Accertamento Per Esterovestizione: Cosa Fare E Come Difendersi

Hai ricevuto un accertamento da parte dell’Agenzia delle Entrate per presunta esterovestizione della tua società estera? Ti contestano che, pur avendo sede legale all’estero, la tua attività sarebbe in realtà gestita e controllata dall’Italia?

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in fiscalità internazionale, contenzioso tributario e difesa del contribuente – ti spiega in modo chiaro cosa significa “esterovestizione”, quando può essere contestata e quali strumenti hai a disposizione per difenderti legalmente.

Cos’è l’esterovestizione e perché viene contestata

L’esterovestizione si verifica quando una società risulta formalmente residente all’estero, ma secondo l’Amministrazione finanziaria italiana ha in realtà la sede effettiva della direzione e gestione in Italia. In questi casi, l’Agenzia delle Entrate può riqualificare la residenza fiscale della società e assoggettare a tassazione in Italia tutti i redditi prodotti, anche all’estero.

La contestazione è particolarmente frequente nei confronti di società costituite in Paesi a fiscalità agevolata o da soggetti italiani che operano prevalentemente sul territorio nazionale, pur avendo trasferito formalmente la sede fuori dai confini italiani.

Quali sono i rischi per chi riceve un accertamento per esterovestizione

Le conseguenze di un accertamento per esterovestizione sono molto gravi. L’Agenzia delle Entrate può pretendere:

  • il recupero delle imposte non pagate (IRES, IVA, IRAP) su tutti i redditi realizzati;
  • l’applicazione di sanzioni molto elevate (fino al 240% dell’imposta accertata);
  • l’iscrizione a ruolo e l’avvio di azioni esecutive (fermi, pignoramenti, ipoteche);
  • in alcuni casi, anche la segnalazione per reati fiscali, con apertura di un procedimento penale.

Come si dimostra l’esterovestizione

L’Agenzia delle Entrate basa i suoi accertamenti su una serie di indizi: domicilio degli amministratori, luogo effettivo in cui si prendono le decisioni aziendali, presenza o meno di una struttura operativa reale all’estero, utilizzo di conti correnti italiani, contratti sottoscritti in Italia, gestione operativa localizzata nel territorio nazionale, e-mail, documentazione interna e risultati delle indagini bancarie e finanziarie.

Anche in presenza di una sede legale estera, se l’attività si svolge concretamente in Italia, il Fisco può riqualificare la società come residente ai fini fiscali in Italia.

Come difendersi da un accertamento per esterovestizione

Per difendersi è fondamentale agire tempestivamente e con una strategia chiara. Le principali azioni da valutare sono:

  • analizzare la legittimità e la correttezza della notifica e dei contenuti dell’accertamento;
  • raccogliere prove concrete della presenza e dell’operatività reale all’estero (contratti, sedi, personale, flussi operativi);
  • impugnare l’accertamento entro i termini di legge (60 giorni nella maggior parte dei casi), presentando ricorso davanti al giudice tributario;
  • richiedere, se necessario, la sospensione dell’esecuzione per evitare l’avvio di misure cautelari;
  • valutare con il proprio legale la possibilità di definizione agevolata o di un accordo con l’Amministrazione per ridurre gli impatti economici, in presenza di margini di trattativa.

Perché è importante agire subito

Ignorare o sottovalutare un accertamento per esterovestizione è un grave errore. Le contestazioni di questo tipo possono generare imposte arretrate per diversi anni, con l’aggravio di interessi, sanzioni e potenziali procedimenti penali.

Agendo con tempestività, è possibile non solo difendersi in modo efficace, ma in molti casi ottenere l’annullamento totale o parziale dell’atto, oppure rientrare nei limiti della legalità con soluzioni sostenibili e strategicamente vantaggiose.

Come possiamo aiutarti

Alla fine della guida, puoi richiedere una consulenza riservata con l’Avvocato Monardo. Analizzeremo insieme la tua posizione, verificheremo la fondatezza dell’accertamento e valuteremo la strategia difensiva più adatta per proteggere il tuo patrimonio, la tua attività e la tua reputazione.

Introduzione

L’esterovestizione identifica la fittizia localizzazione all’estero della residenza fiscale di una società, al fine di sottrarla al fisco italiano. In altri termini, una società formalmente costituita all’estero viene di fatto amministrata dall’Italia, beneficiando indebitamente di un regime fiscale estero più vantaggioso. L’Agenzia delle Entrate e la giurisprudenza considerano tali situazioni come elusive o abusive, in quanto prive di sostanza economica reale all’estero e finalizzate principalmente al risparmio d’imposta in Italia.

Questa guida avanzata esamina in dettaglio la normativa italiana vigente (in particolare l’art. 73 del TUIR e le modifiche apportate dalla L. 208/2015), la prassi amministrativa e la più recente giurisprudenza (Corte di Cassazione, commissioni tributarie e richiami alla Corte di Giustizia UE). Saranno inoltre analizzati i commenti autorevoli della dottrina e fornite tabelle riepilogative di criteri, casi e prove. In seguito, alcune simulazioni pratiche illustreranno tipici accertamenti di esterovestizione in settori chiave (digitale, consulenza, manifatturiero, holding, immobiliare). Una sezione FAQ risponderà ai quesiti frequenti di imprenditori e consulenti. Infine, saranno delineate linee guida difensive, con consigli su documentazione probatoria, strategie di ricorso e strumenti come il ruling, seguite da un elenco completo delle fonti normative, giurisprudenziali e dottrinali citate.

(Nota: in questa guida i termini “esterovestizione” o “società esterovestita” si riferiscono sempre a società formalmente estere ma con residenza fiscale contestata in Italia.)

Quadro normativo italiano sull’esterovestizione

Criteri di residenza fiscale delle società (art. 73 TUIR)

L’art. 73, comma 3, del TUIR (D.P.R. 917/1986) stabilisce i criteri per individuare la residenza fiscale di società ed enti. Una società si considera fiscalmente residente in Italia se, per la maggior parte del periodo d’imposta, presenta almeno uno dei seguenti collegamenti col territorio italiano:

  • Sede legale in Italia: la sede risultante dall’atto costitutivo o dallo statuto.
  • Sede dell’amministrazione in Italia: il luogo in cui si svolge in concreto la direzione e gestione dell’ente, da cui promanano le decisioni operative (concetto equiparato alla “place of effective management” nelle convenzioni internazionali).
  • Oggetto principale in Italia: il luogo in cui si esercita prevalentemente l’attività statutaria oppure si realizza l’insieme degli affari societari.

Questi criteri hanno pari dignità e operano in alternativa: è sufficiente il riscontro di uno solo di essi (per oltre metà dell’anno) perché la società sia considerata residente e quindi tassata in Italia sui redditi ovunque prodotti. Il legislatore dà così rilievo prevalente a elementi sostanziali (sede amministrativa effettiva, attività economica) rispetto al solo criterio formale della sede legale. In sintesi, una società di capitali con sede legale all’estero ma direzione effettiva o principale attività in Italia sarà considerata comunque residente a fini fiscali italiani. Ciò può generare ipotesi di “doppia residenza” (dual residence) in caso di conflitto con criteri analoghi di altri Stati; tali conflitti vengono risolti dalle convenzioni contro le doppie imposizioni, in genere mediante il tie-breaker della sede di direzione effettiva (place of effective management), come previsto all’art. 4(3) del Modello OCSE. Va segnalato che le più recenti evoluzioni del Modello OCSE (2017) e l’MLI prevedono in alternativa il ricorso ad accordi tra autorità competenti per definire la residenza in casi di dual residence, rafforzando l’approccio sostanziale caso per caso.

Tabella 1 – Principali criteri di collegamento per la residenza fiscale delle società

Criterio di collegamentoDescrizione (art. 73, co. 3 TUIR)
Sede legale in ItaliaLa sede legale o statutaria è fissata in Italia.
Sede dell’amministrazione in ItaliaLa direzione effettiva e la gestione ordinaria sono esercitate in Italia (place of effective management).
Oggetto principale in ItaliaL’attività principale (oggetto sociale) è svolta prevalentemente in Italia.
Durata (> 183 giorni)I criteri suddetti devono sussistere per la maggior parte del periodo d’imposta (almeno ~6 mesi).
EffettiSe ricorre almeno uno dei criteri sopra, la società è considerata residente fiscale in Italia, soggetta a IRES su tutti i redditi ovunque prodotti.

Presunzione legale di residenza per esterovestizione (art. 73, comma 5-bis TUIR)

Oltre ai criteri generali sopra esposti, il legislatore ha introdotto una presunzione relativa di residenza in Italia per contrastare specifiche operazioni elusive di esterovestizione. Questa norma, originariamente inserita dal D.L. 223/2006 e poi modificata dalla Legge 208/2015 (Stabilità 2016), è oggi contenuta nell’art. 73, comma 5-bis del TUIR.

Contenuto della presunzione: “Salvo prova contraria, si considera esistente nel territorio dello Stato la sede dell’amministrazione di società ed enti che detengono partecipazioni di controllo […] in soggetti di cui alle lettere a) e b) del comma 1 [società ed enti residenti in Italia], se, in alternativa: a) sono controllati, anche indirettamente, […] da soggetti residenti in Italia; b) sono amministrati da un consiglio di amministrazione o altro organo equivalente composto in prevalenza da consiglieri residenti in Italia”.

In parole semplici, la presunzione scatta quando una società estera presenta contemporaneamente questi elementi:

  • possiede una partecipazione di controllo in una società o ente residente in Italia (funzione di holding di società italiane);
  • e ricorre almeno una delle seguenti condizioni: (a) la società estera è a sua volta controllata, anche indirettamente, da soggetto/i residente/i in Italia; (b) l’organo di amministrazione della società estera è composto in maggioranza da soggetti residenti in Italia.

Se tali presupposti sono soddisfatti, la legge presume che la sede di amministrazione della società estera sia in Italia, rendendola quindi fiscalmente residente in Italia, “salvo prova contraria” da parte del contribuente. Si tratta di una presunzione legale relativa, che comporta un’inversione dell’onere della prova: in prima battuta l’Agenzia può dedurre la residenza italiana basandosi su quegli elementi formali di collegamento (controllo societario e componenti del CdA), e sarà poi il contribuente a dover fornire evidenze idonee a confutare la natura artificiosa dello schema e dimostrare l’effettiva operatività all’estero.

