la legge sul sovraindebitamento, probabilmente i creditori avrebbero pignorato magari la casa o lo stipendio futuro di Carlo per decenni, con sofferenza per tutti.
Caso 4: Società cooperativa in crisi – concordato preventivo e passaggio a liquidazione coatta amministrativa.
- Situazione iniziale: Delta Società Cooperativa è una cooperativa di produzione lavoro (40 soci-lavoratori, settore confezionamento alimentare). Perdita di commesse e problemi gestionali la portano in insolvenza (debiti verso banche €2M, fornitori €1M, debiti con soci per ristorni €0.5M). Le cooperative, se insolventi, sono soggette di regola a liquidazione coatta amministrativa (LCA) disposta dal Ministero dello Sviluppo Economico, piuttosto che a fallimento, data la natura mutualistica. Tuttavia, Delta coop decide di provare comunque una soluzione concordataria volontaria: i vertici convocano l’assemblea sociale e dichiarano lo stato di crisi ai soci, decidendo di presentare un concordato preventivo. Anche le coop possono, infatti, accedere a concordato (non essendo escluse) prima di un’eventuale LCA ministeriale.
- Concordato preventivo tentato: Delta coop propone un concordato liquidatorio: cessazione attività, vendita impianti, soddisfacimento creditori con apporto di una centrale cooperativa di secondo livello disposta a intervenire. Presenta il ricorso. Il tribunale ammette la procedura, nomina un commissario. I creditori però, diffidenti, non approvano la proposta (le banche votano contro ritenendo troppo basso il recupero, e mancando classi separate, la maggioranza dei crediti non si raggiunge). Conseguentemente, il tribunale non può omologare.
- Liquidazione coatta amministrativa (LCA): A questo punto, su segnalazione del tribunale e dell’autorità di vigilanza sulle cooperative, il Ministero dispone la LCA di Delta coop. Un commissario liquidatore amministrativo viene nominato. La cooperativa viene sciolta e i beni liquidati in ambito amministrativo. I creditori vengono soddisfatti secondo le regole speciali (nelle cooperative i crediti dei soci per ristorni e prestiti sociali sono postergati, ecc.).
- Esdebitazione finale: Poiché la LCA è equiparata al fallimento, i debitori (qui la cooperativa come ente e i garanti personali eventualmente) possono accedere all’esdebitazione similmente. Delta coop cessa di esistere al termine della LCA. I soci (non illimitatamente responsabili, perché è coop a responsabilità limitata) perdono le loro quote ma non rispondono oltre.
- Considerazioni: In questo scenario, caratteristico del mondo cooperativo, vediamo che il debitore cooperativa dichiara la crisi tramite concordato ma poi, fallendo questo tentativo, viene avviata la procedura amministrativa speciale (LCA). Dal punto di vista pratico, per i creditori poca differenza: la LCA liquida i beni come un fallimento. Per il debitore (cooperativa e soci) l’aspetto positivo è che comunque l’insolvenza viene trattata senza imputare responsabilità personali ai soci (salvo malagestio). Si nota come le cooperative abbiano un regime peculiare: di regola, un’impresa di pari dimensioni sarebbe fallita con curatore nominato dal tribunale; la coop invece va in liquidazione sotto il controllo del Ministero. Ciò conferma che tutte le forme d’impresa trovano nel Codice (o nelle leggi speciali richiamate) un percorso di gestione della crisi, sebbene con diversità procedurali.
Questi quattro esempi evidenziano, in contesti diversi, il filo conduttore della riforma: l’imprenditore in difficoltà ha il dovere di dichiarare tempestivamente lo stato di crisi (quantomeno agli organi societari e ai creditori), e la facoltà di attivare lo strumento più adeguato (negoziale, concordatario o liquidatorio) per gestirla. A seconda della forma giuridica e dimensione, il ventaglio di strumenti cambia nelle etichette ma non nella logica: salvare l’impresa se possibile, altrimenti liquidarla ordinatamente, e in ogni caso permettere al debitore persona di ripartire senza debiti se ha agito onestamente.
