La tua azienda non riesce più a sostenere i costi, i debiti continuano a crescere e stai valutando se chiuderla definitivamente? Ti stai chiedendo se è possibile liquidare un’impresa anche se ha ancora debiti in corso?
È una domanda che si pongono tanti imprenditori in difficoltà. Quando l’attività non è più sostenibile, la liquidazione può essere una scelta necessaria, ma va gestita con estrema attenzione, soprattutto se ci sono debiti verso fornitori, dipendenti, banche o il fisco.
Si può davvero liquidare un’azienda indebitata? Che fine fanno i debiti? Chi risponde di ciò che non viene pagato?
La risposta è: sì, si può liquidare anche un’azienda con debiti, ma è fondamentale seguire una procedura corretta, trasparente e conforme alla legge. Bisogna nominare un liquidatore, chiudere i rapporti attivi e passivi, e procedere con il pagamento dei creditori secondo un ordine preciso. Se restano debiti scoperti, sarà necessario capire se e in che misura l’imprenditore o i soci rispondono personalmente (a seconda del tipo di società: Srl, Snc, ditta individuale…).
Chiudere in modo frettoloso o irregolare può avere conseguenze pesanti, anche anni dopo: responsabilità personali, azioni revocatorie, accertamenti fiscali o cause civili da parte dei creditori. Ecco perché è fondamentale avere al fianco un legale esperto, in grado di valutare la situazione e gestire ogni fase nel modo più sicuro.
In questa guida, lo Studio Monardo – avvocati specializzati in diritto societario, crisi d’impresa e responsabilità dell’imprenditore – ti spiega come si liquida un’azienda con debiti, cosa devi fare passo dopo passo, quali rischi evitare e come possiamo aiutarti a chiudere correttamente, senza trascinarti dietro problemi futuri.
Temi che non ci sia più via d’uscita? Hai paura che i debiti dell’azienda finiscano per colpire te o la tua famiglia?
Alla fine della guida puoi richiedere una consulenza riservata con l’Avvocato Monardo: analizzeremo la tua situazione, valuteremo il tipo di società e il carico debitorio, e costruiremo insieme la strategia migliore per chiudere l’attività in modo regolare, protetto e definitivo.
Introduzione
Liquidare un’azienda gravata dai debiti è un percorso complesso che richiede una profonda conoscenza delle procedure legali previste dall’ordinamento italiano. Questa guida fornisce un approccio pratico-operativo, dal punto di vista dell’imprenditore debitore, sulle diverse modalità di liquidazione di un’attività sovraindebitata. Verranno esaminati tutti i tipi di impresa – dalle società di capitali (S.r.l., S.p.A.) alle società di persone (S.n.c., S.a.s.), fino alle ditte individuali – evidenziando per ciascuno le procedure disponibili: la liquidazione volontaria (decisa dai soci), la liquidazione giudiziale (procedura concorsuale ex fallimentare), la liquidazione coatta amministrativa (disposta da autorità per particolari imprese) e la liquidazione controllata introdotta dal Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza per i debitori “non fallibili”. Saranno trattati con linguaggio giuridico divulgativo sia gli aspetti civilistici che quelli fiscali (gestione dei debiti tributari verso l’Agenzia delle Entrate, IVA insoluta, cartelle esattoriali, piani di rateizzo), senza trascurare le possibili responsabilità personali dell’imprenditore individuale, degli amministratori e dei soci.
La guida è aggiornata a giugno 2025, tenendo conto del nuovo Codice della Crisi d’Impresa (D.Lgs. 14/2019, in vigore dal 15 luglio 2022) e delle più recenti novità normative e giurisprudenziali. Troverete simulazioni pratiche, domande e risposte a quesiti frequenti, nonché tabelle riepilogative per facilitare la comprensione comparativa. In chiusura, una sezione di fonti normative, dottrinali e giurisprudenziali vi permetterà di approfondire i riferimenti citati. L’obiettivo è fornire a imprenditori, professionisti e privati una guida completa per chiudere legalmente e consapevolmente un’attività travolta dai debiti, minimizzando i rischi personali e rispettando i diritti dei creditori.
Tipologie di imprese e impatto sul processo di liquidazione
Prima di analizzare le procedure, è fondamentale capire come la forma giuridica dell’impresa influenzi la liquidazione e la responsabilità per i debiti. In Italia, la distinzione principale è tra imprese con personalità giuridica (ad es. società di capitali come S.r.l. e S.p.A.) e imprese senza personalità giuridica (ditte individuali e società di persone come S.n.c. e S.a.s.). Questa differenza incide sia sulla responsabilità patrimoniale degli imprenditori/soci, sia sulle procedure concorsuali applicabili in caso d’insolvenza.
- Società di capitali (S.r.l., S.p.A., S.a.p.a., cooperative): Hanno personalità giuridica e patrimonio separato da quello dei soci. I soci non rispondono con il proprio patrimonio personale dei debiti sociali, se non nei limiti delle quote conferite o delle somme ricevute in sede di liquidazione. In altri termini, la responsabilità dei soci è limitata. Ad esempio, i creditori di una S.r.l. in liquidazione possono rivalersi solo sul patrimonio sociale; una volta cancellata la società, i debiti residui non si estinguono automaticamente ma si trasferiscono sui soci, i quali ne rispondono solo fino all’ammontare di quanto hanno eventualmente ricevuto col bilancio finale di liquidazione. I liquidatori stessi possono rispondere dei debiti insoddisfatti solo se il mancato pagamento è dipeso da una loro colpa nella gestione della liquidazione. Le società di capitali svolgenti attività commerciale sono generalmente assoggettabili a fallimento (oggi liquidazione giudiziale) se raggiungono determinate soglie dimensionali (vedi oltre), altrimenti – se di dimensioni minori – rientrano nelle procedure di sovraindebitamento (come il concordato minore o la liquidazione controllata). Le società cooperative, pur avendo responsabilità limitata per i soci, in caso di insolvenza sono spesso sottoposte a liquidazione coatta amministrativa su iniziativa dell’autorità di vigilanza.
- Società di persone (S.n.c., S.a.s., società semplici): Non hanno personalità giuridica distinta; il patrimonio dei soci e quello sociale sono separati solo formalmente. I soci illimitatamente responsabili (tutti i soci nelle S.n.c. e i soci accomandatari nelle S.a.s.) rispondono dei debiti sociali in modo personale, illimitato e solidale: i creditori sociali possono agire direttamente sui beni personali dei soci se il patrimonio sociale non è sufficiente. Questa responsabilità è sussidiaria (si escute prima la società) ma illimitata. I soci accomandanti (S.a.s. accomandanti), invece, hanno responsabilità limitata alla quota conferita durante la vita della società (non possono ingerirsi nella gestione); tuttavia, dopo la liquidazione anch’essi rispondono dei debiti sociali insoddisfatti nei limiti di quanto eventualmente ricevuto dalla liquidazione (analogamente ai soci di capitali). Le società di persone che esercitano attività commerciale possono essere dichiarate fallite (liquidazione giudiziale) se insolventi e non di piccole dimensioni; inoltre, il fallimento di una società di persone si estende di diritto ai soci illimitatamente responsabili (art. 147 L.F. ante 2022, principio rimasto nel nuovo Codice). Ciò significa che, ad esempio, in caso di fallimento di una S.n.c., anche i singoli soci verranno coinvolti personalmente nella procedura concorsuale, con possibilità di esdebitazione personale a fine procedura (come per gli imprenditori individuali).
- Imprenditore individuale (ditta individuale): L’impresa individuale non è un soggetto giuridico distinto dalla persona fisica che la esercita. Pertanto l’imprenditore risponde di tutti i debiti d’impresa con tutto il proprio patrimonio personale presente e futuro (responsabilità illimitata ex art. 2740 c.c.). In caso di cessazione dell’attività, i debiti permangono in capo all’imprenditore; i creditori potranno agire sul suo patrimonio personale (anche dopo la chiusura della partita IVA). Se l’imprenditore individuale è un imprenditore commerciale e supera le soglie di legge (vedi oltre), può essere assoggettato a liquidazione giudiziale (fallimento) in caso d’insolvenza, così come può egli stesso chiederla volontariamente. Se invece è un piccolo imprenditore (sotto soglia) o un imprenditore non commerciale (es. imprenditore agricolo, professionista, artista), allora è escluso dal fallimento e rientra tra i debitori sovraindebitati: per costoro, le uniche procedure concorsuali praticabili sono quelle di composizione della crisi da sovraindebitamento (piani di ristrutturazione o liquidazione controllata). Ad esempio, un coltivatore diretto o un artigiano di piccole dimensioni non può essere dichiarato fallito, ma se sommerso dai debiti potrà accedere alla liquidazione controllata per liberarsi delle obbligazioni residue.
Riassumiamo queste differenze chiave in tabella:
Nota: In generale, gli imprenditori “sotto soglia” (imprese minori) e i soggetti non commerciali non sono assoggettabili alla liquidazione giudiziale ex art. 121 Cod. Crisi. Per essere considerata impresa minore, l’azienda deve rispettare congiuntamente tre limiti dimensionali: attivo di bilancio annuo ≤ €300.000, ricavi annui ≤ €200.000 (media ultimi tre esercizi) e debiti totali ≤ €500.000. Il superamento anche di uno solo di questi limiti in un triennio fa perdere lo status di piccolo imprenditore. Chi rientra in tali parametri non può essere dichiarato fallito (liquidazione giudiziale) ma rientra nelle procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento (ad esempio un concordato minore o la liquidazione controllata disciplinati dal Codice della Crisi).
Avendo chiarito come la natura giuridica dell’impresa influenzi responsabilità e procedure, passiamo ora ad esaminare in dettaglio le diverse modalità di liquidazione disponibili.
Liquidazione volontaria dell’impresa (procedura ordinaria)
La liquidazione volontaria è il processo di scioglimento e chiusura dell’impresa avviato spontaneamente dai soci o dal titolare quando desiderano cessare l’attività. È detta anche liquidazione ordinaria o extragiudiziale, in quanto si svolge al di fuori delle procedure concorsuali giudiziali (fallimento, ecc.). Questa procedura si applica tipicamente quando l’azienda è ancora in grado di pagare i propri debiti (impresa in bonis) o quando i soci decidono di farsi carico essi stessi delle passività pur di chiudere la società. Analizziamo come funziona per le varie tipologie di imprese, ponendo attenzione alle implicazioni in presenza di debiti.
Scioglimento e liquidazione volontaria di società di capitali (S.r.l. e S.p.A.)
Lo scioglimento di una società di capitali può avvenire per varie cause (naturali o deliberali) elencate nell’art. 2484 c.c., tra cui: il decorso del termine, la volontà dei soci, il conseguimento o l’impossibilità dell’oggetto sociale, la perdita del capitale minimo, ecc.. La causa più comune di scioglimento volontario è la deliberazione dell’assemblea dei soci (art. 2484 n. 6 c.c.) di cessare anticipatamente l’attività. Una volta accertata una causa di scioglimento, gli amministratori devono convocare l’assemblea per deliberare lo scioglimento e nominare uno o più liquidatori. Da quel momento la società assume la denominazione con l’aggiunta di “in liquidazione” e la gestione passa ai liquidatori, mentre gli amministratori decadono dai poteri di gestione ordinaria.
Ruolo e doveri dei liquidatori: I liquidatori rappresentano la società durante la liquidazione e hanno il compito principale di convertire in denaro l’attivo sociale (vendendo beni aziendali, riscuotendo crediti) e pagare i debiti sociali con le somme ricavate. Solo dopo aver soddisfatto tutti i creditori, gli eventuali fondi residui possono essere ripartiti tra i soci (in base al bilancio finale di liquidazione). Questo principio è fondamentale: la società non può essere cancellata dal Registro delle Imprese finché vi sono debiti insoddisfatti. Se esistono ancora debiti, qualcuno deve farsene carico – tipicamente i soci – versando risorse aggiuntive affinché i creditori vengano soddisfatti prima della chiusura. In pratica, i soci potrebbero decidere di immettere liquidità propria per saldare i debiti (o accollarseli) pur di procedere alla chiusura dell’ente senza strascichi. Questo perché, come sottolineato dalla dottrina, una società di capitali non può essere cessata con debiti ancora in essere: per poter procedere alla chiusura, i debiti devono essere pagati o garantiti, in modo da permettere la cancellazione senza responsabilità per i liquidatori.
Se invece il patrimonio sociale è insufficiente a pagare tutti i creditori e i soci non intendono o non possono colmare la differenza, la liquidazione volontaria ordinaria rischia di non poter andare a buon fine secondo le regole ordinarie. Il liquidatore si troverebbe nell’impossibilità di estinguere tutte le passività con l’attivo disponibile. In tal caso, egli ha due opzioni pratiche: convincere i creditori a rinunciare ai crediti non soddisfatti (cosa difficilmente ottenibile, se non attraverso accordi transattivi individuali o un concordato preventivo) oppure attivare una procedura concorsuale. Di fatto, la legge impone al liquidatore di rispettare la parità di trattamento (par condicio) tra i creditori rimasti insoddisfatti; egli non può arbitrariamente pagarne alcuni e lasciare altri a bocca asciutta. Inoltre, secondo la giurisprudenza, se durante la liquidazione emerge uno stato di insolvenza conclamata, i liquidatori hanno il dovere di richiedere l’apertura di una procedura fallimentare (oggi liquidazione giudiziale) dinanzi al Tribunale competente, per evitare di incorrere in responsabilità per aggravamento del dissesto. In altre parole, la liquidazione volontaria non può proseguire oltre in modo ordinario se l’impresa è insolvente: deve subentrare la liquidazione giudiziale, che tutela meglio i creditori collettivamente. È quindi prassi corretta, in caso di insolvenza durante la fase di liquidazione volontaria, che il liquidatore (o i creditori stessi) presentino istanza di fallimento al Tribunale, congelando così le azioni individuali e assicurando una distribuzione paritaria dell’attivo secondo le regole concorsuali.