Ambito oggettivo: questa norma mira a colpire soprattutto le società estere “di mero assetto”, create da soggetti italiani per interporre un guscio societario a capo di società italiane (es. holding esterovestite) allo scopo di delocalizzare fittiziamente i profitti. Nella Relazione governativa e nella prassi (Circ. AdE 28/E/2006) si sottolinea infatti la difficoltà di accertare caso per caso la sede effettiva e l’oggetto principale, specie in presenza di holding, società di gestione di beni immateriali (licensing/royalties companies) o entità estere costituite per gestire determinati asset di gruppi italiani. La presunzione è stata introdotta proprio per “facilitare il compito del verificatore” in tali casi, fornendo indici certi che attivano un controllo più immediato. In pratica, si vuole porre un freno alle “esterovestizioni” intese come localizzazioni fittizie della residenza societaria all’estero con il prevalente scopo di eludere gli obblighi fiscali italiani, valorizzando gli aspetti concreti e sostanziali dell’operatività societaria al posto di quelli formali (in linea col principio internazionale di substance over form).

È importante notare che la presunzione non esaurisce tutte le ipotesi di esterovestizione contestabili: l’Agenzia delle Entrate conserva comunque poteri di accertamento ordinari della residenza effettiva anche in situazioni diverse, assumendosene l’onere probatorio (ad esempio verso società estere prive di partecipazioni in Italia ma sospettate di essere gestite dall’Italia). In altre parole, al di fuori dei casi rientranti nel comma 5-bis, l’Amministrazione finanziaria potrà dedurre ugualmente la residenza in Italia di entità esterovestite, ma dovrà farlo attraverso una meticolosa dimostrazione fattuale (c.d. accertamento “pieno” della sede di direzione effettiva).

Evoluzione normativa: la formulazione originaria del 2006 della presunzione (art. 73 comma 5-bis) includeva come condizioni alternative il controllo italiano e la composizione del CdA, senza richiedere espressamente che la società estera fungesse da holding di società italiane. Ciò comportava un ambito molto ampio, potenzialmente applicabile a qualsiasi società estera controllata da italiani, anche se operante all’estero. La Legge 208/2015 (art. 1 comma 142) ha modificato la norma restringendone l’applicazione alle sole società estere che detengono partecipazioni di controllo in società italiane. In parallelo, nel 2016 sono state abrogate le liste dei “paradisi fiscali” per diverse discipline (ad es. i costi black list, ex art. 110 c.10 TUIR, abrogati dalla stessa L. 208/2015). Di conseguenza, la presunzione di esterovestizione oggi non dipende più dalla residenza in un “Paese a fiscalità privilegiata”, bensì dai legami strutturali con il territorio italiano descritti sopra. Ciò la rende applicabile anche a società formalmente stabilite in Stati UE o white list, superando le precedenti limitazioni territoriali ma con un focus sulle società esterovestite che fungono da meri contenitori di partecipazioni italiane. Questa evoluzione normativa risponde anche alla necessità di allineare la disciplina interna ai principi UE sulla libertà di stabilimento (cfr. infra).

La portata attuale dell’art. 73 c.5-bis è stata chiarita dalla prassi recente: se una società estera non svolge il ruolo di holding di società italiane, la presunzione legale non si applica. Ad esempio, l’Agenzia ha escluso l’esterovestizione in un caso in cui un contribuente italiano deteneva una società estera operativa (e-commerce con beni e dipendenti propri) ma priva di partecipazioni in Italia, pur essendo prevista la relocation del contribuente in Italia: la norma anti-esterovestizione non trovava applicazione perché quella società estera “non svolge alcuna funzione di holding”, restando comunque ferma la possibilità di valutarne la residenza effettiva ex comma 3 in sede di accertamento ordinario. In un’altra risposta ad interpello, l’Agenzia ha confermato che una società estera controllata da italiani ma senza partecipazioni italiane non rientra nel perimetro della presunzione. Queste precisazioni evidenziano che la norma del comma 5-bis è mirata a schemi societari elusivi ben definiti (società esterovestite “di mero investimento” in Italia), mentre situazioni diverse richiederanno la prova concreta della direzione effettiva in Italia, caso per caso.

Chiarimenti sulla nozione di controllo: l’art. 73, comma 5-ter TUIR specifica che, ai fini della verifica del “controllo” rilevante per la presunzione, occorre considerare la situazione esistente al termine dell’esercizio della società estera controllata. Inoltre, per i controlli esercitati da persone fisiche residenti, si aggregano anche le partecipazioni detenute dai familiari indicati dall’art. 5, comma 5, TUIR. Ciò impedisce facili elusioni tramite dispersione delle quote tra parenti. La Circolare 28/E/2006 ha inoltre chiarito che il controllo può essere valutato anche per interposta persona o attraverso strutture societarie plurime: la presunzione opera pure se tra il soggetto italiano e la società estera controllata intercorrono uno o più schermi societari intermedi (controlli indiretti a cascata). Pertanto, l’Amministrazione può risalire la catena partecipativa per individuare l’eventuale controllo ultimo riferibile a soggetti italiani.

Onere della prova: come anticipato, la presunzione di cui al comma 5-bis comporta una inversione dell’onere della prova a carico del contribuente esterovestito. In presenza dei requisiti di legge, l’Agenzia potrà presumere la residenza italiana senza dover ulteriormente dimostrare il motivo elusivo (che è implicito). Spetterà quindi alla società estera fornire la prova contraria, ossia dimostrare con elementi oggettivi che la sua sede di amministrazione effettiva è realmente all’estero e che non si tratta di una costruzione artificiosa. Questa prova dovrà consistere in elementi sostanziali (struttura operativa, personale, luogo effettivo di decision-making, ecc.), come dettagliato più avanti nelle linee difensive.

La circ. 28/E/2006 sottolinea che la norma “stabilisce, in presenza delle summenzionate condizioni, l’inversione dell’onere della prova” in capo al contribuente, chiamato a dimostrare la genuinità della localizzazione estera. Tuttavia, vale la pena menzionare che una recente riforma del processo tributario (L. 130/2022) ha introdotto il comma 5-bis all’art. 7 D.Lgs. 546/92, codificando in via generale che “l’amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato”. Ciò non elimina le presunzioni legali previste dalla legge, ma ribadisce che – anche in ambito di esterovestizione – l’Amministrazione deve quantomeno fornire indizi gravi, precisi e concordanti per sostenere la contestazione. In sostanza, prima di pretendere dal contribuente la prova contraria, il Fisco deve quantomeno provare le circostanze che attivano la presunzione stessa e ogni ulteriore elemento indiziario di effettiva direzione italiana. La giurisprudenza più recente, infatti, pur applicando la presunzione, continua a richiedere un serio substrato probatorio iniziale a carico del Fisco (vedi infra, Cass. 3386/2024 e Cass. 14485/2024).

Limiti all’uso dell’interpello: data la natura fattuale della verifica di residenza, la prova contraria va tipicamente esibita in sede di accertamento o contenzioso, e non può essere oggetto di interpello preventivo ordinario. L’Agenzia ha chiarito sin dal 2007 (Risoluzione 312/E/2007) che non è ammesso un interpello disapplicativo per chiedere di non applicare la presunzione di esterovestizione, in quanto: (1) la dimostrazione richiesta si basa su elementi di fatto complessi, non facilmente desumibili a priori da documentazione; (2) l’interpello disapplicativo è ammesso solo per norme che incidono sul quantum del tributo, non per quelle che attengono alla soggettività passiva e alla residenza fiscale. Pertanto, il contribuente non può ottenere dall’Agenzia un “via libera” preventivo sulla residenza estera della propria società: dovrà semmai predisporre un dossier probatorio da utilizzare in caso di verifica o avvalersi di altri strumenti (come l’Advance Tax Ruling sui nuovi investimenti, se ricorrono i presupposti, o l’adesione al regime di adempimento collaborativo per società di grandi dimensioni). In ogni caso, eventuali istanze di interpello sulla residenza vengono dichiarate inammissibili dall’Agenzia (come ribadito anche recentemente: la risposta a interpello n. 164/2023 ha confermato che un interpello “ordinario” non può risolvere questioni di fatto sulla residenza fiscale, limitandosi a chiarire l’ambito di applicazione del comma 5-bis).

Prassi dell’Agenzia delle Entrate e orientamenti interpretativi

Negli anni l’Agenzia delle Entrate ha affinato gli strumenti per individuare l’esterovestizione, emanando documenti di prassi e sviluppando metodi investigativi mirati. Vediamo i principali orientamenti e commenti autorevoli sul tema.