13. Domande Frequenti (FAQ)
D1: Un imprenditore quando deve “dichiarare” formalmente lo stato di crisi?
R: Non esiste una formula sacramentale unica. In pratica, l’imprenditore deve attivarsi non appena i segnali di crisi si manifestano (perdite rilevanti, crisi di liquidità, indicatori ex art.3 CCII fuori range). “Dichiarare” la crisi significa prima di tutto riconoscerla internamente: informare gli organi societari (CdA, assemblea soci) e, se del caso, l’organo di controllo. Giuridicamente, la dichiarazione dello stato di crisi avviene poi presentando una istanza o ricorso per accedere a uno degli strumenti di regolazione (composizione negoziata, concordato, accordo). Ad esempio, il deposito di un ricorso di concordato preventivo contiene implicitamente la dichiarazione di trovarsi in stato di crisi o insolvenza. In sintesi: l’imprenditore dovrebbe dichiarare la crisi il prima possibile appena emergono difficoltà serie e comunque prima di diventare insolvente conclamato, attivando gli strumenti offerti dal Codice.
D2: Che differenza c’è tra “crisi” e “insolvenza” ai fini pratici?
R: Crisi è una fase pre-insolvenza, in cui l’azienda ha difficoltà ma può ancora evitare di non pagare i debiti (esempio: flussi di cassa prospettici inadeguati, ma magari sta ancora pagando tutti). Insolvenza è lo stato conclamato in cui il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le obbligazioni (ad es. non paga stipendi, fornitori da tempo, subisce pignoramenti). Ai fini pratici, la differenza è che molte procedure (composizione negoziata, accordi di ristrutturazione, concordato) possono e dovrebbero essere avviate già in stato di crisi incipiente, prima dell’insolvenza. L’insolvenza conclamata invece di solito porta alle procedure più drastiche (concordato “in extremis” o liquidazione giudiziale). Inoltre, uno strumento come la composizione negoziata è accessibile anche in caso di insolvenza reversibile, mentre se l’insolvenza è ormai irreversibile si andrà verso la liquidazione.
D3: Chi può chiedere l’apertura di una procedura di crisi o insolvenza?
R: Dipende dallo strumento. Le procedure volontarie (composizione negoziata, accordi di ristrutturazione, concordato preventivo, concordato minore, piano del consumatore) possono essere attivate solo dal debitore con un’istanza o ricorso. Nessun creditore può “costringere” il debitore a un concordato preventivo, ad esempio. Viceversa, la procedura liquidatoria (liquidazione giudiziale/fallimento) può essere chiesta anche dai creditori o d’ufficio dal PM, oltre che dal debitore stesso. Analogamente, la liquidazione controllata dei sovraindebitati può essere chiesta da creditori o dal debitore. In pratica, il debitore ha l’iniziativa esclusiva sugli strumenti negoziali/concordatari, mentre i creditori possono prendere l’iniziativa solo per la liquidazione forzata (es. istanza di fallimento). Una volta aperta una procedura concorsuale, però, alcuni atti possono essere promossi dai creditori (es. opposizione all’omologazione se dissenzienti).
D4: La procedura di composizione negoziata è obbligatoria prima di un concordato?
R: No, non è obbligatoria. È fortemente incentivata e consigliabile, ma il debitore può decidere di saltarla e presentare direttamente un concordato preventivo. In passato si era ipotizzato di rendere l’allerta obbligatoria, ma la riforma finale l’ha resa volontaria. Tuttavia, ignorare la composizione negoziata può essere rischioso: se poi il debitore fallisce, il tribunale può valutare negativamente la scelta di non aver tentato di risanare per tempo (anche se non c’è più sanzione formale, rimane sullo sfondo per le valutazioni di correttezza degli amministratori). D’altro canto, in situazioni di insolvenza acuta e creditori già aggressivi, può essere opportuno andare subito in concordato per ottenere protezione formale immediata. Ogni caso va valutato: l’allerta esterna di creditori pubblici spinge verso la composizione negoziata, ma non c’è obbligo giuridico stringente di attivarla.