Chiusura della società e cancellazione: Se tutti i debiti risultano pagati (o comunque definiti) e non vi sono ulteriori pendenze, il liquidatore predispone il bilancio finale di liquidazione e il piano di riparto dell’eventuale attivo residuo tra i soci (art. 2492 c.c.). Tale bilancio finale, insieme al rapporto dei liquidatori, va comunicato ai soci; decorsi 90 giorni senza opposizioni, si intende approvato (art. 2493 c.c.). A questo punto i liquidatori possono richiedere la cancellazione della società dal Registro delle Imprese, che segna l’effettiva estinzione dell’ente (art. 2495 c.c.). L’iscrizione della cancellazione ha efficacia costitutiva: la società si estingue nel momento in cui la cancellazione è registrata, anche se residuano rapporti o debiti non definiti.
Effetti sui debiti residui e responsabilità post-chiusura: Come anticipato, l’estinzione della società non estingue automaticamente i debiti sociali insoddisfatti: questi debiti “residui” diventano azionabili direttamente verso altri soggetti, ossia gli ex soci e i liquidatori, alle condizioni previste dall’art. 2495 c.c.. In particolare:
- I soci di società di capitali rispondono delle obbligazioni sociali insoddisfatte nei limiti di quanto hanno riscosso in base al bilancio finale di liquidazione (incluse eventuali assegnazioni in acconto ricevute durante la liquidazione). Se non hanno ricevuto nulla, il creditore sociale non potrà esigere nulla da loro – a meno che altre norme speciali prevedano diversamente per certi debiti (si pensi a taluni debiti fiscali, esaminati più avanti). La responsabilità dei soci ha natura pro quota: secondo la Cassazione, i debiti si trasferiscono in capo ai soci tramite una sorta di successione dei debiti “pro quota” nel lato passivo, ferma restando la responsabilità solidale esterna verso il creditore. Ciò significa che il creditore può richiedere l’intero importo a qualsiasi ex socio, il quale poi avrà diritto di regresso sugli altri soci in proporzione alle rispettive quote di riparto ricevute. Tuttavia, grava sul creditore l’onere di provare che vi sia stato effettivamente un riparto dell’attivo ai soci e l’entità delle somme da essi incassate. Tale tutela evita che i soci siano chiamati a rispondere oltre quanto di fatto riscosso dallo scioglimento. Ad esempio, se la società in liquidazione ha pagato il 50% ai creditori chirografari e distribuito ai soci €10.000 a testa di avanzo, i creditori insoddisfatti potranno chiedere a ciascun socio fino a €10.000 (non di più) e dovranno provare che quel riparto è avvenuto.
- I liquidatori rispondono personalmente verso i creditori sociali solo in caso di colpa nella liquidazione (art. 2495 c.2 c.c.). Ciò implica che se il mancato integrale pagamento di un creditore è dovuto a negligenza, imperizia o violazione dei doveri da parte dei liquidatori, questi ne risponderanno con il proprio patrimonio per il danno arrecato. Ad esempio, i liquidatori hanno l’obbligo di gestire la liquidazione con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico (art. 2489 c.c.), massimizzando i ricavi dalle vendite, accertando con accuratezza le passività e rispettando rigorosamente l’ordine dei privilegi nel pagamento. Se distribuissero attivo ai soci prima di aver soddisfatto debiti pregressi, o privilegiati, incorrerebbero certamente in responsabilità personale. In sintesi, il liquidatore risponde se ha violato l’obbligo di pagare i creditori secondo la par condicio creditorum e le cause legittime di prelazione (pegni, ipoteche, privilegi). Invece, non risponde se ha diligentemente fatto tutto il possibile ma l’attivo era obiettivamente insufficiente a pagare tutti (in tal caso, i creditori insoddisfatti potranno rivalersi solo sui soci nei limiti suddetti).
Esempio pratico (S.r.l. solvibile): La Alfa S.r.l. decide di chiudere l’attività per scelta dei soci. Ha attivi per €100.000 e debiti verso fornitori per €80.000. L’assemblea dei soci delibera lo scioglimento e nomina un liquidatore. Questi liquida i beni sociali (vende le merci, riscuote crediti) e incassa €100.000, con cui paga integralmente gli €80.000 di debiti. Rimangono €20.000, che distribuisce ai soci come residuo attivo. Redige il bilancio finale, trascorsi i termini deposita istanza di cancellazione e la società viene cancellata. In questo caso nessun creditore è insoddisfatto. Se dopo la chiusura emergesse un debito non noto di €5.000 (debito “sopravvenuto”), i creditori potrebbero chiedere ai soci di restituire pro quota quanto ricevuto (fino a €5.000 in totale); i soci che hanno incassato €20.000 ciascuno ne risponderebbero in solido verso il creditore, nei limiti di €5.000 complessivi.
Esempio pratico (S.r.l. insolvente coperta dai soci): La Beta S.r.l. è sommersa dai debiti (€200.000) e possiede attivi per soli €50.000. I soci decidono di sciogliere comunque la società, impegnandosi però ad apportare fondi personali. Dopo la nomina del liquidatore, emergendo l’insufficienza dell’attivo, i soci versano ulteriori €150.000 per consentire al liquidatore di pagare tutti i creditori (€200.000 in totale). Una volta estinti tutti i debiti, non residua nulla da ripartire ai soci (anzi, essi hanno “rimesso” denaro proprio). La società viene cancellata. In tal caso i creditori sono soddisfatti integralmente; i soci, pur avendo sborsato di tasca propria, evitano sia il fallimento della società sia il rischio di azioni di responsabilità future. Dopo la chiusura non vi saranno pretese ulteriori (se emergesse un debito non noto di modesta entità, i soci potrebbero doverlo coprire entro i limiti di quanto eventualmente incassato in liquidazione: in questo caso nulla, quindi probabilmente quel debito residuo non sarebbe recuperabile).
Esempio pratico (S.r.l. insolvente non coperta – fallimento): La Gamma S.r.l. ha €500.000 di debiti complessivi e solo €100.000 di attivo realizzabile. I soci non intendono (o non sono in grado di) immettere altri fondi. Il liquidatore avvia la procedura ma presto constata che sarà impossibile pagare tutti i creditori (solo il 20% circa). Per evitare di scegliere arbitrariamente chi pagare e rischiare responsabilità, notifica la situazione di insolvenza al Tribunale. Il Tribunale, su istanza del liquidatore stesso o di un creditore, dichiara l’apertura della liquidazione giudiziale (ex fallimento) della Gamma S.r.l., sostituendo il liquidatore con un curatore fallimentare. Da questo momento la liquidazione prosegue in sede concorsuale: i creditori faranno domanda di ammissione al passivo e riceveranno un riparto proporzionale secondo la graduatoria dei privilegi. La società verrà poi cancellata a chiusura del fallimento, con debiti in parte insoluti. In seguito, i creditori rimasti insoddisfatti potranno eventualmente agire contro i soci nei limiti delle somme che questi avessero ricevuto prima del fallimento (in questo esempio, i soci non hanno ricevuto nulla; quindi i creditori – a parte il Fisco, vedi oltre – non avranno bersagli su cui rifarsi). I liquidatori pre-fallimento sarebbero al riparo da responsabilità, avendo diligentemente coinvolto il tribunale al manifestarsi dell’insolvenza.
Scioglimento e liquidazione volontaria di società di persone
Nelle società di persone (come S.n.c. e S.a.s.), la liquidazione volontaria segue logiche simili, ma con formalità leggermente ridotte rispetto alle società di capitali. Le cause di scioglimento sono indicate dagli artt. 2272 c.c. (per tutte le società semplici o collettive) e norme specifiche (es. art. 2308 c.c. per S.n.c., 2323 c.c. per S.a.s.): includono la volontà dei soci, il venir meno della pluralità di soci (se non ricostituita entro 6 mesi), il conseguimento dell’oggetto sociale, ecc. La deliberazione di scioglimento, quando volontaria, generalmente richiede il consenso unanime di tutti i soci, salvo patto diverso. Una volta sciolta, la società entra in liquidazione e, se non diversamente previsto, tutti i soci amministratori diventano di diritto liquidatori (salvo nomina di liquidatori terzi nell’atto costitutivo o per accordo tra soci). Non è obbligatoria la presenza del notaio per la verbalizzazione, a differenza delle società di capitali, anche se per l’iscrizione dello scioglimento al Registro Imprese serve un atto firmato dai liquidatori entranti.
Il compito dei liquidatori nelle società di persone è analogo: realizzare l’attivo e pagare i debiti sociali. La differenza cruciale è che se l’attivo non basta, i soci rispondono illimitatamente per la parte mancante. Infatti, prima della cancellazione, i creditori sociali possono già escutere i soci illimitatamente responsabili per i debiti non soddisfatti dalla società (previa escussione del patrimonio sociale, art. 2268 c.c.). E dopo la cancellazione, l’art. 2312 c.c. stabilisce che “i creditori sociali non soddisfatti possono far valere i loro crediti nei confronti dei soci”. Pertanto, la liquidazione di una S.n.c. o S.a.s. insolvente si traduce sostanzialmente nel pagamento dei debiti da parte dei soci con i propri beni personali. Se i soci stessi sono insolventi, i creditori potranno agire individualmente contro ciascuno per l’intero debito (responsabilità solidale), eventualmente portandoli in procedura fallimentare personale (il fallimento della società di persone comporta, come detto, il fallimento dei soci illimitati).
In pratica, la liquidazione volontaria di una società di persone senza ricorso al fallimento è possibile anche in presenza di debiti insoddisfatti, poiché i creditori hanno comunque la garanzia del patrimonio personale dei soci. La cancellazione può avvenire, ma i soci rimangono debitori per qualunque importo non pagato con l’attivo sociale. Ciò non toglie che, se l’insolvenza è grave, anche per le società di persone può convenire ricorrere a una procedura concorsuale collettiva (es. concordato preventivo o liquidazione giudiziale) per gestire in modo ordinato il soddisfacimento parziale e l’eventuale esdebitazione personale dei soci. Spesso però, per importi modesti o accordi con i creditori, si procede senza tribunale: i soci pagano il possibile e si accollano eventuali debiti residui.
Esempio pratico: La XYZ S.n.c. ha 3 soci illimitatamente responsabili. Debiti sociali €100.000, attivo sociale €30.000. In liquidazione, i liquidatori (magari gli stessi soci) pagano €30.000 ai creditori, poi la società viene cancellata. Restano €70.000 di debiti non pagati. I creditori possono ora agire contro i singoli ex soci per recuperare quei €70.000. Ciascun socio risponde in solido per l’intero, ma una volta che uno paga più della sua quota, potrà rivalersi internamente sugli altri soci. Se i soci non pagano spontaneamente, i creditori potranno chiedere il fallimento personale dei soci (se commerciali e sopra soglia) o sequestrare/espropriare i loro beni. Non vi è limite di importo: i soci devono pagare illimitatamente. In questo esempio, se i soci non dispongono di sufficiente patrimonio, ciascuno potrebbe subire azioni esecutive (pignoramenti) sino a concorrenza dell’intero debito sociale residuo di €70.000, finché uno dei soci paga integralmente o interviene un fallimento personale.
Cessazione di un’impresa individuale con debiti
Nel caso di imprenditore individuale, non esiste una procedura di liquidazione “formale” separata dalla persona: la cessazione dell’attività avviene mediante chiusura della partita IVA e cancellazione dal Registro delle Imprese (se era iscritto). Tuttavia, i debiti d’impresa restano debiti personali dell’imprenditore. Pertanto, chiude l’impresa ma non “scompare” il debitore: i creditori potranno agire contro l’ex imprenditore come farebbero con qualsiasi debitore civile. Ad esempio, se Tizio chiude la sua ditta individuale ma ha debiti fiscali e verso fornitori, l’Agenzia delle Entrate Riscossione e gli altri creditori continueranno a notificargli cartelle esattoriali, decreti ingiuntivi ecc., pignorando i suoi beni personali (conti, stipendio, immobili) in mancanza di pagamento.
Per un imprenditore individuale sovraindebitato che intende cessare l’attività e liberarsi dei debiti, le opzioni sono sostanzialmente due:
- Pagare i debiti residui volontariamente, magari attingendo al patrimonio personale o attraverso accordi a saldo e stralcio con i creditori (se dispone di risparmi, beni liquidabili o aiuti esterni). Questa è l’ipotesi ideale ma spesso impraticabile se la persona è davvero insolvente.
- Ricorrere a una procedura concorsuale personale: se è fallibile (imprenditore commerciale sopra soglie), può egli stesso presentare istanza di fallimento personale; se invece è non fallibile (piccolo imprenditore o non commerciale), può accedere alle procedure di sovraindebitamento previste dal Codice della Crisi (ad esempio un piano del consumatore se i debiti sono per lo più personali/familiari, un concordato minore se ha crediti e vuole evitare la liquidazione, o direttamente la liquidazione controllata del sovraindebitato se intende mettere a disposizione tutti i suoi beni). In particolare, la liquidazione controllata (v. sezione dedicata) permette di liquidare l’intero patrimonio sotto controllo del tribunale e, al termine, ottenere la esdebitazione (cancellazione dei debiti residui non pagati), offrendo un vero “fresh start” all’ex imprenditore. Anche la liquidazione giudiziale (fallimento) per i soggetti fallibili consente l’esdebitazione del fallito persona fisica a certe condizioni.