Prassi amministrativa e documenti ufficiali

  • Circolare 28/E del 4 agosto 2006: è la prima circolare esplicativa sull’esterovestizione, emessa subito dopo l’introduzione dell’art. 73 commi 5-bis e 5-ter ad opera del D.L. 223/2006. In essa l’Agenzia illustra la ratio della norma, evidenziando la volontà di colpire le costruzioni elusive di “puro artificio” e di facilitare l’accertamento della residenza effettiva. La circolare ribadisce che i criteri del comma 5-bis (controllo italiano e CdA italiano) sono indicatori “astrattamente idonei” a sorreggere la presunzione di residenza in Italia, poiché già riconosciuti dalla prassi internazionale e nazionale come sintomatici della effective management. Viene inoltre chiarito che la norma non impedisce al Fisco di contestare l’esterovestizione anche in “altri casi”, assumendosi l’onere della prova (come già segnalato). Un passaggio importante della circolare riguarda l’interpretazione dell’“attività principale” nel concetto di sede dell’amministrazione effettiva: l’Italia ha formulato un’osservazione in sede OCSE affermando che il luogo di direzione effettiva si identifica anche con quello in cui è esercitata l’attività principale. Ciò sembra espandere l’analisi sostanziale: non solo dove si prendono le decisioni, ma anche dove concretamente si svolge la principale attività di impresa (spesso, coincidono). La circolare, infine, enfatizza il miglioramento dell’efficacia dell’azione di contrasto apportato dalla presunzione, visto come un deterrente alle pratiche elusive tramite spostamento fittizio all’estero, e sancisce espressamente l’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, in linea col principio sostanza sulla forma.
  • Risoluzione 312/E del 5 novembre 2007: risponde a un interpello di una holding italo-olandese ed è esplicativa circa l’impossibilità di utilizzare l’interpello per evitare l’applicazione del comma 5-bis. L’Agenzia vi afferma che la prova contraria all’esterovestizione deve essere fornita in sede di accertamento e non con interpello, per i motivi già discussi (elementi fattuali complessi e ambito dell’interpello disapplicativo limitato a norme sul debito d’imposta, non su residenza). Nella fattispecie, la società era dual resident (Italia e Paesi Bassi) e la risoluzione richiama la convenzione Italia-Olanda che applica il tie-breaker della sede di direzione effettiva. L’Agenzia in sostanza evitò di esprimersi sul merito fattuale (rinviando la questione alla verifica concreta), ma confermò l’operatività del comma 5-bis per presumere la residenza italiana fino a prova contraria, coerentemente con il trattato (in base al quale la tassazione spetta allo Stato della direzione effettiva). Questa risoluzione ha fatto scuola nel definire la strategia “no interpello” in materia di esterovestizione.
  • Risoluzione 9/E/2015: (non specificamente trattata qui, ma rilevante nel contesto) ha fornito chiarimenti sulla nozione di “sede dell’amministrazione” delle società, in un diverso ambito (imposta di registro), definendola come “luogo in cui si svolgono le attività amministrative e di direzione dell’ente”, coincidente con la sede effettiva. Questo concetto, coerente con la giurisprudenza, torna utile anche nelle contestazioni di esterovestizione.
  • Risposte a interpello dell’Agenzia (2020-2023): negli ultimi anni l’Agenzia ha pubblicato varie risposte a interpello che, pur non potendo risolvere casi concreti di residenza (inammissibili come detto), hanno offerto interpretazioni utili dei criteri normativi:
    • Risposta n. 27/2022: ha escluso l’applicabilità della presunzione di esterovestizione ad una società estera controllata da italiani ma priva di partecipazioni in società italiane, confermando che in tale situazione manca un presupposto fondamentale (la funzione di holding) e dunque “non trova applicazione la norma sull’esterovestizione”. La stessa risposta chiarisce che diviene irrilevante approfondire il concetto di “prevalenza” dei consiglieri residenti (lettera b) se manca a monte il requisito della holding.
    • Risposta n. 164/2023: caso simile al precedente, con un contribuente persona fisica in procinto di rientrare in Italia e amministratore di una società estera operativa (e-commerce) senza filiali italiane. Anche qui l’Agenzia ha ribadito che la presunzione relativa ex art. 73(5-bis) non si attiva in assenza di partecipazioni in società italiane. Ha però aggiunto un caveat: ciò non esclude che la società possa essere ritenuta residente ex comma 3, se risulterà in facto amministrata dall’Italia; semplicemente, tale valutazione fattuale esula dall’interpello ed è demandata all’eventuale attività di verifica fiscale. Inoltre la risposta evidenzia come solo l’attività di mera gestione (holding passiva) giustifica la riqualificazione della residenza per contrastare evasione, mentre nel caso di un’azienda commerciale estera effettivamente operativa “è corretto che i profitti vengano tassati nello Stato estero ove la società svolge la propria attività”. Questo passaggio è importante perché riconosce il principio di effettività economica: la norma anti-esterovestizione mira a colpire gli schermi societari vuoti, non le imprese autenticamente radicate all’estero.
    • Risposta n. 387/2023: (richiamata da fonti dottrinali, es. Osservatorio Fisc.) avrebbe ulteriormente confermato l’interpretazione delle condizioni del comma 5-bis, sebbene i dettagli esulano da questa trattazione per brevità.
  • Verifiche fiscali e cooperazione internazionale: L’Amministrazione finanziaria, per accertare l’esterovestizione, utilizza poteri istruttori ampi. Oltre ai tradizionali controlli documentali (verbali di assemblee, delibere, bilanci, contratti) e alle indagini finanziarie (movimenti bancari, flussi di denaro tra Italia ed estero), sempre più frequente è il ricorso alla cooperazione amministrativa internazionale. Attraverso lo scambio di informazioni con altri Paesi (scambio automatico CRS, richieste mirate, mutua assistenza) il Fisco italiano può ottenere evidenze sull’operatività estera della società (ad esempio: numero di dipendenti, utenze, contratti locali, ecc.). Anche ispezioni in loco (in collaborazione con autorità estere) possono avvenire nei casi più complessi. Negli ultimi anni, grazie ai database centralizzati, l’Agenzia incrocia dati su residenze di amministratori, localizzazione di IP address delle comunicazioni, meta-dati delle email aziendali e altre tracce digitali per individuare dove effettivamente si svolge la gestione quotidiana della società. Tali elementi, pur se tecnologicamente avanzati, restano strumenti per costruire il quadro probatorio indiziario, che va poi completato e valutato secondo i principi tradizionali (gravità, precisione, concordanza degli indizi, ecc.).

Dottrina e commentatori autorevoli

La tematica dell’esterovestizione è stata oggetto di ampio dibattito dottrinale, anche in relazione ai principi di abuso del diritto e libertà comunitarie. Di seguito alcune posizioni e contributi rilevanti:

  • Principio del “wholly artificial arrangement”: La Cassazione e la dottrina concordano nel ritenere che la fittizietà della localizzazione estera vada valutata alla luce del concetto europeo di costruzione puramente artificiosa. Già la Cass. penale sul caso “Dolce & Gabbana” (2015) e poi le sezioni tributarie (sentenze nn. 33234-33235/2018) hanno stabilito che una società con sede legale all’estero può dirsi esterovestita solo se ha posto in essere una costruzione di puro artificio volta esclusivamente a un indebito vantaggio fiscale. Ciò significa che se l’entità estera presenta qualche sostanza economica o ragioni economico-giuridiche non marginali, non si dovrebbe automaticamente configurare un abuso della libertà di stabilimento. La dottrina ha sottolineato questo aspetto: Zanotti (2019) commenta che la Cassazione, seguendo la scia del caso D&G, richiede l’assenza totale di reali attività estere e il fine esclusivamente fiscale, per parlare di esterovestizione abusiva. Analogamente, Cordeiro Guerra (2020) evidenzia come il confine tra legittimo risparmio d’imposta (scelta della sede più conveniente) e abuso si collochi nella mancanza di sostanza commerciale dell’insediamento estero. L’OCSE nelle sue raccomandazioni anti-abuso (2012/772/UE) definisce “costruzione di puro artificio” una struttura priva di sostanza economica, creata essenzialmente per eludere il fisco, che va dunque ignorata dalle autorità tributarie guardando invece alla sostanza economica dell’operazione.
  • Esterovestizione e abuso del diritto (Cass. 23150/2022): Un tema dibattuto era se l’esterovestizione rientrasse nel perimetro generale dell’abuso del diritto (oggi codificato nell’art. 10-bis dello Statuto del Contribuente) o se fosse fattispecie distinta. La Corte di Cassazione, con sentenza n. 23150 del 25/07/2022, ha chiarito che la disciplina sulla residenza fiscale prescinde dalla prova di un intento elusivo specifico, costituendo piuttosto un’applicazione oggettiva di criteri di collegamento. In quella pronuncia si è affermato il principio di diritto secondo cui l’art. 73, c.3 TUIR individua i criteri di collegamento paritetici ed alternativi (sede legale, sede amministrativa, oggetto) la cui ricorrenza determina la residenza in Italia e l’assoggettamento al fisco italiano, a prescindere dall’accertamento di un’eventuale finalità elusiva del contribuente. Marco Cardillo (FiscoOggi, 2022) commenta che, in conclusione, l’Amministrazione finanziaria nel contestare una residenza fittizia non deve provare l’intento abusivo né il vantaggio fiscale indebito. Questa impostazione, apparentemente in tensione con il concetto di costruzione artificiosa, in realtà si spiega così: in sede tributaria basta provare i fatti oggettivi (sede effettiva in Italia, mancanza di attività reale fuori) per tassare la società in Italia, senza ulteriore onere di dimostrare la volontà di evasione. Sarà eventualmente il contribuente a opporre giustificazioni economiche alternative. Dunque l’esterovestizione viene trattata come fattispecie elusiva “di diritto speciale”, già tipizzata dalla legge, che non richiede l’attivazione del complesso procedimento antiabuso ex art. 10-bis L. 212/2000 (avviso di chiusura della verifica, contraddittorio rafforzato, ecc.). Ciò non toglie, naturalmente, che si tratti sostanzialmente di una pratica elusiva o abusiva, ma semplicemente la si persegue con la norma specifica di cui all’art. 73 TUIR invece che col generale art. 10-bis.
  • Libertà di stabilimento UE: la dottrina internazionale e nazionale ha a lungo discusso della compatibilità delle norme anti-esterovestizione con la libertà di stabilimento garantita dagli artt. 49-54 TFUE. Il leading case è la sentenza Cadbury Schweppes (Corte di Giustizia UE, 12/09/2006, C-196/04), la quale ha stabilito che costituire una società in un altro Stato membro per usufruire di una fiscalità più favorevole non è di per sé un abuso della libertà di stabilimento. Tuttavia, restrizioni nazionali a tale libertà sono ammissibili se mirano specificamente a contrastare comportamenti consistenti nel creare costruzioni puramente artificiose, prive di effettiva realtà economica, finalizzate ad eludere la normativa fiscale nazionale. Questo principio è diventato il metro di giudizio: misure anti-esterovestizione devono colpire solo le società “schermo”, non certo impedire scelte imprenditoriali genuine di stabilirsi in un altro Stato UE. La Cassazione italiana ne ha tenuto conto. Nella sentenza 3386/2024 (infra) e in altre, la Suprema Corte richiama espressamente Cadbury, affermando che dare prevalenza al dato fattuale della sede effettiva diversa da quella legale “non si pone in conflitto con la libertà di stabilimento”, a patto che si persegua solo il caso di sede estera fittizia priva di reale attività economica. In conclusione, come sintetizzato in dottrina, “la localizzazione fittizia all’estero della residenza fiscale di una società, al prevalente scopo di sottrarsi al più gravoso regime nazionale, costituisce un abuso della libertà di stabilimento passibile di contrasto”, mentre l’insediamento effettivo e stabile in un altro Stato rientra nella libertà garantita (Galieni, 2022). La stessa vicenda Dolce & Gabbana è istruttiva: i designer italiani avevano creato una holding in Lussemburgo per sfruttare un regime fiscale più leggero sui marchi, ma secondo i giudici quella struttura non era wholly artificial – vi era un ufficio con attività minima, sufficiente ad evitare la configurazione di reato penale (cfr. infra). In ambito tributario, Cass. 33234/2018 ne seguì l’esempio, negando l’esterovestizione perché non esclusivamente finalizzata a vantaggi fiscali. D’altro canto, la stessa Cassazione 23150/2022 sembra tracciare un confine: se sussistono i criteri di collegamento ex art.73, la società è tassabile in Italia “indipendentemente” dal fine elusivo; ma nell’applicare tali criteri occorre comunque rispettare il limite posto dal diritto UE, ossia accertare che non vi sia un’autentica attività economica all’estero meritevole di tutela. In pratica, le due prospettive convergono: dimostrare la sede di amministrazione in Italia implica quasi sempre dimostrare che la presenza estera è fittizia, quindi l’abuso risiede oggettivamente in quella fittizietà, senza bisogno di indagare l’animus soggettivo.
  • Altri contributi dottrinali: la letteratura italiana ha analizzato vari profili, tra cui i risvolti penal-tributari (reato di omessa dichiarazione in caso di esterovestizione, vedi oltre), la distinzione con altre figure (es. stabile organizzazione occulta vs esterovestizione), le interazioni con le norme CFC (Controlled Foreign Companies) e la pianificazione fiscale internazionale lecita. Assonime in diversi studi ha evidenziato la necessità di certezza del diritto: gli imprenditori dovrebbero poter sapere ex ante quali requisiti di sostanza evitare per non incorrere in contestazioni, suggerendo di definire best practice (es. un numero minimo di amministratori indipendenti esteri, una percentuale di costi locali sul totale, etc.). Tali indicazioni però non hanno forza di legge; restano orientamenti utili nella costruzione di un’adeguata tax compliance internazionale. Fantozzi e altri autori sottolineano la differenza tra esterovestizione ed esterovestizione “impropria”: la prima è quella qui trattata (sede fittizia estera di società di fatto italiane), la seconda è una locuzione talvolta usata per indicare l’intestazione fittizia di attività estere a soggetti di comodo per farle apparire non imponibili in Italia (fenomeno affine ma relativo soprattutto a persone fisiche che schermano patrimoni con società estere; oggi affrontato con il monitoraggio fiscale quadro RW e il reato di patrimonialità fittizia).