D5: Durante la composizione negoziata, l’imprenditore mantiene la gestione dell’azienda?
R: Sì, pienamente. La composizione negoziata è volontaria e non giudiziale, quindi l’imprenditore resta al timone della propria impresa. L’esperto indipendente non ha poteri sostitutivi: ha un ruolo di facilitatore e monitor. L’imprenditore deve però gestire con correttezza (sono vietati atti in frode ai creditori; l’esperto se vede irregolarità gravi si dimette). Se servono atti straordinari (es. vendere un immobile durante le trattative), l’imprenditore può farlo ma spesso previa informativa all’esperto o autorizzazione del tribunale se atti protetti. Diverso è nel concordato preventivo: lì l’imprenditore mantiene l’amministrazione sotto vigilanza e con un commissario giudiziale nominato; nella liquidazione giudiziale, invece, perde la gestione (subentra il curatore). Ma in composizione negoziata, il timone resta in mano al debitore.
D6: Che protezioni ha un imprenditore che avvia una procedura concorsuale dal punto di vista legale?
R: Ha diverse protezioni. Appena è ammessa o aperta una procedura concorsuale (concordato, accordo omologato, liquidazione), scatta il divieto di azioni esecutive individuali dei creditori sui beni del debitore. Inoltre, per effetto della legge, molti contratti proseguono e non possono essere risolti solo perché si è aperta la procedura (clausole risolutive per concordato sono nulle). Nel concordato, l’impresa opera in esenzione da revocatoria: i pagamenti e atti effettuati nel concordato eseguito correttamente non potranno essere revocati in futuro. Ancora, il debitore può ottenere, in sede di concordato o accordo, la sospensione o scioglimento di contratti in corso che lo gravano (con autorizzazione del tribunale). Infine, al termine se la procedura non paga integralmente i creditori, l’imprenditore persona fisica può chiedere l’esdebitazione per cancellare i debiti residui. Tutte queste misure – stay delle azioni, esdebitazione, ecc. – costituiscono la contropartita dell’entrare in procedura. Chiaramente comporta anche sacrifici (controllo giudiziario, spossessamento nel fallimento, ecc.), ma la legge bilancia con protezioni e “forbici” sui debiti.
D7: I soci o gli amministratori di una società in crisi rischiano responsabilità personali?
R: Possono rischiare responsabilità se violano i doveri di gestione prudente. Il CCII ha rafforzato le norme di responsabilità: in particolare, l’art. 378 CCII ha introdotto in Codice Civile (art. 2486 c.c.) una presunzione di danno a carico degli amministratori che proseguono l’attività in presenza di causa di scioglimento (patrimonio netto azzerato) senza attivarsi tempestivamente. Il danno è quantificato nella differenza di patrimonio tra il momento in cui avrebbero dovuto interrompere e quello del fallimento, o l’aumento dell’indebitamento. Questo significa che un amministratore che tarda a “dichiarare” la crisi e continua a fare debiti potrebbe dover risarcire di tasca propria i creditori per l’aggravio. Inoltre, gli organi di controllo (sindaci, revisori) possono essere responsabili se omettono di segnalare gravi irregolarità o la perdita di continuità. Dal punto di vista penale, esistono reati fallimentari (bancarotta) se l’imprenditore compie distrazioni di beni o frodi. In generale, però, se amministratori e soci si attivano diligentemente (ad es. convocando soci, adottando assetti adeguati, avviando una procedura concorsuale quando necessario), non incorrono in responsabilità – anzi, la tempestiva iniziativa li tutela (è previsto che la segnalazione tempestiva della crisi possa attenuare le responsabilità ex art.2486 c.c.). I soci di società di capitali di regola non rispondono con patrimonio proprio dei debiti sociali, salvo abbiano prestato garanzie o salvo azioni di responsabilità se sono anche amministratori colpevoli. Quindi la chiave è: dichiarare la crisi in tempo ed evitare aggravamenti mette al riparo da molte responsabilità.