In sintesi, chiudere una ditta individuale non comporta di per sé l’eliminazione dei debiti: serve comunque una soluzione per i debiti pendenti. Se l’imprenditore individuale non fa nulla, i creditori potranno perseguitarlo a tempo indeterminato (fino a prescrizione dei crediti, di solito 5 o 10 anni rinnovabili). Per questo, la cessazione “semplice” è consigliabile solo se i debiti sono sostenibili e verranno pagati, oppure se sono di importo tale che il debitore preferisca attendere la prescrizione (con i rischi legali connessi). In caso di sovraindebitamento grave, invece, conviene valutare le procedure concorsuali personali (fallimento o sovraindebitamento) per gestire i debiti in modo ordinato e puntare all’esdebitazione.
Domanda frequente: “Posso chiudere una S.r.l. o S.n.c. con debiti senza pagarli?” – Risposta: Non tramite la sola liquidazione volontaria ordinaria. Se si tenta di cancellare una società di capitali con debiti insoluti, i creditori potranno rivalersi sui soci (nei limiti di eventuali riparti ai soci) e sui liquidatori in caso di irregolarità. Nel caso di società di persone, i soci restano comunque illimitatamente responsabili. In pratica, chiudere legalmente un’azienda indebitata senza pagare i debiti è possibile solo attraverso una procedura concorsuale (concordato preventivo, liquidazione giudiziale o liquidazione controllata) che consenta di esdebitarsi dai debiti non soddisfatti. La liquidazione volontaria pura funziona solo se i debiti vengono saldati (direttamente o indirettamente) durante la liquidazione. Se l’azienda non è in grado di pagarli, occorre il coinvolgimento del tribunale per chiudere l’attività evitando azioni personali dei creditori.
Liquidazione giudiziale (ex “fallimento”): procedura concorsuale per imprese insolventi
La liquidazione giudiziale è la procedura concorsuale giudiziaria che, a partire dal 15 luglio 2022, ha sostituito il vecchio fallimento. Si tratta della procedura utilizzata per liquidare il patrimonio delle imprese insolventi sotto il controllo di un Tribunale, garantendo la parità di trattamento dei creditori (par condicio creditorum). Dal punto di vista pratico, le differenze tra il “fallimento” e la “liquidazione giudiziale” sono minime e principalmente terminologiche. È però importante capire quando e come si accede a questa procedura, e quali effetti produce, soprattutto in ottica di chiudere un’azienda indebitata.
Presupposti di fallibilità: La liquidazione giudiziale può essere aperta solo nei confronti di un imprenditore commerciale che si trovi in stato di insolvenza, purché non rientri nella definizione di impresa minore (art. 121 Cod. Crisi). In altre parole, riprendendo quanto detto sulle soglie dimensionali, sono soggetti alla procedura gli imprenditori (individuali o collettivi) che non dimostrino il possesso congiunto dei requisiti di cui all’art. 2, co.1, lett. d) CCII. Ciò significa, ad esempio, che una S.r.l. che supera anche solo uno dei limiti (€300k attivo, €200k ricavi, €500k debiti) è fallibile se insolvente; viceversa una micro-impresa sotto tutte le soglie non può essere dichiarata in liquidazione giudiziale e dovrà usare le procedure da sovraindebitamento. Oltre alle imprese minori, restano esclusi dalla liquidazione giudiziale anche altri soggetti: gli enti pubblici, le imprese agricole (considerate non commerciali) e in generale chi non ha i requisiti soggettivi della legge fallimentare (questi soggetti potranno però accedere alle procedure di composizione della crisi).
Il concetto di insolvenza è rimasto lo stesso: l’impossibilità del debitore di far fronte regolarmente alle proprie obbligazioni, manifestata con inadempimenti o altri fatti esteriori (art. 2 co.1 lett. b CCII). Non è richiesto un importo minimo di debito per poter fallire (il vecchio minimo di €30.000 dell’art. 15 L. Fall. è stato abrogato). In teoria, anche per un debito modesto ma non pagato a causa di dissesto conclamato si potrebbe aprire la procedura, ma in pratica i creditori (o il debitore stesso) valutano costi/benefici.
Chi può chiedere la liquidazione giudiziale: Legittimati a presentare ricorso al Tribunale sono: l’imprenditore stesso (istanza di autofallimento, oggi auto-liquidazione giudiziale), uno o più creditori insoddisfatti, oppure il Pubblico Ministero (in casi particolari, ad es. se emergono insolvenza e interesse pubblico, come in seguito a segnalazioni di autorità di vigilanza). Il ricorso va depositato presso il tribunale del luogo dove l’impresa ha la sede principale. Nella prassi, molte procedure iniziano su istanza dei creditori (es. fornitori non pagati, banca, fisco) che vogliono tutelarsi contro un’impresa insolvente; altre volte è lo stesso imprenditore, preso atto di non poter risanare la situazione, a chiedere il proprio fallimento per gestire la chiusura in modo regolamentato e poter accedere poi all’esdebitazione.
Dichiarazione di liquidazione giudiziale: Il Tribunale, verificati i presupposti (qualifica d’imprenditore commerciale, stato d’insolvenza e non piccolezza dell’impresa), dichiara con sentenza l’apertura della liquidazione giudiziale. La sentenza di solito: nomina un Curatore (professionista incaricato di gestire la procedura), nomina un Giudice Delegato alla procedura e un Comitato dei Creditori (organo consultivo di 3 creditori maggiori). Da questo momento l’impresa passa sotto il controllo della procedura concorsuale.
Effetti sull’impresa e sugli amministratori: Con la sentenza di apertura, l’imprenditore perde la disponibilità dei propri beni: gli amministratori della società fallita decadono dai poteri e la rappresentanza passa al Curatore; se l’impresa è individuale, il titolare perde la gestione del suo patrimonio personale (che viene affidato al Curatore). Gli amministratori/direttori possono anche essere sospesi o rimossi immediatamente e devono collaborare col Curatore fornendo documenti e informazioni. Le eventuali azioni esecutive individuali dei creditori rimasti inadempiuti sono bloccate (divieto di azioni esecutive e cautelari, c.d. automatic stay), poiché tutte le pretese dovranno essere accertate e soddisfatte nell’ambito della procedura collettiva. Viene spossessato anche l’eventuale liquidatore volontario in carica (se la società era già in liquidazione).
Accertamento del passivo: Il Curatore invita tutti i creditori a presentare domanda di ammissione al passivo entro una certa data. Si forma così lo stato passivo, ossia l’elenco dei crediti ammessi, con l’indicazione di eventuali cause di prelazione (privilegi, pegni, ipoteche) e dei crediti esclusi o contestati. I debiti fiscali e contributivi della società vengono anch’essi accertati nel passivo, spesso con privilegio generale sui mobili (per IVA, ritenute, contributi) o chirografo per interessi e sanzioni. Ad esempio, il debito IVA maturato prima della dichiarazione di fallimento è un credito privilegiato dello Stato nel passivo. I crediti dei soci verso la società di norma sono postergati.
Liquidazione dell’attivo: Il Curatore procede a liquidare tutti i beni aziendali: vende immobili (spesso tramite aste giudiziarie), cede beni mobili, magazzino, macchinari, e può anche decidere di vendere l’intera azienda o rami di essa se ciò massimizza il valore. Può inoltre esercitare o sciogliere i contratti pendenti in essere (il Codice prevede specifiche norme per gestire i contratti in corso). Il Curatore ha anche il potere di agire in revocatoria fallimentare per far annullare pagamenti o atti dispositivi compiuti dalla società prima del fallimento che abbiano pregiudicato la par condicio (es. pagamenti preferenziali a qualche creditore nei mesi antecedenti, cessione di beni a prezzo irrisorio a terzi/soci, ecc.). Le somme recuperate confluiscono nell’attivo da distribuire.
Riparto ai creditori: Una volta monetizzato l’attivo, il Curatore effettua i riparti ai creditori secondo l’ordine delle cause di prelazione stabilito dalla legge. Si pagano prima le spese della procedura (in prededuzione), poi i crediti con privilegio speciale (fino al ricavato del bene vincolato), quindi i privilegi generali (es. dipendenti, fisco per alcune imposte), poi gli eventuali chirografari in proporzione. Se l’attivo è esiguo, può darsi che i chirografari non ricevano nulla. Terminati i riparti (ci possono essere più riparti intermedi e uno finale), il Curatore chiede al Tribunale di chiudere la procedura.
Chiusura della procedura e destino della società/debitore: La liquidazione giudiziale si chiude con un decreto di chiusura emesso dal Tribunale, quando: sono esaurite le operazioni di liquidazione e distribuzione, oppure non ci sono fondi sufficienti per proseguire, oppure tutti i creditori sono stati soddisfatti (caso raro). Se la società era la debitrice, con la chiusura essa si estingue definitivamente e viene cancellata d’ufficio dal Registro Imprese (art. 2495 c.c. in combinato con norme del Codice della Crisi). I debiti non soddisfatti restano inesigibili verso la società (che non esiste più), ma, come già spiegato, possono eventualmente essere azionati verso soci e liquidatori nei limiti di legge. In particolare, i soci di S.r.l./S.p.A. che non hanno ricevuto nulla dal fallimento normalmente non risponderanno oltre, mentre i soci illimitati e l’imprenditore individuale, avendo responsabilità personale, rimangono obbligati ma beneficiano dell’eventuale esdebitazione (vedi oltre).
Esdebitazione (liberazione dai debiti residui): Una delle finalità moderne delle procedure concorsuali è offrire al debitore onesto ma sfortunato la possibilità di ripartire senza l’oppressione dei debiti non pagati. Nel caso di liquidazione giudiziale, solo le persone fisiche possono ottenere l’esdebitazione (la liberazione dai debiti residui verso i creditori concorsuali chirografari). Ciò riguarda dunque l’imprenditore individuale o i soci illimitatamente responsabili falliti insieme alla società. L’esdebitazione è concessa dal Tribunale su richiesta, se il fallito ha cooperato lealmente e non ha commesso irregolarità gravi. La legge attuale prevede che l’esdebitazione possa essere ottenuta anche automaticamente in certi casi: il Codice della Crisi, all’art. 278, stabilisce che il debitore persona fisica meritevole ha diritto all’esdebitazione a chiusura della procedura, salvo eccezioni (ad esempio se ha sottratto attivo o ritardato dolosamente la procedura). In ogni caso, con l’esdebitazione, i debiti residui (eccetto alcune eccezioni come obblighi di mantenimento, debiti da illecito extracontrattuale e sanzioni penali/amministrative) diventano inesigibili, e il debitore è libero di ricominciare senza quei pesi. Le società, invece, non necessitano di esdebitazione: estinguendosi, i debiti insoddisfatti “muoiono” con la società, fatta salva l’azione contro soci e liquidatori come visto.
Responsabilità degli amministratori e altri effetti: La dichiarazione di liquidazione giudiziale comporta altri effetti importanti. Gli amministratori e gli organi di controllo della società possono essere chiamati a rispondere di eventuali danni cagionati alla società o ai creditori attraverso le azioni di responsabilità esercitate dal Curatore (ad es. se hanno aggravato il dissesto, tenuto contabilità irregolare, distratto beni sociali – in quest’ultimo caso vi sono anche profili di bancarotta). Inoltre, gli atti compiuti dagli amministratori nei due anni precedenti possono essere oggetto di revocatoria se pregiudizievoli per i creditori (es. pagamenti preferenziali a taluni creditori entro l’anno, atti dispositivi a titolo gratuito entro 2 anni, ecc., secondo gli artt. 164 e ss. CCII). Sul piano fiscale e penale, l’apertura della procedura può far emergere eventuali reati fallimentari commessi dagli amministratori (bancarotta fraudolenta, documentale, preferenziale) o reati tributari (es. omesso versamento IVA) precedenti, con conseguenze personali.
Concordato preventivo liquidatorio come alternativa: Prima di ricorrere al fallimento vero e proprio, un imprenditore insolvente può valutare il concordato preventivo con finalità liquidatorie. Il concordato preventivo è una procedura concorsuale alternativa alla liquidazione giudiziale, in cui il debitore propone ai creditori un piano, che in caso liquidatorio prevede di solito la vendita dei beni e la ripartizione del ricavato con una certa percentuale di soddisfo per i chirografari. Se il piano ottiene l’approvazione delle maggioranze di legge (e l’omologa del Tribunale), la liquidazione avverrà sotto il controllo del debitore stesso o di un liquidatore concordatario, secondo le condizioni offerte (che possono prevedere ad esempio la vendita in blocco dell’azienda a un acquirente individuato, evitando la frammentazione tipica del fallimento). Il vantaggio per il debitore è che mantiene maggiore controllo e spesso evita gli stigma del fallimento; per i creditori, un piano liquidatorio può offrire un risultato pari o migliore rispetto al fallimento, con tempi potenzialmente più rapidi. Da notare che la legge richiede, nei concordati meramente liquidatori, un apporto esterno o comunque una soddisfazione minima del 20% ai creditori chirografari (art. 84 CCII), proprio per evitare che il concordato sia troppo penalizzante rispetto al fallimento. Il concordato preventivo liquidatorio non estingue automaticamente tutti i debiti (quelli non soddisfatti restano a carico del debitore, salvo egli sia una persona fisica e poi chieda esdebitazione in sede di liquidazione controllata post concordato), ma di fatto, se il piano è rispettato, il debitore può aver impiegato tutto il suo attivo nel pagamento concordatario e non avere altri beni su cui i creditori possano rivalersi. In sintesi, per l’imprenditore che voglia chiudere l’azienda insolvente evitando l’iter del fallimento, il concordato preventivo è una strada percorribile – se fattibile e approvabile dai creditori – ma richiede di presentare un piano dettagliato e talora complesso. In questa guida ci concentriamo principalmente sulla liquidazione giudiziale “classica”, ma è bene ricordare l’esistenza del concordato come alternativa consensuale.
