Avvocato Per Crisi D’impresa Esperto In Diritto Fallimentare: Cosa Fa

Hai un’azienda in difficoltà e ti stai chiedendo a chi rivolgerti per affrontare la crisi prima che sia troppo tardi? Ti parlano di composizione negoziata, sovraindebitamento, ristrutturazione del debito… ma non sai da dove iniziare né chi può davvero aiutarti?

In questi casi, la figura centrale è l’avvocato per la crisi d’impresa esperto in diritto fallimentare. Non si tratta solo di “fare causa” o “difendersi dai creditori”, ma di gestire strategicamente una situazione delicata, scegliere lo strumento giusto e proteggere l’imprenditore, l’azienda e il patrimonio personale.

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati specializzati in crisi aziendali, ristrutturazione e diritto concorsuale – ti spiega cosa fa realmente un avvocato esperto in crisi d’impresa, quando è il momento di rivolgersi a lui, e quali vantaggi concreti può offrirti nel salvare la tua attività o chiudere senza rischi personali.

Hai un’azienda in difficoltà e non sai come reagire?

Richiedi in fondo alla guida una consulenza riservata con l’Avvocato Monardo. Esamineremo la situazione economica e legale della tua impresa, verificheremo lo stato di crisi o insolvenza e costruiremo una strategia su misura per affrontare i creditori, proteggere l’attività e uscire dalla crisi nel pieno rispetto della legge. Agire adesso può fare la differenza.

Introduzione

Nel corso della vita di un’azienda possono emergere difficoltà finanziarie che mettono a rischio la continuità aziendale. In tali frangenti diventa fondamentale affidarsi a un avvocato esperto in crisi d’impresa e diritto fallimentare, una figura professionale specializzata nel guidare imprenditori e società attraverso gli strumenti legali predisposti per affrontare lo stato di crisi o insolvenza. Questo esperto conosce a fondo il diritto della crisi e dell’insolvenza – disciplina che ha subito importanti riforme negli ultimi anni – e assiste sia nella prevenzione che nella gestione delle situazioni di difficoltà economico-patrimoniale.

Il 15 luglio 2022 è entrato in vigore in Italia il nuovo Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (D.Lgs. 14/2019, spesso abbreviato in CCII), che ha riformato profondamente la materia unificando la legge fallimentare del 1942 e la legge sul sovraindebitamento del 2012. Questo Codice ha introdotto nuove procedure per anticipare l’emersione della crisi e favorire il risanamento, sostituendo il termine storico di “fallimento” con “liquidazione giudiziale”. Inoltre, esso affianca al concetto tradizionale di insolvenza quello di “stato di crisi”, inteso come probabilità di futura insolvenza, incoraggiando interventi tempestivi prima che le difficoltà divengano irreversibili. La riforma, attuata anche in recepimento della Direttiva UE 2019/1023 (cosiddetta Direttiva Insolvency), privilegia strumenti che consentano la continuazione dell’attività d’impresa e la soddisfazione dei creditori in misura migliore rispetto alla liquidazione, in linea con gli standard europei di allerta precoce e di composizione negoziata della crisi.

In questo contesto normativo evoluto, l’avvocato specializzato in crisi d’impresa svolge un ruolo cruciale nell’assistere gli imprenditori nelle scelte più appropriate: dalla predisposizione di piani di risanamento e accordi di ristrutturazione del debito, alla presentazione di domande di concordato preventivo, fino alla gestione di procedure liquidatorie. Egli opera con un approccio multidisciplinare, in sinergia con commercialisti, consulenti finanziari e organi della procedura, al fine di tutelare al meglio gli interessi dell’azienda, dei creditori e degli altri stakeholder. Questa guida avanzata – rivolta sia agli imprenditori che vogliono capire quando e come coinvolgere un legale esperto in crisi d’impresa, sia ai colleghi avvocati che intendono approfondire il proprio ruolo in tale materia – offrirà un quadro completo e aggiornato a maggio 2025 di tutte le principali tematiche del diritto della crisi e dell’insolvenza, con un linguaggio chiaro ma rigoroso.

Nei paragrafi che seguono esamineremo dapprima gli strumenti giuridici disponibili (dalla composizione negoziata al concordato preventivo – anche nella nuova forma semplificata – dagli accordi di ristrutturazione alla liquidazione giudiziale), illustrando per ciascuno finalità, condizioni, vantaggi e svantaggi. Analizzeremo poi il ruolo concreto dell’avvocato in ogni fase – dalla valutazione preliminare all’assistenza in giudizio – distinguendo tra attività stragiudiziale e giudiziale. Ci concentreremo inoltre su quando un imprenditore dovrebbe rivolgersi a un legale esperto, come selezionare il professionista più adatto e come collaborare efficacemente con lui. Un’apposita sezione sarà dedicata alle novità normative e giurisprudenziali del 2024-2025, essenziali per restare aggiornati (in particolare il Terzo Decreto Correttivo al Codice della Crisi del settembre 2024 e le più recenti sentenze). Saranno incluse tabelle comparative per riassumere procedure, tempistiche e differenze, nonché una raccolta di domande frequenti (FAQ) di taglio pratico. Infine, attraverso alcune simulazioni di casi aziendali, vedremo in concreto l’impatto di diverse scelte procedurali, con valutazione delle conseguenze per l’azienda e gli organi sociali. Una sezione finale fornirà tutte le fonti normative, giurisprudenziali e dottrinali citate, per approfondimenti e verifica.

Passiamo dunque ad esaminare nel dettaglio le principali procedure e strumenti del diritto della crisi d’impresa, alla luce delle ultime riforme, e a delineare che cosa fa l’avvocato specialista in ciascuna di esse.

Strumenti e procedure per la gestione della crisi d’impresa

In Italia esiste un ventaglio articolato di strumenti giuridici per affrontare la crisi aziendale, che spaziano da soluzioni negoziali e stragiudiziali a procedure concorsuali giudiziali. Ogni strumento ha presupposti e obiettivi specifici: alcuni mirano a ristrutturare il debito e a risanare l’impresa (consentendo la continuazione dell’attività), altri comportano la liquidazione del patrimonio e l’uscita dal mercato. Di seguito passiamo in rassegna le principali procedure previste dal diritto dell’insolvenza, aggiornate alle ultime novità, con approfondimenti su ciascuna:

Composizione negoziata della crisi

La Composizione Negoziata della Crisi (CNC) è un istituto introdotto nel 2021 (dal D.L. 118/2021 convertito con L. 147/2021) e ora integrato nel Codice della Crisi d’Impresa. Si tratta di una procedura volontaria e stragiudiziale, attivabile dall’imprenditore in condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario, ma prima di sfociare in vera insolvenza conclamata. L’obiettivo è di favorire la ristrutturazione di imprese ancora risanabili, mantenendo la continuità aziendale (diretta o tramite terzi) attraverso un percorso di negoziazione assistita da un esperto indipendente.

Accesso alla procedura: L’imprenditore presenta un’istanza tramite una piattaforma telematica dedicata, caricando un set di informazioni e documenti: ultimi bilanci (o progetti di bilancio non approvati), una situazione patrimoniale aggiornata, l’elenco dei creditori, un progetto di piano di risanamento e una relazione sulle cause della crisi, oltre alle certificazioni dei debiti fiscali e contributivi. Il Segretario Generale della Camera di Commercio verifica la completezza della domanda (potendo richiedere integrazioni) e una Commissione regionale nomina entro 5 giorni un esperto indipendente scelto da un apposito elenco di professionisti qualificati. I criteri di nomina – rafforzati dal correttivo 2024 – privilegiano la competenza e l’esperienza effettiva: si tiene conto dell’esperienza maturata e, novità introdotta, degli esiti delle composizioni negoziate precedentemente seguite da ciascun professionista (quindi una sorta di “track record” positivo inciderà sulla selezione).

Ruolo e funzioni dell’esperto: L’esperto nominato, dopo aver dichiarato la propria indipendenza, esamina insieme all’imprenditore la situazione aziendale, verifica la praticabilità del risanamento e organizza un calendario di incontri con i creditori. Il suo compito è di facilitare il dialogo tra le parti, suggerendo soluzioni eque e incoraggiando le parti a rinegoziare i termini dei contratti quando l’equilibrio originario risulta compromesso. L’esperto può avvalersi di coadiutori specializzati (ad esempio professionisti con competenze settoriali specifiche) e, grazie alle novità del 2024, ha accesso diretto ai database di Agenzia delle Entrate, INPS, INAIL, Agente della Riscossione e Centrale dei Rischi bancari. Questo meccanismo di interoperabilità gli consente di ottenere rapidamente un quadro completo dell’esposizione debitoria dell’impresa, aumentando la trasparenza e la rapidità dell’analisi.

Misure protettive e incentivi: Durante la composizione negoziata, l’imprenditore può chiedere al Tribunale l’applicazione di misure protettive a tutela del patrimonio. Se concesse, con decreto, queste misure sospendono o inibiscono azioni esecutive e cautelari dei creditori, impediscono la creazione di nuove garanzie su beni dell’impresa e mantengono la continuità dei contratti pendenti (evitando ad esempio che fornitori strategici interrompano forniture). Tali provvedimenti protettivi hanno durata iniziale compresa fra 30 e 120 giorni, prorogabile (con difficoltà) fino a un massimo di 240 giorni, e vengono pubblicati nel Registro delle Imprese per garantirne la pubblicità. Importante novità apportata dal correttivo ter 2024 è il divieto espresso per le banche di revocare o ridurre gli affidamenti concessi all’impresa soltanto a causa dell’avvio della composizione negoziata, nonché di declassare il credito (downgrading) per il solo fatto dell’accesso alla procedura. Ciò tutela l’impresa da reazioni automatiche del sistema bancario che potrebbero aggravare la crisi. La tutela non è però assoluta: la banca può revocare i fidi se la revoca è imposta da esigenze prudenziali di vigilanza, ma in tal caso deve comunicarne le ragioni agli organi di controllo societari. Inoltre, per incoraggiare le banche a continuare il sostegno, il legislatore ha previsto che la prosecuzione del rapporto di credito durante la composizione negoziata, di per sé, non integri responsabilità per concessione abusiva del credito da parte della banca. In parallelo, l’imprenditore può chiedere al Tribunale l’autorizzazione a contrarre finanziamenti prededucibili per la fase di risanamento: grazie alle modifiche del 2024, la prededuzione (ossia la garanzia che tali crediti verranno soddisfatti con priorità in caso di successivo fallimento) si applica sia ai nuovi finanziamenti sia alla riattivazione di linee di credito sospese, e resta ferma a prescindere dall’esito finale della procedura di composizione negoziata (anche nell’eventualità di successiva liquidazione giudiziale). Ciò riduce le resistenze degli istituti finanziari nel supportare aziende in crisi, sapendo di avere tutela preferenziale.

Un ulteriore incentivo introdotto è la transazione fiscale negoziata: dal 2023-2024 il Codice consente, nell’ambito della composizione negoziata, di proporre al Fisco un pagamento parziale o dilazionato dei debiti tributari. In base al nuovo art. 23, comma 2-bis CCII, l’imprenditore può formulare all’Agenzia delle Entrate una proposta transattiva per tributi e relativi accessori, allegando due relazioni tecniche. La prima relazione, redatta da un professionista indipendente (che può essere lo stesso esperto o altro attestatore), deve attestare che la proposta di pagamento ridotto o dilazionato è migliore per l’Erario rispetto alla prospettiva alternativa della liquidazione giudiziale. La seconda relazione, a cura di un revisore legale, certifica la veridicità e completezza dei dati aziendali posti a base della proposta. Se l’Agenzia delle Entrate accetta, l’accordo fiscale viene depositato in Tribunale e diviene efficace una volta che il giudice ne autorizza l’esecuzione dopo una verifica formale. Questa innovazione consente di gestire la componente fiscale del debito in modo più flessibile, superando rigidità precedenti; va segnalato però che, allo stato, tale facoltà riguarda i debiti tributari ma non include i debiti previdenziali verso enti come INPS (una lacuna che la dottrina auspica sia colmata in futuro).

Durata ed esiti della composizione negoziata: La procedura ha una durata ordinaria di 180 giorni (circa 6 mesi) dall’accettazione dell’incarico da parte dell’esperto. Proroghe sono ammesse solo in casi particolari e per tempi limitati. Al termine, l’esperto redige una relazione finale che viene caricata sulla piattaforma telematica e resa disponibile alle parti interessate. A seconda di come si è svolta la negoziazione, possono delinearsi diversi scenari conclusivi:

  1. Risanamento stragiudiziale mediante accordi privati con i creditori o attraverso un piano attestato di risanamento (ossia un piano di risanamento asseverato da un professionista indipendente, concluso al di fuori di procedure concorsuali).
  2. Accordo di ristrutturazione dei debiti omologato dal Tribunale ex art. 57 CCII, eventualmente accompagnato da una transazione fiscale sopra descritta.
  3. Concordato preventivo, sia in continuità aziendale (quando è prevista la prosecuzione dell’attività sotto l’impresa debitrice o un terzo) sia di tipo liquidatorio (cessione del patrimonio ai creditori).
  4. Concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio, previsto dagli artt. 25-sexies e 25-septies CCII, qualora la composizione negoziata non abbia portato a soluzioni e si opti per questa particolare procedura di concordato senza voto dei creditori (approfondita più avanti).
  5. In mancanza di qualsivoglia accordo o proposta, l’esito finale può essere la liquidazione giudiziale (su iniziativa dei creditori o, se l’imprenditore vi acconsente, su istanza dello stesso debitore), cioè l’apertura del fallimento in senso classico.

In tutti i casi, la fase di composizione negoziata garantisce un elevato grado di trasparenza e tracciabilità del percorso compiuto. I documenti caricati, le relazioni periodiche e finali dell’esperto e gli esiti delle trattative costituiscono infatti un patrimonio informativo prezioso, che sarà utile qualora si passi a una successiva fase concorsuale. Ad esempio, se successivamente viene presentato un concordato o si apre una liquidazione giudiziale, si disporrà già di analisi dettagliate sulle cause del dissesto e sullo stato dell’azienda durante la crisi, elementi utili anche per valutare l’eventuale responsabilità degli amministratori per aver aggravato la situazione. Questa logica di “tracciamento” incentiva gli organi sociali a operare con correttezza e buona fede durante le trattative.

Rapporto con le procedure di allerta: La composizione negoziata ha di fatto sostituito le originarie procedure di allerta obbligatorie previste dal Codice della Crisi. Il D.Lgs. 83/2022 (cosiddetto secondo correttivo) ha infatti abrogato le procedure di allerta e di composizione assistita che il testo originario del CCII aveva delineato, preferendo puntare su questo strumento volontario e meno “coattivo”. Ciò non significa però eliminare ogni meccanismo di emersione tempestiva: sono rimasti in piedi alcuni “presìdi di allerta” sotto forma di obblighi informativi e doveri organizzativi (come vedremo nella sezione sulle procedure di allerta). In pratica, oggi l’imprenditore seriamente in difficoltà è fortemente incoraggiato a imboccare per tempo la via negoziata, in quanto offre un ambiente controllato e protetto dove tentare il risanamento, con minori formalità rispetto alle procedure giudiziali.

In sintesi, la Composizione Negoziata rappresenta uno strumento moderno e flessibile, in linea con gli standard europei: valorizza la libertà negoziale dell’impresa in crisi, ma al contempo prevede adeguate garanzie per i creditori (grazie al ruolo dell’esperto, alla supervisione eventuale del tribunale sulle misure protettive e alla trasparenza del processo). Dopo i correttivi del 2024, la CNC è stata ulteriormente rafforzata e semplificata: minori oneri documentali iniziali, maggior incisività dell’esperto, rapporti più equilibrati con le banche, introduzione della transazione fiscale, certezza sul trattamento dei nuovi finanziamenti. Tutto ciò rende oggi la composizione negoziata un percorso privilegiato per provare a evitare il fallimento e preservare il valore aziendale, laddove vi sia ancora una ragionevole possibilità di risanamento.

Concordato preventivo

Il Concordato Preventivo è la tradizionale procedura concorsuale, di natura giudiziale, finalizzata a evitare la dichiarazione di fallimento (oggi liquidazione giudiziale) mediante un accordo fra il debitore e i creditori omologato dal Tribunale. Anche questo istituto è stato rivisitato dal Codice della Crisi, pur mantenendo gli elementi essenziali già noti nella legge fallimentare. Il concordato preventivo può assumere forme diverse a seconda dell’obiettivo del piano proposto:

  • Concordato in continuità aziendale: prevede il risanamento dell’impresa e la prosecuzione dell’attività, sia direttamente da parte dell’imprenditore (continuità diretta) sia tramite la cessione o il conferimento dell’azienda a un terzo che la prosegue (continuità indiretta). È lo strumento preferibile quando esiste la possibilità di recuperare l’equilibrio economico e si vuole preservare il valore del complesso aziendale (mantenendo avviamento, contratti, posti di lavoro, ecc.).
  • Concordato liquidatorio: comporta invece la cessione integrale dei beni dell’impresa per pagare i creditori. In sostanza, è un concordato “per cessione dei beni” dove l’attività non proseguirà; serve a liquidare l’azienda in modo ordinato, sotto il controllo del Tribunale, evitando le conseguenze più traumatiche del fallimento e consentendo al debitore di beneficiare degli effetti esdebitatori.

La differenza tra queste due tipologie è cruciale, poiché la legge incoraggia la continuità (ritenendola in generale più vantaggiosa per creditori e contesto socio-economico) e pone requisiti diversi per i concordati meramente liquidatori. Ad esempio, nella vigenza della vecchia legge fallimentare era prevista una soglia minima del 20% di soddisfacimento dei crediti chirografari (non garantiti) per ammettere un concordato liquidatorio. Questa regola di salvaguardia è stata sostanzialmente confermata: il CCII continua a richiedere che, in caso di concordato che non preveda la continuità, la proposta garantisca ai chirografari un pagamento in misura non inferiore al 20% del loro credito (salvo alcune eccezioni, ad esempio in caso di presentazione di proposte concorrenti da parte dei creditori, in cui la soglia può abbassarsi). Invece, per il concordato in continuità non vi è una percentuale minima prefissata – l’idea è che mantenendo in vita l’azienda si possa giustificare anche un dividendo inferiore ai creditori, purché la soluzione sia più vantaggiosa della liquidazione.

Presupposti e ammissione: Può accedere al concordato preventivo qualsiasi imprenditore commerciale in stato di crisi o di insolvenza non ancora oggetto di sentenza dichiarativa di fallimento. L’iniziativa spetta al debitore (è una procedura volontaria). Questi deposita un ricorso presso il Tribunale competente (sezione specializzata in materia di crisi d’impresa), accompagnato da un piano e da una proposta dettagliata ai creditori. Devono essere allegati vari documenti tra cui i bilanci degli ultimi anni, lo stato patrimoniale e finanziario aggiornato, l’elenco dei creditori e dei debiti, l’elenco dei beni, un’attestazione di fattibilità del piano redatta da un professionista indipendente (l’attestatore). A differenza del passato, il Codice della Crisi prevede un procedimento unitario di apertura delle soluzioni di regolazione della crisi: ciò significa che con un unico ricorso l’imprenditore può prospettare anche soluzioni alternative (ad es. riserva di presentare successivamente un accordo di ristrutturazione) e il Tribunale valuterà l’ammissibilità generale della domanda, indirizzandola verso lo strumento appropriato. È anche possibile, come prima, presentare una domanda di concordato “in bianco” o con riserva (domanda prenotativa ex art. 40 CCII), cioè chiedere l’ammissione al concordato riservandosi di depositare piano e proposta entro un termine fissato dal giudice (normalmente 60-120 giorni). Questa modalità è utile per ottenere immediata protezione dalle azioni dei creditori mentre si finalizza il piano.

Una volta depositato il ricorso, la domanda viene comunicata al Pubblico Ministero e pubblicata nel Registro delle Imprese entro il giorno successivo, assicurando pubblicità e trasparenza a tutela di terzi e creditori (tale pubblicazione tempestiva è stata ribadita dal correttivo ter). Il Tribunale procede poi all’esame dell’ammissibilità: verifica la completezza formale della proposta, la ritualità (ad esempio se la domanda non è proposta in malafede o in violazione di divieti), e – pur senza entrare ancora nel merito economico – controlla la presenza dei requisiti legali (come la percentuale minima del 20% se è un concordato liquidatorio, la corretta formazione delle eventuali classi di creditori, ecc.). Dopo il correttivo 2024, il giudice ha espressamente la facoltà di assegnare al debitore un termine (massimo 15 giorni) per integrare o modificare il piano e gli allegati, qualora riscontri carenze sanabili. Se tutto è in regola, il Tribunale ammette l’azienda alla procedura di concordato preventivo e dichiara aperto il procedimento (apertura del concordato). Viene nominato un Commissario Giudiziale (figura analoga al vecchio commissario nel concordato, con compiti di vigilanza e relazione ai creditori e al giudice) e fissata la data per l’adunanza dei creditori, ovvero l’assemblea in cui i creditori saranno chiamati a votare sulla proposta.

Gestione dell’impresa durante il concordato: In pendenza del concordato preventivo, l’impresa debitrice continua di regola a gestire la propria attività (autogestione), però sotto la supervisione del Commissario e con alcune limitazioni. Gli atti di ordinaria amministrazione proseguono liberamente, mentre per compiere atti di straordinaria amministrazione (ad esempio vendere beni significativi, assumere nuovi finanziamenti, ecc.) il debitore deve essere autorizzato dal giudice delegato. Sono sospese o vietate le azioni esecutive individuali e i sequestri da parte dei creditori (il concordato offre un analogo “ombrello protettivo” come il fallimento, in virtù della procedura concorsuale aperta). Inoltre, dalla data di pubblicazione della domanda di concordato, eventuali pagamenti di crediti anteriori o atti dispositivi non autorizzati possono essere dichiarati inefficaci. Il Codice della Crisi ha mantenuto e affinato queste regole per assicurare che durante la procedura non vi siano favoritismi tra creditori e non si comprometta l’integrità del patrimonio.

Il voto dei creditori: Uno snodo fondamentale è la votazione sulla proposta di concordato. I creditori aventi diritto al voto (tutti i chirografari e i privilegiati per l’eventuale parte non coperta da garanzia) vengono suddivisi in classi quando è prevista una loro trattazione differenziata. La suddivisione in classi deve rispettare criteri di omogeneità di posizione giuridica e interessi economici (tipicamente si formano classi per creditori privilegiati degradati, creditori finanziari, fornitori, ecc.). Il correttivo ter 2024 ha chiarito che anche nel concordato semplificato – sebbene non vi sia voto – è possibile prevedere classi, incluse quelle dei privilegiati parzialmente chirografari, ma torneremo sul semplificato più avanti. Nel concordato preventivo ordinario, ogni classe di creditori vota la proposta: per l’approvazione occorre il voto favorevole dei creditori che rappresentino la maggioranza dei crediti ammessi al voto, calcolata in ogni classe (è richiesto l’assenso sia in termini di teste che di valore del credito). Se non si formano classi, la maggioranza si calcola sull’insieme dei crediti ammessi. Il CCII, in recepimento della direttiva europea, ha introdotto la possibilità di cram-down trans-classi in alcuni casi: se una o più classi votano contro ma la maggioranza delle classi approva, il Tribunale può ugualmente omologare il concordato imponendolo alle classi dissenzienti, purché la proposta non li tratti in modo deteriore rispetto ad alternative e rispetti certe condizioni di meritevolezza (questo aspetto è tecnico, ma rileva per consentire ristrutturazioni anche senza unanimità).