D8: Un imprenditore individuale o piccolo, che non era soggetto a fallimento, adesso può essere “costretto” a procedure concorsuali?
R: Costretto propriamente no (nessuno può obbligarti a fare un concordato se non vuoi). Però i creditori possono chiedere la liquidazione controllata se sei insolvente, anche se sei sotto soglia. Prima i piccoli debitori non fallibili non avevano strumenti; ora i creditori hanno la possibilità di rivolgersi al giudice anche per loro, chiedendo l’apertura di liquidazione controllata. Di fatto, quindi, un imprenditore sotto-soglia insolvente oggi può essere trascinato in una procedura concorsuale (liquidatoria) dai creditori, mentre prima al massimo subiva pignoramenti individuali. Questo è a tutela del mercato: si evitano sacche di debito irrisolto. Tuttavia, spesso per i piccoli conviene attivarsi da sé: ad esempio, se un piccolo imprenditore avvia un concordato minore e lo completa, evita di subire la liquidazione forzata e ottiene lui l’esdebitazione. C’è anche da dire che molti micro-debitori consumatori/imprese minime, se proprio nullatenenti, possono aspirare all’esdebitazione senza utilità (cancellazione debiti senza pagare nulla), ma è un benefit concesso una tantum e a discrezione del giudice. In generale, il sistema attuale vuole che chiunque abbia debiti li regoli in qualche procedura, grande o piccola che sia.
D9: Che differenza c’è tra concordato preventivo e accordo di ristrutturazione? Cosa conviene scegliere?
R: Il concordato preventivo è una procedura concorsuale piena, con coinvolgimento di tutti i creditori (che votano per classi) e decisione a maggioranza, sotto controllo del tribunale. L’accordo di ristrutturazione è più simile a un contratto tra debitore e una parte (qualificata) dei creditori, che poi viene omologato ma non vincola i non aderenti (salvo eccezioni per categorie omogenee). In pratica:
- Il concordato conviene se hai bisogno di includere e obbligare tutti i creditori, anche quelli poco collaborativi, e/o se serve ottenere effetti erga omnes (es: stralcio dei chirografari anche dissenzienti, falcidia privilegi non consenzienti tramite cram-down). Il prezzo da pagare è maggiore complessità, pubblicità e controllo giudiziario.
- L’accordo conviene se hai già l’adesione di una larga fetta (≥60%) dei creditori e puoi escluderne alcuni pagandoli integralmente a parte. È più rapido, riservato, meno costoso, ma lascia fuori chi non aderisce (che va soddisfatto a parte).
In molti casi, la scelta dipende dai numeri: se un debitore ha pochi creditori (es. solo banche principali) spesso preferisce un accordo di ristrutturazione (meno formalità). Se ha una platea dispersa o prevede conflitti tra classi diverse (es. bondholders vs fornitori), il concordato permette di gestire meglio voti e cram-down. Inoltre, il concordato ha varianti (in continuità vs liquidatorio) e obblighi (es. soglia 20% chirografari in liquidatorio) che l’accordo non ha in ugual misura (anche se la legge ha introdotto soglia 30% per accordo agevolato). In breve: accordo se c’è consenso negoziale sufficiente; concordato se serve la forza della maggioranza e del tribunale per imporre la soluzione.
D10: I debiti fiscali e contributivi si possono tagliare in queste procedure?