Domanda frequente: “Quali sono i rischi personali per l’imprenditore nel fallimento (liquidazione giudiziale)?” – Risposta: Per le società di capitali, il rischio principale è per amministratori e organi di controllo, che possono subire azioni di responsabilità se hanno gestito male la società causando danni ai creditori. I soci di regola perdono il capitale investito ma, salvo garanzie personali prestate o prelievi indebiti, non subiscono richieste ulteriori oltre quanto eventualmente percepito in liquidazione. Tuttavia, per i debiti fiscali la Cassazione ha chiarito che l’Amministrazione finanziaria può agire contro gli ex soci anche se non hanno ricevuto nulla, basandosi su presunzioni di distribuzione occulta in società a ristretta base (vedi paragrafo fiscale). I soci illimitatamente responsabili e gli imprenditori individuali falliti rispondono con tutto il patrimonio, ma possono ottenere l’esdebitazione liberatoria finale. Va considerato anche il profilo penale: se emergono fatti di bancarotta fraudolenta o altri reati, gli amministratori (o il fallito persona fisica) potranno essere perseguiti penalmente. In generale però, se l’insolvenza è gestita correttamente e senza frodi, la liquidazione giudiziale è uno strumento che, pur doloroso, consente di regolare la chiusura dell’impresa e – per le persone fisiche – di ripartire puliti dai debiti.
Liquidazione coatta amministrativa (L.C.A.)
La liquidazione coatta amministrativa è una procedura concorsuale speciale, prevista per particolari categorie di imprese, che viene avviata non dal Tribunale civile ma da un’autorità amministrativa (ministero o ente di vigilanza) mediante un provvedimento formale. È utilizzata quando la legge di settore la prevede espressamente, tipicamente per imprese che operano in campi di pubblico interesse o sottoposti a vigilanza pubblica. Scopo della L.C.A. è simile al fallimento: liquidare il patrimonio dell’ente insolvente o irregolare e soddisfare i creditori secondo la par condicio, ma la gestione è affidata alla Pubblica Autorità anziché al tribunale fallimentare ordinario.
Imprese soggette a L.C.A.: Esempi classici sono: le banche e gli intermediari finanziari, le assicurazioni, alcune imprese industriali partecipate da enti pubblici (storicamente imprese ex IRI), e soprattutto le società cooperative (quando previsto dalle leggi speciali). Ad esempio, le cooperative insolventi sono spesso poste in liquidazione coatta con decreto del Ministero delle Imprese (ex MISE), su proposta delle autorità di vigilanza; le banche sono liquidate con decreto del Ministero dell’Economia su proposta della Banca d’Italia (oggi per le banche vi sono anche le procedure di risoluzione secondo normative UE). Anche imprese private di altro tipo possono finire in L.C.A. se leggi speciali lo dispongono in caso di gravi irregolarità o insolvenza (ad es. alcune imprese del settore trasporti pubblici, consorzi agrari in passato, ecc.). La L.C.A. può applicarsi perfino ad enti non societari, purché rientranti nelle categorie di legge (ad esempio, casse mutue, enti previdenziali privatizzati, etc., se la normativa lo prevede).
Come si avvia: La liquidazione coatta amministrativa viene disposta con un provvedimento dell’autorità competente (ad esempio un decreto ministeriale), di solito su segnalazione dell’ente di vigilanza oppure dopo accertamento dello stato di insolvenza dell’ente. Ad esempio, per una cooperativa, il Ministero esamina la situazione di crisi e può emanare decreto di scioglimento della cooperativa con contestuale messa in liquidazione coatta. Non è richiesta un’istanza dei creditori o dell’impresa stessa, benché talvolta l’organo amministrativo dell’ente possa sollecitare l’intervento dell’autorità di vigilanza. Una volta emesso il provvedimento, esso viene pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale ed è equiparabile alla sentenza dichiarativa di fallimento.
Organi della L.C.A.: L’autorità che ordina la liquidazione nomina uno o più Commissari Liquidatori, che sostituiscono gli organi amministrativi dell’impresa e ne gestiscono la liquidazione. Può essere nominato anche un Comitato di sorveglianza. Il ruolo del commissario è analogo a quello del curatore fallimentare, ma sotto la supervisione dell’autorità amministrativa (che spesso è il Ministero vigilante). Per garantire la pubblicità e informare tutti i soggetti coinvolti, la legge prevede la pubblicazione del provvedimento di L.C.A. in Gazzetta Ufficiale e l’iscrizione al Registro delle Imprese.
Procedura di liquidazione: Una volta insediato, il Commissario liquidatore prende possesso dell’azienda e redige l’inventario. I creditori devono presentare le domande di ammissione al passivo al Commissario (similmente a quanto accade nel fallimento); segue un esame delle pretese e la formazione dello stato passivo. Anche qui, i crediti privilegiati e ipotecari hanno prelazione sulle attività vincolate. Il Commissario liquida i beni dell’impresa con modalità spesso analoghe a quelle fallimentari (vendite autorizzate dall’autorità vigilante, eventualmente con bandi pubblici). Successivamente predispone il piano di riparto e distribuisce le somme tra i creditori secondo i ranghi.
Un elemento peculiare è che nella L.C.A. possono intervenire direttive specifiche dell’autorità: ad esempio, nelle banche o assicurazioni, l’autorità di vigilanza può indirizzare le operazioni (anche disponendo cessioni di attività a soggetti terzi nell’interesse dei depositanti o assicurati). La durata della L.C.A. varia: può protrarsi per anni, specie nelle cooperative con patrimonio immobiliare da vendere.
Chiusura e effetti finali: Al termine, l’autorità emanante (es. il Ministero) dichiarerà chiusa la liquidazione coatta. La chiusura avviene quando si è completato il pagamento dei creditori (per quanto possibile) e liquidato tutto il patrimonio. Similmente al fallimento, l’ente viene cancellato dal registro e cessa di esistere. I debiti non soddisfatti rimangono a carico eventualmente di garanti o coobbligati, ma per l’ente in sé non c’è prosecuzione (ad es. i soci di cooperativa non hanno in genere obbligo di versamenti ulteriori oltre la quota conferita, salvo diversa responsabilità prevista dallo statuto; i soci di cooperative a responsabilità illimitata invece continuano a rispondere come in società di persone). Non è prevista una procedura di esdebitazione formale per i soggetti coinvolti in L.C.A., se non che l’ente cessando non può più essere escusso e i soci rimangono protetti dal principio della responsabilità limitata (per le cooperative e società di capitali).
Confronto con il fallimento: La liquidazione coatta amministrativa, pur avendo finalità analoghe, si differenzia perché: (a) è riservata a categorie speciali di imprese; (b) è gestita dall’autorità pubblica (che tutela interessi pubblicistici, es. risparmio, assicurati, ecc.); (c) spesso non necessita di insolvenza conclamata, potendo essere disposta anche per gravi irregolarità amministrative che mettano a rischio l’impresa (nel qual caso la L.C.A. funge da intervento “preventivo” per evitare danni a utenti/correntisti). I creditori però vedono soddisfatte le loro ragioni secondo le stesse priorità del fallimento. Ad esempio, i depositanti di una banca in L.C.A. sono creditori chirografari (fino alla copertura del fondo interbancario di tutela, oltre la quale partecipano al concorso).
Per l’imprenditore debitore, la L.C.A. è meno “iniziativa” sua e più un evento subito. Difficilmente un imprenditore preferisce la L.C.A. al fallimento volontario, perché la L.C.A. si applica quando la legge lo impone. Tuttavia, va menzionato che alcuni imprenditori (es. di cooperative o altre imprese) possono segnalare la propria situazione all’autorità vigilante per sollecitare una L.C.A. piuttosto che un fallimento ordinario, specie se confidano in una gestione più “morbida” per ragioni politiche o di tutela di alcuni stakeholder (es. dipendenti). Questo però esula dallo standard: generalmente, se rientrate in questi settori, dovete essere consapevoli che non sarà il tribunale fallimentare a occuparsi della vostra liquidazione, ma il Ministero o ente preposto, e le regole seguiranno la legge speciale (comunque richiamando, in via residuale, molte norme della legge fallimentare).
Esempi di L.C.A.: Una banca insolvente verrà avviata a L.C.A. su iniziativa di Banca d’Italia, con contestuale sospensione dell’attività e nomina di Commissari (salvo che scattino procedure di risoluzione bancaria europee). I correntisti e creditori della banca faranno domanda al Commissario; i beni della banca (crediti, immobili) saranno venduti o ceduti ad altre banche; infine i creditori verranno pagati. – Una cooperativa edilizia in crisi finanziaria potrà essere sciolta dal Ministero, che nomina un commissario liquidatore: questi tenterà di vendere gli immobili invenduti, incassare dai soci eventuali quote dovute, e pagare i creditori (banche finanziatrici, fornitori, ecc.). Se i soci avevano prestato particolari garanzie (es. fideiussioni), potranno essere escussi per i debiti non pagati.
Nota: La L.C.A., essendo disposta con atto amministrativo, è soggetta a eventuale impugnazione davanti al giudice amministrativo (TAR), ma raramente ciò porta a sospensione o annullamento, salvo vizi procedurali.
Liquidazione controllata del sovraindebitato (Codice della Crisi)
La liquidazione controllata è la nuova procedura concorsuale prevista dal Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (D.Lgs. 14/2019) per la gestione dell’insolvenza dei soggetti non fallibili, cioè le persone fisiche e giuridiche escluse dalla liquidazione giudiziale (ex fallimento) perché sovraindebitate. Essa costituisce l’evoluzione della “liquidazione del patrimonio” introdotta dalla Legge 3/2012 (ora abrogata e confluita nel Codice). Lo scopo è analogo alle altre procedure: liquidare tutti i beni del debitore per soddisfare i creditori in modo proporzionale, ma con alcune peculiarità: può essere richiesta anche dai creditori, si rivolge a debitori civili e piccoli imprenditori, e consente al debitore una esdebitazione più ampia e rapida.
Chi può accedere: Possono essere soggetti a liquidazione controllata i debitori sovraindebitati, definiti dal Codice come coloro che si trovano in squilibrio economico tale da non poter pagare i propri debiti (stato di insolvenza o crisi) e che non sono soggetti o non hanno i requisiti per la liquidazione giudiziale. In pratica: il consumatore privato (es. un individuo con soli debiti personali, non imprenditore), il piccolo imprenditore sotto soglia, l’imprenditore agricolo, il professionista, la start-up innovativa non fallibile, le associazioni e fondazioni, e in genere chi è escluso dal fallimento, purché abbia debiti > zero e sia insolvente. Anche l’ex imprenditore fallibile ma la cui insolvenza è emersa oltre l’anno dalla cessazione può usare queste procedure (infatti il fallimento può essere dichiarato entro 1 anno dalla cancellazione dell’impresa dal Registro Imprese, dopodiché l’unica strada per i creditori è attivare la liquidazione controllata come persona sovraindebitata). Importante: a differenza del passato, anche i creditori possono avviare la procedura di liquidazione controllata, non essendo più necessaria la sola iniziativa volontaria del debitore.
Inizio della procedura: La liquidazione controllata si apre con un ricorso al Tribunale presentato dal debitore sovraindebitato oppure da uno o più creditori. Il Tribunale competente è quello del luogo di residenza o sede principale del debitore. Nel ricorso vanno indicati l’elenco dei beni, dei debiti, dei creditori, ecc., allegando la documentazione prevista (dati contabili, dichiarazioni fiscali, attestazione sulla propria insolvenza). Di norma, il debitore si avvale di un Organismo di Composizione della Crisi (OCC) o di un professionista per predisporre l’istanza e tutta la documentazione, specie se è lui a presentarla. Se invece a chiedere la procedura è un creditore, il Tribunale ne dà comunicazione al debitore, il quale ha la facoltà – entro un termine – di presentare a sua volta domanda per un procedimento alternativo (ad es. un concordato minore o un piano di ristrutturazione), che verrebbe preferito se potenzialmente più vantaggioso per i creditori. Questa è una novità importante: il debitore, anche se chiamato in liquidazione forzata dai creditori, può “dirottare” verso un concordato minore o un piano del consumatore se offre maggior convenienza, evitando così la liquidazione forzosa. Se però il debitore non presenta alternative, o queste vengono dichiarate inammissibili, il Tribunale procede con la liquidazione controllata.
Il Tribunale, verificata la sussistenza dei presupposti (sovraindebitamento, competenza territoriale, regolarità documentazione), dichiara con sentenza l’apertura della liquidazione controllata (art. 270 CCII). Con la sentenza viene nominato un Giudice Delegato e soprattutto un Liquidatore (figura analoga al curatore, spesso scelto tra i gestori della crisi dell’OCC o professionisti iscritti). Da notare: se pendeva già un procedimento di liquidazione giudiziale, la liquidazione controllata non può essere dichiarata sugli stessi beni, e viceversa, per evitare sovrapposizioni (in pratica, un debitore non fallibile non dovrebbe avere procedure aperte in parallelo).