Omologazione del concordato: Dopo il voto, il Tribunale tiene conto dell’esito (il voto positivo delle classi) e verifica i requisiti per l’omologazione (approvazione definitiva) del concordato. In questa fase, i creditori eventualmente dissenzienti e qualsiasi interessato possono sollevare opposizioni, adducendo motivi per cui il piano non dovrebbe essere omologato (ad es. violazione di legge, frode, mancato rispetto del trattamento minimo). Il giudice valuta: (a) la regolarità della procedura e della formazione delle maggioranze; (b) la convenienza della proposta rispetto alla liquidazione giudiziale (deve accertare che i creditori ricevano almeno quanto otterrebbero in caso di fallimento – il cosiddetto best interest test); (c) l’assenza di violazioni di legge. Confermati tali elementi, il concordato viene omologato con decreto motivato. Il correttivo 2024 ha previsto che, qualora emergano piccoli difetti emendabili (ad esempio lieve difformità nella formazione delle classi o documentazione incompleta), il Tribunale possa assegnare un breve termine (max 15 giorni) per correggere o integrare, prima di decidere. Inoltre, è stato allineato il riferimento all’“alternativa liquidatoria” includendo ora anche la liquidazione controllata (procedura di liquidazione per soggetti minori non fallibili) come parametro di confronto. Eliminata la dizione superata del deposito “in cancelleria” (ora tutto è telematico). Se non vi sono ostacoli, l’omologazione rende il concordato vincolante per tutti i creditori anteriori, anche quelli che non hanno votato o erano dissenzienti: i crediti sono definiti secondo quanto previsto nel piano omologato, e il debitore deve eseguire la proposta.

Esecuzione e chiusura: Una volta omologato, il concordato viene eseguito sotto la sorveglianza del Commissario (che diviene Liquidatore Giudiziale se è prevista la cessione dei beni). Nel concordato in continuità, l’impresa prosegue la gestione secondo il piano (sotto vigilanza), eventualmente con interventi di finanza esterna nuova (protetti dalla prededuzione se autorizzati) e con eventuale cessione di rami d’azienda o altre operazioni pianificate. Nel concordato liquidatorio, il Liquidatore procede a vendere i beni e distribuire i proventi ai creditori secondo le percentuali approvate. Una volta completata l’esecuzione – o comunque se il debitore adempie le obbligazioni concordatarie – il Tribunale dichiara chiusa la procedura di concordato. Da tale momento, per l’imprenditore vi è il beneficio che eventuali debiti residui (stralciati nel concordato) non sono più esigibili individualmente dai creditori (si produce un effetto liberatorio analogo a un’esdebitazione concordataria).

Il concordato preventivo è una procedura complessa ma potentemente versatile, che può salvare aziende in difficoltà riequilibrando la loro posizione debitoria. Tuttavia, comporta anche rischi: richiede tempi non brevissimi (generalmente tra i 6 e i 12 mesi per giungere a omologazione, se non vi sono intoppi), e soprattutto dipende dal consenso dei creditori. Il ruolo dell’avvocato qui è determinante nel predisporre un piano convincente e tecnicamente solido, nel negoziare preventivamente con i principali creditori per ottenere supporto al voto, e nel gestire tutte le formalità e le possibili contestazioni in udienza.

Nel panorama attuale, il concordato preventivo rimane uno strumento fondamentale, ma accanto ad esso sono state introdotte forme semplificate per casi particolari, come vedremo subito parlando del concordato semplificato.

Concordato semplificato

Il Concordato Semplificato per la liquidazione del patrimonio è una nuova procedura, introdotta dal D.L. 118/2021 (art. 2, poi confluito negli artt. 25-sexies e 25-septies CCII), pensata come valvola di sfogo nel caso in cui la composizione negoziata non produca un accordo con i creditori. Si tratta di un concordato speciale che non richiede il voto dei creditori, essendo rimesso all’apprezzamento del Tribunale ai fini dell’omologazione definitiva. È dunque uno strumento a disposizione dell’imprenditore quando ha tentato invano la via negoziale, ma vuole evitare il fallimento proponendo egli stesso una soluzione liquidatoria controllata.

Quando è ammesso: L’art. 25-sexies CCII stabilisce che l’imprenditore può ricorrere al concordato semplificato all’esito negativo di una composizione negoziata della crisi. Più precisamente, dopo le modifiche del correttivo ter 2024, sono stati chiariti i presupposti: occorre che non sia stato possibile trovare una soluzione stragiudiziale alla crisi nell’ambito delle trattative condotte con l’ausilio dell’esperto, e che l’esperto, nella sua relazione finale, dichiari che le trattative si sono svolte in modo corretto e in buona fede ma senza esito positivo, attestando inoltre che le soluzioni individuabili ai sensi dell’art. 23, commi 1 e 2, lett. a) e b) CCII (ossia accordi stragiudiziali o accordi di ristrutturazione omologati) non sono praticabili. In pratica, bisogna aver esperito seriamente la composizione negoziata e non aver trovato accordi fattibili né piani attestati idonei, secondo il giudizio dell’esperto. A queste condizioni, l’imprenditore ha 60 giorni dalla comunicazione della relazione finale per presentare una proposta di concordato semplificato.

Presentazione della domanda: Entro il termine di 60 giorni sopra indicato (che decorre dalla conclusione formale della composizione negoziata), l’imprenditore può depositare in Tribunale un ricorso con cui chiede l’apertura del concordato semplificato, allegando la proposta, il piano di liquidazione e i documenti fiscali/contributivi previsti (simili a quelli richiesti per il concordato preventivo ordinario, v. art. 39 CCII). È stata introdotta dal correttivo la possibilità di accedere al semplificato anche mediante domanda “prenotativa” ex art. 40 CCII: ciò significa che, sempre nel termine dei 60 giorni, il debitore può depositare un ricorso incompleto riservandosi di presentare piano e proposta in un secondo momento, analogamente a quanto avviene per il concordato preventivo “in bianco”. Questo consente di cristallizzare subito la situazione e ottenere misure protettive immediate, guadagnando tempo (comunque contenuto) per finalizzare i dettagli del piano di liquidazione.

Contenuto della proposta e del piano: La proposta nel concordato semplificato consiste necessariamente in un piano di cessione dei beni ai creditori (dunque ha natura liquidatoria). Tuttavia, l’art. 25-sexies consente che la proposta possa articolare i creditori in classi, inclusi i creditori privilegiati per la parte eventualmente incapiente (cioè il credito privilegiato per la parte non soddisfatta dai beni su cui insiste la prelazione, degradato al chirografo ai sensi dell’art. 84, c.5 CCII). In altre parole, anche nel concordato semplificato si possono prevedere trattamenti differenziati tra diverse categorie di creditori, ad esempio distinguendo i chirografari puri dai creditori bancari ipotecari (che avranno una parte di credito degradata), ecc. Resta fermo che i creditori privilegiati non possono essere soddisfatti in misura inferiore al valore di realizzo dei beni su cui hanno prelazione (principio di capienza della garanzia), mentre la parte eccedente diventa credito chirografario da collocare come tale. Il piano di liquidazione deve illustrare come si intende convertire in denaro l’intero patrimonio: vendite in blocco o analitiche di beni mobili e immobili, cessione eventuale di crediti (anche fiscali), proventi attesi e tempistiche.

Iter procedurale e omologazione senza voto: Non essendoci una fase di voto dei creditori, il procedimento è più snello e focalizzato sull’udienza di omologazione. Ricevuta la domanda, il Tribunale comunica al Pubblico Ministero e pubblica il ricorso (analogamente al concordato preventivo). Viene nominato un Commissario o direttamente un Liquidatore? La norma originaria non prevedeva espressamente la figura del commissario nella fase di proposta (essendo destinata a procedere spedita verso l’omologazione), ma è prassi che il Tribunale nomini comunque un ausiliario per verificare il piano e riferire ai creditori e al giudice. All’udienza (alla quale i creditori sono informati e possono partecipare opponendosi) il Tribunale valuta vari aspetti prima di decidere se omologare o meno il concordato semplificato:

  • Correttezza formale e buona fede: verifica che i requisiti di ammissibilità siano rispettati (ossia che la composizione negoziata è stata tentata lealmente e senza successo, come attestato dall’esperto) e che non vi siano state attività in frode ai creditori.
  • Fattibilità e attivo sufficiente: esamina la fattibilità del piano di liquidazione e la sua convenienza per i creditori rispetto alla liquidazione giudiziale. Pur mancando una “votazione”, i creditori hanno la possibilità di sollevare osservazioni e contestazioni; se emerge che l’attivo prospettato è aleatorio o insufficiente, o che il piano è confuso su passività e garanzie, il giudice potrebbe ritenere che la proposta non assicura una parità di trattamento e un soddisfacimento adeguato, e quindi negare l’omologazione.
  • Trattamento non deteriore: analogamente al concordato ordinario, il giudice deve accertare che nessun creditore riceva meno di quanto avrebbe diritto in un fallimento. Questo è facile da valutare se il piano prevede di liquidare tutto il patrimonio (in teoria dovrebbe dare lo stesso risultato della liquidazione giudiziale, al netto dei costi inferiori della procedura semplificata).
  • Interessi dei creditori e terzietà: il Tribunale deve in sostanza farsi garante che, pur senza voto, la soluzione proposta sia equa e nell’interesse dei creditori nel loro complesso, tenendo conto delle eventuali opposizioni di questi ultimi.

Se il Tribunale omologa il concordato semplificato, il decreto omologazione produce effetti similari a quello del concordato preventivo: vincola tutti i creditori antecedenti, e la liquidazione dei beni viene poi condotta (di norma affidandola a un Liquidatore nominato) in base al piano approvato e sotto vigilanza giudiziale. Gli atti, pagamenti e garanzie compiuti in esecuzione del piano omologato godono di esenzione da azioni revocatorie fallimentari, esattamente come previsto per i concordati preventivi e i piani attestati di risanamento (il correttivo 2024 ha esplicitato che anche il concordato semplificato rientra in tale esenzione, colmando un vuoto normativo). In caso invece di diniego di omologazione, il Tribunale emette un decreto motivato di rigetto; a quel punto, su impulso dei creditori o del PM, potrà aprirsi la liquidazione giudiziale.

Criticità ed esperienza applicativa: Il concordato semplificato è stato concepito per evitare che il fallimento sia l’unica strada in assenza di accordo: offre al debitore una chance di gestire ordinatamente la liquidazione, evitando il voto dei creditori (che presumibilmente sarebbero comunque ostili, avendo già respinto soluzioni negoziali). Tuttavia, la prassi ha evidenziato che ottenere l’omologazione non è scontato: i Tribunali valutano con rigore la concretezza del piano e la trasparenza verso i creditori. Ad esempio, in una recente pronuncia del Tribunale di Lecce (18 febbraio 2025), è stata respinta l’omologazione di un concordato semplificato proposto da una società all’esito infruttuoso di composizione negoziata, ravvisando gravi criticità nel piano. In quel caso, il piano prevedeva la soddisfazione dei creditori attraverso la cessione di crediti fiscali (derivanti dal “Superbonus 110%”), la compensazione di ulteriori crediti verso l’erario, incassi futuri da affitti di rami d’azienda e la vendita di beni aziendali. Il Tribunale ha evidenziato che gran parte dell’attivo era aleatorio o incerto – ad esempio un ingente credito di 624.000 € era oggetto di contestazione legale e senza certezza di realizzo – rendendo il piano non sufficientemente garantito per i creditori. Inoltre, vi era mancata chiarezza sull’ammontare delle passività e insufficienza di garanzie offerte. Tali elementi hanno portato al rigetto: la decisione sottolinea come, pur senza voto, i creditori non possano essere sacrificati con proposte vaghe o di dubbia realizzabilità.

Va detto, d’altro canto, che vi sono stati anche esempi di concordati semplificati andati a buon fine, specialmente quando l’attivo è costituito da beni prontamente liquidabili o vi è un acquirente individuato per l’azienda. Ad esempio, è noto il caso di un concordato semplificato omologato dal Tribunale di Milano in cui un investitore terzo acquisiva in blocco l’azienda, garantendo così un ritorno soddisfacente ai creditori (soluzione di fatto simile a una vendita fallimentare ma con tempi più rapidi e sotto il controllo del debitore). In generale, i punti di forza del concordato semplificato sono la rapidità e la riduzione dei costi (niente adunanza e voto, procedura più agile) e la possibilità di evitare le conseguenze afflittive di un fallimento (come interdizioni, indagini penali più invasive, ecc.). I limiti sono la difficoltà nell’ottenere la fiducia implicita del giudice in assenza di consenso dei creditori: il piano deve essere molto ben congegnato e convincente in termini di convenienza oggettiva.

In conclusione, il concordato semplificato è un’opzione preziosa nel toolbox dell’avvocato fallimentarista, ma va maneggiata con cura: è destinata a situazioni dove non c’è spazio per un accordo vero, ma al contempo c’è l’interesse a evitare il fallimento diretto. Nei paragrafi successivi esamineremo la procedura di liquidazione giudiziale (il “classico” fallimento) e poi torneremo a vedere come l’avvocato può consigliare quando sia opportuno tentare un concordato semplificato o altre soluzioni.

Liquidazione giudiziale (fallimento)

La Liquidazione Giudiziale è la procedura concorsuale che ha preso il posto del “fallimento” nella terminologia del Codice della Crisi. Pur cambiando nome, essa ne mantiene la struttura di fondo: è il procedimento giudiziario destinato a liquidare il patrimonio dell’imprenditore insolvente e distribuire il ricavato ai creditori secondo le regole di graduazione dei crediti. Rappresenta l’extrema ratio quando l’impresa non è risanabile. Di fatto, la liquidazione giudiziale sancisce la fine dell’attività dell’impresa (salvo l’eventuale esercizio provvisorio per brevi periodi) e comporta lo spossessamento dell’imprenditore dalla gestione, che passa in mano ad organi nominati dal Tribunale.

Presupposti e apertura: La liquidazione giudiziale si apre con una sentenza del Tribunale che dichiara il debitore in stato di insolvenza. Possono chiedere questa dichiarazione il debitore stesso (che “si porta i libri in Tribunale”), uno o più creditori, oppure il Pubblico Ministero. Per le società, spesso la richiesta proviene da creditori insoddisfatti o anche dai soci/amministratori che ritengono inevitabile il fallimento. Lo stato di insolvenza si configura quando il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni (cessazione dei pagamenti), situazione che deve emergere da inadempimenti o altri fatti esteriori (protesti, pignoramenti infruttuosi, fughe, ecc.). Il Codice della Crisi ha mantenuto tali principi. Una differenza introdotta riguarda le soglie di non fallibilità: imprenditori di piccole dimensioni (sotto certi limiti di attivo, ricavi e debiti) e altri soggetti come imprenditori agricoli non sono soggetti alla liquidazione giudiziale, ma semmai alle procedure di sovraindebitamento (liquidazione controllata). La sentenza di apertura della liquidazione giudiziale ha molteplici effetti: nomina il Giudice Delegato (magistrato che sovrintenderà la procedura) e il Curatore (professionista incaricato di gestire l’attivo fallimentare), priva l’imprenditore dei poteri di amministrazione e disposizione dei suoi beni (che passano al Curatore), ordina ai creditori di non iniziare o proseguire azioni esecutive individuali (blocco delle esecuzioni) e fissa termini per il deposito delle domande di insinuazione al passivo da parte dei creditori.

Svolgimento della procedura: Il Curatore, una volta insediato, procede a prendere in consegna i beni, redige l’inventario e la relazione iniziale sulle cause del dissesto, e accerta il passivo (predispone lo stato dei crediti da ammettere). I creditori presentano le loro domande entro il termine stabilito (di solito 30 giorni prima dell’udienza di verifica). Il Giudice Delegato, in una o più udienze, esamina le domande di ammissione con l’eventuale intervento del Curatore e dei creditori, e forma lo stato passivo, cioè l’elenco ufficiale dei crediti ammessi, con l’indicazione di privilegi, ipoteche, ecc. Questo passivo ammesso definisce chi parteciperà poi alla distribuzione.

Parallelamente, il Curatore elabora un programma di liquidazione: decide come vendere i beni (asta competitiva, trattativa, blocco o beni singoli) e in quali tempi. L’obiettivo, come orienta il Codice, è di massimizzare il ricavato in tempi ragionevoli. Un punto su cui il correttivo ter 2024 ha inciso è l’accelerazione della fase liquidatoria: vengono incentivati strumenti per ridurre la durata della procedura, considerato che storicamente i fallimenti italiani erano lunghi. Ad esempio, l’art. 215 CCII è stato modificato per ampliare la facoltà del Curatore di cedere in blocco le azioni giudiziarie di pertinenza del fallimento: non solo le classiche azioni revocatorie, ma anche le azioni risarcitorie e recuperatorie. Ciò consente di vendere a terzi (spesso società specializzate nel recupero crediti litigiosi) l’intero pacchetto di cause attive, evitando che la procedura debba attendere anni di cause in tribunale. Anche la determinazione del cosiddetto periodo sospetto per le revocatorie è stata chiarita: il dies a quo da cui calcolare il periodo sospetto (ad esempio 6 mesi o 1 anno a ritroso) è fissato alla data di deposito del ricorso ex art. 40 CCII (se c’era stata una domanda prenotativa). Questo dettaglio tecnico evita incertezze su quando far partire il conteggio se c’è stata una fase precedente di concordato.

Durante la liquidazione giudiziale, i contratti in corso di esecuzione possono essere sciolti dal Curatore se non più utili, o proseguiti se funzionali a valorizzare l’attivo (ad esempio, affittare l’azienda per mantenerla operativa fino alla vendita). Per i contratti pendenti, il correttivo 2024 ha introdotto alcune modifiche rilevanti, ad esempio sulla disciplina del contratto preliminare trascritto ex art. 2645-bis c.c.: in tali casi, se un immobile era promesso in vendita e il preliminare trascritto, il Codice consente all’acquirente di ottenere l’esecuzione forzata (trasferimento coattivo) anche in costanza di fallimento, con alcune tutele. Inoltre, sono state estese al Curatore alcune facoltà in materia di rapporti di lavoro: il terzo correttivo ha chiarito che, anche per i licenziamenti collettivi disposti dal Curatore, si applicano le norme speciali (questo accenno riguarda il coordinamento con il diritto del lavoro – ad esempio l’estensione alle procedure concorsuali delle norme su Naspi per dipendenti licenziati, ecc.).

Una volta liquidati i beni (o effettuati riparti parziali man mano che si realizza attivo), si procede al riparto finale: il Curatore predispone un progetto di distribuzione del ricavato ai creditori secondo l’ordine delle cause di prelazione (prima i creditori prededucibili, poi i privilegiati secondo grado, infine i chirografari in proporzione). Il Giudice approva il riparto, il Curatore effettua i pagamenti. Infine, quando tutto l’attivo è stato liquidato e distribuito (o comunque non restano utilità da gestire), il Tribunale emette il decreto di chiusura della liquidazione giudiziale.

Esdebitazione del debitore: Per i debitori persone fisiche (imprenditori individuali o piccoli imprenditori soci illimitatamente responsabili), la chiusura del fallimento può accompagnarsi al beneficio dell’esdebitazione, cioè la liberazione dai debiti residui insoddisfatti. Questa materia verrà approfondita più avanti, ma anticipiamo che il Codice della Crisi ha reso l’esdebitazione più accessibile e automatica: il debitore meritevole, decorsi tre anni dall’apertura della procedura, può ottenere di diritto l’esdebitazione residua anche senza attendere la chiusura formale. In generale, per la liquidazione giudiziale l’esdebitazione opera di diritto a seguito della chiusura o dopo tre anni, senza necessità di un’apposita istanza in quest’ultimo caso – su questo torneremo nella sezione dedicata.

Durata della procedura: La liquidazione giudiziale è tendenzialmente più lunga delle procedure alternative, specie in presenza di beni immobiliari, contenziosi e molti creditori. Il legislatore ha fissato come orizzonte il triennio: idealmente un fallimento dovrebbe concludersi entro 3 anni. Non sempre ciò è possibile, ma l’introduzione di strumenti come la cessione di azioni giudiziarie e la concentrazione di adempimenti mira proprio a comprimere i tempi morti. È importante sottolineare che dopo 4-5 anni dal fallimento residuano raramente molte attività, e che comunque dopo 3 anni il debitore persona fisica non resta “ostaggio” per sempre dei debiti (grazie all’esdebitazione automatica).

Effetti sugli organi sociali e sull’impresa: L’apertura della liquidazione giudiziale comporta per l’imprenditore (o gli amministratori della società fallita) la perdita dei poteri di gestione: l’azienda può cessare immediatamente l’attività, salvo che il Tribunale autorizzi un esercizio provvisorio (eventualità limitata a casi in cui la prosecuzione temporanea dell’attività aumenti il valore di realizzo, ad es. per completare commesse in corso o vendere l’azienda come funzionante). I contratti di lavoro in essere possono essere sciolti dal Curatore, con i dipendenti che accedono al Fondo di Garanzia INPS per TFR e stipendi arretrati e alla NASpI per la disoccupazione. I fornitori rimasti impagati divengono creditori ammessi al passivo e non possono più agire individualmente. Gli amministratori perdono le cariche; se emergono profili di responsabilità, il Curatore potrà promuovere azioni di responsabilità verso di loro (per danni causati alla società e ai creditori). Inoltre, la sentenza di fallimento viene pubblicata e comunicata anche a uffici pubblici: comporta l’incapacità per il fallito di esercitare attività d’impresa finché dura la procedura e altre incapacità personali (per esempio non può assumere cariche societarie, amministrare patrimoni altrui, etc., durante la procedura).

Conclusione della liquidazione giudiziale: Quando il Tribunale emette decreto di chiusura, l’impresa fallita cessa legalmente di esistere (nel caso di società si avvia la cancellazione dal Registro Imprese). Gli ex amministratori o il titolare riacquistano la capacità di gestione del patrimonio residuo (se c’è). Le pendenze non soddisfatte restano in linea di principio a carico del debitore (che però, come detto, può essere liberato tramite esdebitazione se persona fisica e meritevole). Per una società di capitali, i debiti sociali non soddisfatti semplicemente rimangono insoddisfatti ma la società estinta non ne risponde più; tuttavia, attenzione: se sono emerse condotte di mala gestio, i creditori potrebbero avere azioni risarcitorie contro amministratori, sindaci o altri responsabili.

In sintesi, la liquidazione giudiziale è la procedura più radicale e invasiva, che cancella l’impresa dal mercato. È sorvegliata strettamente dal giudice e guidata da un curatore indipendente. L’avvocato di crisi d’impresa, in questo contesto, può assumere diversi ruoli: spesso rappresenta i creditori istanti nel chiedere il fallimento, oppure assiste l’imprenditore nel valutare se dichiarare egli stesso fallimento (ad esempio per evitare peggiori conseguenze), oppure ancora può essere nominato egli stesso Curatore fallimentare (ruolo per il quale gli avvocati specializzati spesso si candidano). Inoltre, come vedremo, un avvocato potrà difendere gli organi sociali in eventuali azioni di responsabilità o procedimenti penali connessi al fallimento.

Dopo aver descritto le procedure “classiche” (concordati e liquidazione), passiamo ora agli strumenti negoziali di ristrutturazione del debito alternativi al concordato, come gli accordi di ristrutturazione e i piani attestati, e alle procedure di allerta e composizione assistita (che, sebbene modificate, restano rilevanti).

Accordi di ristrutturazione dei debiti

Gli Accordi di Ristrutturazione dei Debiti (spesso abbreviati in ADR o accordi 182-bis dal vecchio articolo della legge fallimentare) sono strumenti concorsuali “ibridi”, a cavallo tra il piano negoziale e la procedura giudiziale. Essi consistono in un accordo tra l’imprenditore e una parte significativa dei creditori per ristrutturare l’esposizione debitoria, accordo che viene poi omologato dal Tribunale e reso vincolante anche per eventuali creditori dissenzienti minoritari. In sostanza, l’ADR è un concordato privatistico con meno formalità rispetto al concordato preventivo e riservato tipicamente a situazioni in cui il debitore ha già il consenso della maggior parte dei creditori principali.