R: Sì, con alcuni limiti. Storicamente, IVA e ritenute non potevano essere stralciate nei concordati (bisognava pagarle 100%). La riforma e la giurisprudenza hanno allentato ciò: oggi nel concordato preventivo è possibile proporre il pagamento parziale di tributi e contributi, purché almeno nella misura che otterrebbero in caso di fallimento (e comunque almeno il 20% per privilegio e 10% se chirografo, salvo casi estremi), e serve il voto favorevole della classe erario se costituita oppure il tribunale può anche omologare contro il loro parere se quell’offerta è il massimo sostenibile. Questo è il cosiddetto cram-down fiscale: la Cassazione l’ha avallato e il CCII l’ha recepito (art. 88 modificato). Quindi sì, oggi un imprenditore può proporre ad esempio di pagare l’IVA al 50% in 5 anni nel concordato, e se dimostra che in liquidazione il Fisco prenderebbe meno, il tribunale può approvare anche se l’Agenzia vota no. Negli accordi di ristrutturazione si può inserire la cosiddetta transazione fiscale: lo Stato aderisce all’accordo accettando stralci. Se non aderisce, il tribunale può comunque omologare l’accordo a certe condizioni (pagamento almeno 30%). Nella composizione negoziata dal 2022 è possibile trattare con il Fisco (transazione fiscale in bonis). Quindi i debiti con Erario e INPS sono trattabili, fermo restando che lo Stato pretende solitamente trattamenti non peggiori del resto (c’è una priorità politica nel soddisfare il Fisco, ma non più un veto assoluto). Naturalmente, se vi sono sanzioni tributarie spesso si possono chiedere integrale remissione (in concordato le sanzioni sono chirografarie, quindi spesso azzerate). Dunque il debitore ha spazio per ridurre il carico fiscale nelle procedure, cosa prima quasi impossibile.
D11: Se la mia impresa è in crisi, è vero che devo per forza attivare una procedura concorsuale o posso anche gestirla privatamente?
R: Puoi provare anche soluzioni private, nulla lo vieta: ad esempio rinegoziare con le banche e i fornitori senza coinvolgere il tribunale (magari attraverso un piano attestato di risanamento). Il CCII non obbliga a passare dal tribunale se riesci a sistemare la crisi da solo. Tuttavia, se la crisi è seria e diffusa, le procedure concorsuali offrono vantaggi (stay, maggioranze, esdebitazione) che privatamente non hai. Un piano di risanamento attestato può funzionare se hai pochi creditori e cooperativi; è più leggero e riservato. Invece, se l’azienda è insolvente verso molti, affidarsi solo a soluzioni private può essere pericoloso: basta un creditore che faccia istanza di fallimento e salta tutto. Quindi conviene valutare caso per caso. Molte crisi PMI si risolvono in via stragiudiziale (con accordi transattivi bilaterali e nuova finanza) – il CCII non lo vieta, anzi li agevola con la protezione dalle revocatorie. Ma se la crisi non è gestibile con unanimità di consensi, meglio “istituzionalizzarla” con un concordato o accordo omologato. In definitiva: non è obbligatorio far concordato, ma ignorare la crisi sperando in soluzioni informali senza un piano credibile espone a rischi di aggravamento e responsabilità.
D12: Cosa succede se un imprenditore non dichiara mai lo stato di crisi e va avanti finché i creditori lo fanno fallire?
R: Succedono diverse cose negative:
- Intanto, l’insolvenza si aggrava di solito, riducendo le chance di salvataggio dell’impresa e il recupero dei creditori.
- L’imprenditore che ha taciuto la crisi e ha continuato ad indebitarsi rischia, come detto, azioni di responsabilità dai creditori o dal curatore per aver peggiorato il buco (ex art. 2486 c.c. presunzione di danno).
- Inoltre può incorrere in reati: se ha dissipato attivo o favorito qualche creditore a danno di altri all’ultimo, può configurarsi bancarotta fraudolenta o preferenziale.
- Dal punto di vista morale e reputazionale, poi, subisce un fallimento “traumatizzante” invece di gestire attivamente la crisi.