Effetti dell’apertura: Gli effetti per il debitore sono simili a quelli del fallimento: scatta il divieto di azioni esecutive individuali, i beni del debitore (tutti quelli pignorabili) diventano oggetto della procedura e vengono sottratti alla sua disponibilità. Il Liquidatore nominato dal giudice sostituisce il debitore nell’amministrazione del patrimonio e procede a liquidarlo nell’interesse dei creditori. Il debitore ha comunque l’obbligo di collaborazione, di consegna di documenti e informazioni come nel fallimento. Non c’è però – di norma – una dichiarazione di insolvenza infamante come il fallimento: la liquidazione controllata è concepita in modo meno “punitivo” socialmente, per incoraggiare i debitori onesti a usarla.
Accertamento del passivo e liquidazione: Anche qui i creditori devono presentare domanda di insinuazione al passivo al Liquidatore entro i termini fissati (comunicati con apposito avviso). Il Liquidatore forma lo stato passivo, che viene sottoposto al giudice per l’esame delle contestazioni. I crediti sono trattati in modo analogo al fallimento: privilegiati, chirografari, ecc., con rispettiva graduatoria. Il Liquidatore poi procede a vendere i beni del debitore. Nel caso di persona fisica, ovviamente saranno liquidati i suoi beni personali (con eccezioni di legge: ad es. beni impignorabili come stipendi minimi, alcuni mobili essenziali, eventuali pensioni di invalidità, ecc., non sono toccati). Se il debitore è un imprenditore, si liquida l’azienda o i suoi asset. Il Liquidatore può compiere atti di gestione ed eventualmente anche proseguire temporaneamente l’impresa se ciò aumenta il valore di realizzo (ad esempio completare la produzione in corso prima di vendere il magazzino). Non essendoci “azienda” in molti casi (es. consumatore persona fisica), spesso si tratta di vendere immobili, auto, o altri beni disponibili.
Soddisfacimento dei creditori: Una volta monetizzato il patrimonio, si effettuano i riparti tra i creditori secondo l’ordine di privilegi. Non c’è differenza sostanziale rispetto alle regole di distribuzione nel fallimento. Ad esempio, i crediti alimentari o di lavoro hanno privilegio, i crediti fiscali pure in parte, ecc. Terminata la liquidazione, il Liquidatore presenta il rendiconto finale e il Giudice può dichiarare chiusa la procedura se tutto l’attivo è esaurito.
Esdebitazione del sovraindebitato: Questo è un punto cruciale e un vantaggio notevole per il debitore persona fisica. Il Codice della Crisi prevede (artt. 278-282 CCII) che il debitore, ottenuta la chiusura della liquidazione controllata, possa chiedere di essere liberato dai debiti residui non soddisfatti. Le condizioni sono simili a quelle dell’esdebitazione fallimentare: assenza di condotte fraudolente, cooperazione durante la procedura, nessun beneficio già ottenuto nei 5 anni precedenti, ecc. Ma c’è di più: l’art. 283 CCII introduce l’esdebitazione di diritto del debitore incapiente, detta anche “esdebitazione a costo zero”. Questa norma consente al debitore persona fisica meritevole, che non sia in grado di offrire ai creditori alcuna utilità nemmeno in futuro, di ottenere la liberazione dai debiti anche senza alcun pagamento ai creditori. In pratica, se un individuo nullatenente e senza reddito subisce una liquidazione controllata in cui i creditori non ricevono nulla (perché non c’è attivo) – oppure se addirittura, riconosciuta la sua totale incapienza, si potrebbe evitare di aprire la procedura – il tribunale può comunque dichiarare inesigibili i suoi debiti, dandogli la possibilità di ricominciare. Questa esdebitazione “immediata” richiede però che il debitore sia meritevole (non deve aver colpe nel proprio sovraindebitamento, né aver frodato i creditori) e resta annotata per 4 anni: se nei 4 anni successivi il debitore acquisisce nuovi beni redditizi, i creditori originari potrebbero venir soddisfatti con quelli (il beneficio definitivo scatta dopo il quadriennio, se la situazione rimane disperata). Si tratta di una novità importante, recepita dalla normativa europea, per dare una “seconda chance” ai debitori civili onesti ma sfortunati.
Va sottolineato che l’esdebitazione, sia quella “classica” sia quella per incapienti, non copre alcuni tipi di debiti: in generale restano esclusi dall’esdebitazione i debiti di natura alimentare/familiare (es. assegni di mantenimento), le obbligazioni derivanti da condotte illecite (risarcimenti da responsabilità civile per fatti dolosi) e le sanzioni penali o amministrative pecuniarie che non siano suscettibili di inclusione in concorso (le multe, ad esempio, non vengono cancellate, così come le ammende penali). La gran parte dei debiti “economici” (finanziamenti, fornitori, cartelle esattoriali per imposte) invece viene cancellata dall’esdebitazione.
Conclusione della procedura: La liquidazione controllata si chiude con decreto motivato del tribunale. Se il debitore è persona fisica, può contestualmente ottenere la liberazione dei debiti residui (o ottenerla in separato decreto). Se il debitore era un ente (es. una società di persone non fallibile, un’associazione), quell’ente cessa di esistere con la chiusura e i crediti non soddisfatti non sono più esigibili salvo che verso eventuali coobbligati (es. soci illimitati, che però nel nostro scenario sarebbero stati anch’essi parte della procedura come persone fisiche, quindi idealmente esdebitati). Una volta chiusa la procedura, per cinque anni il debitore persona fisica non può ottenere beneficio di altra esdebitazione (né da fallimento né da altra liquidazione controllata).
Esempio pratico (consumatore sovraindebitato): Maria, persona fisica non imprenditrice, ha accumulato €100.000 di debiti (prestiti, carte di credito, bollette arretrate) e non possiede beni di valore se non un’auto usata e modesti risparmi. Non riesce a pagare. Maria si rivolge a un OCC e avvia una liquidazione controllata. Il tribunale apre la procedura, nomina il Liquidatore. Vengono venduti l’auto e usato il conto di risparmi (ricavando €10.000 totali). I creditori presentano domanda ma ricevono solo un riparto del 10%. A fine procedura, Maria chiede l’esdebitazione: il tribunale la concede, liberandola dagli ulteriori €90.000 rimasti scoperti. Maria potrà così ripartire senza quei debiti (anche se la notizia rimarrà visibile e se dovesse ereditare una casa entro 4 anni, i vecchi creditori potrebbero rifarsi su quella, nell’ambito della disciplina dell’incapienza).
Esempio pratico (piccolo imprenditore): La Delta S.n.c., composta da due soci, ha debiti €300.000, attivo solo €50.000, ed è sotto le soglie di fallibilità. I soci non vogliono che i creditori aggrediscano per anni i loro beni personali. Possono congiuntamente accedere alla liquidazione controllata come soggetti sovraindebitati: il tribunale aprirà un’unica procedura per l’insolvenza della S.n.c. e dei soci illimitati (spesso si fa un “procedimento unitario” di gruppo familiare). Verrà liquidato sia l’attivo sociale (€50.000) sia eventuali beni personali ulteriori dei soci (mettiamo altri €50.000). I creditori ricevono magari €100.000 su 300.000 (33%). Al termine, i soci chiedono l’esdebitazione e ottengono la cancellazione dei residui €200.000. La S.n.c. viene cancellata. I soci ripartono puliti dai debiti (perdendo i beni liquidati, ma proteggendo futuri redditi). I creditori hanno ricevuto tutto ciò che era possibile in quella situazione, in modo ordinato e rapido, invece di inseguire i soci con processi individuali.
Domanda frequente: “Ho molti debiti personali e ho chiuso la mia attività. Meglio la liquidazione controllata o sperare che i creditori rinuncino?” – Risposta: Se i debiti sono ingenti e il patrimonio insufficiente, la liquidazione controllata offre la possibilità di liberarsi legalmente dei debiti residui, a fronte della liquidazione di tutti i beni disponibili e di un periodo (4 anni) in cui eventuali sopravvenienze vanno ai creditori. Sperare nell’inazione dei creditori è rischioso: potrebbero attivare pignoramenti o decreti per decenni, tenendovi in uno stato di continua esposizione. Inoltre, oggi i creditori stessi possono chiedere la liquidazione controllata se siete insolventi, esponendovi a una procedura non volontaria. Meglio essere proattivi: valutate con un OCC la fattibilità della liquidazione controllata o di un piano di ristrutturazione (se avete un reddito e volete evitare di liquidare beni). In ogni caso, ignorare il problema raramente porta alla soluzione, anzi rischiate aggravio di interessi, more e azioni giudiziarie. La liquidazione controllata è una via d’uscita legale e definitiva dai debiti per il sovraindebitato onesto.
Aspetti fiscali nella liquidazione di imprese indebitate
La gestione dei debiti tributari (tasse, IVA, ritenute) e dei debiti contributivi (INPS, INAIL) merita un approfondimento specifico, poiché queste tipologie di credito presentano peculiarità sia nelle procedure concorsuali sia fuori di esse. Inoltre, la normativa fiscale prevede responsabilità talvolta in capo a soci o amministratori per il mancato pagamento di imposte in certi scenari. Esaminiamo dunque cosa accade ai debiti verso il Fisco quando si liquida un’azienda indebitata, e quali strumenti esistono per gestirli.
Debiti fiscali in liquidazione volontaria: Nel caso di chiusura volontaria di una società, tutte le imposte dovute (IRES, IRAP, IVA) devono essere regolate fino alla data di cessazione. La società in liquidazione dovrà presentare le dichiarazioni fiscali finali (dichiarazione dei redditi finale, dichiarazione IVA di cessazione) e versare le eventuali imposte dovute su liquidazione di riserve, plusvalenze da cessione di beni, etc. Se la società ha debiti tributari arretrati (ad es. IVA non versata degli anni precedenti, debiti da cartelle esattoriali), questi sono crediti come gli altri: il liquidatore dovrà pagarli prima di distribuire alcunché ai soci, perché il Fisco gode spesso di privilegio (per IVA, ritenute, contributi previdenziali) e comunque sarebbe un creditore da soddisfare insieme agli altri. In una liquidazione volontaria “con attivo sufficiente”, i debiti fiscali vengono dunque pagati integralmente (magari utilizzando anche i contributi dei soci se l’attivo non basta). Non è possibile cancellare una società lasciando volontariamente impagati i debiti fiscali: se il liquidatore tentasse di farlo, violerebbe l’obbligo di soddisfare i creditori secondo l’ordine delle prelazioni e potrebbe essere ritenuto responsabile in proprio del mancato pagamento. Oltretutto, l’art. 2495 c.c. (come visto) consente all’Erario di agire sui soci entro i limiti delle somme da essi riscosse. Quindi, se una società distribuísse attivo ai soci senza aver pagato l’IVA dovuta, l’Agenzia Entrate potrebbe pretendere dai soci la restituzione di quanto incassato per coprire l’IVA impagata.
Tuttavia, può succedere che in liquidazione volontaria non vi siano materialmente fondi per pagare i debiti tributari. Il liquidatore potrebbe allora procedere ugualmente alla cancellazione della società perché non ci sono attivi da liquidare. In tal caso, cosa può fare il Fisco? La società una volta estinta perde la propria soggettività e non può essere destinataria di cartelle o accertamenti – ma il legislatore è intervenuto per evitare che la cancellazione diventi uno “schermo” per sfuggire al Fisco. Infatti, in via generale, la Cassazione ha affermato che i debiti tributari “sopravvivono” in capo ai soci, anche se questi non hanno ricevuto nulla in liquidazione, mediante una successione nel debito d’imposta. In particolare, con ordinanza n. 20840 del 18/07/2023, la Suprema Corte ha stabilito che, in caso di S.r.l. a ristretta base sociale, i soci rispondono dei debiti fiscali della società estinta pure se non hanno percepito utili in sede di liquidazione, basandosi su presunzioni di distribuzione occulta di utilità. Inoltre, esiste una norma specifica (art. 28, co.4, D.Lgs. 175/2014) che consente all’Amministrazione finanziaria di notificare avvisi di accertamento tributario ad una società entro 5 anni dalla cancellazione; ciò al fine di consolidare le pretese fiscali anche post-estinzione. Tali avvisi si traducono poi in cartelle esattoriali a carico dei soci, indipendentemente dall’aver essi ricevuto riparti. In pratica, i soci diventano i nuovi debitori d’imposta dopo la chiusura, in solido tra loro, con limite quantitativo pari al debito originario (e ciascuno può rivalersi sugli altri pro quota). Ad esempio, se Alfa S.r.l. si estingue con €50.000 di IVA non pagata, l’Agenzia Entrate Riscossione potrà notificare ai soci una cartella per €50.000, ed essi dovranno pagarla tra loro (ciascuno poi potrà chiedere agli altri soci la quota parte). Non rileva che non abbiano ricevuto €50.000 di attivo: la norma fiscale crea una sorta di “responsabilità solidale post-estinzione” per i debiti tributari. L’unica limitazione è che se un socio paga più della sua quota, potrà rivalersi sugli altri. Questa disciplina è peculiare e spesso contestata, ma ormai consolidata in giurisprudenza. Dunque, chi pensa di chiudere la società e far perdere le tracce al Fisco è in errore: l’Erario ha strumenti per perseguire soci e amministratori.
Per gli amministratori, va ricordato che essi non sono in generale personalmente responsabili dei debiti tributari della società (vige la responsabilità limitata), tuttavia possono incorrere in responsabilità per mala gestio se omettono i versamenti dovuti quando la società aveva le risorse per pagarli. In altre parole, se l’amministratore di una società in bonis decide di non pagare l’IVA o le ritenute per fare altre spese, causando sanzioni e interessi, la società (o il Curatore in caso di fallimento) potrà agire contro di lui per i danni corrispondenti a sanzioni e aggravi. Ancora più rilevante: se l’amministratore, sapendo la società insolvente, occulta o distrae fondi che avrebbero potuto pagare imposte, o preferisce pagare altri creditori invece del Fisco per dolo, può incorrere in responsabilità personale diretta e persino in reati tributari (es. sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, punita dall’art. 11 D.Lgs. 74/2000, o bancarotta preferenziale se in fallimento). La responsabilità penale scatta anche per omesso versamento IVA oltre soglia (€250k) e omesso versamento ritenute oltre soglia (€150k), reati di cui risponde l’amministratore che ha omesso di pagare (sempreché non provi che non aveva liquidità per cause non imputabili a lui).
