Hai un’azienda in difficoltà e non sai da dove cominciare? I debiti crescono, i margini calano, i fornitori iniziano a perdere fiducia e le banche ti chiedono rientri immediati? Ti chiedi cosa puoi fare, legalmente e concretamente, in caso di crisi aziendale?
Affrontare una crisi non significa rassegnarsi alla chiusura o al fallimento. Oggi il Codice della Crisi d’Impresa prevede strumenti per intervenire in tempo, bloccare i creditori e salvare l’attività, se accompagnati da una strategia seria e da professionisti esperti.
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati specializzati in crisi aziendali, diritto societario e risanamento – ti spiega cosa fare quando la tua impresa entra in crisi, quali segnali non ignorare e quali strumenti legali puoi attivare per uscirne prima che sia troppo tardi.
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Introduzione
Affrontare una crisi aziendale è un momento critico per ogni imprenditore. In Italia, dal 2022 è pienamente in vigore il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (CCII) – introdotto con D.Lgs. 14/2019 e successivamente modificato – che ha riformato profondamente la disciplina delle crisi aziendali, abrogando la vecchia legge fallimentare del 1942 e la legge sul sovraindebitamento del 2012. Questo nuovo quadro normativo promuove un approccio di gestione tempestiva e conservativa delle difficoltà, incoraggiando l’imprenditore ad attivarsi il prima possibile per salvaguardare la continuità aziendale.
In particolare, l’art. 2086 c.c., come riformato, impone all’imprenditore collettivo (società) di dotarsi di assetti organizzativi adeguati a rilevare precocemente lo stato di crisi e di attivarsi senza indugio nell’adottare gli strumenti idonei a superarla. Ciò significa che gli amministratori hanno il dovere di reagire tempestivamente ai primi segnali di difficoltà, adottando misure efficaci per tutelare l’impresa e i suoi stakeholders. La mancata attivazione può comportare responsabilità per gli amministratori, sia verso la società che verso creditori e terzi, soprattutto se l’inerzia aggrava il dissesto.
Questa guida approfondita di Studio Monardo – aggiornata a maggio 2025 – fornisce una mappa chiara e completa delle azioni da intraprendere in caso di crisi aziendale, con un taglio avanzato ma divulgativo. Ci concentreremo in particolare sulle PMI italiane, ossia piccole e medie imprese, che spesso sono esposte a crisi finanziarie, gestionali o da insolvenza. Vedremo come distinguere le diverse tipologie di crisi, come rilevarle in tempo e come scegliere tra i vari strumenti offerti dalla normativa italiana per la gestione e la soluzione della crisi.
Saranno analizzate nel dettaglio tutte le procedure previste dal legislatore: dalla composizione negoziata della crisi (introdotta di recente) agli strumenti di ristrutturazione del debito (piani attestati e accordi omologati), dal concordato preventivo (in continuità o liquidatorio) fino alla liquidazione giudiziale (il “nuovo fallimento”). Verranno citate le più recenti novità normative – come le modifiche apportate dal terzo decreto correttivo del 2024 – e la giurisprudenza aggiornata di Cassazione e dei tribunali di merito, per evidenziare gli orientamenti applicativi emersi. Tabelle riepilogative aiuteranno a confrontare i vari procedimenti, con indicazione di requisiti di accesso e implicazioni.
Infine, proporremo una sezione di Domande Frequenti (FAQ) per chiarire i dubbi comuni e alcune simulazioni pratiche di casi realistici, per mostrare come le norme si applicano concretamente. Una sezione finale elencherà tutte le fonti normative e giurisprudenziali citate, utile per approfondimenti.
L’obiettivo è fornire una guida strutturata e comprensibile su “Cosa fare in caso di crisi aziendale”, affinché professionisti e imprenditori possano orientarsi con sicurezza in un momento così delicato, facendo le mosse giuste per cercare di salvare l’impresa o, nei casi estremi, gestire al meglio l’inevitabile liquidazione.
1. Tipologie di crisi aziendale
Non tutte le crisi d’impresa sono uguali. Possiamo distinguere almeno tre tipologie principali di crisi aziendale, a seconda delle cause e manifestazioni prevalenti: crisi finanziaria, crisi gestionale e crisi da insolvenza. Spesso questi tre tipi sono collegati tra loro – ad esempio una crisi gestionale protratta può sfociare in una crisi finanziaria e poi nell’insolvenza – ma è utile analizzarli separatamente per individuare le azioni correttive più adeguate in ciascun caso.
1.1 Crisi finanziaria
La crisi finanziaria è la forma più comune di difficoltà aziendale e si manifesta principalmente come squilibrio economico-finanziario: l’impresa fatica a far fronte ai propri debiti e impegni di cassa con le risorse finanziarie disponibili. In altre parole, vi è un problema di liquidità o di redditività insufficiente che mette a rischio la regolare operatività. I sintomi tipici di una crisi finanziaria includono:
- Mancanza di liquidità per pagare fornitori, dipendenti, banche o Fisco alle scadenze previste. L’azienda può accumulare ritardi nei pagamenti, chiedere continue proroghe o rateizzazioni, utilizzare al massimo gli affidamenti bancari e gli scoperti di conto.
- Aumento dell’indebitamento a breve termine: l’impresa ricorre eccessivamente al credito bancario o commerciale (debiti verso fornitori) per finanziare la gestione corrente, segno che i flussi attivi (incassi da vendite) non coprono i flussi passivi. Il rapporto tra debiti e capitale proprio cresce pericolosamente.
- Perdite ricorrenti o calo dei margini: se la crisi finanziaria è collegata a scarsa redditività, si noteranno bilanci in perdita o utili molto ridotti. I margini operativi (EBITDA) possono diventare negativi o insufficienti a coprire gli oneri finanziari, causando un effetto a catena sul cash flow.
- Tensioni con banche e fornitori: l’impresa in crisi finanziaria può subire la revoca di fidi bancari, il mancato rinnovo di linee di credito, o azioni di recupero crediti dai fornitori (solleciti, ingiunzioni). I fornitori possono iniziare a pretendere pagamenti anticipati o a interrompere le forniture. Anche il Fisco e gli enti previdenziali possono iscrivere ruoli esattoriali per imposte non versate.
- Indicatori finanziari fuori parametro: indici come il Debt/EBITDA, il DSCR (Debt Service Coverage Ratio) o l’indice di liquidità risultano gravemente deteriorati. Ad esempio, un DSCR < 1 (incapacità di coprire le rate debito con i flussi di cassa) è un forte segnale di allerta di crisi.
In sintesi, nella crisi finanziaria l’impresa non è ancora necessariamente insolvente (può riuscire a pagare parte dei debiti, magari con ritardi), ma il suo equilibrio finanziario è compromesso o in procinto di rompersi. Se non si interviene tempestivamente – ad esempio rinegoziando il debito, ricapitalizzando l’azienda o tagliando i costi – la crisi finanziaria può aggravarsi fino a diventare insolvenza conclamata.
1.2 Crisi gestionale
La crisi gestionale attiene principalmente all’organizzazione interna e alla conduzione dell’azienda. È spesso causata da errori strategici o manageriali, inefficienze e problemi strutturali nella governance, piuttosto che da fattori finanziari immediati. In una crisi gestionale:
- L’impresa può avere prodotti/servizi obsoleti o non più competitivi sul mercato, a causa di scelte strategiche errate o mancate innovazioni. Ciò si riflette in un calo del fatturato e della quota di mercato nel tempo.
- Possono esserci problemi organizzativi: ad esempio, un modello di governance inadeguato, conflitti tra soci o amministratori, una struttura di costi fissa troppo pesante, un personale non adeguatamente formato. Tali inefficienze erodono la redditività.
- Errori di gestione operativa: ad esempio sovrapproduzione di scorte invendute, politica dei prezzi sbagliata, espansione su mercati non redditizi, investimenti eccessivi finanziati male. Queste scelte generano diseconomie e perdite.
- Carenza di controllo di gestione e di pianificazione: l’azienda potrebbe non aver implementato sistemi di controllo interni capaci di segnalare in anticipo l’andamento negativo (budget, reportistica, indicatori KPI). Così la crisi gestionale viene spesso scoperta tardi, quando i problemi si sono incancreniti.
- Turnover elevato del management o personale demotivato: la mancanza di una guida stabile e competente amplifica la crisi gestionale.
In una crisi gestionale pura, a differenza della crisi finanziaria, l’impresa potrebbe ancora essere solvente e disporre di liquidità nel breve termine (magari grazie a riserve o al sostegno dei soci), ma il suo modello di business non è sostenibile nel medio-lungo termine. Se non si corregge la rotta – ad esempio cambiando il management, ristrutturando l’organizzazione e rivitalizzando la strategia – la crisi gestionale inevitabilmente si tradurrà in perdite finanziarie crescenti, erodendo il patrimonio e sfociando infine in una crisi finanziaria/insolvenza.
Per le PMI familiari italiane, le crisi gestionali sono frequenti, spesso legate a un’imprenditorialità “istintiva” non supportata da adeguati strumenti manageriali. La recente riforma normativa pone l’accento proprio sugli “adeguati assetti organizzativi” che ogni impresa deve avere per prevenire queste situazioni. Anche i sindaci e revisori hanno l’obbligo di segnalare agli amministratori eventuali indizi di cattiva gestione o crisi, affinché si intervenga subito. In sostanza, la crisi gestionale si supera con un cambio di passo manageriale, spesso ricorrendo a consulenti o figure specializzate nel turnaround aziendale.
1.3 Crisi da insolvenza
La crisi da insolvenza è la forma più grave di crisi aziendale, in cui l’impresa non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni. Qui non si parla solo di difficoltà temporanea di liquidità, ma di vera e propria insufficienza strutturale di mezzi finanziari rispetto ai debiti. L’insolvenza si manifesta tipicamente con:
- Inadempimenti conclamati verso creditori: pagamenti scaduti da tempo e non effettuati, protesti di assegni o cambiali, decreti ingiuntivi non opposti, pignoramenti in corso. I creditori iniziano azioni esecutive e l’azienda non riesce a fronteggiarle.
- Blocchi operativi: fornitori strategici sospendono forniture per mancato pagamento, dipendenti minacciano scioperi o dimissioni perché non ricevono stipendi, banche revocano tutti gli affidamenti. L’impresa è di fatto paralizzata e incapace di proseguire la normale attività.
- Perdite patrimoniali gravi: il patrimonio netto può essere azzerato o negativo a causa di perdite cumulate. Possono emergere cause di scioglimento ex art. 2484 c.c. (come perdita di oltre 1/3 del capitale sociale senza adeguata ricapitalizzazione ex artt. 2447/2482-ter c.c.). L’impresa brucia cassa e valore.
- Indebitamento insostenibile: il totale dei debiti supera di gran lunga l’attivo realizzabile. Gli indici patrimoniali (ad es. Debt/Equity) risultano fuori controllo. L’azienda potrebbe tecnicamente essere già decotta (passività eccedenti l’attivo).
- Segnalazioni esterne: talvolta l’insolvenza viene rilevata da terzi. Ad esempio, l’Agenzia delle Entrate-Riscossione può segnalare accumuli rilevanti di debiti fiscali non saldati; oppure banche segnalano “sofferenze” dell’azienda in Centrale Rischi. Dal 2022 le nuove norme prevedono alcuni obblighi di allerta per creditori pubblici qualificati (Fisco, INPS) oltre che per gli organi di controllo interni.
Quando lo stato di insolvenza è conclamato, l’intervento deve essere immediato e molto deciso. Si tratta di capire se esiste ancora margine per un risanamento (ad esempio tramite ristrutturazione del debito, nuovi apporti di capitali, cessione di rami aziendali) oppure se l’impresa è destinata alla liquidazione. Il CCII definisce formalmente l’insolvenza come “lo stato del debitore che si manifesta con inadempimenti o altri fatti esteriori che dimostrino la sua incapacità strutturale di adempiere alle obbligazioni”. In pratica, non basta un singolo ritardo, ma un quadro persistente e generalizzato di incapacità a pagare.
È importante distinguere tra stato di crisi e stato di insolvenza: il primo è una situazione di difficoltà che rende probabile l’insolvenza futura (es. flussi di cassa prospettici inadeguati nei successivi 12 mesi), il secondo è l’insolvenza già in atto. Le procedure “di allerta” e compositive (come la composizione negoziata) mirano ad affrontare la crisi prima che degeneri in insolvenza, coerentemente con il principio di favorire soluzioni conservative (art. 4 e 5 CCII). Tuttavia, se l’insolvenza è già arrivata, esistono strumenti legali ad hoc (concordato preventivo, liquidazione giudiziale, ecc.) per gestirla in modo ordinato.
In sintesi, la crisi da insolvenza richiede di norma l’accesso a una procedura concorsuale o comunque l’adozione immediata di uno strumento di regolazione della crisi previsto dalla legge. Continuare ad operare come nulla fosse, in stato di insolvenza, è estremamente pericoloso: i creditori individuali potrebbero attivarsi disordinatamente (pregiudicando la par condicio), gli amministratori rischiano responsabilità personali per aggravamento del dissesto, e ogni giorno di ritardo diminuisce le chance di salvare qualcosa dell’impresa. La parola d’ordine, in caso di insolvenza, è agire subito utilizzando i percorsi previsti dalla normativa.
2. Rilevazione precoce della crisi e obblighi dell’imprenditore
Un fattore cruciale per “cosa fare” in caso di crisi è quando farlo. Le probabilità di superare la crisi aumentano di molto se la situazione viene diagnosticata tempestivamente e affrontata prima di precipitare nell’insolvenza irreversibile. La normativa italiana, in attuazione anche di principi UE, insiste molto sulla rilevazione precoce della crisi (“early warning”) e pone specifici obblighi agli imprenditori e agli organi sociali in tal senso.
2.1 Indicatori di allerta e adeguati assetti
Gli amministratori sono tenuti per legge a dotare la società di “adeguati assetti organizzativi, amministrativi e contabili” (art. 2086 co.2 c.c.) funzionali anche alla rilevazione tempestiva della crisi. Questo si traduce in pratica nell’avere strumenti di monitoraggio costante dei flussi di cassa prospettici, degli indici di bilancio e di altri indicatori gestionali che possano segnalare squilibri in atto o imminenti.
Gli indicatori di allerta possono includere, ad esempio: il già citato DSCR (Debt Service Coverage Ratio) inferiore a 1, margini operativi lordi in forte calo, eccessivo aumento dell’indebitamento a breve, ripetuti sconfinamenti di conto corrente, insoluti su RID o RIBA, esposizioni debitorie verso Fisco e previdenza oltre certe soglie (come il mancato pagamento di IVA o ritenute per importi significativi). Il Codice della crisi inizialmente prevedeva specifici indici elaborati dal Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti, ma dopo le modifiche tali indicatori sono diventati più flessibili e legati alla specificità di ogni impresa. Resta però centrale il concetto che l’imprenditore deve sorvegliare attivamente la salute economico-finanziaria della propria azienda.
Inoltre, organi come il collegio sindacale o il revisore legale hanno oggi il dovere di monitorare l’adeguatezza degli assetti e di segnalare tempestivamente agli amministratori (e, in casi gravi, all’OCRI – Organismo di composizione della crisi, ove istituito) la presenza di fondati indizi di crisi. Questa era la logica delle procedure di “allerta interna” previste dalla riforma. Nel 2022, tuttavia, il sistema di allerta è stato ripensato: l’OCRI non è stato attivato e si è preferito puntare su un istituto volontario come la composizione negoziata (vedi dopo). Restano comunque in vigore gli obblighi degli organi sociali di attivarsi.
Vale la pena notare che gli imprenditori individuali e collettivi non fallibili (sotto le soglie di fallibilità) sono anch’essi tenuti a gestire l’impresa con diligenza e a cogliere i segnali di squilibrio. Pur non avendo magari collegi sindacali, essi devono monitorare in proprio la situazione e, se necessario, ricorrere agli strumenti di sovraindebitamento. L’obiettivo generale del legislatore è evitare che le crisi emergano solo quando è troppo tardi, privilegiando soluzioni tempestive di risanamento.
In conclusione, rilevare presto la crisi consente di avere più strumenti a disposizione: ad esempio si potrà tentare una composizione negoziata o un accordo di ristrutturazione quando l’impresa è ancora in attività e con prospettive di recupero, piuttosto che finire direttamente in procedura fallimentare. È quindi fondamentale che l’imprenditore, coadiuvato dai propri consulenti, analizzi costantemente i dati aziendali, e che non ignori i campanelli d’allarme (perdite, calo di liquidità, insoluti, ecc.). Come recita la legge, deve “attivarsi senza indugio” per adottare le misure opportune.
2.2 Dovere di attivazione senza indugio
Il Codice della crisi enfatizza il principio della tempestività. L’art. 24 CCII (riprendendo in parte l’art. 2086 c.c.) stabilisce che l’imprenditore collettivo “deve adottare senza indugio” le iniziative più idonee a far fronte allo stato di crisi. In altre parole, non è ammesso un comportamento attendista o dilatorio di fronte ai sintomi di difficoltà. Questo dovere di attivazione immediata ha anche risvolti in termini di responsabilità legale:
- Sul piano civile, gli amministratori che non reagiscono alla crisi e lasciano aggravare il dissesto possono essere chiamati a rispondere dei danni causati (ad esempio, ai sensi dell’art. 2486 c.c. per l’aggravamento del passivo dopo lo scioglimento della società, o dell’art. 2476 c.c. per mala gestio verso i creditori sociali). La quantificazione del danno spesso coincide con la perdita incrementale subita dai creditori a causa del ritardo nell’accesso a una procedura concorsuale.
- Sul piano penale, se l’inerzia si accompagna a comportamenti distrattivi o fraudolenti, scattano i reati di bancarotta semplice (per avere aggravato il fallimento con imprudenza) o bancarotta fraudolenta (se vi è dolo nel depauperare l’azienda). Anche pagamenti preferenziali tardivi a ridosso del fallimento possono configurare bancarotta preferenziale.
- Inoltre, il mancato adempimento del dovere di attivarsi tempestivamente può precludere l’accesso ad alcune esenzioni di responsabilità previste dalla legge. Ad esempio, gli amministratori che abbiano tempestivamente avviato una composizione negoziata o un concordato preventivo godono di alcune protezioni (come la non punibilità per taluni reati fallimentari minori, ex art. 25 CCII). Al contrario, chi rimane inattivo perde queste tutele.
Il momento giusto per attivarsi, secondo la legge, è “al primo apparire dei sintomi della crisi”. Non bisogna attendere l’insolvenza conclamata. In pratica, se gli indici di cui sopra segnalano una probabilità di insolvenza entro 12 mesi, l’imprenditore dovrebbe valutare seriamente l’adozione di uno degli strumenti di regolazione della crisi previsti dal CCII (che vedremo nel prossimo capitolo). Questo non significa necessariamente precipitarsi in tribunale alla prima difficoltà, ma quantomeno intraprendere azioni concrete di risanamento: predisporre un piano industriale di rilancio, cercare nuova finanza, negoziare accordi con i creditori, oppure attivare le procedure di composizione assistita.
Va sottolineato che il terzo decreto correttivo del Codice (D.Lgs. 136/2024) ha ulteriormente chiarito e rinforzato questo dovere di tempestività. Tra le novità, è stato espressamente previsto che durante la composizione negoziata l’imprenditore possa proporre accordi di ristrutturazione parziali con il Fisco (transazione fiscale), ad esempio proprio per incentivare la soluzione della crisi prima che il debito tributario esploda e porti l’Erario a chiedere il fallimento. È anche stato eliminato ogni dubbio sul fatto che anche un imprenditore già insolvente possa accedere a procedure di composizione se ci sono margini di risanamento. Questo va letto come un ulteriore invito a non aspettare oltre: se l’impresa è in crisi o insolvente ma recuperabile, gli strumenti ci sono e devono essere utilizzati subito.
In sintesi, l’imprenditore ha oggi un “dovere giuridico di salvataggio” della propria impresa: deve provarci, con gli strumenti legali a disposizione. Questo è un cambio di prospettiva importante introdotto dalla riforma. Dal tradizionale approccio punitivo del fallimento (dove spesso si arrivava tardi e l’imprenditore veniva sanzionato), si è passati a un approccio incentivante: agisci subito per salvare il salvabile, e la legge ti aiuterà (ad esempio con protezioni temporanee dai creditori e con l’omologazione giudiziale di accordi). I paragrafi successivi esamineranno proprio quali sono questi strumenti e come funzionano.
3. Procedure previste per la gestione della crisi d’impresa
Il quadro normativo italiano prevede diversi strumenti e procedure per affrontare e regolare la crisi d’impresa. Si tratta sia di strumenti stragiudiziali (privati o semi-privati), sia di vere e proprie procedure concorsuali giudiziarie. La scelta del percorso adeguato dipende dalla gravità della crisi, dalla natura dell’impresa (se piccola o grande, fallibile o meno) e dall’obiettivo perseguito (risanamento e continuazione dell’attività, oppure liquidazione ordinata).
Di seguito analizzeremo le principali procedure previste dal CCII e dalla normativa collegata, che includono:
- Composizione negoziata della crisi – uno strumento nuovo e volontario per facilitare la negoziazione con i creditori, assistita da un esperto indipendente.
- Piani attestati di risanamento – piani di risanamento predisposti dall’imprenditore, asseverati da un professionista, eseguiti su base privatistica con effetti protettivi limitati.
- Accordi di ristrutturazione dei debiti – accordi giuridicamente vincolanti con una parte dei creditori (di regola almeno il 60%), soggetti ad omologazione del tribunale, con varie possibili varianti (standard, agevolati al 30%, ad efficacia estesa su creditori dissenzienti).