Requisiti di consenso: Per poter omologare un accordo di ristrutturazione, la legge richiede che il debitore abbia raggiunto un accordo con creditori rappresentanti almeno il 60% dei crediti (salvo alcune varianti introdotte di recente). Ciò significa che non serve l’adesione di tutti i creditori, ma una qualificata maggioranza qualificata: storicamente era il 60% dei crediti totali. Il CCII ha introdotto alcune tipologie di ADR speciali, come:

  • Accordi ad efficacia estesa: che permettono, in presenza di certe condizioni, di estendere gli effetti anche a creditori finanziari non aderenti, purché un’alta percentuale (75%) di tutti i creditori finanziari abbia aderito e il debitore offra a quelli non aderenti condizioni non peggiori (questa è un’applicazione della direttiva UE sui quadri di ristrutturazione preventiva).
  • Accordi agevolati: dove il quorum può essere ridotto al 30% se l’accordo prevede determinate misure e solo certe categorie di crediti (queste innovazioni derivano dall’attuazione della direttiva e dai correttivi, ma vanno applicate caso per caso).

In linea generale, però, la soglia standard resta il 60% dei crediti complessivi. I creditori estranei all’accordo vanno comunque integralmente pagati entro 120 giorni dall’omologazione (se già scaduti) o dalla scadenza (se successiva) secondo legge, per tutelarli.

Procedura di omologazione: Il debitore, una volta negoziato e sottoscritto l’accordo con i creditori aderenti, presenta ricorso al Tribunale per ottenere l’omologazione. Deve allegare l’accordo firmato, una relazione di un professionista indipendente che attesta la veridicità dei dati aziendali e l’attuabilità dell’accordo, nonché che i creditori estranei saranno pagati per intero nei termini di legge. Il Tribunale, dopo aver verificato la regolarità e l’adesione delle percentuali richieste, può omologare l’accordo rendendolo efficace erga omnes. Durante questa fase, su richiesta del debitore, è possibile ottenere misure protettive analoghe a quelle del concordato (sospensione azioni esecutive) per un breve periodo, per evitare che creditori isolati pregiudichino l’intesa.

Non essendoci un voto organizzato di tutti i creditori, l’opposizione all’omologazione può provenire solo dai creditori rimasti estranei che ritengano lesi i loro diritti (ad esempio, se contestano la capacità del debitore di pagarli integralmente nei 120 giorni). Il giudice valuta e, se tutto è in regola, emette decreto di omologazione. Da quel momento l’accordo produce i suoi effetti e vincola anche i creditori che hanno aderito (ovvio) e in parte quelli che non hanno aderito, limitatamente però a quanto pattuito (in realtà i non aderenti hanno diritto per legge all’integrale soddisfacimento, quindi non subiscono stralci).

Caratteristiche e vantaggi: L’ADR è uno strumento più snello e riservato rispetto al concordato: non vi è una procedura concorsuale pubblica con chiamata di tutti i creditori al voto, l’accordo si sviluppa prevalentemente sul piano negoziale. Diventa pubblico solo in sede di omologazione in tribunale (ciò comporta iscrizione nel Registro Imprese, ma spesso il contenuto dei termini può restare riservato). È dunque utile quando la crisi è circoscritta e gestibile coinvolgendo le banche principali e pochi altri attori, senza travolgere tutta la platea di creditori. Un altro vantaggio è che l’accordo può essere mirato: il debitore può decidere di ristrutturare solo certi debiti (ad es. finanziamenti bancari) lasciando fuori debiti minori che potrà pagare regolarmente. Con un concordato preventivo, invece, deve coinvolgere tutti i creditori indistintamente. Inoltre, l’ADR consente di mantenere la gestione all’imprenditore senza commissari, e spesso avviene in tempi relativamente rapidi (2-3 mesi per raccogliere adesioni e avere omologazione, se c’è intesa di massima).

Tra gli svantaggi o limiti: richiede di fatto un grado elevato di consenso iniziale. Se l’imprenditore non riesce a portare in accordo almeno il 60% dei crediti (in valore), l’ADR non è proponibile. Inoltre, a differenza del concordato, non consente di imporre stralci ai creditori dissenzienti diversi da quelli finanziari (a meno di utilizzare le nuove norme di efficacia estesa per banche). E i creditori estranei devono comunque essere pagati al 100%, il che a volte è ostacolo se ci sono molti piccoli creditori che non aderiscono.

Le novità normative recenti hanno comunque potenziato questo istituto: il Terzo Correttivo 2024 ha affrontato questioni come il trattamento dei creditori pubblici e il cram-down fiscale negli accordi di ristrutturazione, prevedendo ad esempio che anche negli ADR sia possibile includere la transazione fiscale e contributiva (sull’onda di quanto descritto per la composizione negoziata e i concordati). Ciò significa che l’Agenzia delle Entrate e gli enti previdenziali possono aderire all’accordo prevedendo stralci e dilazioni di imposte e contributi; e se non aderiscono, ma l’accordo è conveniente rispetto alla liquidazione, il debitore può chiedere al Tribunale di omologare ugualmente (cram down del Fisco). Questa è una previsione importante che riduce il potere di veto del Fisco e allinea gli ADR ai concordati sul piano fiscale.

Una particolare forma di accordo, introdotta dal CCII, è il Piano di Ristrutturazione soggetto a Omologazione (PRO) disciplinato dall’art. 64 CCII. Il PRO è sostanzialmente un accordo di ristrutturazione con un singolo creditore o gruppi di creditori che non raggiunge la percentuale del 60%, ma grazie alla Direttiva UE può essere omologato ugualmente se soddisfa certe condizioni. Il correttivo ter 2024 ha precisato la disciplina del PRO, ricordandone la funzione: favorire la ristrutturazione di imprese risanabili con procedimento meno formalizzato e controlli minori, permettendo un piano che non rispetti necessariamente l’ordine delle prelazioni (si possono accordare trattamenti anche non paritari se tutti i coinvolti accettano). Ad esempio, nel PRO il debitore potrebbe ottenere accordo da creditori strategici e presentare al Tribunale un piano con adesioni inferiori al 60%. Il giudice valuta comunque convenienza e legittimità e può omologare, rendendo il piano efficace. In sede di PRO, come già visto, è possibile proporre pagamenti parziali/dilazionati di debiti fiscali con l’attestazione di convenienza da parte dell’esperto, e anche effettuare cessioni d’azienda prima dell’omologazione con autorizzazione del tribunale, senza che l’acquirente debba rispondere dei debiti pregressi (esonero dall’art. 2560 c.c.). Sono dettagli tecnici, ma significano che il PRO è uno strumento molto flessibile, a metà tra l’accordo privatistico e il concordato preventivo semplificato.

In conclusione, per un avvocato specializzato è essenziale valutare se vi sono i margini per un accordo di ristrutturazione: se l’impresa ha un nucleo di creditori (spesso banche) disposti a rinegoziare, un ADR può risolvere la crisi in modo discreto, rapido e meno conflittuale. L’avvocato dovrà allora impegnarsi nella negoziazione contrattuale con i creditori, predisponendo testi di accordo dettagliati (patti di standstill, nuove garanzie, covenants) e curando le attestazioni necessarie per l’omologazione. È uno scenario in cui le capacità di mediazione e la credibilità del legale giocano un ruolo importante, più che le dinamiche processuali tipiche del concordato.

Piani di risanamento attestati (ristrutturazione stragiudiziale)

Accanto alle procedure e agli accordi che coinvolgono il Tribunale, l’ordinamento italiano continua a prevedere strumenti stragiudiziali puri per la ristrutturazione dei debiti. Il principale di essi è il Piano Attestato di Risanamento, previsto oggi dall’art. 56 CCII (già art. 67, co. 3, lett. d) legge fall.). Si tratta di un piano di risanamento predisposto dall’imprenditore, finalizzato a riequilibrare la situazione finanziaria, che viene attestato da un professionista indipendente riguardo alla sua veridicità dei dati e fattibilità. Il vantaggio di tale piano è che – pur non essendo soggetto ad omologazione né a pubblicità – consente di proteggere le operazioni in esso contemplate da eventuali azioni revocatorie fallimentari, qualora poi l’impresa fallisca (sono atti esenti da revocatoria). Questo dà maggiore sicurezza ai terzi che partecipano al piano (ad esempio banche che concedono nuova finanza o proroghe, fornitori che rinunciano a crediti in parte, ecc.): sanno che, se il piano era attestato e volto al risanamento, quelle operazioni non verranno annullate dal Curatore in caso di successivo fallimento.

Caratteristiche del piano attestato: Non c’è uno schema rigido. Tipicamente l’imprenditore elabora, spesso con l’aiuto di consulenti finanziari e legali, un piano industriale pluriennale con proiezioni economico-finanziarie che mostrino il ritorno in bonis dell’azienda. Il piano deve dettagliare gli interventi previsti: ad esempio accordi individuali con banche per dilazionare debiti, nuovi prestiti o iniezioni di capitale, dismissione di asset non strategici, riduzione di costi, magari rinunce parziali volontarie di alcuni creditori (se disponibili). La legge non impone una percentuale minima di adesione: può essere anche un piano unilateralmente attuato dall’impresa, purché ragionevole e condiviso con i creditori principali. Il ruolo chiave è quello del professionista attestatore, che redige una relazione asseverata in cui attesta: (a) la veridicità dei dati aziendali di partenza e (b) la fattibilità del piano, ossia che le misure proposte sono idonee a risanare l’impresa e a soddisfare regolarmente i creditori secondo le nuove scadenze. Questo professionista deve avere i requisiti di indipendenza analoghi a quelli richiesti per attestatori di concordato (iscritto all’albo, indipendente, ecc.).

Ambito di utilizzo e vantaggi: Il piano attestato è uno strumento flessibile, che non richiede il coinvolgimento dell’autorità giudiziaria e rimane riservato (non vi è obbligo di deposito pubblico; spesso però, a tutela contrattuale, i creditori aderenti ne chiedono comunicazione a Banca d’Italia per segnalazione vigilanza, ma non è pubblicità giuridica). È indicato quando l’impresa ritiene di poter superare la crisi con mezzi propri e con accordi consensuali mirati con alcuni creditori chiave, senza dover imporre tagli a nessuno in modo unilaterale. Ad esempio, un’azienda con problemi temporanei di liquidità potrebbe accordarsi privatamente con le banche per una moratoria dei mutui e un nuovo finanziamento di liquidità, predisponendo un business plan di rilancio, e formalizzare tutto in un piano attestato. I fornitori verrebbero pagati regolarmente secondo il piano, dunque non c’è bisogno di vincolarli in un concordato.

Il vantaggio principale, oltre alla discrezione, è l’assenza di stigma o effetti concorsuali: l’impresa non è “segnalata” come insolvente, può continuare a operare normalmente, senza che scatti il blocco dei pagamenti o la necessità di coinvolgere tutti i creditori. Inoltre, come detto, il piano attestato protegge da revocatorie: ad esempio, se la banca accorda nuova finanza per €100.000 in attuazione del piano, quel pagamento ricevuto (la restituzione eventuale del nuovo finanziamento) sarà esente da revoca, o se un fornitore dilaziona un credito scaduto partecipando al piano, non potrà vedersi contestare la dilazione come atto anomalo.

Limiti: Di contro, il piano attestato non vincola i creditori dissenzienti. Se uno o più creditori decidono di agire in via esecutiva, non c’è una moratoria legale che li fermi (a differenza di concordato e ADR). L’azienda deve cercare di ottenerne la collaborazione spontanea. Inoltre, il piano attestato non consente di imporre riduzioni coattive: se si vuole stralciare un debito, occorre necessariamente che il creditore sia d’accordo a rinunciare a una parte (diversamente dal concordato, dove i creditori possono subire tagli a maggioranza). Pertanto funziona meglio con numero limitato di creditori, di cui magari uno o pochi principali disposti a sostenere il piano, e con tutti gli altri creditori in grado di essere pagati integralmente col tempo. Non a caso, molti piani attestati vedono come protagonisti le banche (che preferiscono evitare le lungaggini del fallimento e accettano ristrutturazioni del credito in via contrattuale) mentre per i crediti trade (fornitori) spesso non intervengono se sanno di essere pagati comunque.

Il Terzo Correttivo ha introdotto alcuni aggiustamenti anche sui piani attestati: ad esempio, si è chiarito il contenuto minimo del piano attestato (che deve includere la descrizione dettagliata delle strategie di ristrutturazione) e come detto ha reso disponibili strumenti come la transazione fiscale negoziata pure in composizione negoziata e PRO, avvicinando un po’ i mondi. Inoltre, si è prevista un’interazione con la composizione negoziata: spesso un piano attestato può emergere dall’interno di una composizione negoziata come soluzione di esito (ricordiamo che tra gli esiti possibili della CNC vi è il risanamento stragiudiziale mediante piano attestato).

In sintesi, il piano attestato di risanamento è la via maestra del risanamento “in house”, dove l’avvocato può dare il meglio come consulente strategico: redigendo insieme all’azienda e ai consulenti finanziari un piano robusto, negoziando singolarmente con i creditori chiave e predisponendo con rigore la documentazione per l’attestatore. Il successo dipende in gran parte dalla credibilità del piano e dalla fiducia che l’imprenditore riesce a mantenere nei confronti dei partner commerciali e finanziari. L’avvocato deve assicurarsi che tutti gli atti compiuti in esecuzione del piano siano coerenti e tracciati, per poter beneficiare delle protezioni di legge.

Procedure di allerta e di emersione anticipata della crisi

Le procedure di allerta erano uno dei capisaldi originari del Codice della Crisi d’Impresa: un sistema volto a far emergere tempestivamente i segnali di difficoltà aziendale e ad attivare un intervento precoce, evitando che il dissesto degeneri. Inizialmente, il CCII (Titolo II) prevedeva un complesso meccanismo di segnalazioni obbligatorie da parte di organi di controllo interni e creditori pubblici qualificati, con convocazione del debitore presso un apposito Organismo di Composizione della Crisi d’Impresa (OCRI) istituito presso le Camere di Commercio. L’OCRI avrebbe gestito una fase di composizione assistita non pubblica, cercando soluzioni concordate in tempi brevi, con misure premiali per chi vi accedeva e potenziali sanzioni (come segnalazioni al PM) in caso di inerzia.

Tuttavia, questo sistema di allerta non è mai entrato pienamente in vigore nella forma originaria. Complici la pandemia e le difficoltà economiche generali, il legislatore ha dapprima posticipato la partenza dell’allerta (fino al 31 dicembre 2023), e poi, con il D.Lgs. 83/2022, lo ha radicalmente riformato/abrogato, introducendo al suo posto la già descritta composizione negoziata della crisi. In altre parole, l’approccio è passato da un’allerta coattiva (imposta per legge) a una volontaria guidata dal debitore stesso.

Ciò detto, il D.Lgs. 83/2022 non ha eliminato tutti i presidi di allerta, ma li ha riconfigurati in modo meno rigido. Oggi possiamo individuare due livelli:

  • Allerta interna (assetti organizzativi): L’art. 2086 c.c. (introdotto dal Codice della Crisi già nel 2019) obbliga gli imprenditori societari e collettivi ad istituire adeguati assetti organizzativi, amministrativi e contabili, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi e della continuità aziendale. Questo significa che il consiglio di amministrazione e gli amministratori hanno il dovere legale di dotare la società di strumenti di monitoraggio (indicatori, sistemi di controllo di gestione) capaci di segnalare squilibri economico-finanziari. Se gli amministratori omettono di farlo o ignorano segnali di crisi, possono incorrere in responsabilità verso la società e i creditori (ne parleremo nella sezione sulla responsabilità). Anche gli organi di controllo interni (collegio sindacale, revisori) hanno l’obbligo di vigilare e, se rilevano indizi di crisi (ad esempio perdite significative, indici di allerta elaborati dal CNDCEC che risultino superati), devono segnalare per iscritto tali fatti agli amministratori, sollecitandoli ad agire. Se gli amministratori non adottano provvedimenti adeguati entro 30 giorni, i sindaci/revisori devono riferire all’Organismo di Composizione della Crisi (ora di fatto l’OCRI o struttura equivalente presso la CCIAA). Tuttavia, poiché l’OCRI come tale non opera più, questo obbligo di escalation è diventato meno chiaro: di fatto si traduce nella necessità di attivare la composizione negoziata. Il Correttivo ter 2024 ha reintrodotto enfasi sulla segnalazione dell’anticipata emersione della crisi, ma in pratica incide più sulle segnalazioni esterne di cui sotto.
  • Allerta esterna (segnalazioni dei creditori pubblici qualificati e banche): I cosiddetti creditori pubblici qualificati – Agenzia delle Entrate per le imposte, l’INPS per i contributi, l’agente della riscossione – hanno l’obbligo di segnalare alle imprese i ritardi nei pagamenti oltre soglie prefissate. Ad esempio, se un’azienda ha debiti fiscali IVA scaduti oltre un certo importo, l’Agenzia Entrate invita il debitore a presentare istanza di composizione negoziata o comunque a attivarsi. Con il D.Lgs. 83/2022 queste soglie sono state riviste e la segnalazione avviene in modo tale da non innescare immediatamente una procedura (come sarebbe stato con l’OCRI), ma da costituire un campanello d’allarme ufficiale. Se il debitore ignora l’allerta e la situazione peggiora, questi enti potranno comunque procedere con le normali azioni di recupero e, in casi estremi, chiedere essi stessi la liquidazione giudiziale. Inoltre, è stato previsto l’obbligo per le banche e intermediari finanziari: in caso di revoca di affidamenti sopra una certa soglia, essi devono avvisare non solo il cliente ma anche gli organi di controllo interni dell’impresa (sindaci). L’idea è di mettere i controllori al corrente che la banca sta tagliando i fidi per rischio, così che aumenti la pressione sugli amministratori a reagire.

In sintesi, l’allerta oggi si sostanzia principalmente in obblighi di diagnosi precoce interna e in segnalazioni mirate esterne. Non vi è più un procedimento di allerta autonomo con udienza, OCRI e tempi stretti, come inizialmente concepito, perché si temeva che ciò potesse portare a una “proliferazione di procedure concorsuali” e a pericolosi allarmismi. Si è preferito un approccio più soft: avvisi e incoraggiamenti al debitore perché prenda l’iniziativa (ad esempio, l’INPS può segnalare all’impresa che ha molti contributi arretrati e che sarebbe opportuno trovare una soluzione concordata).

Va tuttavia sottolineato che il dovere degli amministratori di agire senza indugio di fronte alla crisi è divenuto ancora più pregnante. Non c’è più un OCRI che li convoca d’autorità, ma se essi non ottemperano ai doveri di attivarsi, rischiano poi conseguenze sul piano della responsabilità civile e penale. In altre parole, l’allerta è stata “internalizzata”: non è tanto un soggetto esterno che suona il campanello, ma la stessa governance aziendale deve dotarsi del campanello e ascoltarlo.

Gli avvocati specialisti, in questa materia, possono svolgere un ruolo proattivo aiutando le imprese a impostare sistemi di controllo conformi alle indicazioni normative (indicatori di allerta settoriali, cruscotti per monitorare DSCR – debt service coverage ratio, ecc.) e preparando piani d’azione quando scattano i segnali. Inoltre, in caso di segnalazioni dei creditori pubblici, l’avvocato può assistere l’impresa nel rispondere in modo adeguato – ad esempio, avviando prontamente una composizione negoziata o predisponendo un piano di rientro – per evitare evoluzioni peggiori.

In conclusione, pur se le procedure di allerta in senso stretto oggi non sono più operative (come indica la formulazione “ove ancora rilevanti” nella domanda, in effetti non lo sono se non come riferimento storico), il loro spirito impregna tutto il sistema: anticipare la crisi è meglio che curarla tardi. E l’avvocato esperto guida l’imprenditore proprio verso questa consapevolezza e reattività.

Esdebitazione e responsabilità degli organi sociali

Affrontiamo ora due temi correlati ma distinti: da un lato l’esdebitazione, cioè la liberazione del debitore dai debiti residui dopo la procedura concorsuale; dall’altro la responsabilità degli organi sociali (amministratori, sindaci, ecc.) in relazione alla crisi e all’insolvenza.

Esdebitazione del debitore insolvente

L’esdebitazione è l’istituto che consente all’imprenditore persona fisica meritevole, una volta esaurita la procedura liquidatoria, di ottenere la cancellazione dei debiti residui non soddisfatti, così da potersi “rifare una vita” senza il fardello dei vecchi debiti. È un concetto di fresh start introdotto nell’ordinamento fallimentare italiano nel 2006 e ora confermato e ampliato dal Codice della Crisi. Per le società, invece, non si parla di esdebitazione: semplicemente, con la chiusura del fallimento la società cessa di esistere e i debiti insoddisfatti restano inesigibili (salvo garanzie personali di terzi).

Il CCII ha voluto rendere l’esdebitazione più accessibile e automatica rispetto al passato. Il Terzo Correttivo 2024 ha razionalizzato la disciplina suddividendola in una sezione generale e due sezioni speciali: una per la liquidazione giudiziale e una per la liquidazione controllata (sovraindebitamento). Ecco i punti salienti per la liquidazione giudiziale:

  • Condizioni di meritevolezza: Restano escluse dall’esdebitazione le persone cui sia addebitabile una frode grave ai creditori o gravi reati concorsuali. In particolare, l’art. 280 CCII elenca cause ostative come la condanna per bancarotta fraudolenta, frodi, o se il debitore ha violato l’obbligo di consegna documenti o non ha collaborato. Se vi sono procedimenti penali pendenti per tali reati, il Tribunale sospende la decisione sull’esdebitazione fino all’esito penale – su questo il correttivo 2024 ha chiarito che il rinvio è obbligato e la decisione sull’esdebitazione avverrà solo dopo il giudicato penale.
  • Tempistica: Il debitore onesto ha due vie:
    1. Esdebitazione immediata a fine procedura: Il debitore può presentare un’istanza di esdebitazione contestualmente alla chiusura del fallimento. Il Tribunale, su istanza, nel decreto di chiusura dichiara inesigibili verso il debitore i debiti concorsuali non soddisfatti. L’istanza deve essere comunicata dal Curatore ai creditori ammessi al passivo, i quali possono presentare osservazioni entro 15 giorni. Se non vi sono opposizioni fondate, il decreto di chiusura accoglie l’istanza e il debitore è liberato.
    2. Esdebitazione “automatica” dopo 3 anni dall’apertura: La grande novità è che, se la procedura dura a lungo, trascorsi 3 anni dall’apertura della liquidazione giudiziale, il debitore è esdebitato di diritto senza bisogno di chiedere nulla (salvo che ricorrano cause ostative). Il correttivo ha eliminato la necessità di un’istanza in questo caso, proprio per garantire che il beneficio scatti automaticamente “nel termine massimo previsto dalla legge”. Quindi, al terzo anno, se il fallimento è ancora aperto, il debitore persona fisica viene comunque liberato dai debiti residui (salvo revoca se poi emergesse malafede). Questo è un forte incentivo a dare un nuovo inizio ai falliti meritevoli, anche se la procedura si protrae.
  • Ruolo del Curatore: Il Curatore deve inserire nella sua relazione finale (art. 235 CCII) gli elementi utili per valutare se concedere l’esdebitazione, ma solo se la chiusura avviene prima dei tre anni. Se invece l’esdebitazione scatta al terzo anno, la procedura è ancora in corso e non c’è un rapporto finale, quindi questo adempimento è previsto solo per la chiusura anticipata.
  • Effetti: L’esdebitazione rende inesigibili tutti i debiti concorsuali non soddisfatti verso il debitore. Restano però esclusi (cioè, restano dovuti) eventuali debiti per obblighi di mantenimento e alimentari, risarcimenti per danni da fatto illecito nonché sanzioni penali ed amministrative di carattere pecuniario (queste eccezioni erano già previste, perché attengono a debiti “personali” o punitivi che non si vogliono condonare). Importante: l’esdebitazione riguarda i debiti personali del fallito. Non libera eventuali coobbligati o garanti: ad esempio, se un socio ha garantito un debito sociale con fideiussione, la sua esdebitazione non cancella l’obbligo del garante (a meno che anche costui ottenga esdebitazione dal proprio fallimento).
  • Revoca dell’esdebitazione: Se entro un anno dalla concessione emergono fatti che l’avrebbero impedita (es: il debitore aveva occultato attivo, o viene condannato per bancarotta), il Tribunale può revocare il beneficio.