In sintesi, in liquidazione volontaria: pagare prima il Fisco è d’obbligo (in concorso con eventuali altri creditori privilegiati). Se ciò non avviene per incapienza, la cancellazione non mette al riparo i soci che, come visto, saranno chiamati a rispondere. L’amministratore deve agire con correttezza: se c’è cassa, pagare le imposte per evitare sanzioni; se non c’è cassa, documentare la mancanza di fondi (un amministratore può evitare responsabilità di mala gestio provando che l’omissione fu dovuta a incapienza ex art. 1218 c.c.).
Debiti fiscali nel fallimento (liquidazione giudiziale): Nel fallimento, i debiti fiscali della società diventano crediti concorsuali. L’Agenzia delle Entrate e l’Agente della Riscossione presentano domanda di ammissione al passivo. Di solito, i debiti IVA e ritenute hanno privilegio generale mobiliare (art. 2752 c.c.), le sanzioni e gli interessi sono chirografari. I debiti per imposte dirette (IRES) sono chirografari (salvo eventuali privilegi iscritti su beni specifici). Questo significa che, nella ripartizione, lo Stato verrà soddisfatto dopo i creditori con pegno/ipoteca e i lavoratori, ma prima dei fornitori chirografari, almeno sul realizzo dei beni mobili. Se il fallimento non produce attivo sufficiente, anche lo Stato rimane insoddisfatto (lo si considera un rischio fisiologico, accettato nell’ambito della procedura concorsuale). Non a caso, la legge consente allo Stato di aderire a concordati preventivi o accordi di ristrutturazione con stralcio parziale dei debiti fiscali (transazione fiscale, art. 63 CCII), proprio perché in caso di fallimento potrebbe recuperare ancora meno. Quindi, il fallimento “taglia” di fatto i debiti fiscali come gli altri: se non c’è attivo, il Fisco non riscuote (tranne potersi rivalere su garanti o soci illimitati fuori dalla procedura).
Per l’imprenditore individuale o i soci falliti personalmente, dopo il fallimento possono chiedere l’esdebitazione, la quale si estende anche ai debiti tributari residui (ad eccezione di eventuali multe penali e pochi altri). L’unica particolarità: l’esdebitazione non cancella le sanzioni amministrative pecuniarie (multe) poiché non sono passate in concorso, e non cancella i debiti per il risarcimento di danni erariali per dolo. Ma i debiti IVA, IRES, IRPEF etc., se ammessi al passivo, saranno coperti dall’esdebitazione allo stesso modo dei debiti verso fornitori. Questo punto è importante: diversamente da altri ordinamenti, in Italia anche il debito IVA può essere perdonato tramite fallimento/esdebitazione, poiché non è considerato aiuto di Stato ma conseguenza di insolvenza (la Corte di Giustizia UE lo ha permesso in casi di esdebitazione post liquidazione concorsuale). Pertanto, l’imprenditore persona fisica che fallisce e ottiene esdebitazione viene liberato anche dal debito IVA, IRPEF, ecc. che non sia stato pagato nella procedura.
Debiti fiscali nelle procedure da sovraindebitamento (concordati minori, liquidazione controllata): Similmente al fallimento, i debiti fiscali rientrano nel concorso. Nella liquidazione controllata, il Fisco farà domanda di ammissione e parteciperà ai riparti con i suoi privilegi. A fine procedura, se il debitore è persona fisica esdebitato, i residui tributari vengono cancellati (anche qui con eccezioni minime). Nel concordato minore o nel piano del consumatore, invece, il debitore può proporre di stralciare parzialmente i debiti fiscali ma deve inserire una specifica “transazione fiscale” (art. 65 CCII) indicando trattamento e grado di soddisfo dei tributi, su cui l’Amministrazione si esprimerà. La proposta deve garantire che il Fisco ottenga almeno quanto otterrebbe in una liquidazione (principio di convenienza). In passato (legge 3/2012) c’era un dibattito se si potessero falcidiare l’IVA e le ritenute; oggi è chiaro che nelle procedure concorsuali è possibile ridurre anche IVA e ritenute se i creditori approvano e c’è convenienza (la CJUE lo consente in ambito concorsuale collettivo). Quindi un consumatore in piano può proporre di pagare ad esempio solo il 50% dell’IVA dovuta, se dal suo patrimonio quella è la percentuale stimata di realizzo.
Piani di rateizzazione e definizioni agevolate: Un imprenditore indebitato con il Fisco potrebbe valutare, prima di arrendersi alla liquidazione, di chiedere una rateizzazione del debito fiscale. La legge consente piani fino a 72 rate mensili (6 anni) automaticamente per debiti fino a €120.000 circa per ente impositore, e piani straordinari fino a 120 rate (10 anni) in casi di grave difficoltà comprovata. Attivare un piano di rateizzo con l’Agenzia Entrate-Riscossione sospende le azioni esecutive e consente di diluire il pagamento. Tuttavia, se l’impresa è destinata alla chiusura e non ha flussi di cassa, un piano di rate non risolve il problema alla radice: spesso porta solo a guadagnare tempo, ma se le rate non vengono pagate la dilazione decade. In ottica liquidazione, un piano può essere utile se i soci vogliono pagare gradualmente il debito fiscale residuo anche dopo la chiusura, magari garantendo personalmente le rate. Ma se si va verso una procedura concorsuale, la rateazione viene travolta dalla procedura stessa (il debito residuo diventa esigibile in massa e va in concorso). Quindi ha senso prima di una procedura, per evitare il default immediato e provare a sistemare la situazione senza tribunale.
Negli ultimi anni, il legislatore ha spesso introdotto misure di definizione agevolata delle cartelle (c.d. rottamazione). Ad esempio, la “Rottamazione-quater” prevista dalla L. 197/2022 ha consentito ai debitori di stralciare sanzioni e interessi di mora sulle cartelle 2000-2017, pagando solo l’imposta dovuta con una dilazione in 18 rate. Queste misure possono essere provvidenziali per ridurre il carico fiscale prima di procedere alla liquidazione dell’azienda. Un imprenditore che pianifica la chiusura, se ha cartelle esattoriali, dovrebbe verificare se può aderire a condoni o rottamazioni per abbattere la parte di sanzioni e interessi, diminuendo così il debito da dover eventualmente affrontare in procedura o in sede di richiesta ai soci. Ad esempio, nel 2023 la rottamazione-quater ha permesso di eliminare tutte le sanzioni e interessi: una società con €100.000 di cartelle di cui 30% di sanzioni poteva ridurre il debito a €70.000, rendendo più facile trovare un accordo transattivo con i creditori o saldare quel minore importo.
Responsabilità fiscale di soci e amministratori: Riassumendo i punti chiave:
- Soci di S.r.l./S.p.A.: rispondono pro quota dei debiti tributari in sede di liquidazione societaria (come di altri debiti) se hanno percepito distribuzioni. Inoltre, per le imposte non versate (specie IVA) l’Agenzia può agire contro di loro post estinzione anche se non hanno ricevuto nulla, provando una distribuzione implicita. Ciò è frequente nelle società a ristretta base: il Fisco presume che la mancanza di attivo derivi da utili occultamente distribuiti ai soci (presunzione che i soci possono provare di vincere dimostrando, ad esempio, perdite e assenza di movimenti finanziari sospetti).
- Amministratori: Non sono garanti del pagamento imposte per legge (diverso dal sostituto d’imposta: lì la società è debitrice, non l’amministratore). Tuttavia, se hanno gestito male la società preferendo altri pagamenti al Fisco, i creditori (in primis la società stessa tramite Curatore) possono citarli per danni (es. ammontare di sanzioni e interessi provocati dal mancato versamento dovuto a colpa). Inoltre, ci sono casi specifici di responsabilità solidale fiscale (ad es. l’art. 36 D.P.R. 602/1973: soci e amministratori rispondono delle imposte nei due anni precedenti la liquidazione se hanno distribuito beni ai soci senza soddisfare il Fisco). Questo articolo prevede che se nei due anni prima della messa in liquidazione i soci hanno ricevuto denaro o beni dai quali è derivata l’impossibilità per la società di pagare le imposte, quei soci e gli amministratori che hanno disposto le assegnazioni ne rispondono verso l’Erario. È una norma che tutela il Fisco da liquidazioni “allegre” in cui si svuota la società a favore dei soci.
- Reati tributari: Gli amministratori possono avere responsabilità penale per: omesso versamento IVA, omesso versamento ritenute, indebita compensazione, frodi IVA, emissione di fatture false, occultamento di contabilità, ecc., se tali fatti emergono. La liquidazione/fallimento spesso porta alla luce queste violazioni. Anche i liquidatori potrebbero incorrere nel reato di sottrazione fraudolenta al pagamento imposte se, ad esempio, svendono beni a prestanome per non farli aggredire dal Fisco durante la liquidazione.
Conclusione sui debiti fiscali: Dal punto di vista dell’imprenditore indebitato, è fondamentale non trascurare il dialogo con il Fisco nella fase di liquidazione. Conviene sfruttare le possibilità di definizione agevolata o rateazione prima che la situazione precipiti. Se si entra in procedura concorsuale, affidarsi a professionisti per gestire la transazione fiscale in concordato o per assicurarsi che le domande di insinuazione siano corrette. In sede di chiusura, ricordarsi che la fine della società non significa fine dell’obbligo tributario: prepararsi alla possibile azione su soci o su di sé medesimo (se ditta individuale) e pianificare di conseguenza, magari tenendo da parte risorse per eventuali accordi col Fisco. Chi agisce in modo trasparente e diligente riduce anche il rischio di contestazioni personali: un liquidatore che rispetta l’ordine dei pagamenti, un amministratore che non occulta beni, difficilmente verrà ritenuto responsabile in proprio dei debiti tributari insoddisfatti.
Responsabilità personali di imprenditori, soci e amministratori
Un aspetto cruciale, quando si decide di liquidare un’azienda indebitata, è valutare le responsabilità personali che possono gravare su chi ha gestito o partecipato all’impresa. Come già anticipato nelle sezioni precedenti, la forma giuridica dell’impresa e le azioni compiute durante la gestione influenzano notevolmente se (e quanto) il debitore rischia in proprio per i debiti dell’azienda. In questa sezione riepiloghiamo le varie situazioni:
- Imprenditore individuale: Qui non c’è distinzione tra persona e impresa. L’imprenditore è illimitatamente responsabile di tutti i debiti. Dunque, per definizione, l’imprenditore risponde con il proprio patrimonio personale integrale, in assenza di qualunque schermo protettivo. Non vi è distinzione tra “debiti dell’azienda” e “debiti personali”: sono tutti suoi debiti. Pertanto, chi chiude una ditta individuale con debiti rimane personalmente obbligato verso i creditori. L’unica via per liberarsi è pagarli o ottenere l’esdebitazione tramite fallimento/sovraindebitamento. Non esistono meccanismi di limitazione della responsabilità (salvo il caso estremo della persona fisica incapiente che ottiene l’esdebitazione a costo zero di cui sopra).
- Soci di società di persone (S.n.c. e accomandatari di S.a.s.): Anche qui la responsabilità è illimitata e solidale per i debiti sociali presenti e futuri. Durante la vita della società, i creditori devono prima escutere il patrimonio sociale, ma se non basta possono attaccare i soci. In fase di liquidazione o post liquidazione, qualunque debito residuo ricade ipso iure sui soci (art. 2312 c.c. per le società di persone). Non c’è limite quantitativo: ogni socio può essere costretto a pagare l’intero, poi avrà diritto di regresso sugli altri. Dunque i soci di persone sono in una situazione analoga all’imprenditore individuale quanto a rischio patrimoniale. Anche qui, la protezione può venire solo dall’esdebitazione concorsuale in caso di fallimento o liquidazione controllata. Da notare: se la società di persone viene dichiarata fallita, i soci illimitati sono automaticamente inclusi nel fallimento (vecchio art. 147 L.F.), subendo anche loro tutte le conseguenze (compresa poi la liberazione dai debiti personali residui se ottengono l’esdebitazione). Se per ipotesi la società di persone viene liquidata senza fallimento, i creditori possono singolarmente far fallire i soci (sempre che abbiano i requisiti d’imprenditore commerciale fallibile, altrimenti li inseguono con esecuzioni individuali). I soci accomandanti, invece, di norma non rischiano oltre il capitale sottoscritto; fanno eccezione i casi in cui hanno “sforato” i limiti del loro ruolo (ingerendosi nell’amministrazione, perdendo il beneficio della limitazione) o la responsabilità post-liquidazione limitata alla quota di liquidazione ricevuta. Quindi un accomandante che non ha interferito nella gestione e non ha ricevuto nulla in liquidazione, di regola non può essere perseguito per debiti sociali oltre il conferimento già versato.
- Soci di società di capitali (S.r.l., S.p.A.): Questi godono della responsabilità limitata, per cui in linea di principio non rispondono con il loro patrimonio dei debiti sociali oltre la quota di capitale sottoscritta (già conferita interamente). Tuttavia, abbiamo visto i correttivi: se la società viene cancellata e c’erano debiti insoddisfatti, i soci possono dover restituire quanto incassato in sede di liquidazione. Inoltre, normative speciali (fiscali, bancarie) possono chiamare i soci a rispondere in casi specifici (es. i soci che hanno incassato utili nei 2 anni pre-liquidazione con imposte non pagate: art. 36 DPR 602/73). Al di fuori di questi casi, il socio di S.r.l. o S.p.A. che non abbia prestato garanzie personali per debiti sociali è al riparo: i creditori sociali non possono aggredire i suoi beni per soddisfare obbligazioni della società.