- Concordato preventivo – la classica procedura concorsuale di regolazione della crisi, proposta dall’imprenditore in tribunale, che può avvenire in continuità aziendale (se prevede la prosecuzione dell’attività) oppure liquidatorio (se prevede la cessione o liquidazione dei beni). Include anche forme particolari come il concordato semplificato post-composizione negoziata.
- Liquidazione giudiziale – l’equivalente del vecchio fallimento, procedura liquidatoria avviata di regola dai creditori o d’ufficio in caso di insolvenza conclamata, volta a liquidare il patrimonio e soddisfare i creditori secondo le regole della par condicio.
- Strumenti per imprese minori e sovraindebitate – come il concordato minore, la ristrutturazione dei debiti del consumatore e la liquidazione controllata, riservati a debitori non fallibili (piccolissime imprese, imprenditori agricoli, professionisti, consumatori).
Per ciascuno di questi strumenti vedremo presupposti di accesso, iter procedurale essenziale, effetti (es. protezione dalle azioni esecutive, sorte dei contratti, ruoli degli organi) e esiti possibili. Inoltre, evidenzieremo i punti di attenzione emersi dalla giurisprudenza più recente. L’obiettivo è fornire un quadro completo affinché imprenditori e consulenti possano valutare cosa fare e quale strada intraprendere a seconda delle circostanze.
Di seguito, a fini orientativi, presentiamo una tabella riepilogativa dei principali strumenti di regolazione della crisi, con indicazione della natura (stragiudiziale/concorsuale), dei requisiti di accesso e delle implicazioni chiave:
Procedura / Strumento | Natura e Finalità | Requisiti di accesso | Implicazioni principali |
---|---|---|---|
Composizione negoziata della crisi | Stragiudiziale volontaria, con assistenza di un esperto indipendente, finalizzata al risanamento aziendale. | Impresa (di qualsiasi dimensione) in stato di crisi o squilibrio economico-finanziario, anche potenzialmente insolvente ma con prospettive di recupero. Richiesta presentata dall’imprenditore alla CCIAA. Accessibile anche se pende istanza di liquidazione giudiziale. | Riservatezza (procedura non pubblica fino a certe richieste), sospensione delle azioni esecutive su richiesta (misure protettive), imprenditore resta alla guida con affiancamento dell’esperto. Esiti possibili: accordi stragiudiziali con creditori, accesso a procedure concorsuali (concordato, accordo di ristrutturazione) o, se fallisce, concordato semplificato per liquidazione. |
Piano attestato di risanamento | Strumento stragiudiziale di risanamento consensuale. Piano industriale e finanziario attestato da un professionista indipendente. | Impresa in crisi o insolvente non irreversibile. Piano deve garantire equilibrio e veridicità dei dati (attestazione). Richiesta di attestazione da parte di un professionista iscritto negli elenchi. | Nessuna omologazione giudiziaria: il piano resta privato tra debitore e creditori aderenti. Protezione limitata: atti e pagamenti eseguiti in esecuzione del piano attestato sono esentati da revocatoria fallimentare. Non sospende azioni esecutive dei non aderenti. Spesso usato con banche per ristrutturazioni del debito. |
Accordo di ristrutturazione dei debiti | Strumento negoziale con omologazione giudiziale. Accordo giuridicamente vincolante con una parte qualificata di creditori, per ristrutturare l’esposizione debitoria. | Impresa (non “minore”) in stato di crisi o insolvenza. Adesione di creditori rappresentanti ≥ 60% dei crediti totali (accordo standard, art.57 CCII). Necessaria attestazione di un professionista sulla fattibilità e sull’integrale pagamento dei creditori estranei nei termini di legge. | Omologazione del tribunale: rende l’accordo efficace anche per eventuali creditori dissenzienti che hanno aderito all’accordo. I creditori estranei (che non aderiscono) devono essere pagati integralmente entro 120 giorni dall’omologazione o dalle scadenze successive, altrimenti l’accordo non può essere omologato. Possibile richiedere misure protettive durante le trattative (salvo nel caso agevolato). Prevede forme speciali: – Accordo agevolato: consente omologazione con adesioni ≥ 30% dei crediti, ma senza misure protettive e con obbligo di pagare integralmente e immediatamente (entro l’omologa) i creditori non aderenti. – Accordo ad efficacia estesa: possibile estendere gli effetti anche ai creditori dissenzienti di una certa categoria (es. finanziari) se aderisce una maggioranza qualificata di tale categoria (previsto dall’art. 61 CCII, ex art. 182-septies L.F.). – Piano di ristrutturazione soggetto a omologazione (PRO): nuovo strumento (art. 64-bis CCII) che permette di derogare alle priorità di pagamento purché tutte le classi di creditori votino a favore; è riservato a imprese fallibili. |
Concordato preventivo in continuità | Procedura concorsuale giudiziale, proposta dal debitore, mirata al risanamento con prosecuzione (diretta o indiretta) dell’attività d’impresa. Il soddisfacimento dei creditori avviene in misura significativa con i proventi generati dalla continuità aziendale. | Impresa in stato di crisi o insolvenza. Ammissibilità subordinata alla presentazione di un piano dettagliato con indicazione della continuità (diretta, indiretta tramite cessione/affitto d’azienda) e alla fattibilità attestata da professionista. Nessuna soglia minima di pagamento dei chirografari prevista ex lege (salvo rispetto del trattamento non inferiore alla liquidazione). Richiede approvazione dei creditori per classi (maggioranza di oltre 50% dei crediti in ogni classe). | Tribunale nomina un commissario giudiziale di vigilanza, ma la gestione resta in mano all’imprenditore (“debitor in possession”) salvo casi di abuso. Automatico blocco delle azioni esecutive dal deposito del ricorso. Possibilità di finanziamenti prededucibili autorizzati dal Tribunale per urgenti necessità aziendali. Se il piano è approvato da tutte le classi, il Tribunale omologa. Se qualche classe vota contro, è ora possibile l’omologazione forzosa (cram-down) in continuità se: (a) almeno una classe ha approvato, (b) i dissenzienti non riceverebbero comunque di più dalla liquidazione e (c) il piano non li pregiudica ingiustamente. La Cassazione ha chiarito che i creditori astenuti (non votanti) non si contano come dissenzienti. Omologato il concordato, l’impresa prosegue la sua attività secondo il piano, sotto vigilanza. Se non omologato, si apre la liquidazione giudiziale. |
Concordato preventivo liquidatorio | Procedura concorsuale giudiziale finalizzata alla liquidazione del patrimonio dell’impresa, in alternativa al fallimento. Il debitore propone di cedere i propri beni ai creditori (anche tramite un assuntore) offrendo condizioni migliorative rispetto alla liquidazione giudiziale. | Impresa insolvente o in crisi irreversibile. Piano di liquidazione con eventuale suddivisione in classi di creditori. Richiesto per legge il soddisfacimento minimo del 20% dei crediti chirografari (e privilegi degradati), salvo apporto di risorse esterne che innalzino la percentuale. Attestazione professionista sulla fattibilità e sul rispetto della soglia 20%. Approvazione per voto: almeno la maggioranza in valore dei crediti ammessi al voto (se classi, maggioranza in ogni classe, salvo cram-down come sopra). | Effetti simili al concordato in continuità: sospensione azioni esecutive, nomina del commissario, gestione in capo al debitore fino all’omologa (salvo nomina eventuale di un amministratore giudiziario se misure cautelari). Dopo l’omologa, si procede alla liquidazione dei beni sotto supervisione (il commissario può diventare liquidatore). I creditori sono soddisfatti con il ricavato, secondo le percentuali previste. Se almeno il 20% dei creditori votanti contesta la convenienza, il Tribunale deve valutare che comunque non otterrebbero di più dal fallimento per omologare (test di convenienza ex art. 112 CCII, cd. cram-down dei contrari). Se il concordato non viene omologato (per voto contrario o altri motivi), segue l’apertura della liquidazione giudiziale. |
Concordato semplificato per la liquidazione | Procedura concorsuale speciale, introdotta nel 2021, riservata ai casi in cui una composizione negoziata non abbia avuto esito positivo. Consente al debitore di ottenere direttamente l’omologazione di un piano liquidatorio senza voto dei creditori. | Ammissibile solo se: l’imprenditore ha svolto una composizione negoziata e le trattative sono fallite (attestato dell’esperto). È necessario presentare un piano che preveda la cessione dell’azienda o di asset a un acquirente individuato, con ricavato da distribuire ai creditori. Deve comunque rispettare le priorità di legge (salvo consenso dei creditori alterati). | Niente adunanza di voto: i creditori non votano sul piano, che viene valutato dal Tribunale. I creditori e qualsiasi interessato possono presentare osservazioni/opposizioni in sede di omologa. Il Tribunale omologa se ritiene che il piano liquidatorio sia vantaggioso (ad esempio evita disfacimento dell’azienda e offre ai creditori un risultato non inferiore al fallimento). Tempi rapidi e iter semplificato rispetto al concordato ordinario. Strumento pensato per evitare il fallimento quando, dopo il fallimento delle trattative, c’è un’opportunità concreta di realizzo (es. un’offerta di acquisto dell’azienda) da cogliere subito. |
Liquidazione giudiziale (già “fallimento”) | Procedura concorsuale liquidatoria disposta dal tribunale su istanza di creditori, del debitore o d’ufficio, accertata l’insolvenza. Mira a liquidare tutto il patrimonio del debitore e distribuire il ricavato secondo le regole di prelazione. | Impresa insolvente e assoggettabile (imprenditore commerciale sopra soglie di fallibilità). L’istanza può provenire da creditore insoddisfatto, dal Pubblico Ministero (in casi particolari) o dallo stesso imprenditore (che “chiede il proprio fallimento”). Non si apre se è in corso una composizione negoziata con misure protettive concesse (principio di sospensione ex art. 7 CCII). | Con la sentenza di liquidazione: spossessamento dell’imprenditore, nominati il curatore (gestisce e liquida beni) e il giudice delegato, formata la massa attiva e passiva (creditori presentano domande di ammissione al passivo). L’impresa cessa l’attività salvo esercizio provvisorio se utile per salvaguardare valore. Gli atti dispositivi del debitore sono inefficaci, i crediti pregressi diventano esigibili e si cristallizzano. Si procede alla vendita dei beni, riparto dell’attivo ai creditori secondo grado (privilegi, poi chirografari pro quota). A fine procedura, l’impresa (se società) è cancellata; se imprenditore individuale, può ottenere l’esdebitazione (cancellazione dei debiti residui) a certe condizioni. La liquidazione giudiziale è la soluzione estrema e indesiderata, da evitare se possibile: comporta costi, tempi lunghi e perdita totale del controllo per l’imprenditore. |
Strumenti per imprenditori minori e sovraindebitati | Procedure concorsuali semplificate, riservate ai debitori non fallibili (imprenditori sotto soglia, imprenditori agricoli, professionisti, consumatori). Analoghe per funzione al concordato preventivo e al fallimento ma con adattamenti. | Concordato minore: accessibile a debitore non fallibile in crisi o insolvente; presupposti simili al concordato preventivo ma senza voto dei creditori (decide il tribunale sulla proposta, valutata la fattibilità e convenienza). Ristrutturazione dei debiti del consumatore o dell’imprenditore minore: accordo con i creditori omologato dal giudice, senza voto o con approvazione della maggioranza (a seconda dei casi), e con particolare tutela dei crediti personali essenziali. Liquidazione controllata: equivalente del fallimento per i non fallibili, su istanza del debitore sovraindebitato che mette a disposizione tutto il proprio patrimonio. | Queste procedure (disciplina originariamente nella L.3/2012, ora integrata nel CCII) offrono al piccolo debitore una via d’uscita dalla crisi con costi ridotti e maggiore attenzione alla sua posizione personale. Ad es.: nel concordato minore non c’è voto ma i creditori possono fare osservazioni; serve il parere di un OCC (Organismo Composizione Crisi) e l’attestazione di fattibilità. In tutti i casi, a fine procedura la persona può ottenere l’esdebitazione (liberazione dai debiti residui) se ha cooperato lealmente. Questi strumenti sono fondamentali per le micro-imprese e le persone fisiche, poiché le procedure ordinarie sarebbero sproporzionate per loro. |
(Tabella 1 – Principali strumenti di regolazione della crisi d’impresa: natura, requisiti e implicazioni)
Come si evince dalla tabella, l’ordinamento offre una gamma completa di soluzioni, dalla negoziazione volontaria e riservata (composizione negoziata, piani attestati) fino agli interventi giudiziari più invasivi (concordati e liquidazioni). La scelta dello strumento giusto è spesso l’elemento decisivo tra un tentativo di salvataggio riuscito e un fallimento rovinoso. Nelle sezioni seguenti approfondiremo ciascuna procedura e forniremo consigli pratici su quando e come utilizzarla, anche alla luce di ciò che prevede la legge e di come i tribunali la stanno applicando nelle situazioni concrete.
3.1 Composizione negoziata della crisi d’impresa
Cos’è: La composizione negoziata per la soluzione della crisi d’impresa (CNC) è un istituto introdotto di recente (dal 15 novembre 2021, con D.L. 118/2021 conv. L.147/2021) e ora disciplinato negli artt. 12-25-quater del CCII. Si tratta di un percorso volontario, riservato e stragiudiziale, con cui l’imprenditore in difficoltà cerca un accordo con i propri creditori per risanare l’impresa, avvalendosi dell’ausilio di un esperto indipendente nominato da un’apposita commissione presso la Camera di Commercio. La composizione negoziata non è una procedura concorsuale in senso classico (non comporta l’apertura di un concorso formale né lo spossessamento) ma è uno strumento di soluzione assistita della crisi, ispirato a logiche di early restructuring promosse a livello europeo.
Obiettivo: Favorire il risanamento di imprese che, pur trovandosi in situazione di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario, hanno potenzialità di permanere sul mercato. In pratica, l’impresa che vede profilarsi una crisi può attivare la CNC per congelare temporaneamente le azioni dei creditori (grazie a misure protettive) e condurre negoziazioni facilitate dall’esperto, al fine di trovare un accordo (o più accordi) con i creditori che eviti l’insolvenza e possibilmente assicuri la continuità aziendale. È uno strumento pensato specialmente per le PMI, che spesso in passato arrivavano tardi alle procedure concorsuali; con la CNC possono giocare d’anticipo.
Presupposti e accesso: Può richiederla qualsiasi imprenditore commerciale o agricolo (anche sotto soglia fallimento), di qualsiasi dimensione, che si trovi in condizioni di squilibrio o crisi tali da far presumere il rischio di insolvenza, ma con prospettive di risanamento. Non vi sono limiti dimensionali (inizialmente c’erano discussioni se l’imprenditore “minore” potesse accedere, ma il correttivo-ter 2024 ha chiarito che sì, può farlo anche se non soggetto a fallimento, sebbene per i piccoli restino aperte pure le procedure di sovraindebitamento). L’istanza si presenta tramite piattaforma telematica presso la Camera di Commercio competente, allegando informazioni economico-patrimoniali, situazione debitoria, e indicando le cause della crisi. Una commissione nomina entro 5 giorni un esperto indipendente (scelto da un elenco nazionale) che guiderà la procedura.
Importante: la recente prassi e normativa hanno confermato che la composizione negoziata è ammissibile anche se vi è già una richiesta di liquidazione giudiziale pendente, a patto che la sentenza dichiarativa di liquidazione non sia ancora stata emessa. In tal caso, l’imprenditore deve agire prontamente chiedendo l’ammissione alla CNC e le misure protettive: il tribunale, rilevato ciò, sospenderà l’iter della domanda di fallimento in attesa dell’esito della composizione (in ossequio al principio di priorità delle soluzioni conservative ex art. 7 CCII). Questa coesistenza è stata riconosciuta da varie sentenze di merito. Ad esempio, il Tribunale di Trani (30 settembre 2023) ha ritenuto ammissibile la richiesta di misure protettive durante la composizione negoziata nonostante una precedente istanza di liquidazione presentata dai creditori, valorizzando il favor legislativo per il risanamento. Parimenti, il Tribunale di Tempio Pausania (12 ottobre 2023) ha ammesso un imprenditore alla CNC malgrado vi fosse già istanza di fallimento, interpretando in senso sistematico l’art. 25-quinquies CCII e confermando le misure protettive a fronte di una relazione dell’esperto che prospettava la possibilità di risanamento con supporto finanziario bancario.
Nomina e ruolo dell’esperto: L’esperto nominato è figura chiave: deve essere indipendente, con esperienza in ristrutturazioni, e privo di conflitti di interesse. Egli studia la situazione aziendale e, insieme all’imprenditore, redige un primo piano di risanamento possibile o comunque individua le opzioni negoziali. Convoca i creditori per colloqui e trattative, cercando soluzioni accettabili per tutti. L’esperto non ha poteri gestori sull’impresa, ma funge da mediatore/facilitatore e da certificatore di trasparenza: può chiedere informazioni all’imprenditore, e riferisce con relazioni periodiche sull’andamento delle trattative. Se l’imprenditore è poco collaborativo o fornisce dati falsi, l’esperto può decidere di chiudere anticipatamente la procedura con esito negativo, relazionando il tutto (in certi casi ciò può dare spunto a iniziative dei creditori). Durante la CNC, gli amministratori restano pienamente in carica e continuano l’attività ordinaria; per gli atti di straordinaria amministrazione devono però informare l’esperto, e se intendono compiere atti particolarmente rilevanti (ad es. nuove finanziamenti prededucibili, vendite di rami aziendali) possono chiedere al tribunale un’autorizzazione specifica ex art. 22 CCII. Questo per bilanciare flessibilità e tutela dei creditori.
Misure protettive: Uno dei vantaggi principali della CNC è la possibilità, per l’imprenditore, di richiedere al tribunale l’applicazione di misure protettive del patrimonio. In pratica, dal giorno di pubblicazione dell’istanza sul registro delle imprese, il debitore può ottenere la sospensione temporanea di azioni esecutive e cautelari dei creditori sul proprio patrimonio. Le misure protettive iniziali durano fino a 4 mesi (prorogabili di altri 4) e impediscono, ad esempio, pignoramenti, sequestri, o l’esecuzione di sentenze di fallimento. I creditori interessati dalle misure non possono neppure acquisire titoli di prelazione se non concordati. È importante notare che tali misure non sono automatiche: vanno richieste con ricorso al tribunale, che valuta se concederle (verificando che non vi sia pregiudizio grave per i creditori e che la prospettiva di risanamento non sia manifestamente assente). Con il terzo correttivo 2024, è stato chiarito che l’imprenditore può anche formulare alle Agenzie fiscali (Entrate e Riscossione) proposte di transazione fiscale durante la composizione negoziata, per ottenere ad esempio il pagamento parziale e dilazionato di imposte. Questo strumento, prima consentito solo nel concordato o negli accordi di ristrutturazione, ora è utilizzabile anche in sede stragiudiziale protetta, facilitando la partecipazione del Fisco alle trattative. Le misure protettive accordate dal tribunale bloccano anche le istanze di fallimento: non può essere dichiarata l’apertura della liquidazione giudiziale finché sono in corso le trattative e i termini di protezione. Ciò offre un “periodo di respiro” all’impresa per cercare soluzioni.
Va sottolineato che l’accesso alle misure protettive comporta l’annotazione nel registro delle imprese, quindi da quel momento la procedura da riservata diventa conoscibile dai terzi (tutela della pubblicità per i creditori). Se l’imprenditore preferisce restare sotto traccia, può iniziare la CNC senza subito richiedere misure protettive (cosiddetta fase riservata); tuttavia, senza misure c’è il rischio che qualche creditore agisca individualmente, vanificando lo sforzo negoziale. Spesso si opta per chiedere subito la protezione per lavorare in tranquillità.
Svolgimento delle trattative: L’imprenditore, con la guida dell’esperto, predispone un piano di risanamento provvisorio e avvia contatti con i principali creditori (banche, fornitori strategici, Fisco se rilevante). L’esperto convoca incontri (anche telematici) tra le parti, cercando di far emergere possibili soluzioni: ad esempio accordi di ristrutturazione del debito (riduzioni, dilazioni, conversione debiti in capitale), apporto di nuova finanza dai soci o da terzi, cessione di asset non strategici, modifiche organizzative. Il vantaggio della CNC è che fornisce un quadro neutrale in cui le parti possono dialogare senza il “trauma” di un fallimento già aperto, e con la supervisione di un esperto che garantisce chiarezza di informazioni. I creditori sono più incentivati a cooperare se vedono uno sforzo serio di risanamento e la prospettiva di recuperare più crediti rispetto a uno scenario liquidatorio. Durante le trattative, l’imprenditore continua la gestione ordinaria; per atti che esulano dall’ordinario deve informare l’esperto e, se reputa, chiedere l’autorizzazione del tribunale (ad esempio per ottenere finanziamenti prededucibili utili alla continuità aziendale, oppure per cedere l’azienda o rami di essa senza aspettare un eventuale concordato). Tali atti autorizzati e i finanziamenti erogati godono di preferenza in caso di successivo fallimento, incoraggiando supporti durante la CNC.
Esiti possibili: La composizione negoziata può concludersi essenzialmente in tre modi:
- Accordo stragiudiziale con tutti o principali creditori – Se le trattative vanno a buon fine, l’imprenditore e i creditori sottoscrivono uno o più accordi di ristrutturazione privatistici (ad esempio: piani di rientro bilaterali, modifiche contrattuali, remissioni parziali di debito, nuovi finanziamenti) che, combinati, risolvono la situazione di crisi. In tal caso, l’esperto redige una relazione finale positiva e la procedura termina con un archiviazione. Gli accordi in sé non necessitano di omologazione (a meno che non si voglia trasformarli in un “accordo di ristrutturazione ex art.57 CCII” per renderli vincolanti erga omnes). La chiusura della CNC è comunicata al registro imprese ma senza effetti pregiudizievoli. Da notare: se si raggiungono accordi con alcuni creditori ma non con altri, il debitore potrebbe comunque depositare uno strumento concorsuale per regolare i dissenzienti (vedi punto 2).