Per le procedure di sovraindebitamento (che qui trattiamo solo tangenzialmente perché la guida è focalizzata sulle imprese, ma ricordiamo che coinvolgono piccoli imprenditori sotto soglia o consumatori), il Codice prevede analogamente un’esdebitazione “di diritto” a fine procedura o dopo 3 anni. Addirittura vi è una particolare figura di esdebitazione dell’incapiente (art. 283 CCII) per il debitore persona fisica che non ha nulla da offrire ai creditori ma ha avuto comportamento meritevole: può essere liberato dai debiti anche senza alcun pagamento ai creditori, purché abbia cooperato e non vi siano atti in frode. Una recente pronuncia del Tribunale di Oristano (29 luglio 2024) ha applicato proprio l’art. 283, accogliendo l’esdebitazione “a costo zero” di un insolvente privo di beni, riconoscendone la buona fede.

In definitiva, l’esdebitazione rappresenta un aspetto fondamentale per dare efficacia al concetto di fresh start promosso anche a livello europeo: l’imprenditore onesto ma sfortunato deve poter ripartire senza essere condannato a vita dai debiti passati. L’avvocato in questo ambito può intervenire per: consigliare il cliente su come comportarsi per risultare “meritevole” (trasparenza, collaborazione con il Curatore, non sottrarre beni), presentare l’istanza di esdebitazione e difenderla in caso di opposizioni dei creditori, e più in generale far valere il diritto del debitore alla liberazione quando i presupposti ci sono.

Responsabilità degli organi sociali nella crisi e insolvenza

La gestione della crisi d’impresa mette in primo piano la responsabilità degli amministratori e degli organi di controllo. Nel diritto societario italiano, gli amministratori devono adempiere ai propri doveri con diligenza e lealtà, e rispondono dei danni causati alla società, ai soci o ai creditori in caso di violazione di tali doveri. In situazioni di crisi, queste responsabilità tendono ad accentuarsi, perché le scelte compiute (o non compiute) in frangenti delicati possono aggravare il dissesto e ledere definitivamente le ragioni dei creditori.

Dovere di conservazione del patrimonio sociale: Una regola cardine, anche prima della riforma, è che quando una società versa in uno stato che poi risulta insolvente, gli amministratori sono tenuti ad evitare atti che possano peggiorare il dissesto. Se continuano l’attività d’impresa imprudentemente, accumulando ulteriori debiti pur sapendo (o dovendo sapere) che l’insolvenza è irreversibile, possono rispondere verso i creditori per il danno da aggravamento del passivo. Questo concetto è stato recepito nell’art. 2486 c.c., comma 2, il quale prevede che, una volta sciolta la società (e analogicamente in caso di perdita del capitale), gli amministratori rispondono verso la società dei danni causati per non aver gestito limitatamente alla conservazione dell’integrità patrimoniale.

Adeguati assetti e obbligo di attivarsi: Come già accennato, l’art. 2086 c.c. impone all’imprenditore collettivo di dotarsi di adeguati assetti per rilevare tempestivamente la crisi. Questo si traduce in un obbligo per gli amministratori di monitorare costantemente la salute aziendale e di reagire ai primi segnali di squilibrio. Se ignorano colpevolmente tali segnali, violano i doveri di diligenza e prudenza. La giurisprudenza di Cassazione recente ha rafforzato tale impostazione: ad esempio, con l’ordinanza n. 29844 del 20 novembre 2024, la Cassazione ha sottolineato che anche gli amministratori non esecutivi di una società (nel caso specifico, banca) hanno l’obbligo di agire informati e attivarsi per prevenire o attenuare situazioni di criticità di cui siano o debbano essere a conoscenza. In particolare, la Suprema Corte ha affermato che gli amministratori privi di deleghe devono acquisire una conoscenza costante e adeguata dell’andamento aziendale ed esercitare poteri di iniziativa e controllo volti a garantire una gestione efficace e prudente, senza limitarsi a ricevere informazioni dai delegati. Questo principio vale per i settori regolati (banche) ma è generalizzabile: chi siede in CdA, anche se senza deleghe operative, non può disinteressarsi e poi scaricare la colpa sugli amministratori delegati. Deve vigilare attivamente, e se percepisce segnali di crisi (ad esempio perdite, tensioni di liquidità), è tenuto a chiedere chiarimenti, convocare riunioni, proporre misure correttive o, se del caso, sollecitare procedure concorsuali. L’amministratore che resta passivo di fronte al deteriorarsi della società può incorrere in responsabilità per omissione.

Un’altra pronuncia, Cass. civ. Sez. I, 22 aprile 2024 n. 10739, ha affermato la responsabilità solidale per omissione degli amministratori non esecutivi quando con la loro inerzia hanno concorso a permettere agli amministratori delegati di attuare pratiche illecite che hanno condotto al dissesto. In altri termini, l’inerzia colposa dell’amministratore “di controllo” può costituire concausa del fallimento e generare obbligo risarcitorio verso la massa dei creditori.

Azione di responsabilità e legittimazione del Curatore: Quando la società fallisce, la legittimazione a esercitare le azioni di responsabilità contro amministratori o sindaci passa al Curatore (ex art. 255 CCII, già art. 146 l.fall.). Egli può promuovere, con l’autorizzazione del giudice delegato o del comitato creditori, cause per mala gestio (anche per fatti anteriori alla crisi) e in particolare per ritardata richiesta di fallimento o aggravamento del dissesto. Se vince la causa, il risarcimento ottenuto rientra nell’attivo fallimentare e va a beneficio dei creditori. Tali cause sono complesse (bisogna provare il nesso tra condotte e aggravio debitorio), ma negli ultimi anni si sono intensificate, anche come strumento deterrente. Il Codice della Crisi, con la valorizzazione degli assetti adeguati, di fatto ha alzato l’asticella degli obblighi gestionali, offrendo più appigli per contestare agli amministratori la negligenza in caso di default.

Responsabilità dei sindaci e revisori: Anche i componenti dell’organo di controllo e i revisori legali possono essere chiamati a rispondere se omettono di vigilare e segnalare tempestivamente. Ad esempio, se un collegio sindacale non ha rilevato gravi perdite o violazioni di legge, o non ha attivato la procedura di allerta interna (segnalando agli amministratori la crisi, e se del caso all’OCRI/composizione negoziata), potrebbe rispondere in solido coi malfattori per i danni subiti dai creditori. Questo è un incentivo importante: sapendo di poter essere citati per milioni, sindaci e revisori hanno tutto l’interesse ad essere diligenti nel pretendere che l’organo amministrativo attui misure di risanamento o scelga di portare i libri in tribunale al momento giusto.

Responsabilità penale: Oltre alla responsabilità civile, gli organi sociali possono incorrere in responsabilità penale in caso di condotte fraudolente. L’elenco dei reati fallimentari classici comprende:

  • Bancarotta fraudolenta: se prima o durante il fallimento l’imprenditore ha distratto o sottratto beni, simulato passività, dolosamente aggravato il dissesto, tenuto i libri falsi. È un delitto punito severamente (fino a 6-10 anni di reclusione).
  • Bancarotta semplice: se il fallito ha compiuto gravi imprudenze (spese personali eccessive, consumato capitali in operazioni azzardate, aggravato per colpa il dissesto). Meno grave (fino a 2 anni).
  • Ricorso abusivo al credito: configurato come bancarotta fraudolenta impropria quando l’imprenditore ha continuato a prendere crediti sapendo di essere insolvente, poi fallendo.
  • Omessa tenuta delle scritture contabili: punita come bancarotta semplice (perché impedisce di ricostruire patrimonio e movimenti).
  • Preferenze fraudolente: se prima del fallimento l’imprenditore paga intenzionalmente un creditore a detrimento di altri (bancarotta preferenziale).
  • Reati dei garanti: ad esempio, il socio fittizio (testa di legno) può rispondere come amministratore di fatto se era consapevole delle frodi.

Il Codice della Crisi ha riorganizzato queste fattispecie in articoli del titolo IX (artt. 322 e seguenti CCII). Ad esempio, l’art. 322 CCII definisce la bancarotta fraudolenta con varie condotte, l’art. 323 la bancarotta semplice, l’art. 329 la bancarotta fraudolenta dei soggetti diversi dall’imprenditore (es. amministratori di fatto, institori). Importante evidenziare che atti compiuti in esecuzione di un piano o concordato omologato non costituiscono reato di bancarotta: per esempio, se un imprenditore paga un fornitore come previsto dal concordato, quel pagamento non potrà mai essere contestato come preferenziale. Questo per tutelare chi segue la via legale della ristrutturazione.

Dal punto di vista dell’avvocato, ciò comporta la necessità di vigilare che i propri assistiti, in crisi, non compiano atti illeciti. Ad esempio, se un cliente imprenditore in crisi volesse occultare dei beni prima di fallire, il legale deve sconsigliarlo vivamente (oltre a non farsi complice), spiegando le gravi implicazioni penali. L’avvocato inoltre può dover collaborare con un penalista qualora, dopo il fallimento, gli organi vengano indagati per bancarotta: è frequente che si crei un team di difesa integrato sul fronte concorsuale e penale per gestire le due dimensioni.

Riassumendo, gli organi sociali hanno responsabilità aggravate in caso di crisi:

  • Civili verso società e creditori: per mala gestio, ritardata emersione, violazione dovere di attivarsi, aggravamento del dissesto, violazione obblighi su assetti.
  • Penali: per condotte dolose di distrazione, occultamento, falso in bilancio, ecc., che ledono il principio della parità tra creditori.

Le novità del 2024 in giurisprudenza sottolineano questa tendenza: la Cassazione ha chiarito che anche il membro del CdA non operativo non può restare inerte se ci sono segnali di criticità, e la responsabilità omissiva è una realtà riconosciuta. Dunque, l’avvocato in fase di consulenza deve mettere in guardia amministratori e sindaci: ignorare la crisi è pericoloso. Meglio affrontarla con trasparenza e con gli strumenti legali disponibili, sia per provare a salvare l’azienda sia per proteggere sé stessi da successive azioni di responsabilità.

Ruolo dell’OCRI e del Tribunale fallimentare

In questo paragrafo concludiamo l’excursus sugli attori istituzionali coinvolti.

L’Organismo di Composizione della Crisi d’Impresa (OCRI)

Come anticipato, l’OCRI era l’organismo che avrebbe dovuto ricevere le segnalazioni di allerta e gestire la procedura di composizione assistita della crisi nella versione originaria del Codice della Crisi. Esso sarebbe stato istituito presso ciascuna Camera di Commercio, composto da esperti e con funzioni quasi arbitrali. Tuttavia, tale organismo, per effetto delle modifiche normative, è stato di fatto depotenziato o abrogato. Il D.Lgs. 83/2022 ha formalmente eliminato le procedure di allerta e composizione assistita, quindi le specifiche disposizioni sull’OCRI nel CCII sono state abrogate. Ad esempio, l’articolo che prevedeva sanzioni per false attestazioni all’OCRI e quello sui compensi dell’OCRI risultano abrogati. Di conseguenza, l’OCRI come sede collegiale non ha preso piede.

Tuttavia, alcune sue funzioni sono state riassegnate: in particolare, l’elenco degli esperti indipendenti per la composizione negoziata è tenuto dalle Camere di Commercio, e una Commissione presso ciascuna CCIAA nomina l’esperto nelle procedure CNC (di fatto, quellacommissione regionale ricorda la struttura che avrebbe avuto l’OCRI per nominare i collegi). Inoltre, per i sovraindebitati esiste tuttora l’Organismo di Composizione della Crisi (OCC) previsto dalla legge 3/2012, ma questo riguarda privati e piccoli imprenditori.

In sintesi, oggi quando si parla di OCRI in crisi d’impresa si fa riferimento più che altro a un concetto storico. Le segnalazioni di allerta non vanno più ad un OCRI, bensì spingono l’impresa verso la composizione negoziata. Possiamo dire che il ruolo che doveva avere l’OCRI (convocare l’imprenditore, assistere in trattative riservate, ecc.) viene ora assolto dallo strumento volontario della composizione negoziata e dall’esperto nominato.

Per completezza, vale ricordare che il Codice della Crisi ha comunque predisposto un assetto organizzativo per gestire tutte le procedure: ad esempio l’art. 356 CCII (modificato dal correttivo 2024) istituisce presso il Ministero della Giustizia un elenco nazionale dei soggetti (persone fisiche o studi associati) destinati a svolgere su incarico del tribunale le funzioni di curatore, commissario giudiziale o liquidatore. Questo serve a professionalizzare e controllare i gestori delle crisi. Non è l’OCRI, ma indica la direzione: creare strutture specializzate.

In conclusione, il ruolo dell’OCRI oggi è perlopiù superato. Ciò che resta è:

  • L’obbligo per le imprese di segnalare internamente la crisi (compito dei sindaci) e
  • Le segnalazioni esterne con invito ad attivare la CNC.

Il Tribunale fallimentare (Tribunale delle Imprese)

Il Tribunale è l’autorità giudiziaria competente per tutte le procedure concorsuali di cui abbiamo discusso (salvo la fase stragiudiziale pura). In particolare, di norma è competente il Tribunale in composizione collegiale del luogo dove l’impresa ha la sede principale. In alcuni distretti esistono sezioni specializzate o prassi accorpate (ad es. i Tribunali delle imprese nelle sedi di Corte d’Appello spesso accentano anche le procedure concorsuali di società importanti).

Il Tribunale (Sezione fallimentare) svolge molteplici ruoli:

  • Nelle procedure concordatarie e negli accordi di ristrutturazione: ha un ruolo di controllo e di omologazione. Riceve i ricorsi di concordato preventivo, accordo ex art. 57 CCII, transazione fiscale della CNC, ecc., e deve valutare ammissibilità e poi omologare, come visto. Può emanare decreti di misure protettive (nel concordato e nella CNC, su richiesta). In sede di omologazione, opera come giudice di merito sulla convenienza, vigilando sull’equilibrio della proposta e sul rispetto delle norme.
  • Nella liquidazione giudiziale: è autorità attiva, dichiarando l’apertura colla sentenza, poi supervisionando attraverso il Giudice Delegato il lavoro del Curatore. Approva lo stato passivo, risolve controversie su crediti (anche con funzione di giudice nelle cause di opposizione allo stato passivo, revocazioni, ecc.), autorizza gli atti più importanti (vendite di immobili, transazioni), decide sulle istanze di chiusura ed esdebitazione.
  • Nei procedimenti speciali: il Tribunale interviene ad esempio per autorizzare atti urgenti in CNC (come autorizzazione a finanziamenti prededucibili o cessione d’azienda anticipata), oppure per nominare liquidatori o commissari ad acta in caso di inadempienze dell’impresa negli accordi.

Una figura centrale è il Giudice Delegato nella liquidazione giudiziale e concordato: è un magistrato singolo incaricato di seguire da vicino la procedura, emanare decreti durante il corso (es. ammissione dei crediti, autorizzazioni, riparti). In concordato preventivo spesso non c’è GD, ma un collegio decide in sede di omologazione; in fallimento c’è GD fin dall’inizio.

Il Tribunale inoltre è il punto di raccordo con il Pubblico Ministero: in tutte le procedure di concordato, omologa accordi e dichiarazione di fallimento, il PM va informato e può intervenire (ad esempio può proporre istanza di fallimento, può esprimere parere su un concordato o impugnare un’omologazione se la ritiene illegittima). Questo serve a tutelare l’interesse pubblico nelle insolvenze.

Infine, va ricordato che presso molti tribunali sono state sviluppate Linee guida e protocolli per la gestione efficiente delle procedure (ad esempio linee guida per il concordato preventivo del Tribunale di Milano, oppure protocolli per la composizione negoziata – come quelle del Tribunale di Livorno). Tali prassi, pur non essendo legge, orientano l’operato degli organi della procedura e anche degli avvocati, uniformando ad esempio i contenuti attesi dei piani, le modalità di convocazione, ecc.

In conclusione, il Tribunale è la garanzia della legalità e della correttezza delle procedure concorsuali. L’avvocato dialoga con esso in vari modi: depositando ricorsi, partecipando ad udienze e camere di consiglio, esponendo le ragioni dell’impresa debitrice o dei creditori, e predisponendo atti conformi alle prescrizioni normative e ai format richiesti dal foro competente. Un rapporto di fiducia e credibilità con il tribunale di riferimento è spesso un valore aggiunto per l’avvocato fallimentare: presentare piani ben articolati e attuabili aumenta la probabilità di ottenere misure favorevoli (come l’omologazione di un accordo o la conferma di un concordato anche in presenza di opposizioni pretestuose).

Dopo questo ampio panorama degli strumenti e dei ruoli, passiamo ad esaminare più in dettaglio il ruolo pratico dell’avvocato in ciascuna fase di gestione della crisi, e a fornire consigli specifici sia per imprenditori che per i professionisti del diritto che si occupano di questa materia.

Il ruolo dell’avvocato nella gestione della crisi d’impresa

Affrontare una situazione di crisi aziendale richiede un insieme coordinato di competenze legali, economico-finanziarie e strategiche. L’avvocato esperto in diritto della crisi si pone come regista e consulente legale dell’operazione di risanamento o liquidazione, accompagnando l’imprenditore attraverso tutte le fasi, dalla diagnosi iniziale fino alla conclusione della procedura (e oltre, per aspetti come l’esdebitazione o le eventuali azioni di responsabilità). Di seguito distinguiamo le diverse fasi e attività in cui si esplica il ruolo dell’avvocato, evidenziando le differenze tra contesto stragiudiziale (negoziale) e contesto giudiziale.

Analisi preliminare della situazione e valutazione dello stato di crisi

Quando un imprenditore si rivolge a un avvocato perché intuisce che la propria azienda è in difficoltà, il primo compito del legale è condurre un’analisi preliminare approfondita della situazione. Questa fase è cruciale e richiede stretta collaborazione con il management e spesso con i consulenti contabili dell’impresa. L’avvocato esamina la documentazione contabile e finanziaria (bilanci, situazione di cassa, elenco debiti scaduti, contratti in corso, esposizioni bancarie, eventuali atti di pignoramento o decreti ingiuntivi ricevuti). Obiettivo: capire se si è in presenza di un semplice stato di tensione finanziaria temporanea, di uno stato di crisi conclamato (probabilità elevata di insolvenza futura) o già di vera insolvenza attuale.

In questa fase l’avvocato:

  • Valuta la gravità: quantifica l’ammontare complessivo del debito, distingue tra debiti esigibili subito e a medio termine, verifica se vi sono crediti da incassare o asset liquidabili.
  • Identifica le cause: cerca di individuare cosa ha portato alla crisi (calo del fatturato, perdita di un cliente importante, eccessivo indebitamento, spese non sostenibili, problemi gestionali, frodi subite, etc.). Capire le cause è essenziale per orientare il tipo di soluzione: es. crisi da indebitamento finanziario può indirizzare a ristrutturazione del debito; crisi da modello di business fallato può richiedere discontinuità aziendale.
  • Verifica la prosecuzione dell’attività: valuta se l’azienda può ragionevolmente continuare a operare durante la ristrutturazione (ha liquidità per pagare fornitori essenziali e dipendenti? Ci sono magazzino e risorse per andare avanti qualche mese?) oppure se è già al collasso operativo. Questo incide sulla scelta tra procedure di continuità o liquidatorie.
  • Mappa i creditori e stakeholder: stila un elenco dei principali creditori e delle loro categorie (banche, fornitori strategici, Fisco, dipendenti, soci finanziatori…). Per ciascuno valuta: hanno garanzie? Sono già in contenzioso? Sono disponibili a trattare? Qual è la loro importanza per l’impresa? Ad esempio, se vi è una banca con ipoteca sulla sede, il suo consenso sarà fondamentale in un piano.
  • Controlla gli obblighi di legge: verifica se la società ha già superato i limiti di perdita previsti dal codice civile (artt. 2446-2447 c.c. per Spa, 2482-bis per Srl), perché in tal caso gli amministratori devono convocare assemblea per provvedimenti urgenti (riduzione capitale, ecc.). Valuta anche se ci sono istanze di fallimento pendenti (magari un creditore ha già presentato ricorso), o se ci sono segnalazioni in centrale rischi o da creditori pubblici.
  • Valuta la meritevolezza e condotta degli organi: se l’imprenditore arriva tardissimo e magari ha compiuto atti discutibili (tipo ha pagato solo alcuni creditori escludendone altri, o ha sottratto beni), l’avvocato deve tenerne conto perché ciò influirà sulla strategia e sui rischi (ad es. minore chance di concordato, possibili azioni revocatorie o penali). In alcuni casi, l’avvocato potrebbe consigliare di non intraprendere una procedura concorsuale volontaria se sa che verrebbe comunque respinta per frode, e piuttosto preparare il cliente alle conseguenze.

Al termine di questa due diligence, l’avvocato è in grado di diagnosticare lo stato di salute giuridico-economica dell’impresa e delineare possibili percorsi. Questa fase preliminare spesso coinvolge competenze multi-disciplinari: il legale può avvalersi di un advisor finanziario o di un commercialista aziendale per validare i numeri e costruire scenari (ad esempio: con un taglio costi e nuova finanza, l’impresa reggerebbe? Oppure nemmeno con un miracolo economico si salva?).

Pianificazione strategica e scelta dello strumento di regolazione

Sulla base dell’analisi, l’avvocato deve aiutare l’imprenditore a rispondere alla domanda chiave: quale strada percorrere? Questa è una fase di consulenza strategica dove l’esperienza del legale in casi analoghi pesa molto. Le opzioni (che abbiamo visto nel dettaglio prima) possono essere:

  • Un tentativo stragiudiziale puro (negoziazione privata, piano attestato).
  • Una composizione negoziata con ausilio di esperto terzo.
  • Un accordo di ristrutturazione formale (se c’è già intesa con molti creditori).
  • Un concordato preventivo (di solito in continuità se c’è chance di rilancio, o liquidatorio se no).
  • In estremis, la domanda di liquidazione giudiziale volontaria (se l’impresa non è più sostenibile e ulteriori tentativi arrecherebbero danni).

La scelta dipende da molte variabili:

  • Fattibilità del risanamento vs necessità di liquidare: se l’impresa ha ancora un core business profittevole, anche se schiacciata dai debiti, si punterà a strumenti di continuità (CNC, concordato in continuità, accordo). Se invece l’azienda è economicamente morta (prospettive negative, mercato perduto), l’avvocato onesto consiglierà di non accanirsi e procedere a una liquidazione ordinata (concordato liquidatorio o fallimento pilotato).
  • Tempo a disposizione: la crisi è già esplosa (pignoramenti in corso, casse vuote) oppure c’è un breve respiro? Se c’è il lusso di qualche mese, si può tentare composizione negoziata. Se domani c’è un’udienza su un’istanza di fallimento, forse conviene presentare subito un concordato preventivo per bloccare (il c.d. “concordato in extremis”).
  • Consenso dei creditori: l’avvocato valuterà gli umori dei creditori chiave. Se le banche si mostrano collaborative e preferiscono evitare tribunale, un accordo di ristrutturazione può passare. Se i rapporti sono tesi o c’è conflittualità (creditori aggressivi), forse meglio andare direttamente in una procedura giudiziale trasparente dove le regole maggioritarie possono imporre la soluzione.
  • Dimensioni e costi: alcune procedure (concordato, CNC) comportano costi significativi (compensi per attestatore, eventuale esperto, spese legali, ecc.). Se l’impresa è molto piccola e non può sostenerli, si potrebbe optare per soluzioni più semplici. Ad esempio per micro-imprese spesso si ricorre al sovraindebitamento (concordato minore) che è calibrato per costare meno.
  • Impatto sull’attività corrente: un concordato preventivo comporta pubblicità, possibile sfiducia di partner commerciali, e la necessità di mantenere una gestione vigilata. Una trattativa stragiudiziale invece può essere silente e preservare la reputazione (almeno finché funziona). L’avvocato discute col cliente la sensibilità di questo aspetto.