- Garanzie personali: Un’eccezione frequente nella pratica è data dal fatto che molti soci (specie di S.r.l. piccole) firmano fideiussioni verso banche o fornitore, o emettono avalli su cambiali, o contraggono debiti personali per finanziare la società. Se il socio ha fatto da garante per un debito sociale, la liquidazione dell’azienda non lo libera dal vincolo: se la società non paga, il creditore escute la garanzia e il socio deve pagare con i suoi beni. Quindi, pur senza responsabilità diretta ex lege, il socio garante di fatto diventa debitore personale. È importante ricordare ai soci che chiudere la società non estingue le fideiussioni prestate: se la società lascia un mutuo insoluto e Tizio socio aveva garantito, la banca verrà da Tizio.
- Soci amministratori: Spesso nelle S.r.l. i soci di maggioranza sono anche amministratori. In quanto soci valgono le regole di limitazione; in quanto amministratori, potrebbero rispondere per le loro azioni gestionali (vedi punto successivo). Ma non c’è confusione dei ruoli: la responsabilità da amministratore è verso la società o i creditori sociali per atti illeciti, non per il debito in sé.
- Amministratori e organi di controllo: Gli amministratori di società di capitali, formalmente, non rispondono dei debiti sociali con patrimonio proprio – i creditori devono rivolgersi alla società. Tuttavia, esistono varie forme di responsabilità indiretta o risarcitoria che possono colpirli:
- Responsabilità verso la società: se violano i doveri imposti dalla legge o dallo statuto (artt. 2392 e 2476 c.c.), causando un danno al patrimonio sociale, possono essere chiamati a risarcirlo (azione sociale di responsabilità). Esempio: amministratore che dissipa beni sociali, o che compie operazioni contrarie alla legge, creando un buco patrimoniale.
- Responsabilità verso i creditori sociali: scatta quando, per violazioni dei doveri di conservazione del patrimonio, il patrimonio risulta insufficiente a soddisfare i crediti. È il caso tipico della responsabilità per aggravamento del dissesto: se gli amministratori hanno proseguito un’attività palesemente insolvente erodendo attivo a danno dei creditori, questi ultimi possono agire (tramite il Curatore fallimentare, tipicamente) per ottenere ristoro. Ad esempio, la legge stabilisce che dall’insorgere di una causa di scioglimento (es. perdita capitale) gli amministratori devono operare solo ai fini conservativi (art. 2486 c.c.): se ignorano ciò e continuano a fare debiti, rispondono dei nuovi debiti contratti indebitamente.
- Responsabilità per mancato versamento di imposte e contributi: come visto, se l’amministratore omette dolosamente di pagare tributi quando poteva pagarli, o distrae risorse destinate a quello scopo, la società (poi il Curatore) può chiedergli i danni equivalenti a sanzioni e interessi maturati. Inoltre, in caso di omesso versamento di ritenute previdenziali dei dipendenti, la legge prevede che l’amministratore sia soggetto a sanzioni penali (se doloso) e debba provare l’eventuale mancanza di fondi non sua responsabilità.
- Responsabilità penale (reati fallimentari e tributari): un amministratore che durante la gestione compie atti di frode (es. distrazione di beni, falsificazione di bilanci, pagamenti preferenziali) può essere in seguito incriminato per bancarotta fraudolenta o preferenziale se l’azienda fallisce. Anche senza fallimento, la distrazione di beni in pregiudizio dei creditori può configurare reato di sottrazione fraudolenta ex art. 11 D.Lgs. 74/2000. Sul versante tributario, come detto, l’amministratore è il soggetto attivo delle condotte omissive (omessi versamenti) e ne risponde personalmente.
- Sanzioni amministrative: se l’azienda ha commesso illeciti amministrativi (es. violazioni ambientali), spesso le sanzioni pecuniarie colpiscono la società. L’amministratore potrebbe essere corresponsabile in alcuni casi (ad es. sanzioni 231/2001 o altre normative), ma generalmente la sanzione muore con la società se questa è estinta senza eredi. Tuttavia, per talune sanzioni (urbanistiche, ambientali) il legislatore prevede responsabilità solidale di amministratori o obblighi di bonifica a loro carico.
- Liquidatori: Anche i liquidatori, durante la fase di scioglimento, assumono responsabilità analoghe a quelle degli amministratori. Come visto, essi rispondono personalmente verso i creditori se violano i loro doveri di corretta liquidazione. Inoltre, sono soggetti a possibili azioni di responsabilità sia da parte dei soci (per atti che diminuiscano ingiustificatamente l’attivo distribuibile) sia dei creditori (per violazione della par condicio). Nei confronti del Fisco, il liquidatore ha un obbligo preciso: pagare i debiti tributari prima di distribuire attivo ai soci. Se infrange questo obbligo, l’Erario può pretendere da lui il pagamento fino a concorrenza delle somme indebitamente distratte ai soci. Questo principio è sancito dall’art. 2491 c.c. e da norme tributarie: un liquidatore che ripartisce attivo in presenza di debiti fiscali commette un illecito. Dunque, il liquidatore deve assicurarsi di accantonare quanto dovuto al Fisco e agli altri creditori privilegiati prima di chiudere.
Riduzione di capitale e obblighi in caso di perdite: Un aspetto spesso collegato alla responsabilità è il mancato rispetto delle norme sul capitale minimo nelle società di capitali. Se la società subisce perdite rilevanti che riducono il patrimonio netto sotto il minimo legale, gli amministratori devono convocare l’assemblea per provvedere (art. 2482-bis c.c. per S.r.l. e 2447 c.c. per S.p.A.). Se omettono di farlo e continuano l’attività con capitale azzerato, i creditori possono successivamente lamentare che hanno aggravato il dissesto. La giurisprudenza considera ciò un inadempimento degli amministratori ai doveri di conservazione: essi potrebbero rispondere verso i creditori per l’aggravio delle perdite nel periodo di “abusiva continuazione” dell’attività. Quindi, un imprenditore insolvente che non attiva tempestivamente la procedura concorsuale ma prosegue accumulando debiti rischia di doverne rispondere in proprio. Il nuovo Codice della Crisi ribadisce l’obbligo degli amministratori di attivarsi per adottare strumenti di superamento della crisi o, se non possibile, di liquidare l’impresa in maniera ordinata.
Protezione del patrimonio personale – suggerimenti pratici: Per un imprenditore o un amministratore che vede avvicinarsi la necessità di liquidare l’azienda indebitata, è importante adottare comportamenti che limitino l’esposizione personale:
- Documentare sempre la mancanza di alternative e la correttezza del proprio operato (verbali assembleari che attestino le perdite e le decisioni, relazioni di bilancio trasparenti, comunicazioni ai soci e ai creditori).
- Evitare di privilegiare se stessi o parti correlate: prelevare soldi dall’azienda in crisi, pagare prima debiti verso società amiche o soci e lasciare indietro il Fisco o i dipendenti sono ricette per essere poi citati in giudizio o incriminati.
- In caso di crisi conclamata, non peggiorare il buco: meglio fermare l’attività, congelare i debiti esistenti e avviare la procedura concorsuale. Continuare a operare accumulando forniture non pagate, tasse non versate, genera debiti “post-insolvenza” per cui sicuramente si sarà chiamati a rispondere (il curatore dirà: se avesse chiuso subito, quei nuovi debiti non sarebbero sorti).
- Se siete amministratori non soci (o soci di minoranza non coinvolti), per cautelarvi da future accuse conviene dissociarsi formalmente da decisioni rischiose: mettere a verbale il dissenso rispetto a operazioni azzardate può proteggervi da responsabilità solidale.
- Valutare l’opportunità di una polizza D&O (Directors and Officers): copre i rischi di richieste risarcitorie da parte di terzi verso gli amministratori. Può essere utile sebbene non copra il dolo o le multe, ma per colpa gestionale può fornire assistenza.
Tabella riepilogativa delle responsabilità personali:
Come si evince, la protezione offerta dalla responsabilità limitata ai soci può essere vanificata da comportamenti scorretti o norme speciali, mentre l’assenza di tale protezione (imprese individuali, soci illimitati) rende quasi inevitabile il coinvolgimento personale nei debiti se l’impresa non riesce a pagarli. È quindi fondamentale agire per tempo: se l’impresa diviene insolvente, utilizzare le procedure concorsuali non è solo un dovere morale verso i creditori, ma anche uno strumento per incanalare la crisi e limitare gli strascichi personali. Un imprenditore che affronta la crisi ricorrendo al concordato o all’autofallimento con cooperazione attiva sarà molto meno esposto a sanzioni e cause rispetto a chi lascia “morire” l’azienda trascinandosi debiti e confusione.
Domande frequenti (FAQ)
D: Posso chiudere una S.r.l. carica di debiti e aprirne un’altra ex novo, lasciando i debiti nella vecchia società?
R: Tecnicamente, si può costituire una nuova società e cessare la vecchia; la vecchia S.r.l. rimane però debitrice verso i creditori originari. Se la vecchia società viene cancellata senza procedure concorsuali né pagamento dei debiti, i creditori potranno agire contro di essa (finché esiste) e poi contro soci e liquidatori come spiegato (nei limiti di somme ricevute). Inoltre, se l’operazione di “trasferire l’attività” alla nuova società è fatta a prezzi irrisori o per frodare i creditori, è illegale: i creditori potrebbero chiedere revocatorie o denunciare per bancarotta fraudolenta. Quindi, attenzione: chiudere una società indebitata e aprirne un’altra senza risolvere i debiti può esporre soci e amministratori a serie conseguenze legali. Una strada più lecita è usare un concordato preventivo: si può cedere l’azienda “pulita” alla NewCo e lasciare i debiti nella OldCo che va in concordato/liquidazione, garantendo però ai creditori OldCo il miglior ritorno possibile. Farlo arbitrariamente senza procedura è rischioso e spesso contestato.
D: La procedura di fallimento o di liquidazione controllata quanto dura e quanto costa?
R: La durata dipende dalla complessità del patrimonio: un fallimento può durare da 1-2 anni (per piccoli casi) fino a 5-6 anni o più (per aziende grandi con contenziosi). In media una liquidazione fallimentare dura 3-4 anni. La liquidazione controllata di un privato con pochi beni può chiudersi in 1-2 anni. I costi (compensi del curatore/liquidatore, spese di giustizia) sono pagati dalla massa attiva: se non c’è attivo, la procedura viene chiusa presto per insufficienza attivo, con costi limitati. Per presentare istanza di fallimento di solito il creditore anticipa un fondo spese (circa €2-4000) ma se è il debitore a chiederlo talvolta non si anticipa nulla (o solo marche da bollo). Nell’accordo di sovraindebitamento, occorre considerare il compenso dell’OCC e le spese di giustizia. In ogni caso, per il debitore sovraindebitato il costo principale è dover liquidare i propri beni: le spese procedurali vengono dedotte dal ricavato prima di distribuire ai creditori.
D: Se ottengo l’esdebitazione, verrò segnalato? Posso fare nuove attività?
R: L’esdebitazione non è un reato né una sanzione: è un beneficio. Tuttavia, nei sistemi di informazione creditizia, un fallimento o una procedura di sovraindebitamento compariranno nelle banche dati dei protesti o pregiudizievoli (Cerved, Crif, Centrale rischi) per alcuni anni, ostacolando l’accesso al credito. Inoltre il Registro delle Imprese annota le procedure concorsuali a fianco del nominativo. Trascorsi alcuni anni (variabili, di solito 5 anni dalle vicende concorsuali), si può ottenere la cancellazione di queste annotazioni. Ottenuta l’esdebitazione, la persona può certamente avviare nuove attività: l’unica limitazione è che non può ottenere un’altra esdebitazione per 5 anni né accedere a nuove procedure concorsuali immediatamente. Per il resto, non c’è interdizione all’attività d’impresa salvo i casi di bancarotta fraudolenta (che comporta l’interdizione dai pubblici uffici e dall’impresa per un certo periodo come pena accessoria).
D: I debiti verso fornitori rimasti impagati dopo la chiusura dell’azienda si possono cancellare?
R: Se la chiusura avviene tramite fallimento o liquidazione controllata, sì: i debiti verso fornitori (creditori chirografari) non pagati integralmente vengono eliminati dall’eventuale esdebitazione concessa al debitore (persona fisica). Se il debitore è una società di capitali, i debiti insoddisfatti muoiono con la società (fermo restando l’azione su soci e liquidatori per le responsabilità dette). Se invece la chiusura è avvenuta senza procedura concorsuale (liquidazione volontaria semplice), allora i debiti fornitori restano vivi e potranno essere richiesti a soci illimitati o ai soci di S.r.l. pro quota se hanno avuto riparti. In pratica, per cancellare legalmente i debiti verso fornitori occorre passare da un procedimento concorsuale (o quantomeno transarli: ad esempio, un fornitore può accordarsi per stralciare il debito, ma serve un accordo esplicito). Senza procedura né accordo, il debito rimane esigibile. Quindi se sei un ex imprenditore individuale, i debiti fornitori non spariscono finché non li paghi o non ottieni esdebitazione; se sei socio di società di persone, idem; se sei socio di S.r.l. e non hai nulla ricevuto, probabilmente il fornitore non potrà legalmente chiederti nulla (salvo la società fosse solo schermo).