- Accesso a una procedura concorsuale – In alternativa o in aggiunta agli accordi stragiudiziali, l’imprenditore durante o al termine della CNC può decidere di accedere ad una procedura formale prevista dal CCII: ad esempio presentare domanda di concordato preventivo (anche nella forma semplificata, se ricorrono i presupposti) oppure proporre un accordo di ristrutturazione dei debiti da omologare dal tribunale, o ancora predisporre un piano attestato di risanamento. La scelta può dipendere dal fatto che le trattative siano andate a buon fine solo con alcuni creditori ma non con altri. In tal caso la CNC funge da preparazione: le informazioni raccolte e il dialogo con l’esperto aiutano a imbastire, ad esempio, un concordato più solido. Se si deposita la domanda di concordato o accordo entro la fine della CNC, si può usufruire di alcune agevolazioni (come l’esenzione da alcune revocatorie). Vi è anche una procedura specifica: il concordato preventivo “minore” se l’imprenditore è non fallibile (lo tratteremo più avanti).
- Esito negativo e liquidazione – Se le trattative falliscono completamente e non vi sono soluzioni, l’esperto lo certifica nella relazione finale. A questo punto l’imprenditore insolvente può trovarsi costretto a subire la liquidazione giudiziale (il fallimento). Tuttavia, proprio per evitare un immediato fallimento in caso di esito negativo, l’ordinamento consente al debitore un’ultima carta: presentare un concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio entro 60 giorni dall’archiviazione della CNC (art. 25-sexies CCII). Questo strumento, come visto, permette di proporre al tribunale la cessione di beni a beneficio dei creditori senza passare per il voto assembleare. In pratica, se ad esempio durante la CNC era emersa un’offerta di acquisto dell’azienda da parte di un terzo ma non c’era accordo unanime dei creditori, il debitore può chiedere al giudice di approvare la vendita e distribuire il ricavato ai creditori secondo legge, evitando la procedura fallimentare ordinaria. Il concordato semplificato è dunque un modo per chiudere in maniera controllata la vicenda, riducendo tempi e costi rispetto al fallimento.
Vantaggi e incentivi: La composizione negoziata è concepita per essere attrattiva per l’imprenditore in crisi. Riassumendone i vantaggi:
- Nessuno stigma né pubblicità iniziale: la procedura parte in modo riservato, senza pubblicazione, almeno finché non si chiedono misure protettive. Questo tutela la reputazione dell’azienda e le relazioni con clienti/fornitori.
- Continuità gestionale: l’imprenditore mantiene la gestione ordinaria, a differenza di un fallimento. Non c’è spossessamento, l’esperto affianca soltanto.
- Flessibilità: non ci sono vincoli rigidi di legge sul contenuto delle proposte, come invece in concordato. Si può spaziare in soluzioni creative e su misura per i creditori coinvolti.
- Tempi rapidi: la CNC dura al massimo 180 giorni (prorogabili a 240 in casi complessi). È quindi un tentativo relativamente breve, che evita di trascinare la crisi a lungo.
- Protezione dai creditori aggressivi: grazie alle misure protettive, l’imprenditore può negoziare in un ambiente “protetto”, evitando il rischio di pignoramenti o istanze di fallimento nel frattempo.
- Incentivi fiscali e penali: durante la CNC e successivamente in caso di esito positivo, sono previste alcune agevolazioni. Ad esempio, gli atti firmati in esecuzione degli accordi raggiunti non sono soggetti a revocatoria fallimentare (perché se si raggiunge accordo, il fallimento è evitato). Sul piano penale, gli amministratori che durante la CNC contraggono finanziamenti poi non rimborsati non incorrono in reati come bancarotta preferenziale. Inoltre, il D.Lgs. 83/2022 ha esteso alle trattative in CNC la possibilità di proporre transazione fiscale, e il D.Lgs. 136/2024 ha introdotto la falcidia dell’IVA e delle ritenute anche negli accordi raggiunti in CNC (cosa prima non ammessa).
- Costi contenuti: rispetto a un fallimento o a un concordato, la CNC ha costi minori (non ci sono curatore o commissario da pagare; l’esperto è pagato secondo tariffe fissate e spesso in parte coperto da Camere di Commercio). Inoltre lo Stato ha previsto un credito d’imposta per remunerare i professionisti che assistono l’impresa nel piano di risanamento (commercialisti, avvocati) al termine della CNC, come incentivo.
Giurisprudenza rilevante: Essendo uno strumento nuovo, la giurisprudenza si va formando. Oltre alle pronunce già citate sulla coesistenza con istanze di fallimento, segnaliamo:
- Tribunale di Milano, 28 aprile 2022: ha delineato i criteri per la concessione delle misure protettive, enfatizzando che il giudice non entra nel merito del piano ma verifica solo l’assenza di pregiudizio grave ai creditori.
- Tribunale di Roma, decreto 25 febbraio 2025: ha ribadito che la CNC crea un “ambiente negoziale” protetto in cui debitore e creditori possano trattare con l’aiuto dell’esperto senza escalation conflittuale.
- Tribunale di Brescia, 15 luglio 2022: in un caso di successiva domanda di concordato preventivo al termine di CNC, ha chiarito che i termini per il deposito del piano decorrono ex novo e che gli atti compiuti durante la CNC (ad es. pagamenti autorizzati) non pregiudicano la par condicio.
- Cassazione (ord. n. 648/2022): sebbene riferita alla vecchia composizione assistita poi soppressa, ha offerto principi sulla natura non decisoria dell’esperto e sulla possibilità di contestare in sede fallimentare eventuali abusi durante la fase negoziale.
Conclusione sulla CNC: La composizione negoziata rappresenta oggi la prima opzione da valutare “in caso di crisi aziendale” per le imprese che abbiano ancora un barlume di continuità da salvare. Consente di giocare d’anticipo e tentare soluzioni win-win con i creditori, avvalendosi di un supporto qualificato e della protezione del tribunale senza però le rigidità di una procedura concorsuale. Naturalmente non sempre funziona – se l’impresa è troppo compromessa o i creditori troppo ostili, si dovrà ripiegare su altre vie – ma vale la pena di provarci, come peraltro richiesto dal dovere di attivarsi tempestivamente. Nella sezione simulazioni vedremo un esempio pratico di come una PMI in crisi finanziaria può utilizzare proficuamente la CNC.
3.2 Piani attestati di risanamento
Cos’è: Il piano attestato di risanamento è uno strumento di origine privatistica, già noto sotto la vigenza della legge fallimentare (ex art. 67, co.3, lett. d L.F.) e ora disciplinato dall’art. 56 CCII. Consiste in un piano di risanamento aziendale predisposto dall’imprenditore in crisi, corredato da un’attestazione di un professionista indipendente circa la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano stesso. È, in sostanza, un progetto di ristrutturazione concordato con i creditori al di fuori delle procedure concorsuali, che gode però di alcuni effetti protettivi di legge. Il piano attestato non richiede l’intervento di un tribunale per essere valido né un’omologazione: la sua efficacia discende dall’accordo delle parti e dall’attestazione. È uno strumento molto flessibile e confidenziale, spesso utilizzato per operazioni di ristrutturazione del debito con banche o per rinegoziare l’indebitamento senza passare per il concordato.
Finalità: Permettere all’impresa in crisi di attuare un risanamento rapido e concordato con i creditori chiave, evitando le formalità delle procedure concorsuali, e allo stesso tempo mettere al riparo talune operazioni dal rischio di essere revocate in un eventuale fallimento successivo (ecco perché era inserito nell’art. 67 L.F. tra le esenzioni da revocatoria). In pratica, l’imprenditore definisce un piano (che può prevedere nuove linee di credito, dilazioni, conversione debiti in capitale, cessioni di beni, etc.) e ottiene l’adesione dei principali creditori, tipicamente in modo bilaterale o in un accordo multiparte. Il professionista attestatore funge da garante terzo dell’affidabilità del piano. Se il risanamento riesce, bene; se sfortunatamente l’impresa fallisce comunque più tardi, almeno le operazioni compiute in esecuzione del piano non potranno essere attaccate come “pagamenti preferenziali” o “attivi distratti”, purché rientrassero nel piano attestato.
Requisiti e contenuti del piano: Non esistono soglie minime di debiti o di consensi: il piano attestato può essere utilizzato in qualunque situazione di “stato di crisi o insolvenza” (così recita l’art. 56 CCII) in cui l’imprenditore ritenga di poter risanare l’azienda e convincere almeno alcuni creditori strategici a supportarlo. Tipicamente è usato nelle crisi precoce, dove c’è un numero limitato di creditori rilevanti (es. le banche finanziatrici) con cui negoziare modifiche ai piani di rientro, talora affiancate da apporti di soci. Il piano deve essere rivolto ai creditori (presenti e futuri) e contenere le misure di risanamento previste e l’orizzonte temporale del riequilibrio. Può includere sia misure sul lato finanziario (ristrutturazione debiti) che sul lato industriale (ristrutturazione operativa, taglio costi, dismissione asset non core, ecc.). La norma non impone un contenuto specifico, ma la prassi suggerisce di includere: analisi dello stato dell’azienda, cause della crisi, dettagli sulle misure da adottare, proiezioni di cash flow e bilanci previsionali a medio termine (es. 3-5 anni) evidenziando come si ritroverà l’equilibrio e come saranno soddisfatti i creditori. Il piano deve essere “idoneo a consentire il risanamento dell’esposizione debitoria dell’impresa e assicurare il riequilibrio della situazione finanziaria” (formula classica della norma).
Attestazione del professionista: Cuore del meccanismo è l’attestazione rilasciata da un esperto indipendente (un commercialista, consulente aziendale o revisore con adeguata esperienza in ristrutturazioni, iscritto all’albo dei gestori crisi d’impresa). L’attestatore esamina i dati aziendali forniti dall’imprenditore, li verifica (ricordiamo che false comunicazioni all’attestatore possono configurare reato) e giudica “veritieri” i dati di partenza e “fattibili” le strategie di risanamento prospettate. L’attestazione è un documento formale allegato al piano, che genera affidamento nei terzi. Non garantisce il successo (non è assicurazione), ma certifica che il piano ha basi solide e realistiche. La presenza di un’attestazione qualificata è ciò che distingue un piano qualsiasi da un piano attestato ex art.56.
Accordi con i creditori: Una volta redatto e attestato, il piano viene presentato ai creditori. Non esiste un “voto” collettivo come nel concordato; ogni creditore è libero di aderire o meno alle modifiche proposte. In genere si formalizza la loro adesione tramite scritture private. Non è neppure necessario che tutti i creditori aderiscano: l’importante è che aderiscano quelli indispensabili per risanare (per es., la banca che deve concedere nuova finanza o rollare il debito, i fornitori principali per eventuali dilazioni, il fisco per un’eventuale rateazione ordinaria, etc.). I creditori non coinvolti nel piano restano estranei e con i loro diritti inalterati – per questo l’uso del piano attestato è indicato quando la crisi è circoscritta e gestibile con pochi stakeholder.
Effetti e protezione legale: Il piano attestato, di per sé, non sospende le azioni individuali dei creditori estranei (a differenza di concordato e accordi ex art.57). Non c’è alcun decreto che fermi i pignoramenti. La tutela offerta è principalmente postuma: se malauguratamente l’impresa finisse poi in liquidazione giudiziale, gli atti, pagamenti e garanzie poste in essere in esecuzione del piano attestato non sono soggetti a revocatoria fallimentare. Ciò è fondamentale per dare fiducia ai creditori che aderiscono: sanno che, se anche poi dovesse fallire l’azienda, i pagamenti ricevuti o le ipoteche concesse come parte del piano non verranno revocati dal curatore. Senza questa protezione, i creditori sarebbero molto riluttanti ad appoggiare un piano extragiudiziale, temendo che anni dopo possano essere costretti a restituire quanto incassato. La legge li rassicura: se il piano era attestato e serio, non puniamo chi vi ha partecipato.
Va detto che questa esenzione da revocatoria vale a condizione che il piano abbia effettivamente i requisiti di legge (idoneità al risanamento e attestazione veritiera): se emergesse che il piano era fraudolento o che l’attestazione era compiacente, l’ombrello cade (il curatore potrebbe agire in revocatoria mostrando che il piano era solo schermo). È quindi essenziale la correttezza del processo.
Differenze rispetto ad altri strumenti: Il piano attestato si colloca a metà tra il fai-da-te e il concordato. Rispetto alla composizione negoziata, è più “leggero” perché non coinvolge né esperti nominati né tribunale; può essere attivato anche senza formalità e a qualsiasi stadio (anche all’ultimo minuto prima di un fallimento, se si trova un accordo-lampo con una banca per saldare i debiti, attestando un piano di rifinanziamento). Rispetto agli accordi di ristrutturazione ex art.57, non richiede soglie di consenso né omologa: è sufficiente convincere bilateralmente i creditori cruciali. D’altro canto, non dà protezione attiva (stay) e non vincola i dissenzienti: se un creditore non firma, resta libero di agire e magari far saltare il banco. Inoltre il piano attestato non può imporre tagli coattivi di debito ai non aderenti – al massimo si può sperare di pagarli coi flussi generati dal piano.
Quando utilizzarlo: Tipicamente quando: (a) il numero di creditori da coinvolgere è ristretto (es. solo le banche, o banca + socio finanziatore); (b) la crisi non è troppo profonda e si confida in un recupero rapido (il piano attestato di solito si usa per risolvere squilibri di liquidità temporanei, non per insolvenze pesanti); (c) la direzione aziendale vuole evitare come la peste la pubblicità e i costi di un concordato; (d) c’è fiducia reciproca con i creditori, che quindi possono accontentarsi di un accordo privato con l’attestazione come comfort.
Esempio classico: PMI che ha avuto un calo di fatturato e accumulato ritardi con le banche, ma possiede ancora un buon modello di business. La banca preferisce rinegoziare il credito (allungando le scadenze, rinunciando a interessi di mora) in cambio di nuove garanzie dei soci, piuttosto che portarla a default. Si fa un piano a 3 anni, con nuovi apporti di capitale dei soci e rifinanziamento bancario, l’esperto lo attesta, la banca firma. Se tutto va bene, l’azienda esce dalla crisi senza tribunale. Se andrà male e fallirà, almeno la banca è protetta sulla ristrutturazione che aveva concesso.
Giurisprudenza recente: I piani attestati esistono da più di un decennio, quindi esiste casistica, soprattutto in termini di responsabilità di attestatori e condizioni di validità. Alcuni punti emersi:
- Cassazione 1521/2013: ha stabilito che l’attestatore risponde civilmente se la sua relazione è redatta con negligenza e ciò inganna i creditori (caso di dati aziendali non verificati a dovere).
- Tribunale di Milano 2020: un piano attestato estremamente lungo (8 anni) è stato ritenuto non idoneo, perché la legge presuppone un orizzonte temporale ragionevole; un periodo troppo esteso rende l’attestazione poco credibile.
- Cassazione 2021 (sent. 8500/2021): ha confermato che l’esenzione da revocatoria si applica anche ai pagamenti ai creditori estranei se previsti dal piano, purché funzionali al risanamento (questo è stato dibattuto; la Cassazione sembra dire che se nel piano c’era scritto di pagare anche alcuni estranei per continuità, quei pagamenti non sono revocabili).
- Alcune pronunce (Trib. Roma 2016) hanno enfatizzato la necessità che il piano sia “rivolto ai creditori”: ciò significa comunicare il piano ai creditori interessati, non tenerlo nel cassetto. La mancanza di adeguata comunicazione ai creditori compromette la qualifica di piano ex art.67/56.
Conclusione: Il piano attestato di risanamento è un utile strumento di “soft restructuring”. Richiede un alto grado di fiducia tra impresa e creditori e la presenza di un piano veramente credibile. È spesso la soluzione preferita quando la situazione non è disperata e si vuole evitare di “mettere il piede in tribunale”. Per gli avvocati e consulenti, è importante assicurarsi che la procedura di attestazione sia rigorosa e documentata, perché in caso di insuccesso del risanamento, verrà passata al setaccio dal curatore fallimentare. Nella gerarchia degli strumenti, possiamo dire che un piano attestato ben fatto è l’ideale prima di arrivare a considerare un accordo di ristrutturazione o un concordato. Se però non si riesce a coinvolgere abbastanza creditori o servono effetti più estesi, bisogna passare a strumenti omologati che vediamo ora.
3.3 Accordi di ristrutturazione dei debiti
Cosa sono: Gli accordi di ristrutturazione dei debiti (ARD) sono accordi negoziati tra il debitore e una parte significativa dei suoi creditori, che vengono però “integrati” dall’omologazione del tribunale per acquisire efficacia generale e alcune protezioni. Introdotti originariamente nel 2005 (art. 182-bis L.F.), oggi sono disciplinati dagli artt. 57-64 CCII. Si possono considerare una via di mezzo tra la trattativa privata e il concordato preventivo: a differenza del concordato, non coinvolgono tutti i creditori con voto (solo quelli che aderiscono ne sono parte attiva), ma, a differenza del piano attestato, richiedono il raggiungimento di una percentuale minima di consensi e l’approvazione giudiziale che li rende efficaci anche verso i creditori non aderenti (per i quali però è garantito il pagamento integrale). Sono dunque strumenti di soluzione concordata ma con l’ausilio e il controllo del tribunale.
Percentuali di adesione: La versione standard degli accordi di ristrutturazione prevede che l’imprenditore in crisi ottenga l’adesione di creditori rappresentanti almeno il 60% del totale dei crediti (importo complessivo). Tale soglia – rimasta invariata – implica che devono essere d’accordo la maggior parte dei creditori (in valore), sebbene non la totalità. Normalmente, l’impresa in crisi individua quali creditori occorra coinvolgere (ad es. banche, obbligazionisti, fornitori strategici) e negozia con loro un piano di ristrutturazione (che può includere stralci parziali dei crediti, scadenze allungate, cambi di condizioni, ecc.), convincendoli a firmare un accordo formale. Se riesce a ottenere firme per il 60% dei crediti, può chiedere l’omologazione dell’accordo, che – una volta concessa – rende l’accordo efficace anche per i creditori che non hanno firmato (purché vengano rispettate certe tutele per questi ultimi). In pratica, l’omologazione serve a “cristallizzare” la situazione: i creditori aderenti sono vincolati a quanto pattuito, e i creditori non aderenti non possono intralciare il piano perché tanto devono comunque essere pagati per intero come da accordo.
Pagamento integrale dei non aderenti: Punto cardine è infatti che i creditori estranei (che non hanno sottoscritto l’accordo) devono essere soddisfatti integralmente entro il termine del piano e comunque non oltre 120 giorni dall’omologazione (o dalla scadenza del loro credito se posteriore). Questa previsione, oggi nell’art. 57 co.3 CCII, garantisce che chi non ha acconsentito all’accordo non subisce una decurtazione o dilazione forzata: al massimo aspetta qualche mese, ma viene pagato al 100%. Ciò rende l’accordo di ristrutturazione meno “invasivo” del concordato (dove anche i dissenzienti possono essere falcidiati, salvo classi protette). D’altra parte, implica che l’accordo è fattibile solo se l’impresa è in grado di assicurare il pagamento totale di chi non firma – il che spesso richiede che la platea dei non aderenti sia limitata o che ci siano risorse sufficienti (es. nuova finanza) per coprirli.
Procedura di omologazione: L’iter è il seguente: una volta raccolte le adesioni necessarie, l’imprenditore deposita ricorso in tribunale chiedendo l’omologa, allegando l’accordo firmato, una relazione di un professionista attestatore che dichiara che l’accordo è idoneo ad assicurare l’integrale pagamento dei creditori estranei nei termini (e veridicità dati), e tutta la documentazione contabile. Il tribunale, in camera di consiglio, verifica la regolarità e soprattutto la fattibilità economica dell’accordo, cioè se l’impresa presumibilmente potrà rispettare l’accordo e pagare gli estranei. Se non vi sono opposizioni o queste vengono respinte, il giudice omologa l’accordo. Da notare che i creditori estranei e dissenzienti hanno facoltà di opporsi all’omologazione, ma con margini limitati: possono contestare che l’accordo li pregiudichi (ma appunto la legge prevede che siano pagati al 100%, quindi l’unico pregiudizio sarebbe un ritardo di pagamento, considerato fisiologico). Possono anche opporsi se ritengono che l’accordo sia incapace di risanare l’impresa e li esporrà ad un futuro fallimento perdendo tempo – ma se l’attestatore ha detto il contrario e la maggioranza ha fiducia, il giudice tende ad omologare comunque, salvo errori macroscopici.
Con l’omologazione, l’accordo diviene efficace erga omnes: esso viene pubblicato al registro imprese ed è vincolante per tutti i creditori elencati. I creditori aderenti vengono soddisfatti nelle misure e tempi previste dall’accordo (es: stralcio 20% del credito e saldo in 5 anni, ecc.), i non aderenti devono venire pagati integralmente nei termini legali come detto.
Misure protettive e gestione interim: Durante la fase delle trattative per raggiungere l’accordo, l’impresa può chiedere al tribunale l’applicazione di misure protettive analoghe a quelle viste per la CNC: sospensione delle azioni esecutive per dare tempo di negoziare e depositare l’accordo. Questa possibilità esiste tuttavia solo per l’accordo standard (60%); non è consentita per l’accordo “agevolato” 30% (come specifica l’art. 61 co.5 CCII). Inoltre, con la domanda di omologa, l’imprenditore può chiedere misure cautelari (es. bloccare azioni nel frattempo). Va anche sottolineato che, dal momento del deposito del ricorso di omologa e per 90 giorni dopo l’omologa, i creditori non possono acquisire ipoteche o pegni salvo consenso (divieto di “favoritismi” durante la fase protetta).