Questa fase è dunque di consulenza pura: l’avvocato prospetta i pro e contro di ciascun approccio (spesso facendo riferimento a precedenti). È opportuno che formalizzi questa analisi in un parere legale scritto o comunque in un piano di azione condiviso, così che l’imprenditore prenda decisioni consapevoli. In situazioni complesse, potrà essere necessario anche ottenere il placet di stakeholder: ad esempio, la società potrebbe dover riferire ai soci o al CdA le opzioni (specialmente se l’avvocato è nominato dal consiglio di amministrazione su input del collegio sindacale, come talvolta avviene, egli riporterà ai vertici le possibili soluzioni).

Una volta scelta la strada (es. “proviamo la composizione negoziata per 3 mesi e se fallisce passiamo a concordato”, oppure “andiamo diretti a un concordato in continuità con investitore già individuato”), l’avvocato passa alla fase operativa.

Negoziazione con i creditori e le parti interessate

Se la soluzione scelta prevede una trattativa con i creditori (tutte le ipotesi salvo la liquidazione giudiziale, che non prevede negoziazioni preventive), l’avvocato assume il ruolo di negoziatore principale o coordinatore della negoziazione. I creditori rilevanti possono includere:

  • Istituti di credito: con cui ridiscutere i termini di mutui, fidi, leasing (allungamento piani di ammortamento, riduzione tassi, remissione interessi di mora, conversione di parte debito in strumenti partecipativi, ecc.).
  • Fornitori strategici: da convincere a continuare le forniture (magari accettando pagamenti dilazionati per gli arretrati e mantenendo condizioni).
  • Clienti chiave: talvolta se l’azienda ha contratti di appalto in corso, deve rassicurare i clienti che continuerà ad eseguirli (specie se il loro supporto economico è essenziale).
  • Dipendenti/unioni sindacali: se la crisi comporta esuberi o cassa integrazione, l’avvocato può partecipare a negoziati sindacali paralleli per gli aspetti giuslavoristici (magari supportato da un collega giuslavorista).
  • Fisco e enti previdenziali: in caso di debiti fiscali e contributivi rilevanti, l’avvocato gestisce la richiesta di transazione fiscale (presenta domanda ad Agenzia Entrate e INPS per stralciare sanzioni, interessi e dilazionare il debito come visto).
  • Eventuali investitori o soci finanziatori: se la soluzione prevede ingresso di nuovi capitali (un investitore che apporta liquidità per salvare l’azienda, o i soci che mettono mano al portafoglio), l’avvocato negozia i termini di questo intervento (quote societarie, governance, ecc. magari predisponendo un term-sheet).

Le abilità richieste all’avvocato in questa fase sono di mediazione e persuasione. Egli dovrà:

  • Preparare la comunicazione della crisi ai creditori: decidere insieme all’impresa come comunicare la situazione. Spesso si invia una lettera ai creditori chiave spiegando che l’azienda sta attraversando una fase di tensione finanziaria ma che intende risolverla e pagare i debiti, proponendo un incontro o un accordo temporaneo di standstill. La forma e contenuto di questa comunicazione vanno studiati (deve trasmettere serietà e disponibilità, senza allarmare inutilmente né ammettere cose che possono peggiorare posizioni legali).
  • Concludere accordi di moratoria (standstill): un primo passo comune è ottenere dai creditori (tipicamente le banche) un impegno a congelare temporaneamente le azioni esecutive e a mantenere le linee attive mentre si negozia il piano. L’avvocato redige e negozia tali accordi di standstill, che hanno natura contrattuale.
  • Negoziare i termini essenziali del piano: ad esempio, concordare con le banche una certa percentuale di stralcio o di conversione debiti in azioni; concordare con i fornitori la ripresa regolare delle forniture e un calendario di pagamento per gli arretrati; convincere un creditore ipotecario a rinunciare a far vendere l’immobile immediatamente e attendere il concordato. Queste intese spesso vengono raccolte in accordi preliminari o in lettere di intenti, che poi confluiranno nella documentazione formale (accordo di ristrutturazione o piano concordatario).
  • Interfacciarsi con l’esperto o commissario: se si è in composizione negoziata, l’avvocato affianca l’esperto indipendente nominato, fornisce documenti, formula proposte sotto la sua supervisione, e recepisce i suoi suggerimenti. In un concordato, dopo il deposito l’avvocato interagirà con il Commissario Giudiziale nominato per rispondere a eventuali richieste di chiarimenti e iniziare a persuadere della bontà del piano.
  • Mantenere la coesione tra creditori: il rischio in ogni negoziato multiparte è che qualche creditore faccia il “free rider” o tenti di sabotare sperando di ottenere più degli altri. L’avvocato deve essere attento a equilibrare le proposte e, ove possibile, a evitare spaccature (ad esempio offrendo garanzie aggiuntive o trattamento leggermente migliorativo a creditori particolarmente critici, pur restando entro la parità di legge). Se ciò non è possibile, e un creditore minore è recalcitrante, il legale valuterà di lasciarlo fuori dall’accordo e affrontarlo magari in sede concorsuale.

Questa fase può durare da poche settimane a diversi mesi, a seconda della complessità e del numero di soggetti. È un lavoro spesso poco visibile ma sostanziale: qui si gettano le basi di qualsiasi soluzione. Un bravo avvocato sa alternare fermezza (far capire ai creditori che l’alternativa al negoziato è per loro peggiore: ad esempio, “se non accettate uno stralcio del 30%, probabilmente in fallimento prendereste 10%, quindi vi conviene ora”) e empatia (ascoltare le ragioni dei creditori, riconoscere il loro disagio e cercare soluzioni win-win, se possibile).

Redazione del piano, degli accordi e degli atti legali

Parallelamente alle trattative, o subito dopo averne delineato l’ossatura, l’avvocato deve occuparsi della redazione di tutta la documentazione legale necessaria per formalizzare la soluzione scelta. Questa attività varia a seconda dello strumento:

  • Nel piano attestato di risanamento: l’avvocato collabora con gli advisor finanziari per mettere per iscritto il piano di risanamento vero e proprio, che è in parte documento gestionale (business plan) e in parte atto unilaterale dell’imprenditore. Redige poi gli accordi contrattuali con i singoli creditori che aderiscono al piano: ad esempio nuovi contratti di mutuo, atti di postergazione, patti di rinegoziazione dei debiti (spesso formalizzati in scritture private con ciascuna banca). Prepara la relazione dell’attestatore fornendogli tutte le clausole necessarie e assicurandosi che l’attestazione contenga le dichiarazioni richieste. Cura anche eventuali delibere societarie necessarie (per es, se il piano prevede aumenti di capitale o cessioni di asset rilevanti, l’avvocato predisporrà la delibera dell’assemblea e i contratti di cessione).
  • Nella composizione negoziata: qui l’atto finale può non essere unico; se si raggiunge un accordo con tutti o parte dei creditori, l’avvocato lo formalizza in un accordo stragiudiziale (che può assumere la forma di un accordo transattivo plurilaterale firmato dalle parti, oppure tanti accordi bilaterali coordinati). Se invece la composizione negoziata sfocia in una procedura concorsuale, l’avvocato dovrà predisporre gli atti di quella (concordato o concordato semplificato). Durante la CNC, l’avvocato redige le istanze al Tribunale per misure protettive o autorizzazioni (ad es. istanza per autorizzazione di finanziamenti prededucibili, che richiederà un atto motivato ex art. 17 CCII).
  • Nell’accordo di ristrutturazione dei debiti: l’avvocato prepara l’accordo quadro che tutti i creditori aderenti firmeranno, nel quale si dettagliano gli impegni reciproci (quanto pagherò e quando, eventuali garanzie nuove, condizioni sospensive all’efficacia, ecc.). Prepara anche la domanda di omologazione al Tribunale, completa della relazione attestatrice e degli allegati di legge. Ciò include la stesura di memorie esplicative a supporto dell’omologa, dove spiega al giudice come l’accordo conviene ai creditori e rispetta le norme (specie se c’è cram-down fiscale o classi di creditori diversi).
  • Nel concordato preventivo: qui la mole di documenti è considerevole. L’avvocato redige il ricorso di concordato, contenente la proposta, l’indicazione analitica di come si intende trattare i creditori, la suddivisione in classi e le eventuali garanzie o risorse apportate. Predispone il piano di concordato, che è allegato al ricorso, in cui spiega in dettaglio le operazioni previste (es. continuazione azienda, affitto d’azienda, vendita beni, intervento di terzi) e un prospetto dei flussi finanziari attesi. Inoltre, l’avvocato prepara la relazione dell’attestatore (spesso è il commercialista che la scrive, ma l’avvocato fornisce supporto informativo e legale, verificando che l’attestatore dichiari tutto ciò che serve – veridicità dati, fattibilità, non divergenza tra classi, ecc.). Occorre poi predisporre gli allegati obbligatori: elenco creditori, elenco beni, bilanci, situazione finanziaria. L’avvocato deve controllare che tutto sia corretto e completo, perché eventuali lacune potrebbero portare a inammissibilità. Se il concordato è con continuità, redige anche la relazione di un professionista sugli effetti per i creditori in continuità (richiesta dall’art. 186-bis l.f. vecchio, ora integrata nelle previsioni del CCII) e cura eventuali contratti indispensabili (ad es. se c’è un contratto di affitto d’azienda nel piano, l’avvocato lo negozia con l’affittuario e lo allega). In caso di concordato semplificato, si redige il ricorso ex 25-sexies con la proposta di cessione beni e il piano di liquidazione.
  • Nella liquidazione giudiziale volontaria: se l’imprenditore decide di presentare egli stesso istanza di fallimento, l’avvocato prepara la ricerca di pre-fallimento a norma (un atto con cui dichiara l’insolvenza e chiede la propria liquidazione giudiziale). Ciò avviene raramente, ma a volte è una scelta per dimostrare cooperazione (in tal caso l’avvocato includerà magari la richiesta di nomina di uno specifico curatore gradito, o evidenzierà la volontà di facilitare l’esdebitazione).

Tutti questi atti devono essere redatti con linguaggio giuridico preciso, rispettando le normative aggiornate. Ad esempio, dopo il correttivo 2024, l’avvocato che prepara un concordato semplificato dovrà includere nel ricorso l’affermazione che l’esperto ha dichiarato correttezza delle trattative e non praticabilità di soluzioni ex art. 23, e se prevede classi dovrà includere i privilegi degradati. Oppure, se propone un accordo di ristrutturazione con transazione fiscale, deve allegare le due relazioni (indipendente e revisore) come richiesto. Insomma, aggiornamento normativo costante è cruciale nella redazione.

Un aspetto peculiare: spesso l’avvocato deve conciliarsi con i tempi del business. Può capitare, ad esempio, che l’azienda sia in emergenza e si decida di depositare un concordato “in bianco” immediatamente per bloccare i creditori: l’avvocato allora prepara in poche ore un ricorso essenziale e lo deposita. Poi, nelle settimane di tempo concesse, redige con calma il piano completo. Questa prassi di first file, then plan è comune nelle crisi lampo. Richiede prontezza e capacità di lavorare sotto pressione.

Attività giudiziale: ricorsi, udienze e difesa nelle omologazioni

Una volta depositati gli atti presso il Tribunale, l’avvocato passa alla fase giudiziale vera e propria, rappresentando il proprio cliente (debitore o talvolta creditori) davanti all’autorità giudiziaria nelle varie udienze e procedure previste. Ecco alcune situazioni tipiche:

  • Udienza pre-fallimentare: se è pendente un’istanza di fallimento da parte di terzi, l’avvocato compare in rappresentanza del debitore all’udienza. Può contestare l’insolvenza (ad esempio dimostrando che i debiti in questione sono oggetto di opposizione o che esistono attivi per farvi fronte), oppure chiedere un termine per presentare una soluzione (magari annuncia di aver depositato un concordato in bianco poche ore prima – in tal caso l’istanza di fallimento viene sospesa ex lege). Se invece si giunge a conclusione che il fallimento è inevitabile, l’avvocato del debitore può al limite chiedere misure di favor (es. rinvio di qualche giorno per predisporre atti, o segnalare al tribunale nominativi di possibili curatori competenti).
  • Camera di consiglio di ammissione al concordato: in diversi tribunali, dopo il deposito del ricorso di concordato, viene fissata un’udienza informale in camera di consiglio in cui il collegio sente l’azienda (tramite l’avvocato) prima di decidere sull’ammissione. L’avvocato in quell’occasione illustra a grandi linee il piano e cerca di rassicurare il tribunale sulla serietà della proposta. Se la domanda presenta qualche carenza sanabile, il tribunale potrebbe segnalarla in udienza e il legale chiederà tempo per rimediare (ricordiamo che ora il giudice può concedere fino a 15 giorni per integrazioni, spesso su sollecitazione dell’avvocato).
  • Udienze di omologazione (concordato, accordo): queste sono spesso il momento clou. Nel concordato preventivo, dopo il voto, all’udienza di omologa l’avvocato del debitore deve difendere il piano dalle eventuali opposizioni dei creditori dissenzienti. Presenterà memorie scritte e discuterà oralmente, replicando punto per punto alle contestazioni (es: un creditore può dire che il piano lo tratta peggio del fallimento; l’avvocato replicherà mostrando conteggi che provano il contrario). Anche il PM può prendere posizione (talvolta critica verso eccessivi stralci o ritardi): il legale deve convincere il collegio che il piano rispetta la legge ed è nell’interesse di tutti. Analogamente, per l’accordo di ristrutturazione, se qualche creditore estraneo si oppone, vi sarà discussione in tribunale. L’avvocato del debitore enfatizzerà come l’accordo ha la maggioranza richiesta e come i creditori estranei non subiscono pregiudizio (verranno pagati integralmente).
  • Procedimenti incidentali: l’avvocato può trovarsi a litigare questioni specifiche: ad esempio, se nel concordato i creditori presentano proposte concorrenti (offerte alternative di terzi per rilevare l’azienda), dovrà eventualmente opporsi a quelle se non gradite dal cliente (o, se rappresenta un terzo proponente, dovrà sostenerle). Oppure se c’è una revoca del concordato per inadempimento, difenderà il debitore cercando di evitare la revoca dimostrando che l’adempimento c’è stato o l’inadempimento non è grave.
  • Assistenza nella fase di voto dei creditori: benché il voto dei creditori nel concordato avvenga in parte per corrispondenza o telematicamente, se c’è adunanza dei creditori l’avvocato può partecipare con il debitore e prendere la parola per illustrare il piano alla platea dei creditori. È un misto tra un pitch aziendale e un’udienza: deve convincere i creditori a votare sì, rispondere a dubbi, magari concedere in extremis qualche miglioramento se le classi sono in bilico (nei limiti del possibile).
  • Procedimenti cautelari o reclami: talvolta emergono questioni interinali, ad esempio un creditore può impugnare subito la concessione delle misure protettive in CNC o chiedere la revoca delle stesse accusando l’impresa di atti pregiudizievoli. L’avvocato deve allora difendere il proprio cliente in questi sub-procedimenti, depositando memorie e discutendo davanti al giudice. Oppure, se la sua richiesta (es. omologa concordato) viene respinta, potrà proporre reclamo in Corte d’Appello e andarlo a discutere.

È evidente che in questa fase l’avvocato deve padroneggiare sia i profili giuridici (norme fallimentari, prassi giurisprudenziale) sia i numeri del caso. Spesso le controversie vertono su calcoli (quanto avrebbe preso Tizio in fallimento vs quanto prende col piano) oppure su valutazioni economiche (fattibilità del piano). L’avvocato deve saper spiegare con chiarezza questi aspetti tecnici in termini giuridici. Può avvalersi anche di consulenti: ad esempio, presentare perizie di stima per dimostrare che un asset venduto nel concordato ha il valore affermato, ecc.

Nelle difese, è buona prassi citare precedenti giurisprudenziali a sostegno. Ad esempio, se si propone un cram-down su crediti fiscali, l’avvocato citerà magari una recente pronuncia che ha convalidato un concordato nonostante il diniego del Fisco, per persuadere il giudice a fare altrettanto. In proposito, la Relazione dell’Ufficio del Massimario n. 10/2025 (Cassazione) è un documento che l’avvocato può citare come autorevole linea interpretativa su punti controversi del CCII.

Assistenza nella fase esecutiva e monitoraggio del piano

Dopo aver ottenuto l’omologazione dell’accordo o del concordato, il ruolo dell’avvocato non termina. Segue una fase di esecuzione del piano dove la consulenza legale rimane importante:

  • L’avvocato assiste il cliente nel dare attuazione agli atti previsti: ad esempio, se il concordato prevedeva la cessione di un immobile, bisogna predisporre e concludere l’atto di vendita; se c’era da costituire una nuova società e conferire l’azienda, occorre redigerne lo statuto e fare il trasferimento; se c’erano transazioni fiscali da formalizzare, ora vanno perfezionate con l’Agenzia Entrate in base alle norme tributarie (es. presentare modulistica per il pagamento dilazionato concordato).
  • Monitora le scadenze: molti piani si sviluppano su anni, con pagamenti periodici ai creditori (rate semestrali, ecc.). L’avvocato spesso redige un memorandum o schedule e aiuta l’azienda a ricordare e rispettare gli adempimenti concordatari. Se emergono difficoltà, l’avvocato valuta possibili rimedi (ad esempio, domandare al giudice una proroga nei limiti di legge, o cercare un accordo con i creditori per modificare qualche termine, anche se formalmente dopo omologa è rigido, talvolta si può emendare concordemente).
  • Mantiene i rapporti con gli organi della procedura: ad esempio, nel concordato preventivo, fino al decreto di cessazione dell’incarico, c’è il Commissario/Liquidatore con cui dialogare (quest’ultimo redige rapporti periodici per il giudice sull’avanzamento del piano, e l’avvocato può collaborare fornendo dati e documentazione per facilitare).
  • Gestisce eventuali contenziosi residui: può darsi che durante l’esecuzione nascano dispute, ad esempio un creditore contestava il suo credito e aveva fatto riserva; ora va fatto accertamento tardivo. L’avvocato può difendere l’azienda in quelle cause di accertamento. Oppure può dover agire verso terzi per recuperare risorse previste nel piano (es: se un debitore dell’azienda non paga, va fatta causa per incassare quell’importo che serve per pagare i creditori secondo piano).
  • If any creditore prova a fare il furbo scavalcando il piano (poco probabile, perché se l’accordo è omologato li vincola, ma potrebbe succedere per i non aderenti negli ADR), l’avvocato interverrà per far valere l’omologazione come giudicato.

A conclusione dell’esecuzione del concordato, l’avvocato può chiedere al Tribunale il decreto di avvenuto adempimento e la chiusura della procedura. Nel caso di accordi, semplicemente certifica che l’accordo è stato eseguito (spesso nessuna formalità pubblica, ma internamente è un traguardo contrattuale).

Se invece qualcosa va storto e il piano non viene rispettato (ad es. l’azienda non riesce a pagare una rata significativa del concordato), l’avvocato dovrà gestire le conseguenze: negoziare con i creditori per evitare che chiedano la risoluzione, oppure difendere in giudizio l’azienda se la risoluzione viene chiesta, provando a dimostrare che l’inadempimento è di scarsa importanza o che si può rimediare in breve (argomenti non sempre efficaci, ma tentare).

Difesa in sede penale e contenzioso collegato

La crisi d’impresa può innescare anche procedimenti penali o contenziosi paralleli, come accennato. Il ruolo dell’avvocato di crisi spesso si interseca con queste aree:

  • Se, durante o dopo la procedura concorsuale, si apre un’indagine penale a carico degli amministratori (per ipotesi di bancarotta, false comunicazioni sociali, ecc.), l’avvocato fallimentarista può non essere un penalista, ma la sua competenza sul merito del dissesto è preziosa per costruire la difesa. Tipicamente, affianca un collega penalista fornendo tutto il materiale documentale e l’analisi della situazione economica per dimostrare, ad esempio, che non c’è stata distrazione, ma che certi prelievi erano per scopi legittimi, oppure che la prosecuzione dell’attività non fu dolosa ma un tentativo ragionevole (ciò può distinguere bancarotta semplice da fraudolenta). Spesso l’avvocato fallimentare redige memorie difensive economico-giuridiche da depositare nella fase delle indagini o in incidente probatorio, traducendo in argomentazioni penalmente rilevanti gli aspetti tecnici. Può anche comparire come consulente in interrogatori per supportare il penalista nel porre chiarimenti tecnici.
  • Riguardo alle azioni di responsabilità civile contro gli amministratori: se, poniamo, dopo il fallimento il Curatore cita in giudizio gli ex amministratori, questi avranno bisogno di difesa. L’avvocato di crisi può difenderli, forte della conoscenza del contesto. Proverà a dimostrare che non vi è stato aggravamento del dissesto o che comunque gli amministratori hanno fatto tutto il possibile date le circostanze (spesso chiamando CTP – consulenti tecnici di parte – che ricostruiscono scenario macro e micro). Oppure, se li difende in sede penale, parallelamente deve guardare alla causa civile e viceversa.
  • Tutela del debitore persona fisica: L’avvocato può assistere l’imprenditore individuale o il garante anche sul piano patrimoniale personale, ad esempio curando la domanda di esdebitazione (già menzionata) e difendendola se i creditori si oppongono con allegazioni di malafede. Oppure assistendolo in eventuali opposizioni del Curatore su crediti personali (es: il fallito chiede di mantenere un bene come “necessario”, il Curatore si oppone – l’avvocato lo rappresenta in quella istanza).
  • Contenziosi residui con creditori estranei: ad esempio, in un ADR, se un creditore non aderente dopo l’omologa insiste a pignorare (in teoria non dovrebbe perché l’omologa produce effetti, ma potrebbe capitare se contesta la sua posizione), l’avvocato reagisce con ricorsi per far valere l’omologa anche coattivamente (es: far dichiarare improcedibile l’esecuzione).
  • Procedimenti fiscali o amministrativi connessi: la crisi d’impresa può portare a verifiche fiscali o contestazioni (perdite generate, utilizzo crediti imposta, etc.). L’avvocato fallimentare spesso collabora con il fiscalista per risolvere, perché conosce la genesi di quelle situazioni e può spiegarle a Agenzia Entrate (ad esempio, giustificare la rinuncia a crediti come stralci da piano, non come ricavi tassabili – ricordiamo che, per fortuna, le sopravvenienze attive da esdebitazione in concordato o ADR non sono imponibili, e l’avvocato può doverlo far presente qualora gli uffici tentassero di tassarle).

Assistenza stragiudiziale continuativa e consulenza preventiva

Oltre alle situazioni di emergenza, l’avvocato esperto in crisi può svolgere un ruolo continuativo di consulenza per le imprese sane, aiutandole a prevenire la crisi. Ad esempio:

  • Assiste il consiglio di amministrazione nel definire i parametri degli adeguati assetti e nell’interpretare gli indici di allerta elaborati dal CNDCEC per la loro azienda. Può redigere procedure interne su come reagire se certi KPI (Key Performance Indicators) vanno fuori range.
  • Viene interpellato ogniqualvolta l’impresa progetta operazioni straordinarie che potrebbero impattare la situazione finanziaria (acquisizioni, investimenti onerosi, distribuzione dividendi) per dare un parere ex ante su eventuali profili di responsabilità o rischi di insolvenza futura.
  • Informa periodicamente il management sulle novità normative (es: nuove soglie di segnalazione del Fisco) e su come adeguarsi, fungendo da aggiornamento normativo.