In sintesi, la dottrina converge sulla legittimità delle norme anti-esterovestizione purché applicate con rigore probatorio e nel rispetto dei principi UE: si può colpire chi trasferisce solo sulla carta la sede all’estero (“finti stranieri”), mentre chi svolge davvero attività fuori confine dev’essere lasciato libero di beneficiare di regimi esteri (il classico principio per cui “il contribuente ha diritto di scegliere la strada fiscalmente meno onerosa”, come riconosciuto anche dalla Corte di Giustizia).

Giurisprudenza rilevante (fino al 2025)

La giurisprudenza italiana in materia di esterovestizione si è notevolmente arricchita nell’ultimo decennio, delineando i contorni applicativi della normativa e affinando i principi di prova. Di seguito esamineremo le pronunce più significative, aggiornate a maggio 2025, distinguendo tra giurisprudenza tributaria (Cassazione civile sez. V e commissioni tributarie) e alcuni cenni di giurisprudenza penale (rilevante per le conseguenze sanzionatorie gravi).

Giurisprudenza tributaria (Corte di Cassazione e commissioni)

  • Cass. Sez. V n. 7682/2012 e n. 2869/2013: queste sentenze (di qualche anno fa) hanno fornito definizioni di base. In particolare la n. 2869/2013 ha definito l’esterovestizione come “fittizia localizzazione della residenza fiscale di una società all’estero, in particolare in un Paese con trattamento fiscale più vantaggioso, allo scopo di sottrarsi al più gravoso regime nazionale”. È una definizione spesso ripresa nelle sentenze successive, che evidenzia gli elementi chiave: elemento oggettivo (localizzazione estera solo apparente) ed elemento finalistico (scopo di sottrarsi al fisco italiano). Già in queste pronunce si affermava la centralità della sede dell’amministrazione effettiva come criterio per individuare dove la società è realmente residente, al di là delle apparenze formali.
  • Cass. nn. 33234 e 33235 del 21/12/2018 (“caso Dolce & Gabbana”): queste due decisioni gemelle (causa tributaria parallela al noto caso penale) hanno segnato una svolta interpretativa, allineando la giurisprudenza tributaria ai principi anti-abuso comunitari. La Suprema Corte, richiamando proprio la precedente assoluzione penale D&G, ha escluso l’esterovestizione nel caso di una società lussemburghese del gruppo D&G, affermando che essa può essere qualificata come esterovestita “solo se ha posto in essere una costruzione di puro artificio volta a conseguire esclusivamente un indebito vantaggio fiscale”. In tal caso, secondo la Cassazione, gli elementi addotti dal Fisco (società in Lussemburgo controllata da italiani e detentrice di marchi) non bastavano a provare la pura artificiosità, mancando la dimostrazione che l’operazione fosse priva di sostanza economica e finalizzata esclusivamente all’elusione. Tradotto: se c’è anche una parvenza di attività o ragioni extra-fiscali (es. gestione centralizzata dei marchi, anche solo ufficio dedicato), non si può automaticamente parlare di esterovestizione abusiva. Queste sentenze hanno quindi introdotto l’esigenza di provare lo scopo esclusivo di vantaggio fiscale e l’assenza di reali funzioni economiche all’estero, recependo pienamente Cadbury Schweppes. Da notare che tali principi vanno coordinati con Cass. 23150/2022 che, come visto, considera sufficiente l’accertamento obiettivo dei criteri di collegamento, senza ulteriore prova dell’intento elusivo. Non vi è contraddizione se si interpreta che per accertare quei criteri, quando l’unico legame con l’estero è formale, occorre in pratica constatare la mancanza di sostanza (ossia la presenza di una costruzione artificiosa). Insomma, per decidere se quella sede estera è solo di facciata, bisogna verificare se c’è sostanza commerciale: è proprio ciò che chiedeva Cass. 2018. In sintesi, Cass. 2018 (D&G) ha elevato la soglia probatoria per il Fisco: non basta dire “sede legale estera + soci italiani = residenza fittizia”, serve dimostrare che l’entità estera è un guscio vuoto creato solo per risparmiare tasse. Questo orientamento più garantista ha poi influenzato molte pronunce successive.
  • Cass. n. 16697 del 21/06/2019: ha confermato che la fattispecie di esterovestizione è configurabile quando una società che ha la sede dell’amministrazione in Italia colloca la propria sede legale all’estero “al solo fine di fruire di un regime fiscale più vantaggioso”. Questo principio, citato spesso come obiter dictum, ribadisce la centralità della sede di direzione effettiva e del fine elusivo esclusivo. La sentenza 16697/2019 è menzionata come riferimento nel 2024 (ordinanza 5537/2023, vedi infra).
  • Cass. Sez. V n. 26538 dell’8/09/2022: importante pronuncia che ha dato continuità al filone iniziato nel 2018, confermando la condanna di un caso di esterovestizione in presenza di struttura di puro artificio. In motivazione la Corte ripercorre in modo sistematico i parametri normativi (art.73 c.3 e c.5-bis) e richiama la giurisprudenza unionale in tema di scelta del contribuente della forma meno tassata. Ribadisce che l’esterovestizione consiste nella dissociazione tra realtà e forma: ossia la società ha in Italia il centro effettivo degli affari, ma risulta formalmente residente altrove per godere di minori imposte. Coerentemente con Cadbury, sottolinea che bisogna accertare che l’operazione abbia come scopo essenziale solo il vantaggio fiscale, giacché il contribuente ha diritto a scegliere forme più vantaggiose se hanno sostanza. Nella sentenza, la Cassazione richiama espressamente la propria pronuncia del 2018 n.33234 e la n.2869/2013 come precedenti di principio, nonché le principali sentenze UE su abuso (Halifax, Part Service, Weald Leasing, ecc.). Il risultato è un quadro armonizzato: l’esterovestizione c’è quando l’entità estera è merely artificial, mancando un “effettivo esercizio di un’attività economica” nello Stato estero ospite. Viceversa, la libertà di stabilimento protegge chi crea uno stabilimento effettivo in altro Stato (concetto di stabile organizzazione secondaria per partecipare alla vita economica locale). Questa sentenza 26538/2022 si segnala anche perché affronta l’esterovestizione nel coordinamento con il diritto interno: afferma espressamente che per applicare l’art.73 c.3 non serve provare una finalità elusiva (come poi codificato in 23150/22), pur dovendo rispettare il limite della costruzione artificiosa ai sensi del diritto UE. È un equilibrio sottile ma fondamentale. In conclusione, Cass. 26538/2022 conferma la linea: onere iniziale al Fisco di provare elementi di artificiosità (assenza di organizzazione all’estero, decisioni tutte prese in Italia), e poi spetta al contribuente l’eventuale prova contraria.
  • Cass. Sez. V n. 23150 del 25/07/2022: (già citata) definisce l’esterovestizione fenomeno non abusivo in termini procedurali – ossia perseguibile senza prova dell’intento – e fissa il principio che i criteri di collegamento interni bastano a tassare in Italia, “a prescindere” dal fine elusivo. Questa pronuncia è stata molto discussa dai commentatori, in quanto sembra discostarsi dal filone D&G enfatizzando l’aspetto oggettivo. In realtà, come detto, va letta nel senso che non occorre provare un quid pluris oltre agli elementi oggettivi (non serve cercare “l’abuso” soggettivo). Ciò non significa che il Fisco possa prescindere dal dimostrare i fatti che rendono applicabile l’art.73 c.3: di fatti quelli vanno provati. La stessa sentenza precisa che i criteri (sede legale, amministrativa, oggetto) sono alternativi e paritetici e che se uno di essi ricorre per la maggior parte dell’anno, scatta la potestà impositiva italiana. Questo ha implicazioni pratiche: ad esempio, se viene appurato che per oltre 6 mesi l’amministrazione della società è avvenuta dall’Italia, questa prova di fatto è sufficiente per tassare in Italia l’intero reddito societario, senza dover aprire un ulteriore “procedimento abuso del diritto”. Come corollario, Cass. 23150/22 afferma che il Fisco non deve dimostrare la finalità abusiva né il vantaggio indebito ai fini dell’accertamento di residenza. Rientra dunque nel trend di semplificazione dell’onere probatorio per l’Amministrazione (compensato però dalla robustezza intrinseca dei criteri di collegamento).
  • Cass. Sez. V n. 3386 del 8/02/2024: caso peculiare in materia di imposta di registro, che ha avuto risonanza perché ha esteso i principi dell’esterovestizione anche alle imposte indirette. La vicenda: una società formalmente residente nel Regno Unito (parte di un gruppo con unico socio italiano) riceve nel 2014 il conferimento di un immobile situato in Italia dal socio italiano. L’atto viene registrato pagando l’imposta di registro in misura fissa (200 euro) come previsto dalla norma agevolativa per conferimenti a società con sede in UE. L’Agenzia però contesta che la società è esterovestita (sede effettiva in Italia) e quindi non spettava l’agevolazione, dovendosi applicare l’imposta proporzionale come per un conferimento a società italiana. In primo grado (CTP) e appello (CTR) la contribuente vince, ma la Cassazione le dà torto. La Suprema Corte in questa sentenza tocca vari punti rilevanti:
    • Ambito del comma 5-bis: l’Agenzia si era basata sulla presunzione, ma la Cassazione nota che nel caso di specie mancava il requisito della detenzione di partecipazioni in entità italiane, essendo la società inglese conferitaria di un immobile ma non “holding” di partecipazioni. Quindi la presunzione ex art.73(5-bis) formalmente non era applicabile (come correttamente rilevato dalla CTR). L’Agenzia aveva dunque erroneamente invocato la presunzione senza i relativi presupposti.