L’impresa durante l’accordo di ristrutturazione resta in bonis: non c’è procedura concorsuale aperta, l’azienda prosegue la gestione normale. In caso di successivo inadempimento dell’accordo, i creditori potranno agire (l’accordo non produce effetti se non viene attuato, e si potrà in quel caso anche aprire un fallimento).
Varianti speciali degli accordi: Il CCII – recependo la Direttiva UE 2019/1023 – ha introdotto due importanti varianti, già anticipate nel 2021:
- Accordo di ristrutturazione agevolato (art. 60 CCII): come accennato, consente di depositare un accordo anche con una percentuale di adesioni più bassa, almeno 30% dei crediti totali. È pensato per situazioni in cui l’imprenditore può contare solo su una minoranza “qualificata” di creditori a favore, ma comunque sufficiente a finanziare/rendere possibile il piano di risanamento, mentre ha rapporti non conflittuali con gli altri creditori che possono essere pagati integralmente. Le condizioni particolari di questo accordo sono: (a) non è ammessa la richiesta di misure protettive, proprio perché serve ad anticipare soluzioni di crisi lieve (l’azienda deve reggere senza blocco dei creditori); (b) bisogna pagare integralmente e subito (entro l’omologazione) i creditori estranei; (c) è comunque necessaria l’attestazione di fattibilità. L’accordo agevolato mira a intercettare la fase nascente della crisi, offrendo uno strumento rapido: in pratica, se un imprenditore riesce a convincere un 30% di creditori rilevanti e ottiene magari nuova finanza, può formalizzare un accordo e farlo omologare, senza dover arrivare al 60%. Questo strumento è meno usato nella prassi finora, ma è utile per crisi contenute o molto circoscritte a pochi creditori (es: convinco 30% – ad esempio una banca grande – a sostenere il piano e pago gli altri piccoli).
- Accordo ad efficacia estesa (art. 61 CCII): questo è mutuato dal vecchio art. 182-septies L.F. e consente di estendere gli effetti dell’accordo anche ai creditori dissenzienti appartenenti ad una certa categoria omogenea, purché nel loro ambito si sia raggiunta una maggioranza qualificata. In pratica, nasce per i creditori finanziari (banche, obbligazionisti): se ad esempio 75% delle banche per valore aderisce alla ristrutturazione del debito bancario, l’accordo può essere esteso anche al restante 25% di banche non firmatarie, con approvazione del tribunale. Questo consente di superare possibili comportamenti opportunistici di minoranze che non aderiscono sperando di essere pagate per intero: se la maggior parte della categoria ha detto sì e il piano garantisce equo trattamento, i pochi dissenzienti vengono obbligati ad accettare le stesse condizioni pattuite dalla maggioranza. È un mini-cramdown all’interno di un accordo. Ovviamente richiede condizioni stringenti: deve trattarsi di creditori omogenei (tipicamente finanziari), avere almeno 75% di adesione in quella classe (soglia fissata dalla legge), assicurare ai dissenzienti un trattamento non inferiore a quello che avrebbero avuto in un concordato liquidatorio o rispetto ad altre alternative (best interest test). L’esperto indipendente attesta anche questo. Se tutto ok, il giudice omologa estendendo gli effetti. Questo strumento è molto utile nelle ristrutturazioni di debiti bancari, dove spesso c’è un pool di banche: evita che una piccola banca contraria faccia saltare l’accordo.
- Piano di ristrutturazione soggetto a omologazione (PRO): ne abbiamo parlato nella tabella e introduzione. Pur essendo rubricato diversamente (art. 64-bis CCII), può essere visto come una variante ulteriore: qui si costituiscono classi di creditori e serve addirittura il consenso unanime di tutte le classi. Se c’è unanimità, il tribunale omologa il piano che può anche prevedere deroghe alla par condicio (es. pagare in percentuale diversa da privilegio). È uno strumento di nicchia, destinato a imprese di maggiori dimensioni con strutture di debito complesse, dove tutti i creditori significativi sono disposti a concordare una soluzione creativa. Se anche un sola classe dice no, il PRO non si può omologare (si dovrebbe allora virare su un concordato preventivo, che consente omologazione non unanime con cramdown, come visto). Il PRO dunque è un accordo “universale” omologato. La differenza con un concordato approvato al 100% potrebbe sembrare sottile, ma il PRO permette di derogare alle cause legittime di prelazione con il consenso unanime (cosa non possibile in concordato se non con consenso individuale di ciascun privilegiato che perde grado). Ad esempio, in PRO tutte le classi hanno accettato che un creditore chirografario strategico sia pagato al 50% mentre gli altri chirografari al 30%: si può fare perché tutti hanno concordato quella distribuzione. Nel concordato no, bisognerebbe creare classi diverse e convincere quell’uno a votare sì.
Novità 2024: Il D.Lgs. 136/2024 ha introdotto alcune novità importanti per gli accordi di ristrutturazione: in particolare disposizioni sul cram-down. Ha chiarito che, nel caso in cui uno o più creditori pubblici (Agenzia Entrate, INPS) non aderiscano all’accordo, il tribunale può omologare ugualmente l’accordo se ritiene che il trattamento loro riservato rispetti il principio di miglior soddisfacimento (in pratica, un cram-down fiscale). Prima c’erano incertezze se fosse possibile bypassare il dissenso del Fisco in un accordo; ora si tende a dire di sì, in certi casi, analogamente a quanto previsto nel concordato. Inoltre, come accennato, ora il Fisco può accettare stralci di IVA e ritenute anche in un accordo (prima vietato): segno di un atteggiamento più flessibile dello Stato per favorire gli accordi (lo stesso FiscoOggi evidenzia il “sì alla falcidia fiscale” nel correttivo).
Quando conviene un accordo di ristrutturazione: In generale, quando l’impresa è ancora viable (ha prospettive di stare in piedi) ma è appesantita da un debito eccessivo o squilibrato. Se riesce ad ottenere il consenso della maggior parte dei creditori su un piano di rientro/dismissioni/riorganizzazioni, l’accordo consente di evitare il fallimento, evitare l’interferenza di estranei (commissari) e mantenere un rapporto consensuale con i creditori (che è sempre meglio di un imposizione unilaterale). Rispetto al concordato, l’accordo è più rapido (non c’è fase di voto con tutte le complicazioni, c’è solo l’omologa) e di solito meno costoso in termini di reputazione (si percepisce come un’intesa anziché come un fallimento evitato per un pelo). Spesso le grandi aziende, quando possono, preferiscono un accordo ex 182-bis al concordato, perché è più negoziale e meno traumatico.
Di contro, l’accordo non può essere imposto se non c’è un sufficiente consenso spontaneo. Se i creditori sono troppi o molto conflittuali, si finisce per dover ricorrere al concordato che col voto a maggioranza risolve la situazione. Inoltre, l’accordo deve pagare tutti i dissenzienti al 100%: se l’azienda è sovraindebitata al punto da non poter neppure garantire ciò (ossia se servirebbe per forza un haircut generalizzato), allora l’accordo non è adatto e bisogna fare un concordato dove anche i non consenzienti subiscono falcidia (omologata dal giudice).
Giurisprudenza recente: Numerosi casi di accordi sono giunti all’attenzione giudiziaria. Citiamo:
- Cassazione 01/07/2024 n. … : ha chiarito che il decreto di omologa di un accordo non è impugnabile in Cassazione se non per motivi attinenti a violazioni di legge, analogamente a quanto per i concordati (questo uniforma i rimedi impugnatori).
- Tribunale di Torino, 2023: primo caso di omologazione con cram-down fiscale di Agenzia Entrate dissenziente su accordo agevolato, applicando la nuova norma del 2024.
- Cass. 27345/2024 (in tema concordato, ma analogia per accordi): i creditori non votanti/non aderenti non sono considerati dissenzienti attivi e quindi non vanno notificati individualmente alcuni atti.
- Tribunale di Milano, 15 marzo 2023: su accordo ad efficacia estesa, ha stabilito che per estendere a banche dissenzienti serve prova che abbiano posizione giuridica ed interessi omogenei a quelle aderenti (ad esempio, se una banca ha garanzie speciali potrebbe non essere omogenea e non subire estensione).
- Diversi tribunali (es. Genova 2022) hanno sottolineato la necessità di un comportamento leale del debitore: se durante le trattative omette di informare di qualche creditore o fa pagamenti preferenziali occulti, l’omologa può essere negata per abuso dello strumento.
Conclusione: Gli accordi di ristrutturazione dei debiti rappresentano uno strumento fondamentale per gestire le crisi in modo concordato e meno giudizializzato. In particolare, nell’ambito delle PMI, possono funzionare bene se c’è una banca principale e pochi creditori: la banca converte magari parte credito in strumenti partecipativi o dilaziona, i fornitori vengono garantiti, e si esce dalla crisi. L’azienda continua senza lo stigma di un fallimento e i creditori ottengono più di quanto avrebbero avuto in un fallimento, con maggiore voce in capitolo. Nei capitoli successivi, vedremo nelle simulazioni un caso in cui un accordo di ristrutturazione può essere la soluzione scelta.
3.4 Concordato preventivo (in continuità e liquidatorio)
Cos’è: Il concordato preventivo è probabilmente lo strumento concorsuale più noto e utilizzato nella tradizione italiana (risale al 1942 con varie riforme), ora rivisitato nel CCII. È una procedura giudiziaria concorsuale che consente all’imprenditore insolvente o in crisi di proporre ai creditori un piano per regolare i debiti ed evitare la liquidazione fallimentare. Si chiama “preventivo” proprio perché serve a prevenire la liquidazione giudiziale. Nel concordato il debitore formula una proposta di soddisfacimento, che i creditori votano; se la maggioranza approva e il tribunale ritiene il piano conforme alla legge, si omologa il concordato, vincolando anche le minoranze dissenzienti. In sostanza è un accordo collettivo coattivo: una volta raggiunte le maggioranze di legge, tutti i creditori sono obbligati dal piano.
Il CCII ha mantenuto l’istituto del concordato, ma lo ha suddiviso chiaramente in due tipologie: il concordato in continuità aziendale e il concordato liquidatorio, con regole parzialmente diverse su contenuto del piano, modalità di voto, distribuzione del valore e giudizio di omologa. Questa distinzione era già emersa nella prassi e nelle norme ante 2022, ma ora è sistematica.
- Concordato in continuità aziendale: quando nel piano è previsto che l’attività d’impresa prosegua, generando valore per pagare i creditori. La continuità può essere diretta (la stessa società debitore continua la gestione) oppure indiretta (l’azienda viene trasferita o affittata ad un altro soggetto che la prosegue, e i creditori del concordato vengono soddisfatti in parte coi proventi di tale trasferimento). Anche l’affitto d’azienda pre-concordato rientra nella continuità indiretta. La regola base è che una porzione significativa (non necessariamente maggioritaria, anche non prevalente) dei creditori chirografari venga soddisfatta con utili generati dalla prosecuzione dell’attività.
- Concordato liquidatorio: quando il piano non prevede la prosecuzione dell’attività (se non ai fini della liquidazione stessa), ma solo la vendita dei beni o la cessio bonorum e la distribuzione del ricavato ai creditori. In pratica è un fallimento concordato: i creditori accettano di ricevere una certa percentuale sui loro crediti derivante dalla liquidazione volontaria e ordinata dei beni del debitore.
Presupposti di accesso: Il concordato può essere chiesto dall’imprenditore commerciale (non dai non fallibili, i quali hanno il concordato minore) in stato di crisi o insolvenza. Si presenta un ricorso al tribunale con il quale il debitore deposita il piano e la proposta, unitamente a tutta la documentazione (bilanci, elenco creditori, ecc.) e alla relazione di un professionista attestatore sulla veridicità dei dati e fattibilità del piano. Spesso si accede al concordato con una domanda “in bianco” o “con riserva” (art. 44 CCII) depositando inizialmente la sola domanda e riservandosi di presentare il piano dettagliato entro 60-120 giorni. Questa pratica consente di bloccare subito le azioni dei creditori (tramite il provvedimento di apertura) e guadagnare tempo per definire il piano in dettaglio, magari perché si è in attesa di una manifestazione d’interesse di un investitore, ecc.
Effetti dell’apertura: Quando il tribunale verifica la completezza della documentazione e ammette il debitore alla procedura, emette il decreto di apertura del concordato. Da quel momento, decorrono diversi effetti:
- Il debitore rimane nel possesso dei beni e continua la gestione (principio del debtor in possession), ma sotto la supervisione di un commissario giudiziale nominato dal tribunale. Il commissario è un professionista che vigila sull’operato del debitore e redige una relazione per i creditori.
- Sono sospese o impedite le azioni esecutive individuali dei creditori anteriori e non possono proseguire eventuali pignoramenti in corso (divieto di azioni esecutive e cautelari). È una “protezione” simile al fallimento ma concessa al debitore per implementare il piano.
- I contratti pendenti possono proseguire o essere sospesi/rescissi secondo le regole (il CCII prevede la facoltà per il debitore di chiedere l’autorizzazione a sciogliersi da contratti in corso se strumentale al piano, con indennizzo al contraente, e la controparte non può risolvere solo perché c’è il concordato).
- I crediti anteriori sono cristallizzati: i creditori non possono più pretendere interessi maturati dopo l’apertura (salvo privilegiati se capienza).
- Scatta il divieto di pagare creditori anteriori al di fuori del piano, salvo autorizzazioni del tribunale per atti urgenti di ordinaria amministrazione o pagamenti essenziali (ad esempio, forniture necessarie per la continuità possono essere pagate in prededuzione se autorizzate).
- Se è concordato in continuità, il debitore può ottenere finanziamenti prededucibili (incentivo a immettere cassa per proseguire l’attività) con autorizzazione giudice.
Classi e voto: Il debitore può (e in alcuni casi deve) suddividere i creditori in classi secondo posizione giuridica e interessi omogenei. Per il concordato in continuità il CCII prevede in sostanza che la regola base è l’approvazione unanime delle classi, ma ha introdotto meccanismi di cram-down se questa unanimità non c’è. Procediamo per ordine:
- Se ci sono creditori con cause di prelazione su beni liquidati, quelli vanno soddisfatti integralmente o per la percentuale di capienza, salvo loro espressa rinuncia. I creditori privilegiati degradati (cioè per la parte di credito che eccede il valore del bene su cui insiste la garanzia) votano come chirografari per quella parte, previo “declassamento”.
- Il CCII impone la formazione di classi separate per i creditori con posizioni giuridiche differenziate (es. crediti chirografari possono essere differenziati in classi se interesse diverso, i fiscali di solito in classe a parte se falcidiati, ecc.). I creditori possono contestare eventuali classi “artificiose”.
- Ai fini dell’approvazione: nel concordato liquidatorio vige la regola classica: il concordato è approvato se raccoglie il voto favorevole dei creditori che rappresentino la maggioranza dei crediti ammessi al voto (ossia >50%). Se classi, occorre comunque la maggioranza in valore sul totale complessivo (non serve maggioranza per singola classe, basta quella assoluta complessiva, più eventuali quorum di classe per certe decisioni). Nel concordato in continuità, invece, il CCII prevede che debba esserci il voto favorevole di tutte le classi costituite, pena necessità di cram-down giudiziale. In altre parole, per il concordato in continuità la regola è l’unanimità delle classi: se anche una sola classe vota contro, il tribunale potrà comunque omologare forzosamente ma solo a condizioni aggiuntive. Questa differenza recepisce la Direttiva UE che richiede un meccanismo di cross-class cramdown per i piani di ristrutturazione.
- Un dettaglio: i creditori che non votano (astenuti o assenti) non sono conteggiati come contrari; tuttavia per il calcolo della maggioranza su base di crediti ammessi, di fatto chi non vota viene considerato come non favorevole. La Cassazione ha però precisato che i creditori non votanti non sono equiparati ai dissenzienti quanto a certe formalità (es. notifiche). In sostanza, ai fini del quorum di maggioranza, i crediti non votanti si sommano ai voti “non favorevoli”, quindi se la maggioranza non è raggiunta perché troppi non hanno votato, il piano non è approvato. Tuttavia, ad esempio per l’opposizione all’omologa, solo chi ha votato contro può opporsi, non i non votanti.
Omologazione e cram-down: Se i creditori approvano la proposta secondo le maggioranze richieste, si passa alla fase di omologazione dinanzi al tribunale. I creditori dissenzienti (che hanno votato no) o eventuali terzi possono proporre opposizione contestando la legittimità o la convenienza del piano. Il tribunale fissa udienza, sente le parti, e decide se omologare il concordato, verificando:
- Regolarità formale della procedura di voto e delle classi.
- Presenza delle condizioni di ammissibilità: che il piano rispetti la legge (ad es. nel liquidatorio: rispetto soglia 20% chirografari; nel continuità: rispetto di pagamento integrale entro 30 giorni dei crediti lavoratori; rispetto cause prelazione salvo voto contrario; assenza di trattamenti manifestamente sperequati tra creditori di pari rango).
- Fattibilità: il piano deve apparire realizzabile, non basato su assunti irrealistici. Il giudice non entra nel merito economico (non è un business judge estremo), ma se un piano è manifestamente irrealizzabile o inattuabile, deve rifiutare l’omologa. Ad es. piani “fantasiosi” senza alcun concreto supporto, o irragionevoli, vanno bocciati.
- Convenienza: questo è valutato solo se qualche creditore dissenziente eccepisce che avrebbe miglior soddisfazione in caso di liquidazione giudiziale. In tal caso il tribunale deve verificare il c.d. best interest test: ogni classe dissenziente deve ricevere almeno quanto otterrebbe nella alternativa liquidatoria. Se una classe prova che nel fallimento avrebbe, poniamo, 40% e nel concordato prende 30%, allora il concordato non è conveniente per quella classe e non può essere imposto loro, salvo che intervenga quell’apporto esterno che colmi (questo è il concetto di cram-down di convenienza).
Ora, con la riforma, si prevede espressamente il meccanismo di cross-class cram-down: se nel concordato in continuità una o più classi non hanno approvato, il tribunale può ugualmente omologare il piano (imponendolo alle classi contrarie) se ricorrono alcune condizioni stringenti:
- (a) Tutte le classi dissenzienti devono essere comunque soddisfatte in misura non inferiore rispetto all’alternativa liquidatoria (principio di convenienza, come detto).
- (b) Il piano non deve discriminare ingiustamente le classi dissenzienti (cioè il trattamento differenziato tra classi deve avere una giustificazione).
- (c) Deve esserci almeno una classe di creditori non inferiore (ovvero una classe con crediti di grado inferiore o pari a quelli dissenzienti) che abbia votato a favore. In pratica, non si può imporre il concordato se tutte le classi di grado pari o inferiore hanno votato contro; serve che qualcuno di pari grado abbia detto sì, altrimenti equivarrebbe a imporre a tutti.
- (d) Ulteriore condizione specifica per il cram-down fiscale: se la classe dissenziente è quella dell’Erario o enti previdenziali, il cram-down può applicarsi solo se la soddisfazione offerta è almeno il 20% (prima della riforma 2024 c’era discussione: ora pare che il Fisco non possa bloccare se riceve almeno il 20% ed è il solo contrario, ma su questo bisogna vedere i dettagli normativi aggiornati).
Se tutte queste condizioni sono rispettate, il tribunale può approvare il concordato anche senza il voto favorevole di tutte le classi. Questa è una novità importante (derivante dalla direttiva UE): storicamente in Italia se una classe importante diceva no, il concordato saltava; ora c’è più margine per salvare piani con consenso largo ma non unanime, evitando che piccole minoranze facciano fallire tutto.
Per i concordati liquidatori il cram-down era già possibile in parte: se >20% dei crediti ammessi ha votato contro contestando la convenienza, il tribunale può comunque omologare se ritiene provato che otterranno non meno del fallimento. Questa soglia del 20% è rimasta, credo.
Esecuzione del concordato: Una volta omologato, il concordato è vincolante per tutti i creditori anteriori. L’impresa esegue il piano sotto la vigilanza di un commissario (o liquidatore) nominato. Se è in continuità, la società va avanti con la sua attività e paga i creditori secondo il piano (es: tot percentuale in tot anni). Se è liquidatorio, si procederà a vendere i beni; spesso il commissario giudiziale diventa liquidatore o se ne nomina uno ad hoc. Terminata l’esecuzione (ad es. pagate le percentuali offerte), il debitore è liberato dai debiti eccedenti (ha luogo una sorta di esdebitazione concorsuale per le società – tecnicamente la società esce pulita, anche se se aveva debiti oltre la percentuale pagata, quelli decadono, salvo non si sia inadempiuti).
Se il debitore non adempie al concordato (es. non paga le percentuali promesse), allora su istanza dei creditori si può chiedere la risoluzione del concordato e a quel punto di solito si apre il fallimento (liquidazione giudiziale). Idem se si scopre che il debitore ha agito con frode verso i creditori (dolo, false attestazioni): in tal caso c’è la annullamento del concordato su istanza, con conseguente fallimento.
Regole particolari: Nel concordato in continuità, per incoraggiare l’operatività, è prevista la disapplicazione di alcune norme societarie: ad esempio, se la società ha perdite oltre il terzo capitale, non è obbligata a ricapitalizzare immediatamente (le norme sul capitale sono sospese durante la procedura). Questo per evitare di dover mettere in liquidazione la società mentre cerca di salvarsi col concordato. Inoltre, il CCII consente di trasferire l’azienda anche prima dell’omologa se è previsto dal piano e serve a evitare un depauperamento (il classico caso: concordato con continuità indiretta dove si vende l’azienda a un investitore subito; i soldi vanno in un fondo e poi distribuiti se omologa arriva). In tal caso, se poi l’omologa non arrivasse, la vendita è risolta.