D: Cosa succede ai dipendenti in caso di liquidazione dell’azienda?
R: Se c’è una procedura concorsuale (fallimento, concordato, LCA), i dipendenti vengono licenziati e possono insinuare nel passivo i loro crediti (stipendi arretrati, TFR). Hanno un privilegio sui mobili dell’azienda (e ipoteca giudiziale speciale per TFR) che li pone ai primi posti nel pagamento, dopo le spese di procedura. Inoltre, interviene il Fondo di Garanzia INPS che anticipa ai lavoratori il TFR e ultime tre mensilità insolute, recuperandole poi in sede di riparto (questo avviene in fallimento e LCA, ma anche in concordato preventivo liquidatorio). Dunque i dipendenti di solito recuperano buona parte di quanto dovuto, tramite INPS. In una liquidazione volontaria non concorsuale, se l’azienda paga tutto ok; se non paga e sparisce, i dipendenti possono fare decreti ingiuntivi ai soci (se di persone) o cercare di far aprire un fallimento entro un anno. Fortunatamente, la legge tutela abbastanza i lavoratori in insolvenza aziendale tramite il Fondo INPS, quindi questi sono tra i creditori meno penalizzati dal fallimento (a differenza di fornitori e banche che sopportano tagli maggiori).
D: La procedura di liquidazione controllata è davvero conveniente?
R: Sì, per chi non ha alternative migliori. Chiaramente, se un debitore ha patrimonio sufficiente potrebbe preferire un accordo stragiudiziale con i creditori per evitare la procedura pubblica. Ma per un soggetto con debiti molto superiori alle possibilità di pagamento, la liquidazione controllata offre vantaggi enormi: stop alle azioni esecutive, concentrazione di tutti i debiti in un’unica sede, possibile esdebitazione finale. I “costi” sono: perdita di tutti i beni (ma li avrebbe persi comunque via pignoramenti) e qualche anno in cui non può ottenere nuovo credito facilmente. Inoltre la procedura è pubblica, il che può essere vissuto con stigma. Però, considerato che l’alternativa è rimanere inseguiti a vita dai creditori, per molti piccoli imprenditori onesti sovraindebitati la liquidazione controllata è la via per voltare pagina. Diverso è il caso in cui il debitore abbia prospettive di risanamento: se l’azienda può essere salvata con ristrutturazione, allora meglio percorrere un concordato “in continuità” o un piano attestato, poiché la liquidazione comporta la cessazione definitiva dell’attività.
D: Dopo quanto tempo posso avviare una nuova società se la mia è fallita o liquidata?
R: Non c’è un divieto temporale per legge nel diritto civile o fallimentare. Appena chiuso un fallimento (o anche durante, con qualche difficoltà bancaria), potresti teoricamente costituire una nuova società o ricominciare. Tuttavia, se sei stato dichiarato fallito come persona, fino alla chiusura del fallimento (o all’esdebitazione) eri inabilitato all’esercizio di impresa senza autorizzazione del giudice. Dopo la chiusura, torni libero. Va considerato però che se la nuova attività richiede affidamenti bancari, rating, fornitori fiduciosi, ciò potrebbe essere complicato da un precedente fallimento a tuo nome, che resta nelle banche dati per un po’ di anni. Dal punto di vista legale, comunque, nulla ti impedisce di fare l’imprenditore di nuovo. Un caso particolare: se sei stato condannato per bancarotta fraudolenta, potresti subire l’interdizione dall’esercizio di impresa per un certo numero di anni per sentenza penale.
D: Ho chiuso la partita IVA da qualche anno, ma ora l’Agenzia delle Entrate mi chiede dei vecchi debiti della ditta cessata. È legittimo?
R: Sì, se eri imprenditore individuale o socio illimitato, la chiusura della P.IVA non cancella affatto i debiti: il Fisco (come qualunque creditore) può farsi avanti entro i termini di prescrizione (in genere 5 anni per le cartelle) e richiederti quanto dovuto. Se invece parliamo di una società di capitali che avevi e hai cancellato, l’AdE può comunque notificare accertamenti entro 5 anni dalla cancellazione e poi agire verso i soci (come spiegato sopra). Quindi è legittimo. Per difenderti: verifica prescrizioni (ad es. IVA 2015 notificata solo ora potrebbe essere prescritta), oppure valuta strumenti come la definizione agevolata se aperta. Se la cifra è enorme e non hai beni, considera la liquidazione controllata personale, perché avendo cessato l’impresa potresti usarla per chiudere la partita con il Fisco ottenendo l’esdebitazione.
D: Durante la liquidazione volontaria posso continuare a fatturare, vendere beni, fare contratti?
R: Durante la fase di liquidazione volontaria, la società può concludere operazioni finalizzate alla liquidazione stessa: vendere scorte, riscuotere crediti, anche completare commesse in corso se servisse a incassare crediti, ma non nuove operazioni estranee alla liquidazione. Ad esempio, il liquidatore può vendere prodotti finiti a clienti (fatturando) per monetizzare il magazzino, può anche terminare la produzione di un lotto iniziato se serve a evitare sprechi e aumentare l’attivo vendibile. Ma non può intraprendere nuove iniziative, nuovi investimenti o espandere l’attività – sarebbe contro i suoi doveri. Ogni atto deve tendere a realizzare l’attivo e pagare i debiti. I contratti pendenti (es. contratti di affitto, forniture periodiche) proseguono se utili alla liquidazione, altrimenti vanno risolti. Il liquidatore può recedere da certi contratti a esecuzione continuata se l’esecuzione non è più necessaria. Da un punto di vista fiscale, durante la liquidazione la società rimane soggetto IVA fino alla chiusura: emette fatture per le vendite di liquidazione, fa dichiarazioni IVA annuali, ecc. Alla fine presenterà una dichiarazione di cessazione IVA. La stessa P.IVA resta attiva finché non viene cancellata dal Registro.
D: Che differenza c’è tra concordato preventivo e liquidazione giudiziale?
R: In breve: il concordato preventivo è un procedimento che precede il fallimento ed evita la liquidazione giudiziale, basato su un accordo (votato) coi creditori su un piano di ristrutturazione o liquidazione proposto dal debitore. Il debitore mantiene una certa gestione sotto vigilanza di un commissario e, se il concordato riesce, la procedura si chiude senza arrivare a fallimento. La liquidazione giudiziale è invece la procedura “coattiva” imposta dal tribunale in caso di insolvenza conclamata, dove il debitore perde la gestione e si liquida tutto secondo le norme di legge, senza necessità di consenso dei creditori. Nel concordato, i creditori votano e possono subire una decurtazione concordata; nella liquidazione giudiziale, non votano nulla, subiscono la perdita derivante dal realizzo insufficiente ma secondo un ordine di prelazione fisso. Dal punto di vista del debitore, il concordato è volontario e gli consente di tentare una soluzione (spesso anche di continuare in parte il business, specie col concordato in continuità), mentre la liquidazione giudiziale è subita e finalizzata solo a chiudere l’impresa. Entrambe sono procedure concorsuali sotto controllo del tribunale. Un imprenditore indebitato spesso preferirà provare il concordato se ha un piano credibile (es. un’offerta di un investitore che rilevi l’azienda o la capacità di pagare una percentuale non minima ai creditori), altrimenti, se non c’è alcuna prospettiva, tanto vale andare direttamente in liquidazione giudiziale e non aggravare oltre la situazione.
Conclusione
Liquidare un’azienda con debiti in Italia richiede un approccio strategico e informato. Abbiamo visto che per ogni situazione c’è una via legale ottimale: dalla liquidazione volontaria (adatta a imprese solvibili o con soci in grado di farsi carico dei debiti) alle procedure concorsuali come il concordato preventivo e la liquidazione giudiziale per i casi di insolvenza più complessi, fino alla liquidazione controllata per dare un’opportunità di esdebitazione ai soggetti non fallibili. Il denominatore comune di tutte queste strade è la necessità di trasparenza e correttezza: agire tempestivamente, coinvolgere i creditori nelle soluzioni, rispettare le priorità di legge. Solo così l’imprenditore debitore potrà chiudere la propria attività in modo consapevole e legalmente protetto, minimizzando i sacrifici personali e massimizzando l’efficienza nella soddisfazione dei creditori.
Chi si trova a fronteggiare una situazione di sovraindebitamento aziendale non deve sentirsi solo né tentato da scorciatoie illegali. Le norme, ancorché complesse, offrono strumenti per uscire dal tunnel dei debiti e, quando meritevole, ottenere il perdono delle obbligazioni che non si è riusciti a pagare. Ovviamente ogni caso concreto va valutato con professionisti qualificati (commercialisti, avvocati fallimentaristi, OCC), ma la conoscenza approfondita – come quella che questa guida ha inteso fornire – è il primo passo per prendere decisioni informate.
In definitiva, liquidare un’azienda indebitata non è mai indolore: significa spesso sacrificare un progetto imprenditoriale, riconoscere una sconfitta economica. Ma grazie agli istituti giuridici descritti, questo passo può essere compiuto legalmente e responsabilmente, mettendo un punto fermo sul passato e permettendo all’imprenditore di evitare il perpetuarsi di obblighi insormontabili, pronto magari a ripartire su basi nuove e più solide.
Fonti normative, dottrinali e giurisprudenziali
- Codice Civile (R.D. 16/03/1942 n.262) – Artt. 2484-2496 (Scioglimento e liquidazione delle società di capitali); art. 2312 (cancellazione società di persone e responsabilità soci); art. 2324 (estensione ai soci accomandanti della responsabilità post-liquidazione nei limiti quota liquidata); art. 2495 (effetti della cancellazione: successione dei debiti verso soci e liquidatori); artt. 2447, 2482-bis, 2482-ter (obblighi per perdite rilevanti); art. 2486 (gestione dopo scioglimento e responsabilità per atti eccedenti); art. 2489 (diligenza dei liquidatori); art. 2476 e 2392 (responsabilità amministratori verso la società); art. 2394 (responsabilità verso creditori sociali).
- Regio Decreto 16/03/1942 n.267 (vecchia Legge Fallimentare) – (Abrogato dal 2022, ma rilevante storicamente e per L.C.A.). Art. 10 (fallimento entro 1 anno da cessazione); art. 147 (estensione fallimento a soci illimitatamente responsabili); Artt. 194-213 (disciplina Liquidazione Coatta Amministrativa) – gran parte confluita nel Cod. Crisi.
- D.Lgs. 12/01/2019 n.14 (“Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza”, CCII) – Parte II: liquidazione giudiziale (artt. 121 e segg.). Art. 121: soggetti assoggettabili a liquidaz. giudiziale (esclude imprese minori); Art. 2, c.1 lett. d: definizione di “impresa minore” con limiti €300k/200k/500k; Artt. 277-282: esdebitazione del debitore fallito (automatismo per il meritevole); Art. 283: esdebitazione del debitore incapiente (a costo zero). – Titolo IV: composizione crisi da sovraindebitamento. Art. 65: transazione fiscale nei piani di ristrutturazione e concordati minori; Art. 268-277: procedura di liquidazione controllata; Art. 270: apertura liquidazione controllata con sentenza; Art. 271: possibilità per il debitore di chiedere altra procedura in caso di istanza creditori; Art. 274: effetti dell’apertura (equiparati a fallimento: divieto azioni esecutive); Art. 278: esdebitazione a fine liquidazione controllata; Art. 280: condizioni di meritevolezza; Art. 283: esdebitazione del debitore incapiente. – Artt. 49-64: concordato preventivo (in particolare art. 84 requisiti concordato liquidatorio 20%).
- D.P.R. 29/09/1973 n.602, art. 36 – Responsabilità solidale di soci e amministratori per imposte non pagate in caso di liquidazione (2 anni precedenti).
- D.Lgs. 74/2000 (Reati tributari) – Art. 10-bis e 10-ter (omesso versamento ritenute e IVA, soglia €150k e €250k), Art.11 (sottrazione fraudolenta al pagamento imposte).
- Legge 3/2012 (composizione crisi da sovraindebitamento) – (Abrogata e assorbita nel CCII dal 2022, ma citata nelle fonti dottrinali come riferimento).
- Giurisprudenza:
- Cass., Sez. Unite, nn. 4060-4062/2010: efficacia estintiva immediata della cancellazione dal Registro Imprese anche con pendenze.
- Cass., Sez. Unite, n. 6070/2013: conferma principio successione debiti sociali a soci entro limiti attivo distribuito; estinzione società con cancellazione.
- Cass., Sez. III, n. 9087/2018: responsabilità amministratori per aggravamento dissesto e violazione art.2486 c.c. (gestione oltre scioglimento).
- Cass., Sez. V, ord. n. 31933/2019: onere del creditore di provare quota di attivo riscossa dai soci ex art.2495.
- Cass., Sez. V, ord. n. 36407/2022: ribadisce debiti sociali si trasferiscono ai soci pro quota; richiamata in Cass. 4141/2024.
- Cass., Sez. V, ord. n. 20840/2023: soci di S.r.l. a ristretta base responsabili verso Fisco anche se non hanno percepito utili in liquidazione (presunzioni gravi precise).
- Cass., Sez. III, ord. n. 4141/2024: conferma effetti cancellazione: debiti si trasferiscono ai soci (limite somme riscosse) e onere probatorio relativo.
- Trib. Napoli 8/08/2022: (Giurisprudenza delle Imprese) massima: amministratori tenuti a pagamento debiti erariali alle scadenze usando risorse societarie, con distinzioni se in bonis o incapienti.
- Corte App. Venezia 2020: onere della prova requisiti piccolo imprenditore (precedente cit. in dottrina).
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Conclusione
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