    • Riqualificazione ex comma 3: nonostante ciò, la Cassazione “rimodula” la contestazione: afferma che la residenza italiana scaturiva comunque dai criteri ordinari del comma 3, avendo l’Ufficio fornito elementi indiziari gravi della sede di amministrazione in Italia. Tra questi, elencati in sentenza: la società UK non aveva uffici né dipendenti in Inghilterra, nessun costo di sede amministrativa, aveva solo un recapito di segreteria in UK (peraltro di dubbia effettività) e soprattutto un amministratore unico residente in Italia (lo stesso conferente, unico socio indiretto). Inoltre la società non aveva nemmeno inserito a bilancio gli immobili italiani né risultavano ricavi da essi (segno che la gestione era “concentrata” altrove). Tali elementi sono considerati prove presuntive precise e concordanti di esterovestizione. La Corte spiega che, offerti questi indizi dall’Ufficio, l’onere della prova contraria si spostava sulla società, la quale però non ha fornito alcuna evidenza di effettiva residenza estera. Pertanto, anche senza presunzione legale, la società andava considerata residente in Italia in base alla valutazione sostanziale degli elementi fattuali (substance over form).
    • Coordinamento con imposte indirette: un aspetto innovativo della sentenza è che collega la nozione di residenza fiscale ai fini imposte dirette con il trattamento ai fini dell’imposta di registro. La Cassazione richiama la Direttiva 2008/7/CE (c.d. “Capital Duty”) la quale stabilisce che i conferimenti siano tassati esclusivamente nello Stato membro in cui si trova la sede di direzione effettiva della società conferitaria al momento dell’operazione. Poiché la sede effettiva della conferitaria era in Italia, l’Italia aveva giurisdizione impositiva e poteva negare l’agevolazione prevista per le società UE (che presuppone un’effettiva soggettività estera). In altri termini, la Corte afferma che “l’attrazione della residenza in Italia ai fini delle imposte dirette può essere applicata anche ai fini dell’imposta di registro”, in coerenza con il criterio unionale della direzione effettiva. Questo principio estende la rilevanza dell’esterovestizione: non solo le imposte sui redditi, ma anche tributi indiretti (registro, ipotecarie) possono essere influenzati dalla ri-qualificazione della residenza. Nel caso concreto, l’imposta di registro doveva essere applicata in misura proporzionale (come per conferimento a società italiana) poiché la società era considerata italiana a tutti gli effetti.
    • Libertà di stabilimento: i giudici affrontano anche la difesa della contribuente basata sul diritto UE. Si evidenzia che qui non vi è violazione della libertà di stabilimento, in quanto la misura nazionale (riqualifica della residenza) è legittima se volta a contrastare costruzioni di puro artificio senza attività economica reale all’estero. La Cassazione richiama infatti Cadbury e il caso D&G, ribadendo che non costituisce abuso aprire società in UE per regime fiscale più leggero, ma lo diventa se manca totalmente sostanza economica in loco. Nel caso concreto, dati gli indizi elencati, la società UK era un guscio vuoto: di conseguenza, l’azione del fisco italiano è coerente con i limiti posti dal diritto UE. Anzi, la Cassazione sottolinea che la nostra disciplina interna, dando prevalenza al dato fattuale (sede effettiva) rispetto al formale, non contrasta con la libertà di stabilimento. Si tratta di un’affermazione importante che legittima l’approccio anti-elusivo italiano in ambito UE.
    In sintesi, Cass. 3386/2024 fornisce alcuni punti fermi: (a) se manca il presupposto formale, la presunzione di legge non opera, ma l’Ufficio può comunque vincere la causa provando fattualmente l’esterovestizione (come avvenuto qui); (b) la residenza effettiva in Italia, una volta accertata, rileva a 360°, condizionando anche benefici fiscali connessi alla “esterità” del soggetto; (c) il tutto in armonia con i principi UE anti-abuso.
  • Cass. Sez. V n. 14485 del 26/05/2024: questa sentenza, sempre su imposta di registro, offre un interessante esempio di valutazione delle prove contrapposte tra Fisco e contribuente. Il caso: una cittadina americana acquista un immobile a Forte dei Marmi tramite una società italiana, poi nel 2014 conferisce l’immobile in una società di diritto inglese (Edimburgo) di cui è socia, per liberare un aumento di capitale. L’atto di conferimento venne registrato pagando imposte fisse come trasferimento intra-UE. L’Agenzia (Ufficio di Milano) successivamente contesta l’esterovestizione: notifica nel 2017 avviso di liquidazione chiedendo le maggiori imposte proporzionali, sostenendo che la società inglese era un puro artificio privo di operatività, e che l’immobile era in realtà rimasto nella disponibilità della conferente (la quale continuava a goderne e a pagarne le utenze). In Commissione Tributaria Provinciale i contribuenti perdono (ritenuta società artatamente costituita in UK), mentre in CTR vincono presentando numerosi documenti a riprova dell’effettiva operatività della società inglese. La CTR infatti accerta che lo scopo dei conferimenti era realmente capitalizzare la società per farla operare nel settore immobiliare, in linea col suo oggetto sociale, e che c’erano elementi tali da far presumere che fosse la società la vera ed effettiva proprietaria degli immobili (non uno schermo). L’Agenzia ricorre in Cassazione per contestare la valutazione delle prove presuntive da parte della CTR, sostenendo che quest’ultima aveva omesso di considerare importanti indizi di artificialità: ad esempio, il brevissimo tempo tra costituzione della società e aumento di capitale, l’assenza di qualsiasi attività economica svolta dalla società UK dopo la costituzione, il fatto che la conferente avesse continuato a usare l’immobile (utenze a suo nome) anche dopo il conferimento, ecc.. La Cassazione (sent. 14485/2024) dà ragione all’Agenzia, cassando la decisione di appello. In motivazione, la Suprema Corte afferma che la CTR aveva sottovalutato proprio quei segnali di artificiosità, giudicando invece erroneamente come prove di operatività elementi che non lo erano. La Cassazione richiama una sua ordinanza recente, la n. 5537/2023, su una fattispecie analoga, che aveva ritenuto legittimo il “disconoscimento” della sede legale estera (Londra) di una società risultata del tutto fittizia, senza uffici né personale né attività nel Regno Unito. In quell’ordinanza si ribadiva il concetto di esterovestizione come società che in realtà ha la sede di amministrazione in Italia e pone solo formalmente la sede all’estero per fini fiscali. Facendo applicazione di tali principi al caso di Forte dei Marmi, la Cassazione ha ritenuto fondati gli indizi dell’Ufficio: la società UK era neonata e usata unicamente per il conferimento, non aveva messo a frutto l’immobile (nessuna locazione, nessuna attività di sviluppo immobiliare), l’immobile era rimasto goduto dalla conferente stessa – elementi che indicano uno schema artificioso volto solo a far figurare l’asset in capo a un soggetto estero. La CTR, accettando i documenti dei contribuenti (costituzione, aumento capitale, ecc.) come prova di operatività, era incorsa in un vizio di valutazione delle presunzioni e aveva dato peso a formalità anziché alla sostanza. La Cassazione quindi sancisce che la contestazione di esterovestizione era legittima, non essendo stati confutati gli indizi chiave: società senza attività reale, costituita ad hoc e gestita di fatto dagli stessi italiani conferenti (la presenza di atti formali di conferimento e aumento capitale, di per sé, non bastava a dimostrare una genuina operazione economica). Questa pronuncia conferma un approccio: anche se il contribuente produce documentazione, il giudice deve vagliarne l’effettiva consistenza economica. Carte alla mano (es. bilanci, verbali) possono essere orchestrate per dare parvenza di operatività, ma bisogna guardare oltre: ad esempio, l’uso del bene rimasto in Italia, l’assenza di attività commerciale reale. In altre parole, la sostanza vince sulla forma. Cass. 14485/2024 evidenzia come la prova contraria dell’esterovestizione richiede qualcosa di più robusto che la semplice esibizione di documenti costitutivi: occorre dimostrare vero substance. E laddove permangano indizi gravi di fittizietà, l’accertamento regge.
  • Cass. nn. 1753/2023 e 5537/2023: vale la pena citare, da quanto emerge, queste pronunce del 2023. La n. 5537/2023 è stata menzionata (caso analogo di conferimento immobiliare a società UK): trattasi di ordinanza che conferma la linea dura contro società senza alcun collegamento effettivo col paese estero. La n. 1753/2023 potrebbe riferirsi a un caso di esterovestizione societaria ai fini IRES, ma non abbiamo i dettagli in questa sede. In generale il 2023 ha visto un consolidamento: Cassazione ha continuato ad applicare i principi del 2018-2022, decidendo per l’Amministrazione quando la struttura è palesemente artificiale e per il contribuente (o annullando l’atto) quando mancano prove sufficienti di artificiosità o si ravvisa un difetto procedurale.
  • Commissioni Tributarie (CTR e CTP): la giurisprudenza di merito è anch’essa ricca di casi. Molte contestazioni di esterovestizione nascono da PVC della Guardia di Finanza e portano a contenzioso nelle commissioni. Spesso le CTP hanno orientamenti variabili: alcuni giudici tributari di primo grado in passato ritenevano necessario provare l’intento elusivo e, se non provato, annullavano gli avvisi (interpretazione superata dalle Cass. 2022). Altri giudici hanno sposato la linea sostanzialistica: ad es. in controversie su holding estere di società familiari italiane, talune CTR hanno dato ragione al Fisco riscontrando che l’unica ragion d’essere di quelle holding era fiscale (assenza di uffici, stesse persone a gestire in Italia, ecc.). Un caso emblematico fu quello di una holding in Lussemburgo di un noto gruppo della moda (non D&G ma simile): la CTR Lombardia inizialmente dette ragione all’Agenzia, riconoscendo l’esterovestizione; poi in Cassazione il risultato si ribaltò nel 2018 (caso D&G di cui sopra). Questo dimostra che in primo e secondo grado vi può essere disaccordo sulla valutazione delle prove di sostanza. In casi più recenti, tuttavia, le CTR tendono ad uniformarsi ai principi di Cassazione: ad esempio la CTR Toscana nel 2020 ha assolto un imprenditore che aveva aperto società a Londra con reale attività, ritenendo non provata l’artificiosità; la CTR Veneto nel 2021 ha confermato un accertamento verso una società slovena trovata priva di reale autonomia (stabilimento fittizio).