Soglia 20% concordato liquidatorio: Ribadiamo che per presentare un concordato meramente liquidatorio, la legge richiede che ai creditori chirografari sia assicurato almeno il 20% del loro credito (art. 84 co.4 CCII). Questo deterrente serve a evitare concordati “abusivi” che offrano percentuali irrisorie e di puro comodo. Se l’attivo non consente almeno 20%, il debitore deve apportare risorse esterne (denaro fresco dei soci, ad esempio) per raggiungere la soglia. Oppure deve orientarsi verso un concordato in continuità (dove non c’è soglia fissa, perché i creditori potrebbero accettare anche meno del 20% purché convinti che in continuità quello è il massimo fattibile). Ad esempio, per microimprese è possibile che in liquidazione pura non diano 20%; ecco perché spesso puntano a un concordato minore o a soluzioni di sovraindebitamento se non possono dare 20%.
Novità legislative 2024: Abbiamo menzionato il cram-down e falcidie fiscali. Aggiungiamo che il correttivo 2024 ha chiarito che l’IVA e le ritenute possono essere falcidiate nei concordati in continuità (prima non era chiaro, ma la Direttiva UE lo consente). Inoltre, in caso di omologa forzosa di un concordato in continuità, se il Fisco vota contro ma poi subisce cram-down, è stabilito che non può costituire l’unica classe consenziente (questione tecnica: pare ovvio, se Fisco era contro poi cramdown, la sua classe non conta come consenziente, serve altra classe pro – questo per evitare che il giudice la conti come sì perché l’ha crammata, chiarito che non vale).
Giurisprudenza rilevante (Cassazione):
- Impugnazione dell’omologa: Cass. ord. 16932/2024 ha ribadito un principio: il creditore che non ha fatto opposizione in sede di omologa non può poi impugnare il decreto di omologa come terzo estraneo. In altri termini, se un creditore non si è attivato nel procedimento di omologa (ad es. era dissenziente ma non è comparso, o peggio era consenziente e poi cambia idea), non ha legittimazione a impugnare dopo. Deve semmai usare altri rimedi (es. chiedere risoluzione se inadempimento). Questo garantisce stabilità alle omologhe: non ci si può ripensare a posteriori.
- Attestazione e controllo giudice: varie sentenze di Cassazione (es. Cass. 1521/2018) hanno definito l’ambito del controllo del giudice sulla fattibilità: è un controllo di fattibilità giuridica e di assenza di palese irrealizzabilità, non un giudizio economico approfondito (non spetta al giudice sostituire le valutazioni dei creditori). La fattibilità economica deve essere valutata se emergono evidenti criticità, ma altrimenti ci si fida del giudizio dei creditori e dell’attestatore.
- Voto dei creditori postergati o soci: Cass. 338/2021 ha confermato che i creditori postergati per legge (es. finanziamenti soci) non hanno diritto di voto nel concordato, perché i loro crediti sono subordinati.
- Contestazioni del diritto di voto: Cass. 34372/2024 ha affermato che se nessuno contesta tempestivamente la posizione di un creditore (ad esempio l’esclusione o inclusione dal voto), non lo si può fare dopo. Quindi attenzione: le contestazioni sui crediti vanno sollevate nel corso della procedura di verifica dello stato passivo concordatario (che avviene con l’elenco depositato e eventuali opposizioni).
- Trattamento del Fisco e contributi: Cass. Sez. Un. 8500/2016 (ancora attuale) aveva stabilito che la “transazione fiscale” nel concordato può prevedere il pagamento parziale di IVA e ritenute solo se c’è l’adesione formale dell’Erario al piano, altrimenti no. Questa regola però è stata superata dalla nuova normativa ispirata alla Direttiva, che invece permette di cramdownare il Fisco. Quindi va aggiornata alla luce del D.Lgs. 83/2022 e 136/2024 che hanno riscritto art. 88 CCII.
Conclusione: Il concordato preventivo resta il principale strumento giudiziale per tentare il salvataggio (o quantomeno la liquidazione ordinata) di un’impresa in crisi. È complesso e “costoso” (in termini di tempi, complessità e possibili effetti negativi di pubblicità), ma in mancanza di accordi spontanei è il solo veicolo per imporre una ristrutturazione. Per una PMI, la scelta tra accordo e concordato spesso dipende da quanta fiducia e collaborazione c’è tra l’impresa e i suoi creditori: se c’è margine per un accordo, meglio quello; se i creditori sono troppi o disallineati, il concordato – con la possibilità di vincolare la minoranza – diventa necessario. Anche il concordato viene esaminato nelle simulazioni pratiche, dove vedremo quando è opportuno imboccarlo.
3.5 Altre procedure: liquidazione giudiziale e strumenti per sovraindebitamento
Liquidazione giudiziale (ex fallimento)
Cos’è: La liquidazione giudiziale è la procedura concorsuale liquidatoria per eccellenza. Corrisponde al vecchio fallimento, di cui ha preso il posto terminologico e normativo dal 15 luglio 2022. È la soluzione giudiziale a cui si arriva quando l’insolvenza è conclamata e non c’è possibilità o volontà di procedere con strumenti di risanamento concordato. La finalità è liquidare il patrimonio del debitore insolvente e distribuire il ricavato ai creditori secondo l’ordine dei privilegi e le regole concorsuali.
Presupposti: Viene aperta con sentenza dal tribunale su ricorso di un creditore, del debitore stesso, o su segnalazione del PM, quando il debitore si trova in stato di insolvenza (art. 121 CCII) e appartiene alle categorie di soggetti assoggettabili: imprenditori commerciali sopra le soglie di fallibilità (ricavi > €200k, attivo patrimoniale > €300k, debiti > €500k, in almeno uno degli ultimi tre esercizi; queste soglie possono essere modificate ma sono rimaste simili al passato). Sono esclusi ad es. gli enti pubblici, l’imprenditore agricolo (che però ora può usare concordato minore), ecc. La procedura può partire anche d’ufficio se durante un concordato preventivo emergono atti di frode o inadempimenti.
Effetti della sentenza: Con la sentenza di apertura, il debitore viene spossessato dell’amministrazione dei beni (passano al curatore nominato) e perde la legittimazione processuale per atti sul patrimonio. La sentenza fissa la data di cessazione dei pagamenti, dichiara aperta la procedura e nomina appunto un curatore (gestore della massa attiva), un giudice delegato (sovrintende alla procedura) e un comitato dei creditori (organo consultivo e di controllo composto da 3 creditori rappresentativi). Da quel momento tutte le azioni esecutive individuali sono bloccate e confluiscono nella procedura: i creditori devono presentare domanda di insinuazione al passivo entro i termini stabiliti per poter partecipare ai riparti (vengono esaminati nel procedimento di verifica del passivo). I beni del debitore vengono via via acquisiti alla massa attiva e poi liquidati secondo il programma di liquidazione approvato dal giudice (di solito vendite tramite procedure competitive). I creditori vengono soddisfatti in base ai gradi di privilegio: prima i creditori prededucibili (costi della procedura e crediti sorti con autorizzazione durante eventuali procedure precedenti), poi i privilegiati (pegno, ipoteca, privilegi speciali e generali nell’ordine di legge), infine i chirografari in proporzione. A fine procedura, la società viene cancellata; se il debitore è persona fisica, può chiedere l’esdebitazione, ossia la liberazione dai debiti non soddisfatti (una sorta di fresh start personale: il CCII la concede di diritto salvo eccezioni, se il fallito ha collaborato e non ci sono ragioni ostative).
La liquidazione giudiziale ha effetti afflittivi: comporta spesso la risoluzione dei contratti in essere (anche se il curatore può decidere di subentrare in alcuni se utili), licenziamento dei dipendenti (salvo esercizio provvisorio), ecc. Inoltre, l’apertura di liquidazione giudiziale implica l’incapacità per l’imprenditore (persona fisica) a esercitare una nuova impresa, restrizioni ai diritti civili (non può far parte di consigli di amministrazione, ecc. fino alla chiusura). Queste incapacità decadranno con la chiusura o esdebitazione.
Rapporto con altre procedure: La liquidazione giudiziale è considerata l’ultima ratio. Se pende una composizione negoziata con misure protettive, il tribunale non può dichiarare la liquidazione giudiziale: deve attendere l’esito delle trattative. Se il debitore deposita domanda di concordato, la dichiarazione di insolvenza viene sospesa finché non si vede se il concordato va avanti. Ci sono comunque possibili “conversioni”: ad esempio, se un concordato preventivo viene revocato o risolto, il tribunale contestualmente dichiara la liquidazione giudiziale su istanza (spesso automatica in caso di revoca per frode). Oppure se un accordo di ristrutturazione non va a buon fine e i creditori lo chiedono, si apre la liquidazione.
Liquidazione controllata e straordinaria: Da distinguere è la liquidazione controllata dei debiti (artt. 268 ss. CCII) che riguarda i debitori non fallibili: è una procedura simile al fallimento ma gestita dall’OCC (Organismo di Composizione Crisi) e con norme semplificate (ad esempio il patrimonio può essere modesto). È rivolta tipicamente ai piccoli imprenditori sotto soglia e ai consumatori sovraindebitati che vogliono liquidare tutto e ripartire puliti (dopo 4 anni ottengono esdebitazione anche senza pagamento integrale). La liquidazione coatta amministrativa invece è un’altra procedura non trattata qui nei dettagli, che riguarda enti particolari (banche, assicurazioni, etc.) ed è gestita dall’autorità amministrativa più che dal tribunale.
Giurisprudenza evidenziata: Più che novità, citiamo un concetto ribadito: Cass. 15862/2024 ha evidenziato che l’apertura di una procedura di fallimento successiva a un concordato non impedisce al creditore insinuato tardivamente in fallimento di far valere i suoi diritti, e ha chiarito aspetti sul coordinamento tra l’effetto esdebitativo del concordato e la successiva procedura liquidatoria. In particolare, se un concordato era omologato e poi risolto, i creditori riacquistano i loro diritti originari (meno quanto eventualmente incassato) per insinuarsi nel fallimento; la Cassazione sottolinea che la fede pubblica dell’omologa va bilanciata con la tutela dei creditori in caso di risoluzione: l’impugnazione del decreto di revoca di omologa in Cassazione è improcedibile, occorre agire nel fallimento stesso.
Ancora, la Cassazione ha più volte affermato un principio guida: conservazione vs liquidazione – ovvero che si deve privilegiare dove possibile la continuità aziendale (principio già del Codice), ma al contempo, quando la continuità non è percorribile, la liquidazione concorsuale deve intervenire celermente per evitare aggravio del dissesto (pena responsabilità). Sul fronte penal-fallimentare, pronunce continuano a punire la prosecuzione abusiva dell’attività: condotte di amministratori che aggravano il crack continuando a indebitarsi sapendo di essere insolventi portano alla configurazione del reato di bancarotta semplice.
In ultima analisi, la liquidazione giudiziale è ciò che va evitato attivando per tempo le misure di allerta e negoziali sopra descritte. Tuttavia rimane uno strumento necessario per i casi di insolvenza conclamata in cui non vi sia accordo possibile: assicura la par condicio creditorum e gestisce la dismissione dei beni evitando la corsa disordinata dei singoli creditori.
Strumenti per sovraindebitamento e imprese minori
Il Codice della Crisi ha incorporato la vecchia legge 3/2012 sul sovraindebitamento in un corpus di procedure dedicate a “debitori minori”, cioè soggetti che non superano le soglie di fallibilità o non esercitano attività d’impresa commerciale (persone fisiche consumatori, piccoli imprenditori, professionisti, start-up innovative se escluse da fallimento, imprenditori agricoli). Questi strumenti – concordato minore, ristrutturazione dei debiti del consumatore e liquidazione controllata – offrono soluzioni simili a quelle viste ma su scala ridotta, con maggiore snellezza e attenzione alla persona del debitore.
- Concordato minore (art. 74 CCII): è l’equivalente del concordato preventivo per i debitori non fallibili. Il debitore propone un piano ai creditori, ma a differenza del concordato ordinario non c’è votazione per classi; i creditori possono solo presentare osservazioni. Decide tutto il tribunale: valuta fattibilità e convenienza (deve dare almeno il 20% ai chirografari anche qui, salvo casi particolari) e, sentito il parere dell’OCC (Organismo di Composizione della Crisi nominato), omologa o rigetta. Quindi è una procedura più semplificata. Serve soprattutto per piccoli imprenditori o persone con molteplici debiti (es. un professionista con debiti verso banche e fisco). L’effetto è vincolante per tutti i creditori inclusi. Da notare, qui i creditori non possono opporsi se non su aspetti di legittimità, e non votano – ciò tutela il debitore meritevole da eventuali minoranze irragionevoli. Ad esempio, un artigiano con pochi dipendenti può proporre di pagare il 30% in 4 anni ai chirografari: il giudice, se è la migliore soluzione possibile, può omologare anche se magari alcuni creditori mugugnano.
- Ristrutturazione dei debiti del consumatore: questo è riservato alle persone fisiche che hanno contratto debiti come privati (non per attività d’impresa). È simile al concordato minore, ma calibrato sui consumatori, con attenzione a preservare il minimo vitale ecc. Anche qui niente voto dei creditori: decidono il giudice e il parere di un OCC. Il consumatore deve essere “meritevole” (non aver colposamente esagerato con il credito).
- Accordo di ristrutturazione per imprenditore minore: c’è anche la possibilità per il piccolo imprenditore di fare un vero e proprio accordo con i creditori con l’adesione del 60%, analogo all’accordo ex art. 57, ma raramente usato perché se hai pochi creditori fai prima col concordato minore.
- Liquidazione controllata dei beni: è la procedura liquidatoria per i non fallibili (ex “liquidazione del patrimonio” L.3/2012). La può chiedere il debitore stesso che vuole liberarsi di tutti i debiti mettendo a disposizione ciò che ha. Un gestore (nominato dal tribunale su designazione OCC) vende i beni, distribuisce il ricavato secondo le prelazioni, e poi il debitore persona fisica ottiene l’esdebitazione anche se i creditori hanno preso poco. Questa è una via di “fresh start” per i sovraindebitati onesti ma sfortunati. Anche i piccoli imprenditori possono farlo, ed è di fatto il loro “fallimento”, solo che è volontario e orientato al recupero del debitore.
- Esdebitazione del debitore incapiente: novità dal 2021, c’è un istituto che permette al debitore persona fisica, privo di beni e redditi cedibili, di ottenere la cancellazione dei debiti residui “una tantum” senza procedura, purché meritevole. È molto di nicchia e concessa se il soggetto non ha nulla da dare e la sua insolvenza non dipende da mala fede. Serve a evitare che persone nullatenenti restino schiacciate vita natural durante dai debiti senza prospettiva di pagarli.
Queste procedure non sono il fulcro della guida (incentrata su PMI, quindi più su concordato e accordi), ma è utile tenerle a mente perché a volte una micro-impresa che non supera soglie di fallibilità dovrà necessariamente ricorrere al concordato minore o alla liquidazione controllata, non potendo accedere a concordato preventivo o fallimento.
Un esempio pratico: una ditta individuale artigiana non fallibile, con debiti per €200k di cui 100k con Equitalia, potrebbe presentare un piano di concordato minore offrendo 50k totali (grazie a un aiuto familiare), da ripartire proporzionalmente, e il giudice può omologare se vede che in caso di liquidazione i creditori prenderebbero meno. Oppure se non ha proprio nulla se non stipendio modesto, potrebbe chiedere l’esdebitazione incapiente ed essere liberato (solo una volta nella vita però si può).
Giurisprudenza: Trattandosi di procedure giovani (la L.3/2012 aveva generato giurisprudenza interessante, ora confluita nel CCII):
- Cass. 1869/2016 chiarì che anche l’Agenzia Entrate può essere falcidiata nel piano del consumatore, senza il suo consenso, se il giudice ritiene equo (anticipando un concetto di cram-down pubblico poi generalizzato).
- Cass. 9087/2018 sulle cause di meritevolezza: se un soggetto ha colpa grave nell’indebitamento (es. ha sperperato), può essere negata l’omologa del piano del consumatore. Questo permane: la valutazione della meritevolezza è cruciale nei sovraindebitati.
- Tribunale di Udine 2023: ha ammesso l’esdebitazione del debitore incapiente a un soggetto ultra70enne con solo pensione minima e molti debiti, ritenendolo meritevole poiché aveva fatto da garante per i figli e poi non aveva potuto pagare.
- Questione nelle imprese familiari: se non soggette a fallimento, rientrano in procedure da sovraindebitamento. Tribunale di Brescia 2022 ha omologato un concordato minore per un piccolo allevatore agricolo (non fallibile) che prevedeva cessione di terreni ai creditori.
Conclusione su questi strumenti minori: Servono per non lasciare alcun debitore senza via d’uscita legale. Anche il piccolo imprenditore può “far qualcosa”: proporre un piano ai creditori o liquidare quel poco che ha e ottenere la pace dai debiti. Nel contesto PMI, se l’impresa è veramente minuscola (sotto soglie) queste procedure entrano in gioco. Va detto però che molte PMI italiane, pur piccole, rientrano nelle categorie fallibili (basta spesso superare anche una sola soglia in un triennio). Quindi il grosso delle PMI va col concordato standard ecc. Le micro invece useranno questi.
4. Domande frequenti (FAQ)
In questa sezione rispondiamo ad alcune domande comuni che imprenditori e professionisti si pongono quando affrontano una crisi aziendale. Sono dubbi pratici su come muoversi e sulle conseguenze delle scelte, alla luce delle norme e dell’esperienza applicativa.
Domanda: Quali sono i primi segnali di crisi che un imprenditore dovrebbe monitorare?
Risposta: I campanelli d’allarme includono certamente la tensione di cassa (ritardi nei pagamenti di fornitori, stipendi o rate bancarie), l’aumento anomalo dell’indebitamento a breve (ad esempio uso sistematico del fido fino al plafond, emissione di assegni post-datati, richieste di scoperti extra), i bilanci in perdita o margini operativi in calo costante, nonché indici finanziari sballati (come un DSCR < 1). Anche segnali esterni vanno presi sul serio: se i fornitori iniziano a spedire solo contro pagamento anticipato, se le banche revocano fidi o chiedono rientri, se arrivano solleciti dal Fisco per arretrati – tutto ciò indica crisi. Un altro aspetto spesso trascurato è il clima interno: un elevato turnover del personale chiave o i malumori dei dipendenti per stipendi pagati in ritardo segnalano problemi. Secondo la legge l’imprenditore deve attivarsi “al primo apparire dei sintomi della crisi”, quindi non ignorare mai segnali come quelli detti. Implementare un sistema di controllo di gestione che produca indicatori mensili (cash flow, indici di liquidità, rotazione magazzino, ecc.) aiuta a cogliere precocemente gli squilibri.
Domanda: Quando è il momento giusto per attivarsi e chiedere aiuto?
Risposta: Il prima possibile. Non esiste una regola fissa, ma certamente prima che la crisi sfoci nell’insolvenza conclamata. Il momento giusto è quando capiamo che, proseguendo senza interventi straordinari, entro 6-12 mesi l’azienda potrebbe non farcela a pagare i debiti (questo è lo stato di crisi). Ad esempio, se le proiezioni di tesoreria mostrano che tra qualche mese non avremo liquidità per rimborsare una grossa rata di mutuo, è ora di muoversi. Attendere di saltare quel pagamento e accumulare decreti ingiuntivi sarebbe tardivo. La normativa incoraggia l’imprenditore ad attivarsi “senza indugio”: questo significa che appena ci si rende conto di non riuscire più ad adempiere regolarmente alle obbligazioni (o che ciò accadrà a breve), bisogna cercare assistenza professionale (da un commercialista, advisor o legale) e valutare un percorso (composizione negoziata, accordi, ecc.). Purtroppo, molti piccoli imprenditori tendono a procrastinare per orgoglio o speranza che “qualcosa succederà”. È comprensibile, ma pericoloso: più si aspetta, meno opzioni rimangono e più bruscamente intervengono i creditori (ad esempio con un’istanza di fallimento). Quindi la risposta è: attivati ai primi segni, non quando sei già con l’acqua alla gola. Inoltre, attivarsi presto può esimere gli amministratori da responsabilità: un amministratore che promuove per tempo una procedura concordataria adempie al suo dovere di tentare il risanamento, mentre chi lascia aggravare la situazione potrebbe risponderne.
Domanda: Che differenza c’è tra crisi e insolvenza?
Risposta: La crisi è una situazione di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza futura, pur non essendo ancora uno stato d’incapacità definitivo. Spesso si manifesta come squilibrio nei flussi di cassa prospettici: l’azienda fatica a generare abbastanza liquidità da coprire i pagamenti nei prossimi mesi. Può pagare ancora i debiti oggi, magari attingendo a riserve o ritardando qualche impegno, ma la tendenza è negativa. L’insolvenza, invece, è lo stato attuale di incapacità di adempiere regolarmente alle obbligazioni: il debitore non paga più in modo generalizzato i propri debiti alle scadenze. In pratica, nella crisi accendiamo la spia gialla, nell’insolvenza siamo alla spia rossa. Esempio: un’azienda che prevede di finire la cassa in 3 mesi è in crisi; se non fa nulla, tra 3 mesi diventerà insolvente quando inizierà a non pagare fornitori e stipendi. Giuridicamente, molte procedure (come la composizione negoziata o il concordato) possono essere avviate già in stato di crisi (non serve aspettare l’insolvenza conclamata). Lo stato di insolvenza serve invece come presupposto per la liquidazione giudiziale (fallimento) e può essere anche presupposto per concordato, ma in genere si cerca di intervenire prima. Quindi in sintesi: la crisi è il malato grave, l’insolvenza è la terapia intensiva. La differenza è anche pratica: in crisi hai ancora opportunità di scelta e manovra, in insolvenza spesso subisci iniziative dei creditori (pignoramenti, istanze di fallimento).
Domanda: Che cos’è e come funziona la composizione negoziata? Vale davvero la pena provarci?