- Infine, potrebbe vedersi negare l’esdebitazione se si dimostra che ha colposamente aggravato la situazione o violato obblighi (il tribunale valuta la meritevolezza; se ha nascosto libri, aggravato il dissesto volontariamente, l’esdebitazione può essere esclusa o revocata).
In sintesi, non dichiarare la crisi e arrivare al fallimento è il peggiore degli esiti: si perde il controllo, si subiscono possibili sanzioni, e nessun beneficio se non la chiusura forzata. Il Codice spinge il debitore a non procrastinare: meglio una procedura concordata prima, che un fallimento subito dopo. Dunque, è fortemente nell’interesse dell’imprenditore dichiarare e affrontare la crisi per tempo. Come recita un motto in ambito concorsuale: “chi prima arriva meglio alloggia” – chi attiva subito gli strumenti di composizione ha più probabilità di salvare l’azienda o almeno se stesso dai debiti; chi temporeggia potrebbe non trovare altro che macerie.
14. Fonti normative, prassi e giurisprudenza utilizzate
Di seguito elenchiamo le principali fonti citate e utilizzate nella presente guida, suddivise per tipologia:
Normativa primaria (Codice della Crisi e disposizioni correlate):
- D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 – Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (CCII), come modificato dai decreti correttivi D.Lgs. 147/2020, D.Lgs. 83/2022 e D.Lgs. 136/2024 (cd. Correttivo-ter). In particolare: definizioni di “crisi” e “insolvenza” (art. 2 CCII); obblighi di allerta e assetti organizzativi (art. 3 CCII); indicatori di crisi e segnalazioni esterne (artt. 3 co.4 e 25-novies CCII); composizione negoziata (artt. 17-25-septies CCII); concordato preventivo (artt. 84-120 CCII), inclusi requisiti concordato liquidatorio (art. 84 co.4 CCII: soddisfazione 20% + 10% apporto); concordato semplificato (artt. 25-sexies e septies CCII); accordi di ristrutturazione (artt. 57-64 CCII), con varianti accordi agevolati 30% e efficacia estesa; piani attestati (art. 56 CCII); Piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione – PRO (artt. 64-bis/ter/quater CCII); procedure di sovraindebitamento (artt. 65-91 CCII per concordato minore, art. 94-104 CCII per piano consumatore, art. 105-114 CCII per accordo minore, art. 268-277 CCII per liquidazione controllata).
- Codice Civile, in particolare norme modificate dal CCII: art. 2086 c.c. (dovere organi amministrativi di assetti adeguati per rilevare crisi); art. 2477 c.c. (obbligo nomina sindaco/revisore S.r.l. sopra soglie ridotte: attivo €4 mln, ricavi €4 mln, dipendenti 20); art. 2486 c.c. (responsabilità amministratori dopo scioglimento: criterio presuntivo danno differenziale, introdotto da art. 378 CCII).
- Legge Fallimentare previgente (R.D. 267/1942) – formalmente abrogata dal CCII dal 15/7/2022, ma rilevante come confronto. Ad esempio: previgente art. 160 L.F. non consentiva stralcio IVA/ritenute, ora superato; art. 182-bis L.F. sugli accordi ristr., ora trasfuso in CCII; disposizioni sulle soglie di fallibilità (art. 1 L.F.: attivo > €300k, ricavi >€200k, debiti >€500k, analoghe a art. 2 CCII definizione imprenditore minore).
- Legge 3/2012 sul sovraindebitamento – abrogata e assorbita nel CCII, ma rilevante per principi: piano del consumatore, accordo, liquidazione. Le nuove norme (p.es. concordato minore) ne sono prosecuzione evolutiva.
- Legge 155/2017 – legge delega riforma crisi, principi ispiratori (tempestività emersione, continuità, ecc.) rispecchiati nel CCII.