In sostanza, l’avvocato di crisi d’impresa può diventare una sorta di “medico aziendale di famiglia”, non solo chiamato quando il paziente è già in codice rosso, ma anche per check-up e vaccinazioni. Questo approccio sta prendendo piede: molte medie imprese oggi hanno compreso che investire in prevenzione (adeguati assetti, pareri legali su operazioni borderline) può evitare costi ben maggiori poi.

Differenze tra attività giudiziale e stragiudiziale

È utile evidenziare come differisce il ruolo dell’avvocato a seconda che operi in sede stragiudiziale (negoziale) o giudiziale (procedura in tribunale):

  • Stragiudiziale/negoziale: qui l’avvocato assume spesso un tono e un approccio meno formale, più creativo. Deve avere abilità negoziali, capacità di ascolto e un certo pragmatismo commerciale. Può redigere accordi flessibili, con clausole originali ritagliate sul caso concreto (cosa impossibile in procedure rigide). Il rapporto con la controparte è diretto e cooperativo – l’obiettivo è trovare un’intesa, non prevalere su un punto di diritto. I tempi li determina in parte la dinamica delle trattative, e il successo dipende anche da soft skills. Ad esempio, convincere il direttore di banca a fidarsi del piano dell’imprenditore può richiedere empatia e comprensione del business.
  • Giudiziale/concorsuale: in tribunale l’avvocato torna in un alveo formalizzato e contendivo. Deve rispettare termini, depositare note, formulare eccezioni secondo la legge. Il linguaggio si fa tecnico-giuridico. Qui contano la conoscenza approfondita delle norme e della giurisprudenza e la capacità dialettica nel contraddittorio. L’approccio è più “duro”: ci si può opporre e confutare con rigore le posizioni avverse. I margini di creatività contrattuale sono minori (il concordato, ad esempio, ha paletti di legge da rispettare su trattamento classi, percentuali ecc.). Il giudice funge da arbitro finale, quindi è a lui che l’avvocato si rivolge in ultima analisi, costruendo argomenti giuridici.
  • Pressione e tempo: fuori dal giudizio l’avvocato ha più margine di manovra temporale (può chiedere qualche giorno in più al creditore per riflettere su una controproposta). In giudizio i termini sono perentori, quindi c’è stress diverso (presentare per tempo il piano, i documenti, altrimenti si decade). Tuttavia, va detto che nel negoziale spesso la pressione psicologica è forte perché tutto dipende dall’esito incerto delle trattative; in giudizio c’è almeno un quadro normativo e un arbitro che alla fine deciderà secondo diritto.
  • Riservatezza vs pubblicità: l’attività stragiudiziale è confidenziale, permettendo all’avvocato di proteggere la reputazione del cliente e trattare in modo discreto. In ambito giudiziale, molti atti diventano pubblici (registro imprese, etc.), e l’avvocato deve esserne consapevole: certe informazioni delicate (know-how, segreti industriali) vanno gestite attentamente anche se richieste dal tribunale (a volte si chiede al giudice di poter depositare alcuni documenti sensibili in busta chiusa visibile solo a organi, per dire).

In pratica, un avvocato di crisi d’impresa di livello deve saper indossare entrambi i cappelli: negoziatore amichevole attorno a un tavolo e litigator combattivo in aula. Adattare lo stile alla fase è fondamentale.

Nel complesso, il ruolo dell’avvocato in questo campo è tanto ampio quanto delicato: richiede competenze legali trasversali (diritto societario, fallimentare, contrattuale, tributario, lavoristico, penale), solide basi finanziarie per dialogare con i numeri, intelligenza emotiva nella gestione delle relazioni umane in situazioni di tensione e, non ultima, una forte etica professionale. Infatti, l’avvocato deve tenere conto degli interessi del proprio assistito ma anche del quadro di legalità: aiutare un’impresa in crisi non significa avallare condotte illecite o ostruzionistiche, bensì guidarla a una soluzione equa e conforme alla legge (che spesso coincide col massimo beneficio per tutte le parti oneste coinvolte).

Dopo aver analizzato il ruolo del legale, passiamo ora a un focus rivolto in prima persona agli imprenditori: quando dovrebbero attivarsi, come scegliere l’esperto giusto e come collaborare con lui al meglio.

Focus per imprenditori: quando e come coinvolgere un avvocato esperto in crisi d’impresa

Le imprese di qualsiasi dimensione possono trovarsi ad affrontare momenti di difficoltà finanziaria. Spesso, per l’imprenditore, ammettere la crisi e chiedere aiuto è difficile: si tende a sperare in una ripresa spontanea o a temere che coinvolgere professionisti esterni peggiori la situazione (magari diffondendo la notizia della crisi). In realtà, coinvolgere tempestivamente un avvocato specializzato in crisi d’impresa può fare la differenza tra salvare l’azienda o arrivare a un punto di non ritorno. In questo focus affrontiamo tre domande pratiche:

  1. Quando è il momento giusto per rivolgersi a un avvocato esperto in crisi d’impresa?
  2. Come scegliere il professionista adatto, valutandone competenze ed esperienza?
  3. Come collaborare in modo efficace con il legale, massimizzando le chance di successo del risanamento o minimizzando i danni?

Quando rivolgersi a un avvocato esperto in crisi d’impresa

Prima è, meglio è. Questa è la regola aurea. Non bisogna aspettare di essere con l’acqua alla gola (o peggio, già sommersi) per cercare assistenza. Idealmente, l’imprenditore dovrebbe allertare un legale al manifestarsi dei primi segnali di crisi, quali ad esempio:

  • Tensioni di liquidità ricorrenti: se ogni mese fatica a pagare fornitori o stipendi e deve continuamente rinviare pagamenti o chiedere scoperti in banca.
  • Utilizzo sistematico e crescente di fidi e castelletti: se l’azienda dipende sempre di più dal credito bancario a breve per operare, segno che il circolante non basta.
  • Fornecedores che iniziano a richiedere pagamenti anticipati o riducono il fido commerciale: indice di calo di fiducia dal mercato.
  • Accumulo di debiti tributari o previdenziali: ad esempio IVA non versata da più trimestri o INPS arretrato; spesso le imprese in difficoltà sacrificano questi pagamenti. Se si accumulano arretrati oltre le soglie, scattano segnalazioni e sanzioni.
  • Indicatori contabili negativi: perdite di esercizio significative, patrimonio netto che si assottiglia verso il minimo legale, aumento anomalo dei crediti insoluti.
  • Contenziosi legali dai creditori: ricezione di decreti ingiuntivi, pignoramenti sui conti, solleciti da legali per fatture non pagate. Questi sono campanelli d’allarme forti: se più creditori iniziano vie legali, la situazione è percepita come critica.
  • Segnalazioni della banca: può capitare che la banca riduca i fidi o revochi affidamenti perché l’azienda è classificata a rischio. Questo, oltre ad aggravare la crisi, è un segnale da non ignorare.
  • Sensazione soggettiva di perdita di controllo finanziario: se l’imprenditore ogni giorno pensa a quali pagamenti fare e quali posticipare (il cosiddetto “firefighting finanziario”), è sintomo che serve un intervento strutturale.

Di fronte a tali segnali, l’imprenditore dovrebbe evitare la tentazione di procrastinare. A volte c’è la speranza di “un colpo di fortuna” (un grande ordine in arrivo, la vendita di un immobile, ecc.) e si rimanda. Ma ogni ritardo può significare erosione ulteriore di risorse, aumento dei debiti per interessi e more, peggioramento reputazionale e, cosa non trascurabile, aumento del rischio personale per amministratori (ritardare l’insolvenza aggrava la loro responsabilità).

Un avvocato esperto può dare un contributo anche prima che la crisi diventi acuta:

  • Può confermare se la situazione è gestibile internamente o se siamo già in zona rossa. Talvolta l’imprenditore non ha piena contezza della gravità e un occhio esterno può oggettivare.
  • Può consigliare azioni correttive immediate: ad es. ridurre certe spese, vendere un asset liquido per fare cassa e calmare alcuni creditori, o attivare subito la composizione negoziata (che, come visto, può bloccare azioni esecutive e dare respiro).
  • Può prendere contatto confidenziale con la banca o i creditori chiave per predisporli a trattare, ancor prima di formalizzare procedure.

Quindi la risposta: rivolgersi a un avvocato non appena si percepisce che l’azienda potrebbe non reggere nel medio termine senza interventi straordinari. Il vecchio adagio “prevenire è meglio che curare” è perfetto qui. In Italia, e soprattutto nelle PMI, c’è una certa ritrosia culturale: coinvolgere l’avvocato sembra ammettere la sconfitta. Invece, andrebbe vista come una mossa gestionale lungimirante, un investimento per provare a salvare il salvabile.

Va peraltro ricordato che dal 2022 in poi gli amministratori hanno un obbligo legale di attivarsi tempestivamente (non farlo può esporli a responsabilità). Quindi, anche solo per proteggere se stessi, è bene che appena notano squilibri, chiedano una consulenza. Questo è in linea con la filosofia dell’allerta interna che, sebbene non coattiva via OCRI, permane come dovere morale e giuridico.

Come scegliere l’avvocato giusto: competenze, esperienza e segnali da valutare

Non tutti gli avvocati sono uguali, e questo vale ancor più in un settore specialistico come il diritto della crisi d’impresa. Ecco alcuni criteri per selezionare un professionista adeguato:

  • Specializzazione ed esperienza comprovata: Verificare che l’avvocato abbia una significativa esperienza in procedure concorsuali e ristrutturazioni. Ad esempio, chiedere quanti concordati preventivi o accordi di ristrutturazione ha seguito, se ha ricoperto incarichi da curatore o commissario (spesso un avvocato attivo in questo campo viene nominato organo in alcune procedure su designazione del Tribunale, il che è indice di reputazione). Un professionista che abbia gestito casi simili al proprio (per settore o dimensione) saprà meglio affrontare le peculiarità. Ad esempio, le crisi di società industriali con molti dipendenti possono avere problematiche sindacali specifiche; le crisi di società edilizie implicano gestione di appalti e garanzie: un avvocato che ha quell’esperienza arriva con un bagaglio di soluzioni già testate.
  • Formazione e aggiornamento: Il diritto della crisi è evoluto di recente e continua ad evolversi (come abbiamo visto col correttivo 2024). Bisogna scegliere un professionista che dimostri di essere aggiornato sulle ultime novità normative e giurisprudenziali. Segnali utili: ha pubblicato articoli o note su queste riforme? Partecipa come relatore a convegni o corsi in materia concorsuale? Appartiene ad associazioni specialistiche (come INSOL Europe, OCI Osservatorio Crisi d’Impresa, etc.)? Ad esempio, un avvocato che ad aprile 2025 non conoscesse i contenuti del D.Lgs. 136/2024 o continuasse a parlare di “fallimento” senza menzionare la liquidazione giudiziale sarebbe indice di non aggiornamento.
  • Interdisciplinarità e network: La crisi d’impresa tocca aspetti finanziari e aziendali. Un buon avvocato di crisi lavora spesso in team con altri professionisti (commercialisti, revisori, consulenti del lavoro, turnaround manager). L’imprenditore dovrebbe preferire chi mostra di avere un network affidabile di collaboratori. Ad esempio, se c’è da predisporre un piano industriale, l’avvocato dovrebbe poter presentare un advisor finanziario di fiducia; se serve valutare l’azienda, avere contatto con stimatori. Questo denota capacità di muoversi a 360°. Anche la collaborazione con penalisti o fiscalisti per le questioni collaterali è un plus.
  • Capacità di comunicazione e trasparenza: Fin dal primo incontro, l’avvocato dovrebbe spiegare le cose in modo chiaro e franco, senza promettere miracoli ma nemmeno essere allarmista senza motivo. Un segnale positivo è se il legale riesce a farsi comprendere bene anche dai non addetti ai lavori, usando un linguaggio comprensibile per l’imprenditore. È importante anche che l’avvocato ascolti attentamente il racconto dell’imprenditore e faccia domande pertinenti: se appare distratto o superficiale, meglio diffidare. La crisi è un momento delicato e serve empatia e attenzione ai dettagli.
  • Etica e approccio: Un professionista serio non incoraggerà mai condotte illegali o opache (tipo “nascondiamo questo bene al Curatore” o “facciamo sparire documenti compromettenti”). Se un avvocato, pur di accattivarsi il cliente, minimizza l’importanza della legalità (“ma sì, faccia quello che poi pensiamo noi a sistemare”) è da evitare. Meglio un legale che metta in guardia sui rischi di ogni scelta. Un tratto delicato: alcuni imprenditori cercano “l’avvocato bulldog” che promette di farla pagare ai creditori; in realtà serve un avvocato equilibrato che punti a soluzioni realistiche, non a conflitti distruttivi.
  • Disponibilità di tempo e risorse: Gestire una crisi richiede dedizione. È utile capire se l’avvocato ha lo studio strutturato per seguire il caso (ci sono collaboratori che lo supportano? Può gestire le scadenze strette?). Un professionista soverchiato da troppi incarichi potrebbe non dare l’attenzione necessaria. Si può chiedere in modo franco: “ha già seguito procedure simili, e quante ne sta seguendo ora?” per valutare se può dedicare tempo.
  • Feedback e referenze: Se possibile, parlare con altri imprenditori o colleghi che hanno lavorato con quell’avvocato. Spesso nel mondo locale o settoriale si sa chi ha buona reputazione. Un avvocato citato come abile negoziatore con le banche, ad esempio, avrà quell’abilità specifica riconosciuta. Ovviamente, discrezione: un imprenditore potrebbe non voler far sapere in giro dei propri problemi; però a volte si può chiedere al commercialista dell’azienda di suggerire nomi di legali con cui ha interagito efficacemente in situazioni consimili.

In sostanza, competenza tecnica, esperienza sul campo, onestà intellettuale e capacità relazionale sono le colonne su cui basare la scelta. Prendersi qualche giorno in più per scegliere la persona giusta può essere cruciale: la crisi non perdona errori e cambiare cavallo in corsa è difficile (oltre che dannoso, perché porta perdita di tempo e di continuità nella strategia).

Un ultimo spunto: l’imprenditore dovrebbe anche valutare la chimica personale con l’avvocato. Si lavorerà a stretto contatto in momenti stressanti; serve fiducia reciproca e una certa compatibilità. Se dopo il primo colloquio c’è una sensazione di fiducia e di “sollievo” perché finalmente si intravede una strada, è un buon segnale. Se invece l’avvocato mette ansia e sembra giudicante o sbrigativo, forse non è adatto a “stare in trincea” con l’imprenditore.

Come collaborare efficacemente con il legale durante la crisi

Una volta scelto l’avvocato e avviato il percorso di risanamento o procedura concorsuale, l’atteggiamento dell’imprenditore può fare molta differenza sul buon esito. Ecco alcune linee guida per collaborare al meglio:

  • Massima trasparenza e completezza delle informazioni: Sin dall’inizio, l’imprenditore deve fornire all’avvocato tutta la documentazione e i dati rilevanti, anche quelli che potrebbero metterlo in cattiva luce. Ad esempio, se ci sono debiti “nascosti” fuori bilancio, o pendenze legali non dichiarate, è fondamentale che il legale lo sappia. L’avvocato ha l’obbligo di riservatezza e lavora nell’interesse del cliente, quindi nascondergli informazioni è controproducente. Se poi emergono sorprese nel corso della procedura, la credibilità dell’azienda ne soffre e le soluzioni si complicano. Come dice un motto: tell your lawyer the truth – it is safer than telling him a lie. Solo conoscendo tutto, il legale può preparare strategie adeguate e prevenire rischi.
  • Comunicazione costante: La crisi è dinamica. L’imprenditore dovrebbe tenere aggiornato l’avvocato su ogni sviluppo significativo (es: arrivo di una lettera di messa in mora, un fornitore che minaccia stop consegne, un socio disposto a investire, etc.). Meglio un’email o telefonata in più che un’informazione critica non trasmessa. Allo stesso modo, chiedere regolarmente aggiornamenti al legale sullo stato delle pratiche aiuta a mantenere allineate le aspettative. Un buon avvocato fornirà un cronoprogramma delle azioni e scadenze; l’imprenditore deve rispettarlo e ricordare appuntamenti, firme, depositi, ecc.
  • Segui i consigli legali e fai gioco di squadra: Può sembrare ovvio, ma capita che l’imprenditore, per natura abituato a comandare, fatichi a seguire consigli. Durante la crisi, deve fidarsi del legale e attenersi alle indicazioni. Se l’avvocato dice di evitare certi pagamenti preferenziali o di non comunicare autonomamente con i creditori per non compromettere la strategia, l’imprenditore dovrebbe disciplinarsi. Un fronte unito e coerente tra azienda e consulenti è percepito positivamente da giudici e creditori, mentre dissonanze possono far crollare la fiducia (es: se il titolare fa promesse diverse a un creditore all’insaputa dell’avvocato, poi la scoperta genera caos). Quindi, condividere ogni iniziativa col legale prima di agire.
  • Prendere decisioni informate ma rapide: L’avvocato porrà spesso delle scelte (“Proviamo l’accordo X accettando di pagare il 50% a Tizio, oppure no e rischiamo il fallimento?”). L’imprenditore deve essere pronto a prendere decisioni difficili in tempi stretti, basandosi sui consigli ricevuti. Indecisione o rimandi possono far perdere opportunità (creditori e giudici apprezzano un debitore risoluto e collaborativo). Ciò non vuol dire dire sì a tutto a occhi chiusi: l’imprenditore deve porre domande, chiarire i dubbi con l’avvocato, magari coinvolgere i propri fidati (es. il direttore finanziario) nel valutare. Ma poi scegliere una linea e sostenerla con convinzione.
  • Mantenere un comportamento corretto e coerente: Se si è in composizione negoziata o concordato, l’imprenditore deve evitare spese o atti che possano apparire in contrasto con lo stato di crisi. Ad esempio, niente prelievi personali ingiustificati, niente trattamenti di favore occulti a qualche creditore, niente “fughe” di beni dall’azienda. L’avvocato verosimilmente avrà raccomandato queste cautele: seguirle alla lettera. Anche verso i dipendenti e partner commerciali, mantenere la massima correttezza e informare in maniera appropriata (né allarmismo inutile né silenzi colpevoli).
  • Gestire lo stress e affidarsi: Una crisi d’impresa è emotivamente provante. È facile farsi prendere dallo sconforto o dall’ansia. Avere un professionista al proprio fianco è anche un modo per condividere il peso. L’imprenditore dovrebbe evitare di compiere gesti impulsivi dettati dalla tensione (es: litigare furiosamente con un creditore in un incontro, o annunciare alla stampa cose non concordate) e confrontarsi prima con l’avvocato su come gestire situazioni critiche. Spesso il legale ha già visto molte crisi e può rassicurare su cosa è normale e cosa no, aiutando a mantenere sangue freddo. Come in un rapporto medico-paziente, la fiducia è cruciale: seguire la “terapia” con disciplina e confidare che, pur con tutte le incognite, si sta facendo il possibile.
  • Riservatezza: Mentre la trasparenza verso l’avvocato deve essere massima, verso l’esterno bisogna controllare la diffusione di informazioni. Su consiglio del legale, l’imprenditore dovrebbe comunicare in modo coordinato con stakeholder e pubblico. Ad esempio, per i dipendenti può servire una comunicazione calibrata (l’avvocato magari fornisce un template che non sveli troppo ai concorrenti ma rassicuri il personale). Bisogna evitare che notizie distorte escano: l’avvocato può incaricarsi lui di comunicare con eventuali creditori tramite lettera formale, togliendo l’imprenditore da situazioni dove potrebbe dire la cosa sbagliata. In breve, l’imprenditore collabora anche seguendo il protocollo di comunicazione definito con i consulenti.

In definitiva, una crisi affrontata con successo è quasi sempre frutto di un gioco di squadra affiatato tra imprenditore e advisor (avvocato in primis). I casi di risanamento riuscito spesso vedono imprenditori umili, che hanno riconosciuto i propri errori, e consulenti competenti, che insieme tracciano un piano realistico. Viceversa, quando c’è conflittualità o scollamento tra cliente e legale, le possibilità di fallimento aumentano.

Dopo aver fornito questi consigli pratici per imprenditori, arricchiremo la guida con alcune tabelle riassuntive delle varie procedure, un elenco di domande frequenti (FAQ) con risposte, e infine delle simulazioni di casi aziendali per illustrare concretamente l’impatto delle scelte possibili.

Tabelle riepilogative delle procedure di crisi d’impresa

Di seguito presentiamo alcune tabelle comparative che sintetizzano le caratteristiche principali, i tempi, i vantaggi e gli svantaggi dei diversi strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza, esaminati nella guida. Queste tabelle consentono una visualizzazione immediata delle differenze, fungendo da mappa orientativa per imprenditori e professionisti.