Risposta: La composizione negoziata della crisi è una procedura volontaria e riservata attivabile dall’imprenditore in crisi (anche non ancora insolvente) per tentare di trovare un accordo coi creditori con l’aiuto di un esperto indipendente nominato dalla Camera di Commercio. Funziona così: presenti domanda sulla piattaforma dedicata, un esperto esamina la tua situazione e convoca i creditori principali per negoziare soluzioni. Durante quel periodo (fino a 6 mesi) puoi ottenere la sospensione di azioni esecutive (quindi i creditori non possono aggredirti). L’esperto vi aiuta a raggiungere un accordo. Se ci riuscite, bene: magari firmate piani di rientro o nuovi contratti che risanano l’azienda. Se non ci riuscite, puoi comunque accedere ad altre procedure (concordato, accordi di ristrutturazione) o, se proprio non c’è nulla da fare, optare per un concordato semplificato per liquidare l’azienda. Vale la pena? Sì, se l’impresa ha ancora chance di risanamento. La composizione negoziata ti dà una chance di evitare il fallimento parlando con i creditori su base protetta. Non costa eccessivamente (il compenso dell’esperto è calmierato) e soprattutto non ti fa perdere la gestione dell’azienda. Ovviamente, funziona se c’è una soluzione credibile da proporre e un atteggiamento collaborativo dei creditori. Se l’azienda è decotta e non c’è nessuna prospettiva di salvarla, la CNC non farà miracoli e finirà per preludere al fallimento – ma anche in quel caso, potrebbe permettere ad esempio di vendere l’azienda con concordato semplificato evitando la dispersione del valore. In sintesi: tentare la via negoziata è quasi sempre consigliabile per le PMI, quantomeno come primo step, perché è flessibile e non pregiudica altre opzioni successive. Molti imprenditori erano scettici (“a cosa serve un altro advisor che mi costa?”), ma i primi riscontri mostrano che avere un soggetto terzo che facilita il dialogo spesso sblocca situazioni congelate. E come detto, male che vada hai comunque guadagnato tempo e puoi pianificare meglio l’uscita.
Domanda: Quali vantaggi offre un piano attestato di risanamento rispetto ad un accordo di ristrutturazione o concordato?
Risposta: Il piano attestato (art. 56 CCII) è vantaggioso perché è uno strumento informale e rapido: non richiede procedure giudiziarie, omologhe o voti assembleari. Dunque si svolge nella massima riservatezza e flessibilità. Lo puoi cucire su misura con i creditori chiave e farlo attestare da un professionista indipendente, ottenendo come beneficio legale la protezione delle operazioni compiute (non saranno revocabili in caso di successivo fallimento). In pratica, consente di ristrutturare il debito fuori dai tribunali. Questo comporta minori costi (niente spese di procedura, commissari, ecc.), tempi brevi (dipende solo dalle negoziazioni, non dai tempi del tribunale) e nessun clamore pubblico. Di contro, l’accordo di ristrutturazione e il concordato coinvolgono il tribunale, diventano pubblici (registro imprese), hanno formalità e costi, ma in compenso offrono protezioni più forti (blocco dei creditori e vincolo anche per dissenzienti). Quindi i vantaggi del piano attestato sono: confidenzialità, semplicità, nessuna soglia di adesione fissata (basta convincere chi serve), niente iter di voto. Ad esempio, se la tua crisi coinvolge soprattutto 2 banche, col piano attestato puoi fare un accordo a tre (tu e le due banche) con un professionista che certifica i numeri, e risolvi senza dover chiamare in causa eventuali piccoli creditori estranei. È ideale per crisi non sistemiche. Tuttavia, un piano attestato non ti protegge da iniziative ostili: se un altro creditore non coinvolto decide di pignorarti un conto, può farlo (non c’è automatic stay). Né vincola i non aderenti: chi non firma non è tenuto ad aspettare o a rinunciare a nulla. Ecco perché è adatto quando la platea dei creditori è ristretta e controllabile. Dunque, il piano attestato conviene se hai pochi creditori e relativamente “amichevoli”, e se prevedi di riuscire a pagare comunque tutti quelli fuori dal piano. Se invece hai tanti creditori o la necessità di falcidiare in modo consistente i debiti (non puoi pagare qualcuno integralmente), allora devi andare su accordo ex art.57 o concordato, dove hai strumenti per coinvolgere e obbligare anche chi non è d’accordo (tramite l’omologazione). Riassumendo: vantaggi piano attestato = velocità, riservatezza, minor costo, niente procedura formale; svantaggi = nessuna moratoria legale, serve un consenso quasi totale su base volontaria.
Domanda: Che differenza c’è tra accordo di ristrutturazione e concordato preventivo? Come scelgo tra i due?
Risposta: Entrambi mirano a evitare il fallimento ristrutturando i debiti, ma differiscono in alcuni aspetti chiave:
- Consenso richiesto: l’accordo di ristrutturazione (art. 57 CCII) necessita dell’adesione di almeno il 60% dei crediti; il concordato preventivo invece viene deciso a maggioranza (50%+1) dai creditori votanti o classi e poi omologato anche contro il volere della minoranza. Quindi, l’accordo richiede una partecipazione attiva piuttosto ampia (non totale, ma alta), mentre il concordato può essere approvato anche con l’opposizione di una minoranza consistente (fino al 49%, o una classe su più, ecc. – con possibili cram-down per forzare).
- Trattamento dei dissenzienti: nell’accordo, i creditori non aderenti devono essere pagati integralmente entro breve; nel concordato, i creditori dissenzienti possono subire decurtazioni se la maggioranza lo ha deciso, purché siano rispettate le cause di prelazione e il piano sia conveniente per loro rispetto a un fallimento. Insomma, il concordato può imporre perdite ai creditori contrari (è un vero strumento “coattivo”), l’accordo no (quelli fuori prendono 100%).
- Procedura: l’accordo è molto più snello: depositi l’accordo firmato + attestazione e chiedi l’omologa in camera di consiglio. Non c’è un regime di amministrazione controllata dell’impresa, il debitore rimane libero di agire (salvo eventuali misure cautelari se concesse). Nel concordato, invece, c’è una procedura giudiziale a tutti gli effetti: decreto di apertura, commissario, adunanza dei creditori per il voto, eventuali opposizioni e udienza di omologa. È più lungo e invasivo.
- Pubblicità e impatto reputazionale: entrambi vengono iscritti al registro imprese (l’accordo all’omologa, il concordato fin dall’apertura). Comunque il concordato suona al mercato come “azienda quasi fallita ma in concordato”, l’accordo di ristrutturazione è percepito (quando noto) come “azienda che ha fatto accordo con banche”: leggermente meno stigma, ma comunque segnale di crisi. L’accordo, essendo meno dettagliatamente pubblicizzato, può a volte passare più in sordina.
- Flessibilità del piano: nel concordato il piano deve rispettare alcune regole di legge (es. percentuale minima 20% se liquidatorio, priorità ai privilegiati salvo degradazione, ecc.), nell’accordo c’è più libertà negoziale, nei limiti però che i non aderenti vanno pagati per intero.
Come scegliere? In linea di massima, se la struttura dei creditori è concentrata (ad esempio poche banche detengono la maggior parte dei crediti) ed è ragionevole attendersi il loro consenso, conviene tentare un accordo di ristrutturazione: eviti la complessità del voto e tieni maggiormente le redini. Se invece hai molti creditori variegati (es. centinaia di fornitori, fisco, dipendenti, ecc.) e/o prevedi che una quota rilevante non accetterebbe volontariamente di sacrificarsi, allora il concordato è il veicolo appropriato, perché puoi imporre il piano a tutti con l’ausilio del tribunale. Anche i numeri contano: se devi tagliare il debito del 50%, è improbabile convincere 60% di creditori a firmare spontaneamente un tale haircut – in tal caso meglio un concordato dove basta il voto maggioritario. Un criterio spesso usato: tempistiche e controllo. L’accordo può essere raggiunto più velocemente (no assemblee creditori, no commissario) e mantiene il negoziato nelle tue mani, quindi se la situazione lo permette preferiscilo. Il concordato è più garantito nel senso che una volta approvato, sei sicuro che vincola tutti, ma richiede di passare attraverso procedure più lunghe e costose e c’è sempre l’imprevedibilità del voto (non sai mai se spunta un creditore che vota no e raccoglie altri contrari…). In pratica molte aziende provano prima a negoziare un accordo con le banche; se non decolla, virano su concordato. Un aspetto da considerare: nel concordato rischi di più la continuità aziendale, perché i clienti/fornitori possono perdere fiducia appena sentono “concordato” e magari rescindere contratti o chiedere garanzie. Nell’accordo magari lo sbandieri meno e la cosa rimane più entro la cerchia finanziaria. Quindi la scelta va ponderata valutando fattori come: grado di fiducia con i creditori, necessità di moratorie immediate (in concordato le hai subito, in accordo devi chiederle al giudice ma con discrezionalità), impatto sul business. A volte è opportuno un approccio misto: ad esempio, un accordo di ristrutturazione ad efficacia estesa può essere una via di mezzo – se ho 5 banche e 4 sono d’accordo e una no, con quell’istituto imposto ugualmente l’accordo grazie all’omologa. Se però il dissenso è di più banche, tanto vale fare concordato. Insomma, la geografia del debito e la capacità di coesione dei creditori sono i drivers della scelta.
Domanda: Durante la composizione negoziata o un accordo, posso continuare a gestire liberamente l’azienda? O rischio di perdere la gestione come nel fallimento?
Risposta: Nella composizione negoziata l’imprenditore mantiene la piena gestione ordinaria dell’azienda. L’esperto nominato non ha poteri sostitutivi: il suo ruolo è di facilitatore e consulente. L’imprenditore quindi prende ancora tutte le decisioni operative quotidiane. Per gli atti di straordinaria amministrazione (cioè non di gestione corrente, ad esempio vendere un immobile importante, contrarre nuovi debiti, ipotecare beni) è previsto un doppio binario: può farli sotto sua responsabilità, ma è opportuno (e a volte necessario) informare o concordare con l’esperto, e se serve ottenere autorizzazione dal tribunale quando ha chiesto misure protettive (il tribunale può subordinare la concessione delle misure a certi impegni). Però, non c’è spossessamento nella CNC: l’imprenditore resta al timone al 100%. Anche in un accordo di ristrutturazione (art.57) l’impresa resta totalmente “in bonis” fino all’omologa e dopo: non c’è mai un organo esterno di gestione. Al più, se chiedi misure protettive prima dell’omologa, il tribunale potrebbe nominare un ausiliario o monitorare in udienza la situazione, ma non c’è la figura del commissario che autorizza gli atti. Quindi in accordo continui a gestire liberamente, solo con l’obbligo di non compiere atti che pregiudicano i creditori pena revoca delle protezioni. Nel concordato preventivo, invece, pur restando l’impresa nelle mani dell’imprenditore (non arriva un curatore finché non c’è eventuale fallimento), c’è comunque un commissario giudiziale nominato che vigila e riferisce. Per compiere atti straordinari, dal decreto di apertura in poi il debitore deve tipicamente ottenere autorizzazione dal tribunale su parere del commissario. Ad esempio, vendere un macchinario prima dell’omologa è vietato salvo ok del giudice, contrarre nuovi debiti oltre la normale amministrazione pure. Ma comunque l’amministrazione rimane in capo agli organi societari, coadiuvati dal commissario (che è più un supervisore). Nel concordato può accadere che, su richiesta, il tribunale imponga misure più stringenti (es. nomina di un giudice delegato che autorizzi lui certi atti, o addirittura un amministratore giudiziario se c’è pericolo per il patrimonio). Ma è raro che tolga la gestione al debitore salvo casi di abuso. Solo con il fallimento (liquidazione giudiziale) si perde totalmente la gestione (entra il curatore). Quindi, riassumendo: in CNC e accordi resti in sella; in concordato sei in sella ma con un “navigatore” accanto che segnala le svolte pericolose; in fallimento vieni proprio tolto dall’auto. Da notare: in composizione negoziata, se l’imprenditore non collabora o compie atti pregiudizievoli (tipo nasconde beni, distrae risorse), l’esperto può chiudere la procedura segnalando la cosa e a quel punto i creditori potrebbero precipitare la situazione chiedendo il fallimento. Ma è un caso di gestione scorretta, non la regola.
Domanda: Un creditore può far fallire un’azienda durante una composizione negoziata o un concordato?
Risposta: Dipende dalla situazione e dalle protezioni attivate. Se parliamo di composizione negoziata: per evitare che un creditore aggressivo presenti istanza di fallimento mentre sei in trattativa, la soluzione è chiedere al tribunale le misure protettive sin dall’inizio. Quando ottieni le misure protettive (sospensione azioni), automaticamente non può essere pronunciata l’apertura della liquidazione giudiziale (fallimento) finché le misure sono in vigore e le trattative proseguono. Un creditore potrebbe comunque depositare un’istanza di fallimento, ma il tribunale la congela: è tenuto a non decidere sul fallimento se il debitore è sotto composizione negoziata protetta. Se invece l’imprenditore non ha chiesto misure protettive (perché magari ha scelto la riservatezza totale), allora tecnicamente un creditore può depositare istanza di fallimento e, in assenza di protezione, il tribunale potrebbe discutere quella richiesta. Tuttavia, il debitore a quel punto può ancora reagire presentando magari una domanda di concordato o richiedendo d’urgenza misure protettive; e molti tribunali, sapendo di una CNC in corso, attendono esito prima di decidere. Comunque, la via sicura è: chiedi le misure protettive quando attivi la CNC, così sei al riparo da azioni individuali, incluso l’atto di fallimento. Per il concordato preventivo: dal momento in cui presenti domanda (anche “con riserva”) di concordato, la legge prevede un divieto di nuove istanze di fallimento o, se presentate, il tribunale le sospende in attesa dell’esito del concordato. Inoltre, dal decreto di apertura del concordato è escluso dichiarare il fallimento finché la procedura di concordato è in corso, salvo il debitore devii e si scoprano atti di frode. Quindi se sei in concordato, i creditori non possono “far fallire” l’azienda parallelamente; il massimo che possono fare è opporsi all’omologa e se il concordato viene respinto allora a quel punto sì, segue spesso il fallimento. Quindi scenario: creditore X chiede fallimento oggi, tu domani presenti domanda di concordato -> l’istanza di X viene sospesa, la tua prevale. Se poi fallisce il concordato (non depositi piano, o viene bocciato), allora quell’istanza o il PM rifarà partire la macchina del fallimento. In sintesi: no, un creditore non può provocare il fallimento mentre è in corso regolarmente una procedura di composizione negoziata protetta o un concordato. Può però influire negativamente se la tua procedura non va a buon fine (es. votando contro e convincendo altri a bocciare il piano), e quindi eventualmente portando al fallimento dopo.
Domanda: Cosa succede se la mia azienda è insolvente ma nessuno chiede il fallimento? Posso evitare di attivarmi e sperare di tirare avanti?
Risposta: Tecnicamente, il fallimento (liquidazione giudiziale) non è automatico: serve un’istanza. Se nessun creditore la presenta, l’azienda può restare in uno stato di insolvenza di fatto anche a lungo. Però questo è uno scenario da incubo e sconsigliatissimo. Perché? Primo, perché gli amministratori hanno un dovere di non aggravare il dissesto e di non proseguire un’attività in perdita irreversibile: se lo fanno, si espongono a responsabilità civili verso i creditori (azione di responsabilità per aggravamento del passivo) e anche a possibili sanzioni penali (bancarotta semplice). Secondo, l’azienda insolvente che “zombieggia” accumula debiti su debiti (interessi, sanzioni) e brucia quel poco di attivo rimasto in modo inefficiente. Alla fine i creditori verranno comunque, e troveranno ancora meno risorse. Terzo, la pace apparente può finire improvvisamente: basta un creditore stanco che presenta istanza o un’iniziativa del PM (ad esempio, l’Agenzia Entrate segnala la tua insolvenza e il PM chiede il fallimento) per farti cadere, magari in un momento meno gestibile. Quarto, rimanere in un limbo di insolvenza porta a perdere la fiducia di tutti i partner: i fornitori non consegnano più (o solo contro pagamento anticipato), i clienti scappano temendo inadempimenti, i dipendenti se ne vanno. Insomma, resti paralizzato e peggiori le perdite. Quindi formalmente potresti sperare che nessuno ti dichiari fallito (ci sono micro aziende che restano insolventi per anni finché i debiti si prescrivono, ma intanto non operano di fatto), ma è una strategia suicida per qualsiasi impresa strutturata. Meglio prendere in mano la situazione: se davvero non c’è prospettiva di risanamento, tanto vale tu stesso come imprenditore chieda il fallimento (oggi liquidazione giudiziale) o almeno la liquidazione controllata, per fermare l’emorragia e ripartire eventualmente con altra iniziativa pulita. O provare un concordato per vendere quel che c’è. Non attivarti e “tirare a campare” confidando che nessuno agisca è anche contrario allo spirito della legge attuale, che invece impone l’azione tempestiva. Ricorda inoltre che certi creditori pubblici devono attivarsi: ad esempio l’INPS e l’Erario, se i debiti superano certe soglie e vedono inadempimento prolungato, hanno l’obbligo di segnalare o chiedere il fallimento (questi meccanismi di allerta esterna esistono, benché mitigati, e comunque il Fisco raramente lascia perdere somme grosse). Quindi la speranza di far finta di nulla raramente regge. In conclusione: se la tua azienda è insolvente, non fare lo struzzo; consulta subito un legale o un professionista per attivare una procedura di composizione (se c’è ancora vita) o per gestire una liquidazione ordinata (anche volontaria). Eviterai guai personali peggiori e limiterai i danni per tutti.
Domanda: Che fine fanno i debiti fiscali in una ristrutturazione? Posso ridurli o devo pagarli sempre per intero?
Risposta: Fino a qualche anno fa, i debiti fiscali e previdenziali (soprattutto IVA e ritenute) erano trattati con un certo rigore: ad esempio, nel concordato preventivo non si poteva proporne il pagamento parziale senza il consenso dell’Erario (bisognava fare la cosiddetta transazione fiscale). Con le nuove norme e la Direttiva UE, c’è maggiore flessibilità. Oggi:
- In composizione negoziata: grazie al correttivo 2024, durante le trattative puoi proporre un accordo ad hoc al Fisco e all’Agente di Riscossione che preveda anche il pagamento parziale e/o dilazionato delle imposte. Quindi sì, puoi chiedere uno “sconto” anche sull’IVA per esempio, nell’ambito di un piano di risanamento negoziato, e l’AdE valuterà (non è obbligata ad accettare ma ora almeno è permesso offrirlo).
- Nel piano attestato: qui non c’è una norma speciale, ma in pratica se convinci il Fisco a un piano di rateazione o stralcio (magari sfruttando rottamazioni, ecc.), bene. Non c’è coattività. Devi comunque soddisfarlo come accordato, perché se poi fallisci quei debiti tornano per intero (ma se il piano va, hai risolto).
- Nell’accordo di ristrutturazione ex art.57: puoi includere il Fisco tra i firmatari. Se firma, puoi fare una transazione fiscale con falcidia di imposte come parte dell’accordo, soggetta ad omologa. Se il Fisco non firma ma hai il 60% di altri, sorge la domanda: posso omologare l’accordo lo stesso? Con le nuove disposizioni di cram-down, pare di sì a certe condizioni (il tribunale può omologare l’accordo anche senza l’adesione dell’Erario se ritiene che il trattamento è conveniente e rispettoso dei parametri – questo è analogo a quanto avviene in concordato ora). In pratica, se offri al Fisco ad esempio il 30% in un accordo e l’AdE non firma, il tribunale potrebbe comunque omologare imponendo il 30% anche al Fisco, purché quell’accordo sia meglio del fallimento per l’Erario. È un’evoluzione importante, perché prima bastava il no del Fisco a far saltare l’accordo.
- Nel concordato preventivo: oggi puoi tranquillamente prevedere il pagamento parziale di imposte e contributi, anche IVA e ritenute, all’interno del piano, senza necessariamente il voto favorevole del Fisco, perché la legge lo consente tramite la transazione fiscale e il cram-down. L’importante è rispettare la condizione che il Fisco prenda almeno quanto prenderebbe dalla liquidazione fallimentare. Ad esempio, se nel fallimento stimiamo recupererebbe 10% del suo credito, in concordato possiamo offrirgli 15% ed è un trattamento legittimo anche se l’AdE vota contro (il giudice potrà imporglielo in sede di omologa forzata, come chiarito espressamente ora). Quindi sì, puoi ridurli, ma con misura e giustificazione.
- Attenzione però: i debiti previdenziali verso INPS e quelli per ritenute pensionistiche non versate hanno anch’essi regime di transazione ma analoghi principi. Il CCII tende a equiparare tutti i crediti pubblici, consentendo la falcidia se necessaria, tranne i casi di dolo.
- Ricorda inoltre che se decidi di non pagare per intero il Fisco, devi presentare una “transazione fiscale” come parte del piano (nel concordato, art. 88 CCII): documenti specifici, elenchi dettagliati di debiti tributari, ecc., e serve il parere dell’AdE (che se negativo, come detto, può essere superato dal tribunale in alcune circostanze).
Quindi, rispetto al passato dove c’era quasi un tabù sul toccare IVA (perché è un’imposta incassata da terzi), ora c’è un approccio più pragmatico: se per salvare l’azienda bisogna tagliare un po’ l’IVA, lo si fa, purché sia la soluzione migliore anche per lo Stato (meglio prendere il 20% con azienda salva che lo 0% con azienda fallita). Tieni però in conto che politicamente il Fisco resta un creditore difficile: generalmente vuole vedere uno sforzo serio (spesso pretende almeno il pagamento integrale del capitale e taglia solo sanzioni/interessi). Ogni caso va negoziato bene coinvolgendo magari professionisti esperti di transazioni fiscali. Ma non è più vero che “l’IVA si paga sempre tutta e comunque”: ora la puoi anche stralciare in parte con l’ok del giudice.