È utile sintetizzare in tabella alcune sentenze chiave e i rispettivi principi, per avere un quadro di riferimento:

Tabella 2 – Giurisprudenza tributaria essenziale in tema di esterovestizione

SentenzaAnnoPrincipio o esito chiave
Cass. 28692013Definisce l’esterovestizione come fittizia localizzazione all’estero per sottrarsi al fisco italiano.
Cass. 33234/5 (Caso D&G)2018Esterovestizione solo se costruzione di puro artificio volta esclusivamente al vantaggio fiscale. Richiede assenza di sostanza e fine fiscale esclusivo.
Cass. 166972019Conferma che se sede effettiva è in Italia e sede estera è scelta “al solo fine fiscale”, ricorre esterovestizione.
Cass. 231502022I criteri di residenza ex art.73 TUIR sono autonomi: basta che la sede effettiva sia in Italia per tassare qui, indipendentemente dalla prova di intento abusivo.
Cass. 265382022Necessario verificare se lo scopo essenziale è il vantaggio fiscale; onere Fisco di provare la struttura artificiosa, poi onere contribuente di provare sostanza estera (conforme a Cadbury).
Cass. 33862024Presunzione 5-bis non applicabile se società estera non è holding italiana; tuttavia residenza in Italia accertata comunque con indizi (amministrazione in Italia). Estende effetti alle imposte indirette in base alla direzione effettiva.
Cass. 144852024In presenza di indizi di artificiosità (società estera vuota, asset rimasto nella disponibilità italiana) la CTR deve dar peso alla sostanza: documenti formali non bastano a provare operatività reale. Conferma che assenza di attività economica effettiva all’estero = esterovestizione.

(N.B.: i riferimenti interni sono semplificati; per il testo completo dei principi si vedano le citazioni nelle spiegazioni sopra.)

Profili penal-tributari e giurisprudenza penale

L’esterovestizione di società può avere risvolti penali quando comporta la sottrazione di imponibile rilevante all’erario italiano. In particolare, l’eventuale mancata presentazione in Italia delle dichiarazioni dei redditi da parte di una società in realtà residente è qualificabile come reato di omessa dichiarazione (art. 5 D.Lgs. 74/2000) se l’imposta evasa supera le soglie di punibilità (attualmente 50.000 € di imposta evasa annua). Inoltre, l’utilizzo di schemi esterovestiti potrebbe implicare il reato di infedele dichiarazione (art. 4 D.Lgs. 74/2000) qualora vengano celate basi imponibili attraverso operazioni infragruppo con l’estero. Non ultimo, in caso di frode tramite società esterovestite, potrebbero configurarsi associazioni a delinquere finalizzate all’evasione (art. 3 legge 146/2006 per reati transnazionali).

La giurisprudenza penale ha affrontato alcuni casi emblematici:

  • Caso Dolce & Gabbana – Cass. pen. sez. III n. 43809 del 24/10/2015: Riguardò la creazione di una società in Lussemburgo a cui erano stati conferiti i marchi del gruppo D&G, con l’accusa per gli stilisti di aver omesso di dichiarare in Italia i redditi derivanti. La Cassazione penale annullò senza rinvio le condanne, stabilendo che non vi era prova di esterovestizione penalmente rilevante. La motivazione richiamava concetti simili al giudizio tributario: “anche un ufficio può essere sufficiente a integrare una stabile organizzazione ovvero essere valutato quale luogo di effettivo esercizio di un’attività d’impresa, valutando se a tale ufficio corrisponda una costruzione di puro artificio volta a lucrare benefici fiscali”. Tradotto, la presenza di un vero ufficio in Lussemburgo e di un minimo di attività comportava il dubbio che non fosse un artificio totale, escludendo il dolo penal-tributario. Viene inoltre affermato che non basta individuare che le direttive gestionali partivano dall’Italia (dalla controllante italiana) per dire che la direzione effettiva era lì: “non può costituire criterio esclusivo […] il luogo ove partono gli impulsi gestionali dalla controllante italiana; in tal caso è necessario accertare che la controllata estera sia una costruzione di puro artificio, ovvero una casella postale o schermo”. Questo punto è cruciale: per il penale serve un quid pluris di artificiosità manifesta (società-schermo priva di qualsiasi autonomia). Nel caso D&G, vari elementi convinsero il GIP a disporre l’archiviazione: alcuni membri del management risiedevano effettivamente in Lussemburgo, le assemblee si tenevano lì, la società aveva attivato consulenze in materia di proprietà industriale, e soprattutto in sede tributaria gli avvisi di accertamento erano stati annullati dalla CTR riconoscendo la sede effettiva in Lussemburgo. Miglio (2017) commenta questo esito sottolineando che, calando i principi D&G nel caso concreto, l’esterovestizione appariva priva di rilevanza penale proprio perché c’erano “numerosi indici a favore della concreta ed effettiva operatività” della società estera. In sintesi, il penale richiede la prova rigorosa che la società estera sia un mero schermo e che gli amministratori abbiano volontariamente occultato la residenza per evadere. Se c’è incertezza o qualche parvenza di attività genuina, scatta il principio del favor rei e l’assenza di elemento soggettivo doloso.
  • Altri casi penali: dopo D&G, diverse indagini su esterovestizioni sono state ridimensionate. Ad esempio, un procedimento a Macerata su una società italiana che aveva spostato sede legale a Madeira (Portogallo) è stato archiviato nel 2015 dallo stesso PM, ritenendo applicabili i principi D&G. In quel caso (società di Civitanova Marche con controllante italiana, sede legale a Madeira e attività di gestione marchi) la GdF aveva contestato omessa dichiarazione, ma la Procura, esaminati gli elementi difensivi, chiese l’archiviazione poiché la società portoghese non era “affatto una mera casella postale o un semplice schermo” – c’era parte del management in Portogallo, riunioni svolte lì, ecc., e i giudici tributari avevano già annullato gli accertamenti riconoscendo la residenza estera. Ciò mostra come un solido esito nel processo tributario (annullamento degli avvisi) può praticamente “salvare” sul piano penale, creando dubbio ragionevole sull’intento fraudolento. Al contrario, quando l’impianto probatorio tributario regge e individua un’evasione significativa, si può arrivare a condanna penale. Ad esempio, la Cass. pen. n. 12084 del 22/03/2023 ha riguardato il sequestro preventivo di beni in un’indagine per omessa dichiarazione basata su esterovestizione (artt. 5 e 11 D.Lgs.74/2000): in quell’occasione la Cassazione ha confermato il sequestro, riconoscendo fondati gli indizi di fittizietà della società estera e ritenendo configurabile il reato. Non disponendo del testo integrale, è presumibile che in quel caso la società estera fosse totalmente priva di struttura e l’evasione rilevante, tanto da giustificare misure cautelari.

In sintesi, la soglia penale è più alta: l’esterovestizione comporta reato solo se l’evasione d’imposta supera le soglie e se si dimostra che la società estera era usata dolosamente per occultare redditi. In giudizio penale, l’imputato beneficia del principio del dubbio (in dubio pro reo): quindi anche piccole tracce di sostanza all’estero possono far cadere l’accusa di “schermo fittizio”. Dal punto di vista difensivo, spesso la strategia in parallelo è: vincere il ricorso tributario (o aderire a definizioni agevolate pagando il dovuto) per depotenziare l’accusa penale, magari facendo venir meno l’evasione sopra soglia o comunque dimostrando l’assenza di fraudolenza.

Conclusione giurisprudenziale: l’orientamento attuale (2024-2025) può riassumersi così: la Cassazione tributaria conferma la validità degli accertamenti di esterovestizione quando il Fisco offre elementi concreti di artificiosità (mancanza di struttura estera, gestione italiana), senza richiedere la prova di un “disegno fraudolento” ulteriore. Il contribuente per difendersi deve provare la sostanza economica estera (uffici, attività, decisioni all’estero). La Cassazione penale, dal canto suo, per condannare esige un quadro probatorio ancor più stringente sull’occultamento doloso, ed è incline ad assolvere se ravvisa elementi che rendono non totalmente fittizia la localizzazione estera. Ciò crea una situazione in cui, talora, una società può essere considerata residente in Italia ai fini fiscali (pagando le imposte evase) ma i suoi amministratori non essere punibili penalmente per evasione, in mancanza di prova oltre ogni dubbio di intenti fraudolenti.

Tabelle riepilogative: criteri di accertamento e prove

Per offrire uno schema di riferimento rapido, si propongono due tabelle: la prima sintetizza gli indicatori tipici di esterovestizione riscontrati dal Fisco e, in parallelo, gli elementi difensivi che il contribuente può opporre a sua discolpa; la seconda elenca alcuni casi pratici con esito (accertamento confermato o annullato) per evidenziare i fattori determinanti.

Tabella 3 – Indicatori di esterovestizione vs. elementi di sostanza (prova contraria)