- D.L. 118/2021 conv. L.147/2021 – normativa emergenziale Covid che ha introdotto composizione negoziata e concordato semplificato, confluita nel CCII. Importante perché spiega ratio misure come comp.neg. come “ponte” e poi rese stabili.
- Direttiva UE 2019/1023 (Direttiva Insolvency) – recepita dal D.Lgs. 83/2022 e D.Lgs. 136/2024. Rilevante perché ha richiesto procedure di early warning e piani di ristrutturazione flessibili (PRO) e esdebitazione entro 3 anni per onesti. Molte novità (transazione fiscale, cram-down interclasse, esdebitazione incapiente) derivano da lì.
Prassi e documenti interpretativi:
- Linee guida e studi del CNDCEC (Consiglio Nazionale Dottori Commercialisti): es. documento sugli indici di allerta elaborati (ottobre 2019) – menzionato che dovevano essere adottati da decreto Mise. Rilevante perché definiva formule (DSCR, indici settoriali) poi integrati. La guida fiscoetasse citata attinge a tali concetti.
- Massimario Cassazione – Approfondimento correttivo-ter (2025): citato in Dir. Bancario, utile per interpretare modifiche.
- Ministero Giustizia – Relazioni illustr. CCII e Relazione correttivo-ter: chiariscono ratio di modifiche (es. su concordato con classi “maltrattate”, su PRO, ecc.). (Richiamate indirettamente in commenti e note).
- Unioncamere / Camere di Commercio: modulistica e regolamenti per piattaforma composizione negoziata. Ad esempio, protocolli di selezione esperti.
- ABI (Ass. bancaria) / Linee guida banche: esistono protocolli di intesa su moratorie e supporto imprese in composizione negoziata.
- Linee guida Tribunali / Osservatori: es. Tribunale di Milano linee guida per concordati con continuità indiretta (affitto d’azienda), oppure prassi su concordato semplificato (cit. Trib. Napoli 25.10.2023 evidenziato in stampa). La guida menziona orientamenti di merito (Napoli su comp.neg. e concordato semplif., ecc.).
Giurisprudenza (sentenze) recente di rilievo:
- Cass., Sez. I, 28 ottobre 2024 n. 27782 – cram-down fiscale, conferma che tribunale può omologare concordato malgrado voto contrario Agenzia Entrate se offerta migliore del fallimento. Importante perché chiude dibattito su art. 180 L.F. e art. 88 CCII, ora normato.
- Cass., Sez. I, 24 ottobre 2024 n. 27562 – esdebitazione del fallito, chiarisce che non serve pagamento minimo ai creditori per concedere esdebitazione, spostando focus su comportamento debitore. Rilevante per favor debitoris recepito in art. 280 CCII.
- Cass., Sez. Un. 2021 n. 8500 (o Cass. 2022 n…): pronunce in ambito transazione fiscale e cram-down (già prima del CCII, Cass. SU 2021 sul silenzio assenso Fisco, ecc.). Indirizzi poi consolidati da Cass. 27782/24.
- Tribunale di Mantova, 2023 – caso di concordato semplificato omologato citato (prassi di prime omologhe), ilCaso.it.
- Tribunale di Napoli, 25.10.2023 – ha sottolineato genuinità composizione negoziata, no scorciatoia per concordato semplificato.
- Corte Costituzionale: ad es. sent. n. 63/2022 su esdebitazione immediata dell’incapiente (ha ritenuto ammissibile la norma? Non certa esistenza, ipotetica se questione sollevata). Comunque, riferimenti a costituzionalità del favor debitoris.
- Cass. pen., Sez. V, 2024 n. 13016 – su reato bancarotta per occultamento in composizione negoziata (forse citata di sfuggita in fonti).
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✔️ Consulente legale per aziende in stato di insolvenza o pre-insolvenza
✔️ Difensore di imprenditori, soci e amministratori in fase di crisi o liquidazione
✔️ Gestore della crisi iscritto al Ministero della Giustizia
Conclusione
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