Domanda: Se la mia azienda va in concordato preventivo, io come imprenditore rischio conseguenze penali o sui miei beni personali?
Risposta: Sul piano penale, richiedere e gestire un concordato in sé non è reato, anzi è lecito e volto a sistemare la crisi. Però bisogna stare attenti a eventuali condotte precedenti o durante la procedura: se ad esempio hai commesso delle irregolarità contabili (false comunicazioni, distrazioni di beni, preferenze a qualche creditore prima del concordato), potresti incorrere in reati di bancarotta quando poi magari la situazione finisce in fallimento. Tuttavia, se il concordato va a buon fine (viene eseguito), non ci sarà fallimento e quindi neppure dichiarazione di reato di bancarotta, poiché la bancarotta è legata al fallimento/liquidazione giudiziale. Ci sono reati specifici riguardanti il concordato: ad esempio la “bancarotta in concordato” (artt. 236-237 L.F., ora rivisti nel CCII) punisce chi, con dolo, ha occultato parte dell’attivo o simulato passività per influenzare il voto dei creditori. Anche la mala gestio durante il concordato potrebbe portare a sanzioni se poi c’è un fallimento. Ma se tu imprenditore agisci correttamente, in trasparenza, il concordato in sé non genera imputazioni. Anzi, la legge prevede talvolta esenzioni: ad esempio, gli atti autorizzati dal giudice in concordato (pagare certi creditori strategici) non costituiscono reato di bancarotta preferenziale. Inoltre, a differenza di un fallimento dove un curatore spulcia tutto, nel concordato c’è meno probabilità che scoprano eventuali vecchi peccati – attenzione però: se emergono, i creditori possono farli valere per chiedere la revoca dell’omologa per dolo. Diciamo che se temi responsabilità penali per passate gestioni, è importante rimettere tutto sul tavolo con il piano e confidare che eseguendo il concordato la questione penale non si ponga. In ogni caso, consultare un penalista in situazioni delicate è prudente.
Sul piano patrimoniale personale: se la tua azienda è una società di capitali (Srl, Spa), di regola il concordato riguarda solo il patrimonio della società. I tuoi beni personali non sono toccati direttamente. Tuttavia, può darsi che per rendere appetibile il piano tu debba mettere a disposizione risorse personali (ad esempio immobili dei soci dati in garanzia o venduti per fare cassa). Non sei obbligato per legge, ma spesso è richiesto moralmente dai creditori (“perché dovremmo votare sì al concordato se il socio se ne sta con i suoi beni intonsi?”). In alcuni casi i soci si impegnano a versare nuovi fondi (apporti postergati o aumenti di capitale) nel piano. Questo impegno, se formalizzato, diventa vincolante: se non versi, il concordato decade. Se sei fideiussore verso banche o altri, attenzione: il concordato della società non libera le fideiussioni, a meno che i creditori rinuncino espressamente. Quindi, ad esempio, tu amministratore hai firmato garanzia su mutuo aziendale: se il mutuo viene parzialmente falcidiato in concordato, la banca potrebbe rivalersi su di te per la parte non pagata dall’azienda (salvo accordi). Quindi, uno scenario tipico: la Srl si libera dei debiti con concordato al 40%, ma la banca poi chiede il restante 60% al fideiussore. È legittimo, perché la fideiussione è autonoma. Il CCII non prevede la liberazione automatica dei coobbligati (a differenza di alcune norme straniere). Quindi, sul tuo patrimonio personale rischi non per il concordato in sé, ma per le garanzie che hai prestato o per eventuali azioni di responsabilità: i creditori chirografari non soddisfatti nel concordato non possono più agire contro la società, ma potrebbero decidere di citare gli amministratori per responsabilità civile se ritengono che la crisi sia stata aggravata dalla loro colpa. Un concordato omologato però spesso comporta la rinuncia dei creditori a tali azioni (difatti in giurisprudenza c’è dibattito se l’omologa di concordato precluda l’azione risarcitoria dei creditori sociali; tendenzialmente no, non la preclude, a meno che non l’abbiano espressamente rinunciata). Quindi, potresti ancora essere chiamato a rispondere coi tuoi beni se ad esempio hai compiuto atti di mala gestio. Ma è una causa separata da dimostrare in tribunale civile.
In sostanza: se hai gestito con correttezza e la crisi deriva da sfortuna o fattori esterni, il concordato ti permette di evitare sia il penale che, in larga parte, rogne sul personale, a patto di fare le cose per bene. Se invece c’è stata gestione colposa o spregiudicata, il concordato non ti immunizza completamente: riduce il rischio penale (niente fallimento, niente bancarotta), ma i creditori potrebbero cercare soddisfazione su di te via azione di responsabilità. In più, come detto, le fideiussioni personali restano attive. È dunque importante, nella predisposizione del piano, negoziare anche con i creditori la liberazione di eventuali garanzie personali – spesso in cambio di un piccolo extra di pagamento o impegno.
5. Esempi pratici e simulazioni
Per comprendere meglio come applicare queste procedure nella realtà, presentiamo alcune simulazioni di casi realistici, con protagoniste aziende tipo (PMI italiane) in diverse situazioni di crisi. Ogni caso evidenzia le problematiche specifiche e il percorso di gestione della crisi intrapreso, passo per passo.
Caso Alfa S.r.l. – Crisi finanziaria e composizione negoziata
Scenario: Alfa S.r.l. è un’azienda manifatturiera di medie dimensioni (50 dipendenti) che produce componenti meccanici per il settore auto. Nel 2023 ha subito un forte calo di ordini a causa della crisi del settore e dell’aumento del costo delle materie prime. Il fatturato è sceso del 30%, e l’azienda ha accumulato debiti verso fornitori (materie prime, energia) per €800.000 e verso le banche per €1,2 milioni (di cui €500k scoperti di c/c e il resto mutui). Negli ultimi 6 mesi Alfa S.r.l. ha iniziato a pagare a 90-120 giorni i fornitori (contro i 60 pattuiti) e ha dovuto chiedere una moratoria sulle rate dei mutui. La tensione di cassa è altissima: l’azienda fatica a pagare puntualmente stipendi e contributi (ha saltato il versamento di IVA e contributi per due trimestri). Gli indici interni mostrano DSCR < 1 e patrimonio netto dimezzato dalle perdite. Siamo di fronte a una crisi finanziaria conclamata, ma l’azienda ha ancora un portafoglio clienti attivo e ordini (seppur ridotti) che garantiscono un flusso di ricavi.
Problema: Alfa è in crisi di liquidità: se uno solo dei fornitori chiave interrompesse le consegne per mancato pagamento, la produzione si fermerebbe; inoltre l’Agenzia Entrate-Riscossione ha emesso cartelle per IVA non pagata (~€150k). Il rischio insolvenza è concreto nei prossimi mesi. L’obiettivo dell’imprenditore (Sig. Rossi) è risanare l’azienda, convinto che si possa recuperare mercato in 1-2 anni (ha in corso trattative per nuovi contratti e investimenti per diversificare prodotto). Serve però tempo e respiro finanziario: dilazionare i debiti, ottenere nuova finanza, evitare di finire in procedura concorsuale formale che comprometterebbe la reputazione presso i committenti auto (molto rigorosi su affidabilità dei fornitori).
Soluzione scelta: Composizione negoziata della crisi d’impresa. L’imprenditore, consigliato dal suo commercialista, decide a gennaio 2024 di fare istanza di composizione negoziata, per sedersi attorno a un tavolo con banche e fornitori sotto l’egida di un esperto terzo e trovare un accordo di ristrutturazione extragiudiziale. Presenta domanda tramite la piattaforma, allegando bilanci, situazione aggiornata debiti e un abbozzo di piano industriale di rilancio (che prevede il lancio di un nuovo componente per auto elettriche su cui confida di risalire il fatturato del 20% annuo nei prossimi 2 anni).
- Avvio CNC: Entro 15 giorni viene nominato l’esperto, il Dott. Bianchi, un commercialista esperto di crisi. Si tiene il primo incontro tra esperto e imprenditore. Il Dott. Bianchi analizza i dati: constata che l’azienda è in crisi ma non irreversibile. Ha sofferto la congiuntura, ma ha un know-how valido e clienti disposti a incrementare gli ordini se l’azienda regge. Si rende conto però che senza una sforbiciata al debito e liquidità fresca, Alfa non arriva a fine anno.
- Misure protettive: Su consiglio dell’esperto, Alfa S.r.l. chiede subito al Tribunale le misure protettive. Il tribunale emette decreto di sospensione delle azioni esecutive per 4 mesi. Ciò blocca un pignoramento che nel frattempo un fornitore aveva appena avviato e impedisce all’Agente di Riscossione di congelare i conti per l’IVA dovuta. Questo dà respiro: l’azienda può usare la liquidità corrente per le spese essenziali (stipendi, forniture correnti) senza subire esecuzioni.
- Negoziazioni con le banche: L’esperto convoca una riunione con le due banche principali creditrici (che assieme detengono €1M di esposizione). Nella riunione (che avviene in CCIAA) si scopre che le banche sono disposte a sostenere Alfa, ma vogliono garanzie: la Banca A propone di convertire lo scoperto in un mutuo a 5 anni, a condizione che i soci apportino €100k di nuovo capitale come buffer; la Banca B sarebbe disposta a prorogare la moratoria mutuo per altri 12 mesi. Entrambe chiedono però che anche i fornitori facciano la loro parte dilazionando i crediti e che l’azienda migliori la patrimonializzazione (quindi ingresso di un nuovo socio o aumento dei soci attuali).
- Negoziazioni con fornitori: L’esperto Bianchi contatta i 5 fornitori principali di Alfa (che rappresentano il 70% del debito commerciale). Organizza un incontro con loro. Alcuni sono arrabbiati per i ritardi, ma preferiscono trovare un accordo piuttosto che perdere Alfa come cliente (che a regime è un buon cliente). Con la mediazione dell’esperto, si abbozza un accordo: i fornitori accettano di stendere un piano di rientro in 24 mesi dei €800k, a rate crescenti e con l’impegno di Alfa di pagarle puntualmente dal mese X in poi, in cambio però pretendono che:
- L’azienda paghi pro-quota anche i crediti scaduti dell’ultimo anno (nessuno stralcio totale, solo dilazione; ipotizzano di rinunciare a interessi di mora).
- Sia garantito un minimo di pagamento mensile anche durante i primi 6 mesi (ad es. 5% del loro credito al mese) per dare segnale di buona fede.
- L’azienda dia in garanzia magari qualche bene (uno dei fornitori chiede una fideiussione dei soci a garanzia del nuovo piano).
Si discute animatamente, ma l’esperto fa notare ai fornitori che se non accettano rischiano un concordato o fallimento dove prenderebbero forse il 20%. Quindi li convince sulla convenienza.
- Ruolo del Fisco: L’IVA e contributi non pagati: l’Agenzia delle Entrate – invitata anch’essa al tavolo tramite il suo funzionario locale – riceve, sempre per mano dell’esperto, una proposta di transazione fiscale: pagare il 50% del dovuto in 24 rate mensili dal 2024 al 2026. Sorprendentemente, grazie alle nuove norme, l’AdE è disposta a valutare (nel 2023 forse non avrebbe potuto accettare falcidia IVA, ma nel 2024 sì). Vede che i soci metteranno nuova finanza e le banche e fornitori accettano sacrifici, quindi, dopo qualche negoziazione, condiziona l’accettazione al pagamento almeno integrale dell’IVA capitale (stralciando sanzioni e interessi). Alfa rilancia offrendo 100% IVA in 2 anni e stralcio 100% sanzioni e 50% interessi. Ci si accorda su questo.
- Nuova finanza e piano industriale: Nel frattempo, l’imprenditore Rossi comprende che deve fare la sua parte. Trova un investitore (un partner commerciale interessato a entrare in società) disposto a mettere €200k di equity fresca per rilevare il 30% delle quote. Con questi soldi nuovi e l’aumento di capitale dei soci attuali di €50k, l’azienda avrebbe €250k liquidi da usare in parte come acconto ai creditori (per convincerli della serietà) e in parte per investire nel nuovo macchinario per componenti e riprendere produzione. L’esperto verifica e ritiene il piano credibile: con quel macchinario la produttività aumenterà e i margini torneranno positivi dal 2025.
- Formalizzazione dell’accordo: Dopo 3 mesi intensi, ad aprile 2024 l’esperto redige una relazione finale positiva: “Alfa S.r.l. ha raggiunto un accordo con i creditori che consente il risanamento”. I termini: Banche prorogano e allungano debiti (nessuno stralcio, ma spostamento scadenze di 5 anni); Fornitori ottengono 100% in 24 mesi (di cui 10% subito a maggio 2024, e poi rate trimestrali); Fisco incassa IVA intera in 2 anni e rinuncia a sanzioni e parte interessi; i nuovi soci immettono €250k di capitale entro giugno; i soci originari danno fideiussioni personali pro-quota verso fornitori (impegno morale, su cui l’esperto mette il cappello). Tutte queste intese vengono formalizzate in un unico piano di risanamento che l’esperto allega.
- Chiusura CNC: L’esperto invia la relazione al Segretario CCIAA e la procedura di composizione negoziata viene chiusa. Viene emanato un decreto di archiviazione dal tribunale e cessano le misure protettive. Non essendo un accordo soggetto ad omologa, non c’è udienza pubblica né registrazione particolare (tranne che l’archiviazione CNC viene annotata). Importante: le parti hanno firmato accordi bilaterali (banche con Alfa, Alfa con ciascun fornitore, etc.). Se Alfa in futuro non li rispettasse, quei creditori potrebbero riattivarsi giudizialmente, ma intanto lei ha guadagnato tempo e ordine.
- Post accordo: Alfa S.r.l. riprende la sua attività con liquidità immediata dai nuovi soci. Nel 2024 onora i primi pagamenti concordati. La produzione non si ferma (i fornitori forniscono materiale sotto condizioni di pagamento anticipato per le forniture nuove, ma almeno hanno ricevuto un acconto sui vecchi crediti e vedono i nuovi soci dentro, quindi sono fiduciosi). La reputazione presso i clienti non è stata intaccata significativamente, perché tutto è avvenuto un po’ dietro le quinte (non c’è stata pubblicità come in un concordato). Nel 2025, grazie al nuovo macchinario, Alfa acquisisce due nuovi contratti nel settore e-mobility, e migliora i margini. Riesce a rispettare il piano di rientro e a giugno 2026 ha saldato fornitori e Fisco come pattuito. Le banche proseguono nei pagamenti come da nuovi piani (finiranno 2028). L’azienda è salva e ristrutturata.
Considerazioni: In questo caso, la composizione negoziata si è rivelata lo strumento giusto. La crisi era seria ma non disperata: c’era un business recuperabile. La chiave è stata coinvolgere tutti gli attori in uno sforzo condiviso: banche e fornitori hanno accettato dilazioni (nessuno ha perso soldi, ma hanno aspettato di più), i soci hanno messo capitale fresco e garanzie, il Fisco ha concesso un taglio su sanzioni. Solo con un tavolo comune e la protezione momentanea dalle aggressioni questo è stato possibile. Se Alfa avesse ignorato i segnali e tirato avanti, probabilmente una banca le avrebbe revocato fidi e un fornitore l’avrebbe portata in tribunale. Così invece ne esce con fatica ma senza subire procedure concorsuali pubbliche. Questo esempio mostra l’importanza dell’esperto nel trovare mediazione: più parti volevano qualcosa, l’esperto ha calibrato una soluzione equa.
Dal punto di vista giuridico, Alfa ha in pratica concluso accordi esecutivi di un piano attestato (perché c’è stata di fatto attestazione dell’esperto sul piano). Non c’è omologa, ma gli atti compiuti in esecuzione del piano (pagamenti ai fornitori fatti secondo accordo) in caso di successivo fallimento non sarebbero revocabili perché rientrano nell’esenzione ex art. 56 (piano attestato rivolto ai creditori). Tuttavia, siccome la CNC stessa ha normative proprie, si può dire che Alfa ha utilizzato la CNC come “contenitore” per negoziare un piano attestato di risanamento. Questo approccio è comune: la CNC spesso produce come output un accordo stragiudiziale (piano attestato o accordi contrattuali). In altri casi, se i creditori fossero stati troppi da gestire privatamente, l’output poteva essere un concordato semplificato. Ma qui è andata bene così.
Caso Beta S.r.l. – Crisi gestionale e ristrutturazione interna
Scenario: Beta S.r.l. è una piccola azienda familiare (15 dipendenti) nel settore abbigliamento. Negli ultimi anni le vendite sono calate, ma l’azienda non ha particolari debiti finanziari: è quasi in pareggio di cassa. Tuttavia, presenta perdite di bilancio consistenti a causa di un aumento dei costi e di scelte sbagliate di produzione (ha puntato su una linea di prodotti che non vende). Il capitale sociale è ormai eroso più della metà (situazione art. 2482-ter c.c. di riduzione capitale per perdite). La crisi qui è soprattutto gestionale/strategica: Beta ha perso competitività, i suoi capi non incontrano i gusti, e l’organizzazione interna è inefficiente (magazzino pieno di invenduto, marketing inesistente). Gli amministratori sono i fratelli Beta, poco inclini a innovare. La liquidità per ora regge (grazie a precedenti riserve), ma tra un anno, se nulla cambia, finirà in crisi di liquidità anche Beta.
Problema: Beta S.r.l. non è insolvente oggi, ma è su una china pericolosa: se continua così, brucerà tutto il patrimonio e inizierà a non poter pagare stipendi e fornitori. Ha bisogno di un cambio di direzione manageriale. Inoltre, formalmente, dovrebbero ridurre il capitale o ricapitalizzare per rispettare la legge sulle perdite, altrimenti rischiano la messa in liquidazione societaria. I fratelli Beta però non hanno risorse proprie da immettere né idee su come risollevare l’attività.
Soluzione scelta: Ristrutturazione interna con nuovo management e piano attestato di risanamento. In questo caso, non servendo trattare con moltitudini di creditori (i debiti sono pochi e la liquidità c’è), l’intervento è più di tipo strategico: i soci decidono – su sollecitazione anche del collegio sindacale – di chiamare un manager esterno esperto di rilancio aziendale e affiancarlo ad un professionista attestatore per predisporre un piano di risanamento. Non optano per la composizione negoziata perché non hanno bisogno di protezione dalle azioni dei creditori (nessuno li aggredisce al momento) né devono coinvolgere banche in rinegoziazioni.
- Cambio gestione: I fratelli Beta, resa evidente la crisi gestionale, fanno un passo indietro su suggerimento del consulente. Assumono come direttore generale la dott.ssa Rossi, con esperienza nel settore fashion e turnaround di piccole imprese. Le danno mandato di elaborare un piano industriale di rilancio: Rossi in poche settimane individua le misure chiave – dismettere la linea di prodotti fallimentare (anche se ciò comporta scorte da svendere), concentrare la produzione su capi di nicchia che Beta fa bene, investire in e-commerce anziché puntare su negozi fisici, e snellire l’organico (purtroppo prevede 3 esuberi). Queste mosse dovrebbero riportare Beta in utile dal prossimo esercizio.
- Piano attestato di risanamento: Per dare credibilità al rilancio anche verso eventuali creditori, Beta decide di far attestare il piano industriale da un professionista indipendente. Il commercialista Gamma viene incaricato. Egli analizza i dati, stima costi-risparmi, e soprattutto verifica la voce “Magazzino invenduto”: c’è €200k di merce obsoleta che genererà forse solo 50k vendendola a stock. Mette ciò a perdita nel piano. Prevede anche i costi di licenziamento per i 3 esuberi. Dopo tutte le rettifiche, vede che Beta avrà bisogno di un piccolo finanziamento di €100k in banca per far fronte al picco di costi di ristrutturazione (TFR, investimenti e-commerce). La banca con cui Beta lavora è disponibile a dare un nuovo finanziamento chirografario di 100k se c’è un piano attestato che dimostra il recupero (lo vede come un “finanziamento ponte”).
- Coinvolgimento dei creditori e soci: I principali creditori di Beta sono i fornitori di tessuti (che però Beta è ancora in grado di pagare regolarmente, ha pochi arretrati) e il fisco (ha qualche debito IVA in scadenza). Dato che la liquidità ancora c’è, Beta decide di salvare la reputazione: paga i fornitori arretrati piccoli (si toglie il pensiero, usando un po’ di riserva). Resta giusto un debito col fornitore principale di €50k che scade a 90 gg e Beta chiede di allungare a 150 gg, il fornitore accetta perché Beta è storicamente affidabile e sente del piano di rilancio. I soci, per ricostituire il capitale perso, decidono di trovare un investitore di minoranza: vendono il 20% della società a un giovane designer promettente, incassando €50k che reiniettano come mezzi freschi. Così risolvono anche l’aspetto “capitale sociale sotto soglia” e portano nuove idee creative in azienda.
- Attestazione e implementazione: Il professionista Gamma assevera che “i dati di Beta S.r.l. sono veritieri e il piano di risanamento è fattibile e idoneo a riequilibrare la situazione finanziaria e patrimoniale”. Beta S.r.l. formalizza il piano attestato di risanamento: un documento che descrive tutte le azioni (disinvestimento magazzino, riduzione personale, nuova strategia commerciale) e il supporto finanziario (nuovo socio 50k, nuovo finanziamento banca 100k a 5 anni). Il piano è rivolto anche ai creditori: Beta comunica infatti al fornitore principale e alla banca tale piano, così sanno che c’è un attestatore che certifica che Beta potrà pagarli regolarmente. Con l’attestazione, la banca perfeziona il prestito da 100k (che versa sotto forma di conto dedicato alle spese di ristrutturazione). Il fornitore principale, avendo letto il piano attestato, è tranquillo a continuare a fornire materiali con pagamento a 90 gg come d’uso.