Indizi riscontrati dall’Agenzia (esterovestizione)Elementi probatori difensivi (sostanza estera reale)
Sede operativa estera inesistente o meramente formale: indirizzo presso studi professionali, domiciliazione fittizia, nessun ufficio proprio né targa.Presenza di uffici propri all’estero, con attrezzature e spazi idonei. Contratti di affitto di sedi, utenze (telefono, internet) intestate alla società estera e utilizzate.
Assenza di personale e struttura organizzativa locale: nessun dipendente o solo personale di segreteria fornito da terzi; attività operative demandate a società italiane o al titolare in Italia.Impiego di personale locale: dipendenti assunti all’estero, amministratori operativi ivi residenti. Esistenza di un’organizzazione aziendale autonoma (es. reparto vendite o acquisti in loco).
Amministratori e decisori italiani: consiglio di amministrazione composto in maggioranza da residenti in Italia; riunioni del CdA svolte in Italia o per via telematica senza traccia fisica all’estero.Governo societario effettivo all’estero: riunioni del CdA svolte fisicamente all’estero (verbali con firma locale, presenza di testimoni o registrazioni di viaggio dei consiglieri). Amministratori esteri con reali poteri.
Gestione di fatto accentrata in Italia: decisioni strategiche e operative prese dal titolare o da management che risiede in Italia; corrispondenza e mail che mostrano che l’input decisionale proviene dall’Italia.Decision-making locale: deleghe di poteri operative a dirigenti sul posto (country manager). Comunicazioni che attestano che le istruzioni partono dall’estero. Documentazione di trasferte regolari dei vertici italiani presso la sede estera per le riunioni (a supporto che le decisioni vengono formalmente prese lì).
Contabilità e funzioni amministrative svolte in Italia: tenuta della contabilità, fatturazione, funzioni finanziarie effettuate dall’Italia (magari tramite la controllante italiana o consulenti italiani).Autonomia amministrativa all’estero: contabilità tenuta presso la sede estera (con commercialisti locali), conti bancari presso banche estere gestiti da funzionari locali. Pagamento di fornitori e stipendi effettuato da conti esteri.
Mercato e clienti principalmente italiani: la società estera opera quasi esclusivamente verso clienti/fornitori italiani, spesso parti correlate. Flussi finanziari che rientrano in Italia (dividendi, pagamenti a società italiane).Attività economica rivolta all’estero: la società estera ha un mercato proprio estero, con clientela locale o internazionale non limitata all’Italia. Contratti stipulati e gestiti all’estero. Eventuale dimostrazione che i profitti restano investiti all’estero per l’attività (e non rimpatriati immediatamente).
Asset localizzati in Italia non funzionali ad attività estera: ad es. immobili siti in Italia intestati alla società estera e di fatto utilizzati da soci italiani; beni mobili (auto, barche) con base in Italia ma di proprietà della società estera.Asset effettivamente utilizzati all’estero: se la società estera possiede immobili o beni in Italia, prova che sono concessi in locazione o utilizzati secondo logiche di mercato (non a uso personale dei soci). In generale, dimostrare che l’attività estera ha scopo economico autonomo (es.: holding che finanzia investimenti internazionali, non mero schermo per proprietà personali in Italia).
Temporalità sospetta: costituzione della società estera in prossimità di eventi fiscali (es. immediatamente prima di vendere un asset, o prima di incassare utili) e magari chiusura poco dopo; breve durata dell’operatività estera.Stabilità e continuità dell’insediamento estero: la società estera esiste e opera da anni nello Stato estero, indipendentemente da singole operazioni fiscali. Investimenti a lungo termine all’estero, inserimento nel contesto economico locale (iscrizioni a camere di commercio locali, partecipazione a fiere, ecc.).
Convenienza fiscale evidente: tassazione molto bassa nello Stato estero (paradiso fiscale o regime privilegiato) rispetto all’Italia; assenza di ragioni economiche valide (se non fiscali) per l’ubicazione estera.Business purpose non fiscale: presentare un dossier di giustificazioni economiche: ad es. il Paese estero offre infrastrutture o vicinanza a mercati target, disponibilità di manodopera specializzata, normative societarie più flessibili per il tipo di attività, ecc. Se l’aliquota estera è bassa, evidenziare comunque che la scelta è motivata da strategie di business genuine (anche se fiscally advantageous).

Nota: gli elementi nella colonna destra vanno documentati in modo rigoroso (contratti, foto degli uffici, organigrammi, report di attività, ecc.). Più tali elementi dimostrano un radicamento effettivo all’estero, minore il rischio che la società sia considerata esterovestita. Viceversa, la presenza dei fattori di sinistra (specie se plurimi) costituirà per l’Agenzia base per contestare la residenza italiana, a meno che non vengano efficacemente smentiti.

Tabella 4 – Esempi di casi pratici e fattori decisivi

Caso (settore)Schema contestatoEsito e motivazione
Holding lussemurghese (moda)Società in LUX detiene marchi e partecipazioni di società italiane; amministrata dai beneficiari italiani.Nessuna esterovestizione riconosciuta (Cass. 2018): la Cassazione rileva che non è provato che fosse costruzione puramente artificiosa. Esistenza di ufficio e minima attività in LUX fa venire meno il “solo fine fiscale”.
Consulting Ltd UK (consulenza)Professionista italiano opera tramite Ltd inglese (nessun ufficio in UK, clienti tutti in Italia).Esterovestizione confermata (CTR Lombardia 2019): la società è mera “cartiera” per fatturare da UK. Sede effettiva in Italia (professional opera da casa in Italia), fine esclusivo evitare IRPEF italiana.
Trading Co. CH (commercio)Società in Svizzera acquista e rivende prodotti; ufficio esistente ma decisioni prese da Italia (soci italiani).Contestazione annullata (CTP Varese 2020): benché soci italiani, la società aveva magazzino e uffici in CH, dipendenti e conti propri. Attività di trading genuina in Svizzera – quindi non fittizia.
Società “scatola vuota” (licensing)Società in Irlanda riceve royalty da società italiana per uso di un marchio; nessun dipendente, base presso uno studio legale, CdA italiani.Esterovestizione confermata (Cass. 2022): struttura priva di sostanza, royalty generate interamente in Italia. Nessuna attività svolta in IE, solo vantaggio fiscale (tassazione bassa su royalty).
Immobiliare UK (real estate)Società a Londra acquisisce immobili di lusso in Italia (ville) per conto di facoltosi italiani, evitandone l’intestazione diretta.Esterovestizione confermata (Cass. 2024, caso Forte dei Marmi): la società è considerata schermo, immobili goduti dai soci italiani. La capitalizzazione e gli atti societari non bastano a provare vera operatività. Imposte di registro ricalcolate come se conferimento a società italiana.
Tech Startup Estera (digitale)Start-up fondata da italiani in Estonia (e-residency), opera online; server in cloud, founder lavora da Milano. Nessun staff in Estonia.Probabile esterovestizione: se accertata, sede effettiva in Italia (fondatore gestisce tutto da Milano). L’Estonia scelta solo per tassazione corporate 0% sugli utili reinvestiti. Founder avrebbe dovuto trasferirsi fisicamente o assumere team locale per evitare contestazioni.
Manufacturing SL (manifatturiero)Impresa manifatturiera italiana chiude e apre una SL in Spagna; stabilimento rimane però in Italia con stessi macchinari in affitto. Direzione sempre in Italia.Esterovestizione evidente: la SL spagnola è facciata, l’attività produttiva resta in Italia (stessa fabbrica). Contestata come residenza italiana + possibile stabile organizzazione.
Holding olandese (gruppo industriale)Holding BV in Olanda controlla società italiane; CdA con 2 italiani su 3, management accentrato a HQ in Italia.Presunzione ex art.73(5-bis) applicata: società considerata residente in Italia salvo prova contraria. Se non dimostra funzioni proprie in NL (es. finanziamenti intra-gruppo gestiti da NL), sarà tassata in Italia. Cass. 2007 ha negato interpello preventivo in un caso simile.
Società Emiratina (UAE, consulenza)Srl a Dubai offre servizi consulenza, soci italiani, vive a Dubai 3 mesi l’anno e 9 in Italia; clienti internazionali.Zona grigia: non c’è presunzione (fuori UE), ma rischio accertamento su sede effettiva. Se l’Agenzia prova che il decision making avviene in Italia (9 mesi l’anno il titolare è qui), può tassare in Italia. Contribuente dovrebbe provare di avere centro vitale e business effettivo a Dubai (difficile se permane in Italia 9 mesi).

Gli esempi mostrano che l’esito dipende strettamente dai fatti concreti: la stessa struttura (holding estera) può essere lecita o illecita a seconda della sostanza che la sostiene. In generale, società estere fully artificial (senza uffici, personale, attività propria) vengono regolarmente riqualificate come residenti italiane. Strutture con presenza mista vanno sul sottile confine: la valutazione spesso si basa su una pluralità di indizi quantitativi e qualitativi (es.: quanti dipendenti locali? quanta parte del business effettivamente svolta fuori?).

Simulazioni pratiche di accertamenti per settore chiave

Di seguito presentiamo alcune simulazioni di casi pratici di possibili accertamenti di esterovestizione, suddivisi per settore di attività. Ogni scenario mette in luce specifiche modalità attraverso cui l’esterovestizione può manifestarsi e come l’Agenzia delle Entrate potrebbe affrontare l’accertamento.

1. Settore digitale: Start-up Tech estera, gestione dall’Italia

Scenario: Un giovane imprenditore italiano crea una start-up innovativa nel settore digitale, aprendo una società in un Paese estero noto per incentivi alle tech company (es. Irlanda o Estonia). La società sviluppa un’applicazione web e vende servizi online a utenti globali. Formalmente ha sede legale a Dublino, dove usufruisce di un regime fiscale light (12.5% sugli utili) e di un hub tecnologico. Tuttavia, il founder risiede stabilmente in Italia, da dove coordina lo sviluppo software (tramite freelance remoti) e gestisce la strategia. La società irlandese non ha un vero ufficio: utilizza uno coworking come sede formale, senza dipendenti fissi in loco. Tutta l’attività operativa (coding, marketing) è svolta online; i server sono su cloud (sparsi globalmente). I pagamenti dei clienti arrivano su un conto bancario irlandese online, ma da lì sono spesso trasferiti al conto personale del founder in Italia per coprire spese qui.

Accertamento: L’Agenzia delle Entrate viene a conoscenza della start-up attraverso i flussi finanziari (bonifici dal conto estero al fondatore, segnalati in anagrafe dei rapporti) e articoli di stampa che celebrano il successo dell’app. Avvia un controllo fiscale sul fondatore e sulla struttura estera. Gli elementi rilevati: il fondatore è fiscalmente residente in Italia; la società estera, pur registrata in Irlanda, non risulta avere dipendenti né uffici operativi reali; tutte le scelte aziendali (sviluppo del prodotto, politiche di prezzo) vengono decise dal fondatore in Italia (lo si evince dalle e-mail aziendali acquisite, recanti fuso orario e IP italiani). I pochi contratti stipulati (fornitura di servizi cloud, consulenze marketing) sono stati negoziati via Zoom dal fondatore quando era in Italia. L’Agenzia contesta che la sede di direzione effettiva della società è in Italia, quindi i redditi societari (profitti della app) andavano tassati in Italia. Applica l’art. 73 c.3 TUIR: la società, avendo la sede amministrativa in Italia per la maggior parte del periodo d’imposta, è considerata residente. Richiama anche l’art. 73 c.5-bis, lettera b), notando che il CdA (composto dal solo founder) è residente in Italia – anche se la presunzione formale non è automatica perché la società non detiene partecipazioni in entità italiane, resta un indizio forte a sostegno.

Esito potenziale: Salvo che il founder riesca a dimostrare di aver effettivamente gestito l’azienda dall’Irlanda (ad es. producendo prove di una sua presenza continuativa a Dublino, riunioni con venture capitalist lì, ecc.), l’accertamento dell’Agenzia probabilmente qualificherà la società come esterovestita. Si recupererà a tassazione in Italia l’utile della società estera (con IRES al 24% e Irap se applicabile, scomputando eventualmente le imposte pagate in Irlanda via credito d’imposta). Il founder come persona fisica potrebbe non subire sanzioni personali immediate (la contestazione è rivolta alla soggettività societaria), ma certamente la vicenda potrebbe riverberare su di lui in termini di controlli sul tenore di vita, eventuale applicazione di responsabilità solidale se amministratore. Per evitare ciò, il founder avrebbe dovuto: o trasferirsi fisicamente in Irlanda per gestire l’attività da lì (rendendo credibile la sede estera), o quantomeno assumere un CEO locale delegato alle funzioni di gestione quotidiana. In assenza di ciò, una società digitale “leggera” è facile preda di contestazione di esterovestizione, data la mobilità del business online (il Fisco si concentra su dove risiede la mind and management, che in questo caso è palesemente in Italia).