Tabella 1: Confronto tra principali procedure di risanamento e insolvenza

Procedura/StrumentoFinalità (continuità vs liquidazione)Chi la attivaCondizioni di accessoTribunale coinvoltoDurata indicativa
Composizione negoziata della crisiRisanamento in continuità (se possibile)Debitore (volontaria)Squilibrio patrimoniale/finanziario, impresa “risanabile” (anche in crisi prospettica). No stato insolvenza conclamata.Limitato (solo per misure protettive o nuovi finanziamenti)~6 mesi (180 giorni) + eventuale proroga fino a max 12 mesi
Accordo di ristrutturazione dei debitiRisanamento (possibile continuità, l’azienda può proseguire)Debitore (volontaria)Adesione di creditori ≥ 60% dei crediti (salvo accordi speciali). Debitore in crisi o insolvente prospettico (non serve insolvenza conclamata).Sì, omologa da parte del tribunale (decreto)3-6 mesi circa per negoziazione + 2-3 mesi per omologazione (dipende da eventuali opposizioni)
Concordato preventivo in continuitàRisanamento e continuità aziendale (diretta o indiretta)Debitore (volontaria)Stato di crisi o insolvenza. Piano con continuità (azienda resta operativa). Nessuna soglia minima di pagamento chirografari prevista.Sì, procedimento concorsuale completo (ammissione, voto creditori, omologazione)6-12 mesi (dalla domanda all’omologa, salvo complicazioni)
Concordato preventivo liquidatorioLiquidazione controllata dei beniDebitore (volontaria)Stato di crisi o insolvenza. Liquidazione del patrimonio. Richiesto pagamento min. 20% crediti chirografari (salvo offerte concorrenti).Sì, procedimento concorsuale completo (come sopra)~6-12 mesi (simile al concordato in continuità)
Concordato “semplificato” (post-CNC)Liquidazione patrimonio senza voto creditoriDebitore (volontaria, ma solo dopo composizione negoziata fallita)Fallimento composizione negoziata attestato da esperto (trattative svolte correttamente ma senza esito). Proposta entro 60 giorni da fine CNC.Sì, tribunale valuta ed omologa senza voto creditoriProcedura rapida: ~2-3 mesi (niente voto, si va direttamente all’omologa).
Liquidazione giudiziale (Fallimento)Liquidazione patrimonio, cessazione impresaDebitore, creditore o PM (involontaria o volontaria)Stato d’insolvenza attuale. (Solo imprese soggette a fallimento, escluse piccole sotto soglie).Sì, tribunale dichiara con sentenza e nomina curatore.Variabile, 2-5 anni in media per chiudere il fallimento (obiettivo di legge ~3 anni)

Tabella 2: Vantaggi e svantaggi delle diverse opzioni

ProceduraVantaggi principaliSvantaggi / Limiti
Composizione negoziata (CNC)Volontaria e riservata: negoziazione confidenziale, evita stigma pubblico.– Flessibilità: soluzioni su misura senza vincoli di legge stringenti (nessun quorum di voto, nessuna percentuale minima).– Misure protettive attivabili: sospende azioni esecutive e mantiene contratti.– Esperto indipendente che facilita dialogo e accesso a banche dati.– Possibilità di ottenere nuova finanza protetta (prededucibile) e transare debiti fiscali.– Trasparenza: relazione finale esperto utile anche dopo.Non impone accordi ai dissenzienti: serve comunque consenso individuale di ciascun creditore per un accordo finale (non c’è voto a maggioranza).– Esito incerto: se i creditori non collaborano, può sfociare in nulla di fatto (per questo esiste poi il concordato semplificato come rimedio).– Richiede tempestività: se l’azienda è già in collasso di liquidità, potrebbe non reggere i tempi della CNC (nel frattempo i creditori possono chiedere fallimento, salvo misure protettive attivate).– Costi: seppur minori di un concordato, prevede compenso dell’esperto e oneri professionali.
Accordo di ristrutturazioneSelettivo: possibile coinvolgere solo alcuni creditori (tipicamente banche) e lasciare fuori altri che verranno pagati normalmente.– Meno oneroso del concordato: niente voto universale, procedura più snella.– Omologa rapida se c’è consenso richiesto e nessuna opposizione seria.– Possibilità di cram-down fiscale e includere transazione tributaria (dopo correttivi).– Riservatezza parziale: viene pubblicato solo all’omologa, quando l’accordo è definito (meno pubblicità negativa).Necessita alto grado di consenso iniziale (≥60% crediti) – non adatto se ci sono molti creditori piccoli o eterogenei.– I creditori non aderenti devono essere pagati al 100% entro 120 giorni: serve liquidità per soddisfarli, non consente stralci generalizzati.– Vincola solo chi firma: eventuali dissenzienti (salvo estensioni a finanziari) non sono toccati dall’accordo, riducendo l’efficacia se gruppo aderenti non ampio.– Controllo giudiziale limitato ma presente: se un creditore estraneo si oppone può ritardare l’omologa.– No stay automatico generale: azioni esecutive non sono sospese durante negoziazione (a meno di accordi ad hoc con i creditori).
Concordato in continuitàSalvaguardia del valore azienda: consente di evitare disgregazione dell’impresa, mantenendo operatività, posti di lavoro, ecc.– Cram-down maggioranza: vincola anche minoranza dissenziente se si raggiungono maggioranze per classe (o anche con cram-down interclassi in certi casi). Permette ristrutturazione anche senza unanimità.– Stralcio debiti: possibile ridurre significativamente il debito chirografo (nessuna soglia minima).– Protezione da azioni esecutive durante la procedura (automatic stay concorsuale).– Gestione da parte del debitore: normalmente mantiene amministrazione sotto vigilanza (diversamente dal fallimento).Procedura complessa e lunga: iter di ammissione, voto e omologa, con vari possibili contenziosi.– Costo elevato: compensi per commissario, attestatore, legali; contributo unificato; eventuali spese di giustizia.– Pubblicità negativa: iscrizione al Registro Imprese, notizia pubblica – può creare sfiducia in clienti/fornitori.– Rigore normativo: bisogna rispettare regole su classi, priorità ai creditori privilegiati (salvo consenso degradazione), etc., riducendo flessibilità. Ad esempio, creditori privilegiati non possono essere alterati salvo disposizioni art. 84 co.5 CCII.– Governance sotto controllo: atti di straordinaria amm.ne soggetti ad autorizzazione del tribunale, meno libertà imprenditoriale.
Concordato liquidatorioOrdine e parità: liquida l’attivo sotto controllo del tribunale, garantendo rispetto par condicio (meglio che esecuzioni disordinate).– Possibilità di vendita unitaria: ad esempio, cessione in blocco dell’azienda a terzi tramite il piano (potenzialmente maggiore realizzo che vendita frammentata in fallimento).– Esenzioni da responsabilità per acquirenti: chi compra beni in concordato è tutelato (es. niente obblighi art. 2560 c.c., come previsto ora anche per PRO e semplificato).– Liberazione imprenditore: una volta eseguito, l’imprenditore (persona fisica) può chiedere esdebitazione; l’azienda può cessare attività in modo organizzato.Soddisfacimento creditori chirografari limitato: deve offrire almeno 20% (salvo alternative), il che a volte lo rende impraticabile se l’attivo è scarso.– Nessuna continuità: perdita di avviamento, posti di lavoro (salvo vendite a terzi che rioccupano).– Tempi comunque non brevissimi: similmente al concordato in continuità per fase procedurale; inoltre poi c’è da liquidare i beni.– Rischio di offerte concorrenti: se il debitore propone concordato liquidatorio, i creditori possono presentare proposte concorrenti migliorative (con quorum 10% crediti) – rischio di perdere controllo dell’esito. (N.B. proposte concorrenti ora possibili anche in continuità se debitore chiede esenzione art. 84 co.5).– Gestione beni: se debitore rimane in carica durante, deve solo liquidare, senza prospettiva di prosecuzione (psicologicamente e operativamente può calare impegno).
Concordato semplificatoRapidità: niente adunanza né voto dei creditori, si va direttamente al giudizio di omologa del Tribunale, riducendo molto i tempi.– Ridotti costi procedurali: assenza fase di voto e del commissario giudiziale pre-omologa (anche se tribunale può nominare un ausiliario, ma in genere minori oneri).– Salvaguarda residuo valore: permette di evitare il fallimento subito, gestendo liquidazione con piano (es. vendite competitive ma coordinate, eventuale continuità breve per massimizzare prezzi).– Esenzione da revocatorie: atti e pagamenti fatti in esecuzione del piano omologato non revocabili (correttivo 2024 l’ha estesa espressamente).– Incentivo a tentare CNC: i creditori sanno che se CNC fallisce, il debitore può comunque ottenere un concordato senza il loro voto – li motiva a negoziare prima (in teoria).Accesso limitato: utilizzabile solo se è stata svolta una composizione negoziata senza esito ma in buona fede; non è strumento generale.– Assenza di consenso dei creditori: se molti creditori sono ostili, potrebbero opporsi in omologa, creando contenzioso. Il tribunale deve “imporre” la soluzione – rischio percezione di iniquità da alcuni creditori, che possono anche impugnare (reclamo).– Affidamento al giudice: la riuscita dipende molto dalla valutazione discrezionale del tribunale sulla fattibilità e convenienza (più che nei concordati votati, dove il voto aiuta a legittimare la proposta).– Esito binario: se il tribunale non omologa, si finisce quasi certamente in liquidazione giudiziale (non c’è una seconda chance di modificare piano, se non minima integrazione).– Richiede qualità del piano: pur senza voto, bisogna predisporre un piano solido come contenuti (attivo non aleatorio, passivo chiaro), altrimenti il giudice rigetta.
Liquidazione giudizialeForza legale: una volta aperta, i creditori individuali non possono più agire, il che assicura parità di trattamento secondo prelazioni e un iter ordinato.– Professionisti indipendenti (Curatore) che gestiscono liquidazione massimizzando l’attivo (vendite competitive, ecc.).– Possibilità di azioni di responsabilità: il Curatore può far valere in giudizio danni contro amministratori, per recuperare attivo a beneficio creditori (cosa che procedure concordatarie di norma non fanno).– Chiusura con esdebitazione: per il fallito persona fisica, chance di ripartire da zero liberandosi dai debiti residui.– Definitività: chiude la storia dell’impresa, consentendo al mercato di riallocare risorse eventualmente (nuove imprese su spazi lasciati).Perdita totale della gestione: gli amministratori esautorati, l’impresa spesso cessa l’attività immediatamente (a meno di esercizio provvisorio limitato).– Disgregazione del valore: beni venduti singolarmente, contratti cessati, clientela persa – di solito realizzi minori rispetto a continuità o vendite di complesso.– Tempi lunghi: pur con sforzi di accelerazione, molte procedure durano anni; i creditori ricevono acconti dilazionati e l’incertezza perdura.– Costi di procedura: compensi del Curatore e organi, spese giudiziarie, che sono a carico dell’attivo (anche se prededucibili).– Stigma e conseguenze: per il debitore, il fallimento porta incapacità personali temporanee, possibili interdizioni, controlli penali intensi (oltre all’impatto reputazionale molto negativo).

(Legenda: PM = Pubblico Ministero; CNC = Composizione Negoziata Crisi; DSCR = Debt Service Coverage Ratio, indice di capacità rimborso debito; OCC = Organismo composizione crisi sovraindebitamento)

Le tabelle sopra forniscono un quadro semplificato. Ovviamente, la scelta della procedura dipende dalle circostanze specifiche di ciascun caso. Un avvocato esperto aiuterà a pesare questi pro e contro con riferimento alla situazione concreta dell’impresa.

Domande frequenti (FAQ) su crisi d’impresa e ruolo dell’avvocato

In questa sezione affrontiamo alcune domande comuni che imprenditori (e anche giovani colleghi avvocati) pongono riguardo alla gestione della crisi d’impresa e all’attività dell’avvocato fallimentarista. Le risposte, in linguaggio pratico, riassumono concetti esposti nella guida e offrono chiarimenti su punti di interesse generale.

  • D: La mia azienda ha qualche difficoltà di liquidità, ma nulla di drammatico. Devo già preoccuparmi di chiamare un avvocato esperto in crisi?
    R: Se le difficoltà sono sporadiche e gestibili con normali strumenti (es. chiedendo un fido bancario temporaneo) probabilmente non sei in una “crisi” in senso tecnico. Tuttavia, monitorare gli indizi è importante: se noti che la tensione di cassa sta diventando strutturale, i debiti a breve superano costantemente le entrate, o stai rimandando pagamenti chiave (IVA, stipendi), allora è prudente fare almeno una chiacchierata con un esperto. Coinvolgerlo precocemente può aiutarti a prendere misure correttive leggere prima che servano interventi drastici. In sintesi: per una tantum no, ma se il trend preoccupa, sì, meglio un consulto.
  • D: Qual è la differenza tra un commercialista e un avvocato nella gestione di una crisi d’impresa? A chi mi devo rivolgere prima?
    R: Commercialista e avvocato hanno ruoli complementari. Il commercialista (o consulente aziendale) eccelle nell’analisi dei bilanci, nella predisposizione di piani finanziari, nel calcolo di scenari di ristrutturazione del debito e conosce la fiscalità. L’avvocato è specializzato negli aspetti legali: quali procedure sono attivabili, come negoziare contrattualmente con i creditori, come predisporre i documenti giuridici e navigare il tribunale. In una crisi ideale, lavorano insieme. Puoi rivolgerti inizialmente a quello di cui ti fidi di più: se hai uno storico rapporto col tuo commercialista, parlane con lui e poi coinvolgerete un legale specialista. Viceversa, se conosci un avvocato esperto, lui ti suggerirà di affiancare un consulente contabile per la parte numerica. L’importante è che entrambi dialoghino: la crisi d’impresa è materia interdisciplinare.
  • D: Ho ricevuto dalla banca una segnalazione che la mia società è “in default” per le nuove regole EBA, ma sto cercando di sistemare. È il caso di attivare la composizione negoziata o è prematuro?
    R: La segnalazione di default (che avviene se sei in arretrato significativo oltre 90 giorni verso banche) è un indicatore serio di difficoltà e comporta restrizioni sul credito. Potrebbe essere opportuno valutare la Composizione Negoziata se prevedi di non riuscire a uscire da questa situazione in breve. Tuttavia, la CNC ha senso se la tua impresa ha prospettive di risanamento e serve solo tempo/accordi per rientrare. Prima di attivarla, magari consulta un esperto: se stai ancora negoziando bilateralmente con la banca una ristrutturazione e ci sono margini, potresti riservarti la CNC come passo successivo qualora la trattativa fallisca o altri creditori inizino ad agitarsi. In pratica, la CNC non è necessariamente la primissima mossa, ma non bisogna nemmeno aspettare troppo. Un legale ti aiuterà a capire il timing giusto.
  • D: Sto pensando al concordato preventivo: i miei fornitori e banche verranno pagati in parte col piano. Possono venire a protestare o bloccare la produzione nel frattempo?
    R: Quando presenti un concordato preventivo in tribunale, di norma chiedi e ottieni un decreto che sospende/impedisce azioni esecutive individuali. Ciò protegge l’azienda da pignoramenti, fallimenti, ecc. I fornitori contrattuali non possono risolvere anticipatamente i contratti per il solo fatto del concordato (nei contratti privati spesso c’è clausola risolutiva in caso di insolvenza, ma il CCII tutela la continuità e impedisce risoluzioni automatiche per concordato). Dunque, non potranno legalmente “bloccarti” la produzione per ritorsione, a patto che tu rispetti gli obblighi contrattuali correnti (ad es. paghi le forniture consegnate DURANTE il concordato: queste sono spese in prededuzione e vanno onorate regolarmente). Certo, qualcuno potrà essere scontento e magari minacciare di non fornire più: però se è un fornitore essenziale, il tribunale può autorizzarti a pagarli in prededuzione per assicurarti la fornitura. In sintesi, c’è un quadro di protezioni legali per consentirti di operare mentre il piano è in corso. L’importante è comunicare con i fornitori, spiegare il percorso e garantire il pagamento delle merci future. Molti, sapendo che c’è un tribunale a vigilare, continueranno il rapporto se vedono buona fede.
  • D: Cosa succede se sto in composizione negoziata ma un creditore presenta lo stesso istanza di fallimento?
    R: Con la riforma, il debitore in composizione negoziata può ottenere dal tribunale una misura protettiva che congela le azioni dei creditori. Se l’hai chiesta e ottenuta, i creditori (per i debiti anteriori) non possono presentare istanze di fallimento o, se lo fanno, la loro istanza rimane sospesa. Se invece non hai misure protettive attive, un creditore teoricamente potrebbe depositare ricorso di fallimento; a quel punto, però, il tribunale prima di decidere sentirà che sei in composizione negoziata e in genere tenderà a dare spazio a quella (anche perché c’è obbligo di informarlo della CNC avviata). Quindi potrebbe rinviare l’udienza fallimentare in attesa degli esiti della CNC. Se poi la CNC fallisce, allora sì, quell’istanza riprenderà vigore. In pratica, se temi istanze, meglio attivare subito le protezioni offerte dalla composizione negoziata (basta istanza iniziale ben motivata). Così ti metti al riparo mentre tratti.
  • D: Sono amministratore di una SRL che sta andando male. Ho paura per il mio patrimonio personale: posso essere costretto a ripianare i debiti dell’azienda?
    R: In generale, no: una delle ragioni per operare con società di capitali è la separazione patrimoniale. I debiti sociali li paga la società col suo patrimonio, non tu con il tuo (fatti salvi casi di garanzie personali date, come fideiussioni bancarie: se le hai firmate, la banca potrà escuterti a prescindere). Tuttavia, esistono situazioni in cui potresti dover risarcire i creditori: se con la tua gestione colpevole hai aggravato la situazione. Un Curatore fallimentare potrebbe agire contro di te per ottenere un risarcimento a favore della massa (azione di responsabilità). Ad esempio, se hai continuato a fare debiti sapendo che non potevi onorarli, o se hai tardato a chiedere una procedura concorsuale bruciando risorse che i creditori avrebbero potuto ottenere, potresti essere ritenuto responsabile. Anche distrazioni di beni, irregolarità contabili o pagamenti preferenziali ai “tuoi amici” possono portare a cause o a denunce penali con riflessi patrimoniali (in sede penale il giudice può obbligarti al risarcimento dei danni per bancarotta). Dunque, se la società è destinata all’insolvenza, il modo in cui agisci ora incide molto sulla tua tutela. Segui il dovere di attivarti (es. componi la crisi, proponi un concordato, o se davvero non c’è nulla da fare consegna i libri in tribunale) – così difficilmente ti si potrà imputare inadempimento dei tuoi doveri. Se invece provi a “tirare a campare” facendo magari pagamenti preferenziali a parenti o accumulando altri debiti fiscali, aumenta il rischio di conseguenze su di te personalmente.
  • D: Il mio avvocato ha proposto di fare un piano attestato di risanamento con l’aiuto di un professionista attestatore. Ma non fare un concordato o ADR non è rischioso? I creditori possono comunque attaccarmi…
    R: Il piano attestato (strumento stragiudiziale) funziona se hai consenso informale dei creditori principali e riesci a mantenere regolari gli altri. In quel caso, puoi evitare procedure formali. Certo, non offre la protezione “impermeabile” di un concordato: un creditore fuori piano potrebbe comunque agire. Ma l’idea è che con il piano attestato tu paghi tutti regolarmente secondo le nuove intese, quindi i creditori non avrebbero motivo di agire, essendo soddisfatti (o comunque consapevoli che un’azione ostile farebbe saltare il banco e li danneggerebbe). Inoltre, il piano attestato dà benefici di legge come la non revocabilità degli atti eseguiti in attuazione di esso. Non è “rischioso” di per sé se la situazione è sotto controllo; diventa rischioso se confidando nel piano lasci fuori creditori importanti che poi reagiscono. E infatti va studiato bene: spesso, per i creditori non aderenti al piano, si predisponono risorse per pagarli cash (così stanno buoni). Bisogna insomma pianificare con astuzia. Il tuo avvocato e consulente valuteranno se il perimetro del piano garantisce sufficiente tenuta. Se c’è il dubbio che qualcuno forte resti fuori e faccia fallimento, allora conviene magari optare subito per un ADR o concordato che vincoli anche i dissenzienti. In sintesi: il piano attestato è ottimo se hai pochi creditori facilmente controllabili, altrimenti potrebbe non bastare.
  • D: Quanto costa, indicativamente, affrontare un concordato preventivo?
    R: I costi variano in base alle dimensioni della tua azienda e alla complessità, ma devi considerare diverse voci:
    Compenso dell’attestatore indipendente: può essere qualche migliaio di euro per piccole realtà, decine di migliaia per aziende medie, oltre per grandi (è spesso calcolato a tempo e complessità).
    Compenso del Commissario Giudiziale e Liquidatore: questi sono fissati dal tribunale a fine procedura in percentuale sull’attivo e passivo, seguendo tariffe ministeriali; a spanne, possono essere il 2-4% dell’attivo liquidato ciascuno, decrescente per grossi importi.
    Spese legali dell’avvocato: concordate col professionista; spesso una parte fissa e una parte variabile a successo. Possono andare da magari €10-20 mila per procedure molto semplici a cifre ben maggiori (50-100k) per situazioni complesse con vari contenziosi.
    Spese di giustizia: contributo unificato (€(512) per concordato), spese di pubblicazione, bolli, eventuali consulenze tecniche.
    Quindi, per dare un’idea: un concordato di una PMI potrebbe costare complessivamente qualche decina di migliaia di euro. Per un’azienda grande si sale a centinaia di migliaia. Tali costi in procedura vengono in parte in prededuzione (cioè si pagano con priorità sull’attivo aziendale).
    Anche la composizione negoziata ha costi: compenso dell’esperto (stabilito in base a esito e dimensione, spesso qualche migliaio di euro a carico impresa), e spese dei consulenti.
    È fondamentale discutere prima col tuo legale e attestatore un preventivo o almeno una stima, e inserirla nel budget del piano. Ricorda che un concordato riduce i debiti ma non è gratuito: va pesato se l’attivo lo supporta. A volte per aziende micro, paradossalmente, i costi di procedura incidono troppo e conviene invece liquidazione semplificata o sovraindebitamento.
  • D: Sono un giovane avvocato interessato al diritto fallimentare. Da dove comincio per specializzarmi in questa materia?
    R: Ottima domanda. Il diritto della crisi è molto specialistico ma anche molto richiesto. Per iniziare:
    Formazione mirata: segui Master o corsi di alta formazione sul Codice della Crisi e sulle procedure concorsuali. Ci sono anche scuole forensi e corsi post-laurea specifici.
    Affiancati a professionisti esperti: se possibile, lavora presso uno studio legale che si occupa di fallimentare, anche come collaboratore; l’esperienza pratica sul campo (redigere domande di insinuazione, assistere a udienze fallimentari, etc.) è insostituibile.
    Studia la contabilità e finanza di base: un buon fallimentarista sa leggere un bilancio e dialogare con un CFO. Investi tempo per imparare come funzionano stato patrimoniale, conto economico, DSCR, piani finanziari. Potresti fare anche qualche esame o corso di economia aziendale.
    Tieniti aggiornato: la materia cambia, come hai visto. Leggi riviste specializzate (Il Fallimentarista, Diritto della Crisi, ecc.), commenti alle nuove norme, segui sentenze. Per esempio, studia la Relazione Cassazione 2025 sul correttivo ter per capire gli orientamenti.
    Cerca nomine minori: all’inizio, potresti proporti al tribunale per incarichi semplici (es. curatore di piccoli fallimenti, OCC per sovraindebitati). Spesso occorre iscriversi in elenchi; verifica presso il tuo tribunale le procedure (il correttivo 2024 istituisce un elenco nazionale dei gestori crisi, tieni d’occhio). Accettare incarichi “piccoli” ti dà visibilità ed esperienza.
    Networking: entra in associazioni come l’OCI (Osservatorio Crisi di Impresa) o partecipane ai convegni. Confrontati con colleghi, chiedi mentoring.
    La curva di apprendimento può essere ripida, ma con passione e pratica diventerai competente. È un ambito impegnativo ma gratificante: si lavora per salvare imprese e posti di lavoro o per chiudere situazioni complesse con giustizia.

Queste FAQ toccano alcuni dubbi frequenti. Ovviamente ogni caso concreto va discusso con il proprio legale, ma le risposte forniscono un orientamento generale.

Passiamo ora a simulazioni pratiche di casi aziendali, per illustrare come le diverse strategie si traducano in scenari reali e quali conseguenze comportino.

Simulazioni pratiche di casi aziendali: scelte procedurali a confronto

In questa sezione conclusive presentiamo alcune simulazioni di casi reali (op opportunamente adattati) per comprendere come le diverse procedure possano applicarsi e con quali effetti. Esamineremo due scenari aziendali e, per ciascuno, valuteremo differenti scelte strategiche, evidenziando le conseguenze per l’azienda, i creditori e gli organi sociali.

Caso 1: PMI manifatturiera in tensione finanziaria – accordo stragiudiziale vs concordato vs fallimento

Profilo dell’azienda: Alfa S.r.l., 50 dipendenti, settore metalmeccanico. Negli ultimi anni ha subito un calo di ordini e margini a causa della concorrenza internazionale. A fine 2024 presenta i seguenti elementi:

  • Debiti finanziari: 2 milioni € con banche (mutui e scoperti); in gran parte garantiti da ipoteca su capannone e fideiussione personale del socio.
  • Debiti verso fornitori: 1,5 milioni € (scaduti in media da 120 giorni, alcuni fornitori critici minacciano sospensione consegne).
  • Debiti verso Fisco: 500k € (IVA ultimi 2 trimestri non versata, ritenute non versate; Agenzia Entrate Riscossione ha già inviato intimazioni).
  • Attivo: magazzino 700k (valore di mercato incerto), crediti vs clienti 600k (di cui 200k dubbia esigibilità). Capannone peritato 1,5M (ipotecato per 1M). Macchinari valore realizzo stimato 300k.
  • Situazione corrente: cassa quasi zero, a fatica paga i dipendenti (in ritardo di 2 settimane), portafoglio ordini ridotto ma qualche commessa c’è.

Problema: Alfa è tecnicamente insolvente: non riesce a far fronte a tutte le obbligazioni correnti. La crisi però potrebbe essere reversibile se riducesse il debito e magari entrasse un socio o finanziatore (c’è un interessamento di un competitor locale per una partnership). Il titolare è indeciso sul da farsi. Alcune banche hanno revocato fidi (classificando sofferenza) e un fornitore ha appena notificato un decreto ingiuntivo.

Valutiamo tre possibili percorsi:

  • Opzione A: Piano di risanamento attestato e accordi stragiudiziali (no procedura concorsuale).
  • Opzione B: Concordato preventivo in continuità aziendale.
  • Opzione C: Nessuna azione -> probabile liquidazione giudiziale forzosa su istanza di creditori (fallimento).