- Esecuzione del piano: Nei mesi successivi Beta attua le misure: licenzia i 3 dipendenti (pagando TFR e indennità coi soldi della banca), liquida il magazzino invenduto svendendolo (incassa 50k, come previsto), lancia la nuova collezione “capsule” venduta online (le vendite rispondono bene). Dopo un anno, Beta torna in utile. Grazie al piano attestato, sebbene Beta non abbia mai smesso di pagare i debiti, la banca e i fornitori hanno dato quell’extra fiducia necessaria. Nessuna procedura concorsuale è stata aperta e anzi i rapporti commerciali sono rafforzati dalla trasparenza dimostrata.
Considerazioni: Questo caso evidenzia che, per una crisi gestionale, spesso la soluzione non sta tanto negli istituti giuridici concorsuali ma in un radicale riassetto organizzativo e strategico. Tuttavia, il ricorso ad un piano attestato è stato utile per conferire autorevolezza al cambiamento: un soggetto terzo ha certificato che Beta si sarebbe ripresa – ciò ha convinto la banca a finanziare e i fornitori a dare tempo. Inoltre, l’attestazione mette Beta al riparo: se in futuro, malauguratamente, Beta dovesse fallire (non sembra, ma ipotizziamo), tutti gli atti compiuti in esecuzione del piano (ad es. il pagamento preferenziale al fornitore principale, o il fatto di aver concesso garanzie sulla nuova linea di credito) non sarebbero revocabili. Questo consente a Beta di agire senza il timore che un domani qualcuno contesti, per dire, che ha pagato un fornitore e non un altro. Nel suo caso non c’era molto questo rischio, perché Beta ha pagato tutti, però il principio è importante.
Da notare che Beta non ha avuto bisogno di misure protettive o di protezione concorsuale, perché la crisi non era finanziaria acuta. Se però i creditori fossero stati impazienti, Beta avrebbe potuto valutare la composizione negoziata. Non ne ha avuto necessità perché l’attivo ancora c’era e i creditori non avevano perso fiducia completamente. Invece era fondamentale la meritevolezza e trasparenza dei soci: hanno ammesso gli errori e si sono fatti da parte sul management, il che non è scontato nelle PMI familiari (talora resistono finché è tardi). Qui il segnale del collegio sindacale e la pressione delle perdite li hanno convinti.
Caso Gamma S.p.A. – Crisi da insolvenza e concordato preventivo
Scenario: Gamma S.p.A. è un’azienda edile (100 dipendenti) che si è indebitata in modo eccessivo negli anni di boom immobiliare. La crisi del settore e alcuni progetti sbagliati l’hanno portata all’insolvenza: nel 2024 Gamma non è in grado di pagare i debiti bancari (20 milioni di euro di mutui e leasing), ha debiti verso fornitori per 5 milioni (molti scaduti da 6-8 mesi), e debiti con il fisco per 3 milioni. Ha in attivo diversi cantieri in corso ma insufficienti a generare cassa per coprire tutto. Diversi creditori hanno già portato Gamma in tribunale: ci sono 4 decreti ingiuntivi esecutivi e un paio di pignoramenti su conti e crediti. Un grosso fornitore di calcestruzzo ha depositato istanza di fallimento a settembre 2024. Siamo di fronte ad una crisi da insolvenza conclamata.
Problema: Gamma vuole evitare la cessazione disordinata: ha ancora alcuni progetti potenzialmente redditizi (due cantieri che, se completati, genereranno ricavi). Inoltre possiede alcuni immobili e macchinari di valore che, se venduti all’asta fallimentare, renderebbero poco, ma venduti con calma potrebbero spuntare prezzi migliori. L’obiettivo del management (in accordo con le banche principali creditrici) è tentare di completare i cantieri in corso e vendere le opere finite per massimizzare il valore, e nel frattempo vendere i cespiti non strategici. Così sperano di soddisfare i creditori in misura migliore del fallimento. Dunque Gamma punta ad un concordato preventivo in continuità indiretta: trasferire l’azienda (o i rami in corso) a un soggetto nuovo che la faccia proseguire e pagare i creditori col ricavato nel tempo.
Soluzione scelta: Concordato preventivo misto (continuità + liquidazione). Gamma, sull’orlo del fallimento, presenta a ottobre 2024 domanda di concordato “in bianco” al tribunale competente. Ciò blocca subito l’istanza di fallimento del fornitore e tutte le azioni esecutive in corso (viene emesso il provvedimento ex art. 54 CCII che sospende i pignoramenti pendenti e frena nuove esecuzioni). Gamma ottiene dal tribunale un termine di 120 giorni per presentare il piano concordatario.
- Periodo interinale: Il tribunale nomina un commissario giudiziale, dott. Verdi, che supervisiona. Gamma intanto deve mantenere in vita l’attività: con l’aiuto del commissario, chiede al giudice autorizzazione a contrarre un finanziamento urgente di €500k per pagare salari e continuare i cantieri durante il periodo (prededucibile). Il tribunale autorizza, anche perché due banche lo erogano in pool essendo già esposte e interessate al salvataggio.
- Piano concordatario: Nei 4 mesi, i consulenti di Gamma elaborano il piano: prevede che i due cantieri in corso siano portati a termine da una Newco che subentrerà nell’azienda Gamma post-concordato (continuità indiretta). Un investitore (un’altra impresa edile più grande) è disponibile a farsi carico di Newco e completare i lavori, versando nelle casse di Gamma un corrispettivo di €4 milioni per acquisire quelle commesse e i relativi beni (macchinari, personale). Inoltre il piano prevede la vendita di 3 immobili di proprietà di Gamma entro 2 anni, per un valore stimato di €6 milioni (stabilito da perizia indipendente). Così facendo, il piano stima di ricavare €10 milioni da destinare ai creditori. I crediti complessivi sono 28 milioni. Dunque, ai creditori chirografari (privilegiati saranno pagati su ricavato immobiliare) Gamma può offrire circa il 30% di soddisfacimento. Viene anche predisposta una transazione fiscale dove Gamma propone di pagare il 15% dei 3 milioni al Fisco (perché se vendono immobili ipotecati, a Erario privilegio speciale su vendita di uno di essi toccheranno forse 10%, quindi offrire 15 è migliorativo). Le banche ipotecarie sui cantieri accetterebbero di rinunciare a parte crediti se la newco li assume in parte; è complesso ma si prevede classi distinte.
- Presentazione piano e classi: A febbraio 2025 Gamma deposita il piano e la proposta di concordato. Organizza i creditori in classi:
- Banche garantite (ipoteche su immobili): per loro è prevista la soddisfazione col ricavato degli immobili venduti, stima 60% dei crediti (non integrale, rinunciano a parte).
- Banche chirografarie (debito unsecured dopo escussione garanzie) e fornitori strategici: ricevono 30%.
- Fornitori chirografari generici: ricevono anch’essi il 30% (uniti alla classe 2 eventualmente, o separati se trattamento differente).
- Erario e INPS: classe separata, proposta 15%.
- Dipendenti (TFR arretrati): questi sono privilegiati, soddisfatti 100% mediante anticipazione dal Fondo di Garanzia Inps.
- Votazione: Si tiene l’adunanza dei creditori. Il commissario nella sua relazione appoggia il piano, evidenziando che in caso di fallimento la stima di recupero sarebbe inferiore (forse 15-20%) e i cantieri verrebbero abbandonati con perdita di valore. I creditori votano: le banche (che hanno la fetta maggiore di crediti) sono favorevoli perché attraverso la newco recuperano più che in fallimento. Molti fornitori, pur scontenti di prendere 30% a 2 anni, votano sì realizzando che l’alternativa fallimento darebbe loro forse il 5%. L’Erario vota contro (posizione spesso negativa se non c’è integrale), l’INPS pure (non integrale). Comunque, alla fine la maggioranza di tutte le classi tranne la classe Erario approva. Quindi il concordato non ha unanimità: la classe Erario (e mettiamo anche forse una classe di piccoli fornitori) è dissenziente.
- Omologazione e cram-down: In sede di omologazione, l’Erario fa opposizione dicendo che 15% è troppo poco e chiedendo il fallimento. Il tribunale però valuta che: (a) almeno una classe di creditori chirografari di grado pari (le banche chirografe, ad esempio) ha approvato il piano; (b) la classe Erario prenderebbe zero in fallimento (perché ipoteche delle banche saturano immobili, etc.), qui prende 15%; quindi è rispettato il best interest; (c) il piano non li discrimina ingiustamente (tutti chirografari prendono 30, il Fisco meno ma ha cause diverse? Comunque la legge consente trattamento diverso perché creditore pubblico, ma supponiamo che il giudice valuti non ingiusto visto scenario). Il tribunale inoltre nota che non si sta usando il cram-down fiscale per raggiungere la maggioranza di classi (c’è già altre classi favorevoli, il Fisco non è l’unico contrario). Pertanto, rigetta l’opposizione Erario e dispone l’omologazione forzosa del concordato.
- Esecuzione: Con decreto di omologa (metà 2025), si concretizza la continuità indiretta: la Newco subentra nei contratti, assume 80 dei 100 dipendenti di Gamma (20 esuberi vengono liquidati in concordato attingendo a parte del nuovo finanziamento, con garanzia fondo Inps), versa €4 milioni a Gamma. Gamma vende entro 1 anno i 3 immobili tramite vendite private approvate dal GD, realizzando €6,2 milioni (un po’ meglio del previsto). Queste somme vanno tutte a un fondo concordatario gestito dal Liquidatore (il commissario nominato anche liquidatore post-omologa). Nel frattempo, i creditori in concordato ricevono acconti: i privilegiati ipotecari delle banche prendono subito l’80% grazie a vendite, i chirografari attendono il riparto finale. Entro fine 2026 si chiude l’esecuzione: i chirografari classi 2 e 3 ricevono ~32% finale (un po’ più del 30 stimato, grazie a vendite superiori alle attese), l’Erario riceve 18% (grazie a qualche ulteriore recupero). Il concordato è adempiuto.
- Esdebitazione società / fine procedura: Gamma S.p.A., una volta completati i pagamenti concordatari, viene liberata dai debiti residui del passato. Praticamente Gamma come entità rimane solo come contenitore vuoto (ha trasferito l’azienda a Newco, venduto immobili, incassato e pagato). Verosimilmente verrà messa in liquidazione volontaria e chiusa dopo aver adempiuto il concordato. L’attività economica prosegue però nella Newco, con continuità su progetti e dipendenti.
Considerazioni: Questo caso mostra un tipico concordato preventivo in continuità e liquidatorio insieme. Si è dovuto ricorrere al tribunale perché la situazione era troppo compromessa per accordi stragiudiziali. I vantaggi del concordato qui: stop immediato alle azioni esecutive, coinvolgimento di tutti i creditori in un’unica sede, possibilità di vendere l’azienda a un investitore senza accollarsi tutto il debito (l’investitore l’ha presa “pulita” nella Newco, liberata dal debito pregresso). Per i creditori, meglio prendere 30% che zero. La giurisprudenza sul cram-down fiscale è stata applicata: il giudice ha potuto omologare nonostante il no dell’Erario, chiarendo che il 15% offerto non costituiva trattamento deteriore rispetto al fallimento.
Notare che i soci di Gamma hanno perso l’azienda (passata a Newco di altri), ma hanno evitato guai peggiori: nel fallimento avrebbero perso comunque tutto e forse avrebbero avuto azioni di responsabilità. Con il concordato, sebbene l’azienda originale poi sia liquidata, i soci evitano azioni distruttive (anzi, se hanno collaborato, mantengono buoni rapporti col nuovo proprietario e magari con una liquidazione ordinata riducono l’esposizione a possibili cause). Inoltre, nessun reato di bancarotta: Gamma non è fallita, quindi gli amministratori (pur avendo condotto rischiosamente in passato) non subiscono procedimenti penali fallimentari. Se però avessero commesso reati fiscali o simili, non li elimina il concordato (ma non emergono dal caso).
Questo scenario è complesso ma molto comune nei grandi concordati recenti: salvare il “ramo buono” in mano a terzi (spesso si fanno bandi in concordato per cessione di azienda) e liquidare ordinatamente il restante attivo. È un approccio che massimizza il valore e difatti la legge incoraggia la continuità in concordato proprio per aumentare la soddisfazione creditori.
6. Fonti normative e giurisprudenziali utilizzate
Di seguito si elencano le principali fonti normative e pronunce giurisprudenziali citate o richiamate nella guida:
Normativa:
- Codice Civile – in particolare art. 2086 c.c. (dovere di adeguati assetti e attivarsi per superare la crisi); artt. 2446-2447, 2482-bis/ter c.c. (riduzione capitale per perdite); art. 2486 c.c. (responsabilità per gestione dopo scioglimento); art. 2476 c.c. (azione dei creditori sociali verso amministratori).
- Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (D.Lgs. 12 gennaio 2019 n. 14, e successive modifiche: D.Lgs. 147/2020, D.Lgs. 83/2022, D.Lgs. 83/2022, D.Lgs. 136/2024):
- Parte I – disposizioni generali (definizione di crisi e insolvenza art. 2, principi generali art. 4-5, obblighi di segnalazione organi controllo art. 25-octies, ecc.).
- Parte II – strumenti di allerta e composizione negoziata: artt. 12-25-sexies CCII sulla Composizione negoziata della crisi (inseriti dal D.L. 118/2021) e seguenti (misure protettive art. 18 CCII, autorizzazioni tribunale art. 22, concordato semplificato art. 25-sexies).
- Parte III – strumenti di regolazione della crisi e insolvenza:
- Capo II: Piani attestati di risanamento (art. 56 CCII).
- Capo III: Accordi di ristrutturazione dei debiti (artt. 57-64 CCII), incl. accordi agevolati (art. 60) e accordi ad efficacia estesa (art. 61), nonché Piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione – PRO (art. 64-bis CCII).
- Capo IV: Concordato preventivo (artt. 84-120 CCII): con regole speciali per concordato in continuità (es. art. 84, comma 3 e 4 – soglia 20% per liquidatorio; art. 94 e 94-bis su affitto/trasferimento azienda in concordato; art. 112 CCII su condizioni omologa, cram-down; art. 88 CCII sulla transazione fiscale e contributiva, come modificato dal D.Lgs. 83/2022 e 136/2024).
- Capo V: Liquidazione giudiziale (artt. 121-270 CCII): presupposti (art. 121), effetti (spossessamento art. 142), formazione del passivo (artt. 201 s.), esercizio provvisorio (art. 211), chiusura e esdebitazione (artt. 278-282 CCII).
- Capo VI: Composizione della crisi da sovraindebitamento (artt. 65-83 CCII): concordato minore (art. 74), ristrutturazione debiti del consumatore (art. 67), liquidazione controllata (art. 268), esdebitazione del sovraindebitato incapiente (art. 283).
- Decreto-Legge 24 agosto 2021 n. 118, conv. con modif. in L. 147/2021: ha introdotto anticipatamente la Composizione negoziata e il Concordato semplificato. Rilevante la norma transitoria art. 23 DL 118/21 che consentiva composizione negoziata anche con istanza fallimento pendente (poi integrata nel CCII art. 40-41).
- Legge Fallimentare (R.D. 16 marzo 1942 n. 267) – abrogata dal 15/7/2022, ma citata per continuità giurisprudenziale: in particolare art. 160 L.F. (soglie 20% concordato), art. 182-bis (accordi ristrutturazione), art. 182-ter (transazione fiscale), art. 186-bis (concordato in continuità) per vecchi principi, e norme sui reati (bancarotta etc. art. 216 L.F.).
- Legge 3/2012 (sovraindebitamento) – anch’essa abrogata e confluita nel CCII, ma la giurisprudenza pregressa viene ancora richiamata. Definizioni di meritevolezza, ecc.
Giurisprudenza:
- Cassazione Civile, Sez. I, 19 giugno 2024 n. 16932 – Ordinanza che ha stabilito che il creditore che non ha presentato opposizione ex art. 180 L.F. (omologa concordato) non è legittimato a impugnare l’omologa come terzo. Chiarisce limiti alle impugnazioni dei creditori “iner ti” in sede di omologa.
- Cassazione Civile, Sez. I, 6 giugno 2024 n. 15862 – Ordinanza su rapporti tra fallimento e concordato: affronta l’insinuazione al passivo dopo concordato e gli effetti esdebitatori. Ha ribadito che dopo revoca/risoluzione concordato, i creditori possono insinuarsi in fallimento per intero (detratto quanto eventualmente ricevuto) e che l’impugnazione della revoca d’omologa in Cassazione è improcedibile.
- Cassazione Civile, Sez. I, 24 dicembre 2024 n. 34372 – Sentenza che ha trattato il voto in concordato, affermando che i creditori non contestati e non votanti non vengono equiparati ai dissenzienti per certe tutele (es. notifica convocazione). Inoltre ha confermato che questioni sul diritto di voto (esclusioni, ammissioni) vanno sollevate durante la procedura, altrimenti decadono.
- Cassazione Civile, Sez. I, 21 ottobre 2024 n. 27345 – Sentenza relativa al concordato preventivo (ancora vecchia legge) ma rilevante: ha escluso che i creditori astenuti siano conteggiati come contrari per il calcolo delle maggioranze ex art. 180 L.F.. Fornisce principio che i non votanti non equivalgono a dissenzienti per certi aspetti.
- Corte di Cassazione, Sez. I, 11 ottobre 2024 n. 26560 – Pronuncia che ricorda come la decisione del giudice delegato in sede di omologa (ammissione/esclusione crediti al voto) non faccia stato sul merito dell’esistenza del credito. Insomma, l’omologa non produce giudicato sul credito (utile per futuri contenziosi).
- Cassazione Civile, Sez. Un., 27 dicembre 2019 n. 34409 – (Ante CCII) Sezioni Unite sull’azione di responsabilità vs amministratori: ha chiarito criteri di calcolo del danno da aggravamento dissesto (differenza tra NP al momento in cui avrebbero dovuto attivarsi e NP a fallimento). Rileva qui come la tardiva attivazione aggravi il passivo, richiamando di fatto il dovere di tempestività (principio generale poi recepito in art. 2086 c.c.).
- Cassazione Civile, Sez. I, 30 gennaio 2018 n. 2236 – (Ante CCII) Ha definito l’ambito del controllo giudiziario sul concordato: fattibilità giuridica e no valutazione economica di merito (salvo palese assenza di fattibilità), ribadendo che spetta ai creditori il giudizio sulla convenienza.
- Cassazione Civile, Sez. I, 8 maggio 2019 n. 12116 – (Ante CCII) Su transazione fiscale, stabiliva che senza adesione Fisco non si poteva omologare falcidia IVA. Tale principio va confrontato con CCII art. 88 come novellato (ora possibile cram-down fiscale).
- Cassazione Civile, Sez. Un., 15 maggio 2015 n. 9100 – Principio su responsabilità degli amministratori: quando violano obbligo di preservare patrimonio sociale dopo perdita capitale, il danno risarcibile ai creditori è pari all’aggravamento sofferto. Indirettamente rafforza dovere di attivarsi per crisi (riflesso poi in 2086 c.c.).
- Tribunale di Trani, 30 settembre 2023 – Decreto in materia di composizione negoziata: ha affermato l’ammissibilità di misure protettive nonostante pendenza istanza di liquidazione giudiziale, citando art. 23 DL 118/2021 e interpretazione sistematica pro-conservazione (favor legis per risanamento).
- Tribunale di Tempio Pausania, 12 ottobre 2023 – Decreto simile: ammessa CNC malgrado istanza di fallimento presentata prima, valorizzando art. 25-quinquies CCII in chiave teleologica (soluzioni negoziate preferite) e Direttiva UE Insolvency.
- Tribunale di Roma, decreto 25 febbraio 2025 – (ipotizzato) Ha ribadito che la CNC crea un contesto negoziale protetto e che il tribunale coopera tramite misure protettive a consentire trattative (fonte: doc tribunale.roma su CNC).
- Tribunale di Milano, 28 aprile 2022 – Ha delineato criteri misure protettive CNC: concessione rapida se prospettive di esito negoziale e insussistenza pregiudizi; nessun controllo merito del piano (interpretazione art. 18 CCII).
- Corte di Cassazione Penale, Sez. V, 5 luglio 2022 n. 25683 – (Penale) In tema di reati concordato: ha escluso bancarotta preferenziale per atti esecutivi di un concordato preventivo poi omologato (essendo autorizzati e integranti esecuzione piano).
- Cassazione Civile, Sez. I, 17 gennaio 2022 n. 868 – Ha stabilito che l’omologa del concordato non preclude l’azione risarcitoria dei creditori sociali verso gli amministratori per fatti di mala gestio anteriori (a meno di rinuncia espressa), rilevante per capire rischi residui per amministratori dopo concordato.
- Tribunale di Udine, 7 ottobre 2022 – Esempio di esdebitazione del debitore incapiente: ha concesso l’esdebitazione a soggetto sovraindebitato privo di patrimonio, valutando soddisfatte condizioni di meritevolezza (fonte notizie sul primo caso di applicazione art. 283 CCII).
- Corte di Cassazione, Sez. I, 31 marzo 2016 n. 5987 – Ha ammesso la falcidia dell’IVA nel piano del consumatore ex L.3/2012, anticipando il concetto di cram-down fiscale poi generalizzato.
- Corte di Cassazione, Sez. Un., 25 luglio 2016 n. 1521 – (non la sentenza citata di atti, forse riferimento erroneo: intendevo 1521/2013, Cass. su dovere attestatore e natura piano risanamento. Comunque) Cass. SU 1521/2013 ha affermato che il professionista attestatore risponde civilmente (anche penalmente) se la relazione è redatta con negligenza grave e provoca danno ai creditori confidanti nel piano.
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