Opzione A – Piano attestato e accordi privati:
Alfa S.r.l., col supporto di un advisor, elabora un piano triennale: il competitor Beta S.p.A. entra al 50% con un aumento di capitale da 500k €, che apporta liquidità; l’azienda si ristruttura (taglio di 10 dipendenti con accordo sindacale e CIGS), vende il capannone a Beta per 1,5M e stipula con Beta un contratto di affitto dello stesso (operazione per fare cassa). Con questi fondi:

  • Paga integralmente i fornitori strategici e offre agli altri un pagamento in 12 mesi al 80% del dovuto (molti accettano).
  • Verso le banche: grazie al ricavato del capannone, rimborsa la banca ipotecaria per intero (1M), liberando ipoteca e fideiussione socio; con le altre banche (500k residui) spalmatura in 5 anni con interessi ridotti (accordo bilaterale firmato).
  • Verso il Fisco: usa 200k per saldare IVA arretrata (grazie a definizione agevolata eventuale) e rateizza il resto su 2 anni (Agenzia Entrate accorda una rateazione ordinaria).

Un professionista indipendente attesta che il piano è realistico e che l’azienda, sgravata da debiti e con nuovo socio, tornerà redditizia (DSCR>1,1 dal 2025 in poi). Tutti i principali creditori firmano accordi per dilazioni/rinunce come da piano. Il piano si svolge sotto traccia: i più sanno che Beta è entrata come partner e che c’è una ristrutturazione, ma formalmente Alfa non entra in “procedura concorsuale”.

Esito: Alfa riesce a superare la crisi. Nel 2025 paga i debiti secondo gli accordi; qualche piccolo fornitore non aderente, vedendo che Alfa sta risanandosi e i principali l’appoggiano, preferisce non agire e viene comunque pagato regolarmente (100%). Nel 2026 Alfa, risanata e con Beta come spalla, torna in utile e sviluppa nuovi prodotti. Nessun tribunale è intervenuto. Il titolare originale conserva una quota e la posizione di direttore tecnico, con Beta che porta know-how commerciale. I creditori, tutto sommato, hanno ottenuto soddisfazione in misura alta (minimo 80%). L’immagine di Alfa sul mercato ha subito un contraccolpo lieve e temporaneo (ai più è parso un ingresso di un socio, non una “crisi conclamata”). Nessuna azione di responsabilità: gli amministratori hanno agito per tempo, anche il Fisco, pur avendo inizialmente intimato, ha visto recuperati la maggior parte dei crediti senza procedure concorsuali.

Criticità evitata: L’unica incognita era se un fornitore non concordatario avesse tentato un’azione esecutiva: uno ci ha provato con decreto ingiuntivo, ma appena informato del piano e rassicurato sui pagamenti, ha sospeso iniziative. Beta S.p.A. ha posto come condizione che non ci fosse il “marchio” di un fallimento o concordato, quindi la scelta stragiudiziale ha favorito anche l’investimento. L’attestazione protettiva fa sì che gli atti fatti (vendita capannone, pagamenti parziali a fornitori) non siano revocabili se mai in futuro ci fosse un fallimento. Il socio titolare ha mantenuto la sua reputazione e non ha subito né esdebitazione (non era fallito) né altre restrizioni.

Opzione B – Concordato preventivo in continuità:
Alfa, constatato che vari creditori non coopererebbero informamente, decide per un concordato. A luglio 2024 deposita una domanda di concordato “in bianco” per bloccare l’ingiunzione del fornitore e guadagnare tempo. Entro 4 mesi presenta il piano: è simile all’opzione A, solo che formalizzato in un concordato:

  • Previsto ingresso di Beta con aumento di capitale e finanziamento in prededuzione di 500k (Beta preferisce, perché in concordato i nuovi apporti sono prededucibili).
  • Vendita capannone a Beta a 1,5M nel corso del concordato (ma qui serve procedura competitiva per trasparenza: Beta vince l’asta perché offre miglior prezzo).
  • Banche: classificate in una classe separata, prendono 100% dei loro crediti ipotecari (grazie alla vendita) e l’80% di quelli chirografari.
  • Fornitori chirografari: offerto 50% in 2 anni. (Nel concordato occorre essere un po’ più severi per ragioni di fattibilità, inoltre i costi procedurali assorbono risorse).
  • Erario: transazione fiscale nel concordato, pagamento 50% di IVA e contributi, stralcio sanzioni, in 4 anni. Agenzia Entrate vota a favore (vedendo che comunque prende più che in fallimento).
  • Dipendenti: l’esubero di 10 unità viene gestito all’interno del concordato con accordo sindacale approvato dal GD (i TFR maturati e le competenze dei licenziati sono pagati al 100% come prededuzione).
  • Viene nominato un Commissario che supervisiona. Beta S.p.A. formalizza un’offerta vincolante sia per l’aumento di capitale sia per l’acquisto immobile, subordinata all’omologazione.

Al voto, le banche (classe 1) approvano (80% sì), i fornitori (classe 2) pure (70% in valore, molti preferiscono il 50% al rischio fallimento con forse 20%), Erario (classe 3) sì, dipendenti (classe 4 privileg.) sì perché pagati full tranne esuberi indennizzati. Si raggiunge la maggioranza in tutte le classi. Un piccolo fornitore escluso (non aveva crediti in classe votante perché era contestato) si oppone lamentando che il 50% è basso. Il tribunale, verificato che in fallimento avrebbe preso forse 20%, respinge l’opposizione e omologa. Il concordato va a buon fine.

Esito: Nel 2025, esecuzione: Beta versa i fondi, diventa socio; il Liquidatore nominato dopo omologa paga i creditori nelle percentuali stabilite. Entro il 2026 Alfa esce dal concordato adempiuto. L’azienda è salva, con dimensioni ridotte ma efficiente. Il socio originario ha perso metà delle quote ma l’alternativa era perdere tutto; inoltre la sua fideiussione è stata onorata nel piano (evitando escussione). I creditori hanno sofferto una perdita (50% fornitori, 20% banche chirog.), ma hanno accettato valutando che era l’opzione migliore rispetto al fallimento. I dipendenti hanno mantenuto il posto (tranne i 10 incentivati all’esodo). L’immagine di Alfa ha subito un colpo: il concordato è stato pubblico e alcuni clienti nel frattempo l’hanno vista con sospetto; però col nuovo partner Beta la fiducia è stata in parte ripristinata. Gli amministratori hanno evitato azioni di responsabilità perché la procedura ha mostrato che il dissesto è stato gestito secondo legge; nessun reato configurato (il PM non ha rilevato irregolarità, grazie anche alla trasparenza in concordato).

Confronto con A: Questa opzione ha portato a un esito simile – impresa salvata con partner – ma con costi più alti (i creditori fornitori hanno preso meno, i costi legali e commissariali forse ~150k hanno ridotto l’attivo disponibile). Tuttavia, ha permesso di forzare l’accordo su tutti anche senza consenso unanime. Se nell’opzione A uno o due creditori non avessero aderito, qui sono stati comunque vincolati dal voto della maggioranza. La protezione giudiziale ha bloccato i creditori aggressivi. Beta ha investito lo stesso, rassicurata dal fatto che la procedura pulisce il passato e offre certezza (infatti ha potuto rilevare l’immobile in modo clean e ottenere quota società libera da ipoteche).

Opzione C – Inazione e fallimento:
Supponiamo che il titolare di Alfa, per paura o testardaggine, non intraprenda né accordi né concordato. I problemi peggiorano:

  • A inizio 2025 diversi fornitori interrompono le consegne perché non pagati; la produzione si inceppa, Alfa non riesce a evadere alcuni ordini e perde clienti.
  • Il fornitore che aveva ingiunto ottiene esecuzione: pignora i macchinari; la banca revoca definitivamente tutti i fidi e chiede rientro immediato.
  • A marzo 2025 un creditore presenta istanza di fallimento. Il titolare prova a opporsi dicendo “abbiamo prospettive, sto trattando con un socio”, ma senza aver avviato procedure, il tribunale rileva lo stato di insolvenza conclamata (conti bloccati, dipendenti in sciopero perché senza stipendio da 2 mesi, ecc.) e dichiara la liquidazione giudiziale.
  • Viene nominato un Curatore che prende possesso dell’azienda. Purtroppo ormai l’attività è ferma, il capitale umano disgregato (alcuni tecnici si sono licenziati), Beta S.p.A., che era interessata, ritira l’offerta perché preferiva subentrare in continuità, non comprare i rottami di un fallimento (avrebbe potuto fare domanda di esercizio provvisorio al Curatore, ma i tempi e la fiducia erano ormai compromessi).

Il Curatore prova a vendere gli asset: il capannone va all’asta e viene aggiudicato a terzi per 1,1M (valore ribassato rispetto a 1,5); i macchinari usati spuntano 150k perché la produzione ferma li ha svalutati; il magazzino in parte obsoleto rende 300k. Incassa in totale ~1,6M. Insinua al passivo i creditori: ci sono 4M di debiti (nel frattempo lievitati per interessi, more, spese legali). Riesce a fare un riparto:

  • Banche ipotecarie: prendono 1,1M dall’immobile (coprono il loro credito in buona parte, restano scoperti per 0,4M come chirografi).
  • Dipendenti: TFR e stipendi pregressi pagati dal Fondo di garanzia INPS (che subentra come creditore).
  • Erario e INPS: privilegiati, prendono una parte su quel 1,6M (dopo costi procedura).
  • Creditori chirografari (fornitori, banche per la parte scoperta): ricavato insufficiente, prendono una percentuale stimata ~15%.

Il fallimento viene chiuso nel 2027 con un decreto di esdebitazione per il socio (persona fisica) perché non ha commesso reati, ma ovviamente ha perso l’azienda, le sue quote ora valgono zero e i crediti rimasti non li pagherà nessuno (l’esdebitazione glieli condona, ma i creditori li perdono). I fornitori, piccoli imprenditori anch’essi, incassano briciole dopo anni. I dipendenti perdono il lavoro, anche se hanno avuto i pagamenti arretrati dal Fondo e la Naspi per la disoccupazione.

Inoltre, emergono possibili responsabilità: il Curatore nota che l’amministratore ha pagato a fine 2024 un fornitore (guarda caso un parente) integralmente mentre gli altri zero – promuove azione per far restituire quella somma ai creditori (azione revocatoria) e valuta anche un’azione di responsabilità per aver aggravato il buco continuando l’attività da ottobre 2024 a marzo 2025 senza prospettive (danno pari alle forniture prese in quel periodo non pagate, circa 200k). Vista l’incapienza del socio, probabilmente tali azioni non portano molto, ma intanto il socio deve difendersi in giudizio. Sul piano penale, la Procura contesta all’amministratore la bancarotta semplice (per aver ritardato il fallimento aggravando il passivo) e la bancarotta preferenziale per quel pagamento al parente. Forse se la caverà con poco (patteggiamento a pena sospesa), ma è un’esperienza comunque traumatica e con strascichi.

Esito: Il quadro peggiore: impresa chiusa, creditori fortemente insoddisfatti, socio rovinato (anche se esdebitato non ha più attività né reputazione, e ha passato guai legali). Beta S.p.A. magari acquista ad asta qualche macchinario o assume alcuni ex dipendenti, ma l’attività Alfa come entità è finita. In più, il territorio perde un pezzo dell’indotto metalmeccanico.

Analisi comparativa:
– Nell’opzione A (accordo stragiudiziale) l’azienda è salva, i creditori recuperano la maggior parte (alcuni quasi il 100%), il socio conserva in parte l’attività (sia pur con partnership). Nessuna procedura formale, minor traumatismi.
– Nell’opzione B (concordato) l’azienda è salva ma i creditori subiscono un taglio più significativo e c’è un costo reputazionale. Comunque, tutti meglio che nel fallimento.
– Nell’opzione C (inerzia) tutti stanno peggio: l’azienda muore, i creditori recuperano poco-nulla, il socio perde tutto ed è pure perseguibile. Morale: aspettare passivamente è la scelta peggiore; attivarsi per tempo consente spesso soluzioni win-win parziali. Anche i creditori dovrebbero preferire un concordato con 50% subito che 15% dopo anni (e infatti nelle opzioni A e B hanno collaborato in numero sufficiente). Per il socio, anche se cede il comando o accetta riduzioni, rimane in gioco; in fallimento invece è out.

Caso 2: Impresa commerciale sovraindebitata – concordato minore vs liquidazione controllata

Vediamo un caso più piccolo, per illustrare le procedure minori:
Beta S.n.c. gestisce 3 negozi di abbigliamento. Ha debiti totali 300k (100k banca, 150k fornitori, 50k Fisco). Il calo delle vendite online l’ha colpita. Due soci lavoranti. Ha magazzino per 200k (valore vendita forzata 50k), arredi e cassa poco. Non è fallibile (fatturato e attivo sotto le soglie).

Beta è sovraindebitata: insolvente ma non fallibile. Due vie:

  • Concordato minore (ex “piano del consumatore”/accordo minore): simile a un concordato ma per non fallibili.
  • Liquidazione controllata del sovraindebitato: versione piccola del fallimento.

Scenario A – Concordato minore:
Beta si rivolge all’Organismo di Composizione Crisi (OCC). Propone di chiudere due negozi, liquidare le rimanenze (realizzando 50k), mantenere un solo punto vendita e con i proventi futuri pagare i creditori in parte. Elabora un piano a 4 anni dove offre il 40% ai creditori chirografari, pagando integralmente solo il Fisco su 5 anni. I creditori votano (non obbligatorio nel concordato minore, ma se la maggioranza approva il tribunale omologa più agevolmente). Votano sì perché se no Beta andrebbe in liquidazione e farebbero meno. Il tribunale omologa. Beta chiude i due negozi (i fornitori riprendono la merce in conto vendita, riducendo debito). Continua con uno, i due soci lì impiegati, e per 4 anni versano ai creditori secondo piano. Riesce a rispettare i pagamenti (complice una leggera ripresa vendite post-covid). Esdebitata dal tribunale per la parte residua (ad es. se ha pagato 40%, il 60% le viene cancellato). Beta prosegue l’attività su scala ridotta ma sostenibile.

Scenario B – Liquidazione controllata:
Se Beta non avesse fatto accordi, i creditori avrebbero potuto provocare una liquidazione giudiziale non fallimentare. Un gestore nominato dall’OCC liquida tutto: cede i contratti d’affitto, svende il magazzino a stock (20k), incassa poco. I creditori percepiscono forse il 10%. Beta S.n.c. viene cancellata. I soci, per i debiti residui personali (snc = illimitata respons.), chiedono l’esdebitazione “di diritto” dopo chiusura e la ottengono decorsi 3 anni. Ma hanno perso la loro attività. Forse aprono un piccolo negozio altrove come persone fisiche, ma con difficoltà.

Lezione: Anche nelle micro imprese, usare gli strumenti di composizione (accordo ristrutturazione piccoli o concordato minore) porta a esiti migliori per tutti rispetto alla liquidazione diretta. La riforma ha cercato di facilitare queste soluzioni minori, ad esempio riducendo formalità e permettendo esdebitazione anche senza pagamento (per soggetti meritevoli incapienti).


Queste simulazioni confermano in concreto i concetti teorici:

  • La tempestività e la scelta giusta dello strumento fanno la differenza tra rilancio possibile e dissoluzione.
  • L’avvocato esperto è colui che costruisce scenari A o B per i propri clienti, evitando che precipitino nello scenario C per inerzia.
  • I creditori stessi, benché scontenti di subire perdite, spesso preferiscono un accordo rapido a una lunga attesa dal fallimento. Infatti la maggioranza votante tende ad approvare piani ragionevoli. Ciò risponde alla finalità del legislatore di privilegiare la continuità d’impresa e il superamento della crisi rispetto alla mera liquidazione distruttiva.

Con le simulazioni concludiamo la parte didattica della guida. Nell’ultima sezione raccogliamo tutte le fonti normative, giurisprudenziali e dottrinali citate e utilizzate, per chi volesse approfondire ulteriormente o verificare i riferimenti puntuali.

Fonti normative, giurisprudenziali e bibliografia

Di seguito elenchiamo le principali fonti utilizzate nella redazione di questa guida, suddivise per tipologia. Esse comprendono riferimenti normativi (Codice della Crisi e altre leggi), pronunce giurisprudenziali rilevanti aggiornate al 2024-2025, nonché prassi e dottrina di riferimento.

Normativa Italiana:

  • Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14), come modificato dai decreti correttivi: D.Lgs. 147/2020 (primo correttivo), D.Lgs. 83/2022 (secondo correttivo) e D.Lgs. 136/2024 (terzo correttivo, in vigore dal 28/09/2024). In particolare:
    • Articoli 12-15 CCII sulle procedure di allerta (in parte abrogati dal D.Lgs. 83/22).
    • Articoli 16-24 CCII sulla Composizione negoziata della crisi (introdotti dal D.L. 118/2021 conv. L. 147/2021) e successive modifiche.
    • Articoli 25-sexies e 25-septies CCII sul Concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio (introdotti dal D.L. 118/2021 e modificati dal D.Lgs. 136/2024).
    • Articoli 40-48 CCII sul Concordato preventivo (domanda in bianco, ammissione, voto, omologa).
    • Articoli 56-64 CCII sugli Accordi di ristrutturazione dei debiti e Piani di ristrutturazione soggetti ad omologazione (PRO).
    • Articoli 84-88 CCII (contenuto del piano di concordato, classi, trattamento creditori privilegiati – soglia 20% concordato liquidatorio).
    • Articoli 90-91 CCII (Proposte concorrenti nel concordato preventivo – soglie 10%, 20%, 30%).
    • Articoli 109-118 CCII (Effetti del concordato sui contratti, esercizio dell’attività etc.).
    • Articoli 119-120 CCII (Transazione fiscale e contributiva nel concordato e ADR, cram-down erariale introdotto dal D.L. 125/2020 conv. L. 159/2020 e confermato).
    • Articoli 134-141 CCII (Apertura della liquidazione giudiziale – requisiti soggettivi e oggettivi).
    • Articoli 152-171 CCII (Organi della liquidazione: curatore, giudice delegato, comitato creditori).
    • Articoli 189-208 CCII (Effetti della liquidazione giudiziale, contratti pendenti, scioglimenti – ivi compreso art. 189 sulla continuazione provvisoria dell’esercizio).
    • Articoli 213-221 CCII (Liquidazione dell’attivo – vendite competitive).
    • Art. 215 CCII (Cessione azioni revocatorie e altre azioni – modificato dal D.Lgs. 136/2024 estendendo cedibilità a azioni risarcitorie).
    • Art. 216 CCII (Periodo sospetto – dies a quo coincidente con deposito ricorso prenotativo).
    • Art. 166 CCII comma 3 (Esenzione da revocatoria per atti in esecuzione di concordato preventivo e piani attestati – estesa dal correttivo ter anche a concordato semplificato).
    • Artt. 277-285 CCII (Esdebitazione dell’imprenditore fallito – modifiche D.Lgs. 136/2024 introducendo esdebitazione automatica decorsi 3 anni).
    • Artt. 268-277 CCII (Procedure di sovraindebitamento – concordato minore, ristrutturazione debiti del consumatore, liquidazione controllata).
    • Artt. 322-343 CCII (Reati concorsuali – bancarotta, ricorso abusivo al credito, etc., corrispondenti agli artt. 216-236 legge fall. abrogati).
  • Codice Civile, in particolare:
    • Art. 2086 c.c. comma 2 (Adeguati assetti e dovere di imprendere interventi per la continuità).
    • Artt. 2381, 2392 c.c. (Doveri amministratori non esecutivi e responsabilità per omessa vigilanza).
    • Artt. 2446-2447, 2482-bis c.c. (Riduzione capitale per perdite).
    • Art. 2486 c.c. (Gestione conservativa dopo scioglimento, responsabilità per aggravamento del passivo).
  • Legge Fallimentare (R.D. 16 marzo 1942 n. 267) – abrogata dal 15/7/2022, ma citata storicamente e per confronti. Soprattutto:
    • Art. 160 l.f. (condizioni concordato, 20% chirografari).
    • Art. 182-bis l.f. (Accordi ristrutturazione debiti).
    • Artt. 216-217 l.f. (Bancarotta fraudolenta e semplice, reati).
    • Art. 67 l.f. comma 3 lett. d) (piani attestati di risanamento esimenti revocatoria).
  • Decreto Legge 24 agosto 2021 n. 118 convertito in L. 147/2021: introduttivo di composizione negoziata e concordato semplificato (norme ora trasfuse nel CCII).
  • Decreto Legislativo 13 settembre 2024 n. 136 (Terzo correttivo CCII) – per novità su: composizione negoziata (divieto revoca fidi), piano di ristrutturazione soggetto a omologazione (art. 64), concordato semplificato (modifiche art. 25-sexies), esdebitazione (nuova sezione I-bis e istanza non necessaria dopo 3 anni), compensi organi (elenco ministeriale), contratti pendenti etc.

Giurisprudenza (Corte di Cassazione e di merito, massime rilevanti 2024-2025):

  • Cassazione Civile, Sez. I, 22 aprile 2024 n. 10739 – in tema di responsabilità omissiva degli amministratori non esecutivi per condotte dell’AD che hanno aggravato il dissesto. La Suprema Corte ha affermato la responsabilità solidale anche dei consiglieri privi di deleghe che, conoscendo (o dovendo conoscere) irregolarità gestionali gravemente pregiudizievoli, non sono intervenuti per impedirle.
  • Cassazione Civile, Sez. II, 20 novembre 2024 n. 29844 – su doveri degli amministratori non esecutivi nelle imprese bancarie (principi estesi analogicamente): obbligo di agire informati ex art. 2381 c.c. anche per chi non ha deleghe, e dovere di attivarsi per prevenire situazioni di crisi. Rinforza l’idea che il dovere di vigilanza proattiva si estende a tutti i membri del CdA, specie in materia di rischi aziendali.
  • Cassazione Penale, Sez. V, 5 luglio 2023 n. 27934 – (non citata nel testo ma di contesto) ha affermato che la prosecuzione abusiva dell’attività aggravando il dissesto integra bancarotta semplice (art. 217 l.f.) se compiuta con colpa grave.
  • Tribunale di Lecce, Sez. III Civ., decreto 18 febbraio 2025 – rigetto omologazione di un concordato semplificato ex art. 25-sexies CCII per incertezza dell’attivo, garanzie insufficienti e passivo poco chiaro. Caso citato: società post-CNC proponeva pagamento con crediti fiscali futuri e affitti non garantiti; il Tribunale ha ritenuto la proposta inaffidabile e l’ha respinta, evidenziando i requisiti di concretezza richiesti in mancanza di voto creditori.
  • Tribunale di Parma, 26 maggio 2024 (fonte: avvocaticartellesattoriali.com) – omologazione di accordo di ristrutturazione ex art. 57 CCII grazie all’esito positivo di una composizione negoziata. Segnala prassi virtuosa: composizione negoziata facilitante un ADR poi omologato (Tribunale riconosce efficacia dell’accordo su basi raggiunte in sede CNC).
  • Tribunale di Milano, Sez. Fall., decreti 2023/2024 – numerosi provvedimenti in tema di transazione fiscale “cram-down” (applicando l’art. 63 CCII che consente omologa nonostante voto contrario Erario se trattamento non deteriore rispetto a liquidazione) – es. Trib. Milano 10 marzo 2023, ecc. (non citati nel testo ma sottesi alla possibilità legale di forzare il voto Erario).
  • Corte di Cassazione, Ufficio del Massimario, Relazione n. 10/2025 del 30 gennaio 2025 – approfondimento sul correttivo ter CCII. Documento di prassi autorevole citato, che analizza modifiche a composizione negoziata, concordato semplificato, piano attestato, accordi di ristrutturazione, PRO, etc., e questioni di diritto societario della crisi, gruppi e intertemporalità. Utile per interpretazione delle nuove norme.
  • Cass. Civ., Sez. Un., 15 novembre 2016 n. 23218 (sentenza storica) – ha sancito che nelle azioni di responsabilità promotte dal curatore ex art. 146 l.f., i danni da ritardata richiesta di fallimento equivalgono all’aggravamento del passivo (principio oggi consolidato).

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