2. Settore consulenza: Società di consulenza estera con attività in Italia

Scenario: Un consulente aziendale italiano (freelance) decide di aprire una società a Londra per offrire servizi di business consulting a clienti internazionali. La scelta è motivata (a suo dire) dall’immagine di prestigio di avere sede nella City e dalla snellezza societaria UK. In realtà, la maggior parte dei suoi clienti sono PMI italiane e lui svolge i lavori di consulenza presso le loro sedi in Italia. La Ltd inglese ha sede presso un indirizzo di comodo (un ufficio virtuale con servizio di inoltro posta). Il consulente/amministratore vive e lavora in Italia, emettendo fatture della Ltd ai clienti italiani. I compensi finiscono sul conto UK della società, ma da lì vengono poi girati sui conti personali del consulente o prelevati in contanti con carta estera in Italia. Formalmente la Ltd dichiara in UK i redditi, ma avendo costi minimi e l’aliquota UK 19%, paga poche imposte.

Accertamento: L’Agenzia delle Entrate viene allertata dall’’esterometro’ (comunicazione operazioni transfrontaliere): le aziende italiane clienti hanno dichiarato fatture ricevute da questa Ltd UK. Collegando i puntini, scoprono che dietro c’è un professionista italiano. Scatta una verifica per omessa dichiarazione/esterovestizione. Gli elementi: l’amministratore della Ltd è il consulente stesso, residente a Milano. Non risultano dipendenti o collaboratori in UK. Nel domicilio dichiarato a Londra non c’è traccia di alcuna struttura (l’Agenzia ottiene informazioni via scambio con HMRC, l’autorità fiscale UK, che conferma trattarsi di un mailbox service). Il consulente viene invitato a esibire la documentazione: consegna i contratti con i clienti (tutti con sede in Italia) e copia di qualche biglietto aereo per Londra (in realtà brevi viaggi, forse per giustificare la presenza). L’Agenzia rileva che la totalità dell’attività è svolta in Italia: i report di consulenza hanno metadati che mostrano che i file sono stati creati su un PC in Italia; i testimoni (manager delle PMI) confermano che le riunioni sono avvenute in Italia. Pertanto contesta l’esterovestizione: la Ltd è un mero schermo per trasformare redditi di lavoro autonomo (che sarebbero tassati IRPEF ~43%) in redditi societari esteri tassati meno. Viene quindi riqualificata la società come residente in Italia ex art.73, recuperando IRES e Irap su quei compensi; inoltre si potrebbe procedere a riqualificare quelle somme come redditi personali del consulente (in base all’art. 37, comma 3, DPR 600/73, che consente di imputare al socio unico i redditi della società interposta).

Esito potenziale: L’accertamento avrebbe ottime chance di essere confermato in ogni grado, data l’evidenza di artificiosità: la sede legale UK è fittizia e lo scopo è solo fiscale. Cass. e CTR in casi simili (consulenti con Ltd estera) hanno ritenuto legittimo il recupero. Il consulente, oltre a dover pagare imposte italiane arretrate, subirebbe sanzioni amministrative (generalmente il 90%-180% delle imposte evase per infedele/omessa dichiarazione) e rischia un procedimento penale per omessa dichiarazione (se l’imposta evasa > 50k per anno). Spesso, in questi casi, la difesa può puntare a transare (adesione o conciliazione) per ridurre sanzioni, ma difficilmente riesce a far valere ragioni sostanziali (a meno di dimostrare che in UK c’era uno studio associato, attività locale, etc., il che però è raro se l’impianto è così artificiale). Dunque, la lezione per consulenti: se la clientela e la vita restano in Italia, una società estera non regge al vaglio fiscale; piuttosto conviene valutare altri strumenti (regime forfettario, trasferirsi davvero all’estero, branch estera di società italiana, ecc., ma non la “finta Ltd”).

3. Settore manifatturiero: Delocalizzazione fittizia della produzione

Scenario: Un’azienda manifatturiera italiana (es. produzione di calzature) decide di chiudere la società italiana e proseguire l’attività tramite una nuova società in Slovenia (Paese UE a tassazione ridotta). All’apparenza, la sede produttiva viene spostata in Slovenia. Nella realtà, l’imprenditore mantiene in Italia il vecchio stabilimento, intestandolo però a una terza società di comodo che lo affitta alla società slovena. I macchinari restano dov’erano. La manodopera: alcuni operai italiani vengono licenziati e riassunti da una cooperativa locale, che poi li “distacca” informalmente presso lo stabilimento, mentre altri operai vengono formalmente assunti dalla società slovena ma lavorano sempre in Italia. In Slovenia la società ha solo un piccolo ufficio amministrativo con 2 impiegati, dove sposta parte della contabilità. Le decisioni strategiche, gli acquisti materiali e la vendita ai clienti (per lo più italiani/UE) sono ancora gestiti dall’imprenditore dal suo ufficio in Italia. Insomma, si è cercato di far figurare la produzione come estera, mentre logisticamente tutto avviene dove prima.

Accertamento: L’Agenzia delle Entrate e la Guardia di Finanza avviano controlli incrociati: notano che dopo la chiusura dell’azienda italiana, le attività proseguono identiche, stesso luogo, stessi clienti, solo cambiando intestazione delle fatture (ora emesse da soggetto sloveno). Emerge che la società slovena non ha una vera fabbrica in Slovenia; le bollette elettriche e consumi energetici in Italia presso il vecchio capannone sono rimasti costanti. La GdF esegue un sopralluogo e trova gli operai al lavoro in Italia sui macchinari; questi dichiarano di essere pagati dalla società slovena (o cooperativa) ma di lavorare lì quotidianamente. Questi fatti configurano due profili: da un lato, la società slovena ha di fatto una stabile organizzazione occulta in Italia (lo stabilimento), dall’altro l’intera operazione appare un’esterovestizione, perché la direzione e l’organizzazione sono rimaste italiane. L’Agenzia potrebbe procedere in via subordinata: primariamente contestare che la società estera è in realtà residente in Italia (art.73 c.3), in subordine (qualora per formalismi giuridici non passi la prima tesi) che quantomeno c’è una stabile organizzazione italiana non dichiarata a cui imputare i redditi. Entrambe le strade portano a tassare in Italia gli utili prodotti dall’attività. L’Agenzia evidenzia come l’oggetto principale dell’attività (produzione calzature) si svolga tuttora in Italia, il che di per sé sarebbe sufficiente a radicare la residenza ex art.73 (comma 3 considera residenti le società con oggetto principale in Italia). Inoltre la sede amministrativa effettiva pare in Italia (l’imprenditore vive qui, tratta con clienti e fornitori da qui). La società slovena quindi verrebbe considerata esterovestita. Si quantifica l’imponibile sottratto (fatturato meno costi allocati fittiziamente all’estero) e si emettono avvisi di accertamento per IRES, Irap e ritenute non operate (sui dipendenti di fatto italiani). Data la presenza di artifici (società schermo interposte) e l’entità, si profila anche l’ipotesi penale di frode fiscale.

Esito potenziale: In un caso così eclatante, l’accertamento verrebbe confermato: la società estera non aveva alcuna ragione economica per esistere se non quella di spostare utili a tassazione minore. Già la Cassazione in casi del passato (es. Fonderie con sede in Svizzera ma impianti rimasti in Italia) ha stabilito che questi schemi sono illegittimi. La difesa potrebbe eventualmente contestare la doppia imposizione (Slovenia vs Italia), invocando la convenzione: ma il tie-breaker della convenzione è proprio la sede di direzione effettiva, che risulterebbe in Italia. Quindi l’Italia ha ragione di imporre. La società potrebbe trovarsi a dover pagare ingenti somme (imposte arretrate + sanzioni). Penalmente, gli amministratori rischiano imputazioni per dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art. 3 D.Lgs.74/2000) o omessa dichiarazione se proprio nulla hanno dichiarato in Italia. Il caso illustra come esterovestizione e stabile organizzazione occulta possano sovrapporsi: il Fisco può in tali contesti agire su entrambi i fronti (residenza societaria e/o tassazione di una branch italiana).

Nota: Oggi, rispetto al passato, è più difficile simulare l’espatrio produttivo perché rimangono tracce (videosorveglianza industriale, registri doganali, etc.). Gli accordi di cooperazione doganale e fiscale permettono di scovare incongruenze: ad esempio se la società slovena dichiara di produrre lì, ma non acquista materie prime importandole lì (invece risultano consegne di materiali in Italia), è un segnale di frode. Le simulazioni di delocalizzazione spesso vengono smascherate così.

4. Settore holding e immobiliare: Società di mero investimento estera

Scenario: Una famiglia imprenditoriale italiana crea anni fa una holding finanziaria in Lussemburgo (o Svizzera) – chiamiamola Alfa Holding SA – a cui ha conferito tutte le partecipazioni delle società operative italiane di famiglia. Alfa Holding gestisce anche un portafoglio di investimenti mobiliari (titoli) ed è intestataria di alcuni immobili di pregio all’estero (uno chalet in Svizzera e un appartamento a Montecarlo) usati dalla famiglia. Il CdA di Alfa Holding è composto dal padre e dai due figli, tutti residenti in Italia. La sede legale è presso uno studio fiduciario in Lussemburgo; c’è un amministratore locale di facciata che firma documenti su istruzione della famiglia. Negli anni Alfa Holding ha accumulato utili esentasse (grazie alle participation exemption lussemburghesi) e li ha in parte erogati ai soci italiani come dividendi (dichiarati in Italia al 5% imponibile). Ora, a seguito delle modifiche legislative italiane (abolizione black list, scambio informazioni automatico), la famiglia teme che l’Agenzia possa muoversi.

Accertamento: In effetti, l’Agenzia segnala Alfa Holding per potenziale esterovestizione. Requisiti formali: società estera controllata da italiani che detiene partecipazioni di controllo in società italiane – è il caso da manuale per l’art. 73 c.5-bis, che si applica esattamente a queste holding esterovestite. L’Agenzia invia un questionario e attiva scambio di informazioni: dal Lussemburgo ottiene bilanci e conferma che l’unica sostanza della holding è il servizio di domiciliazione fornito dal fiduciario. Nessun dipendente, nessun ufficio proprio. I flussi finanziari mostrano regolari bonifici di dividendi dalle aziende italiane verso Alfa Holding e poi distribuzioni verso i conti personali in Italia. La famiglia viene convocata: provano a sostenere che avevano motivi di protezione patrimoniale e internazionalizzazione per scegliere Lussemburgo. Ma forniscono ben poca prova di un’attività effettiva della holding fuori dall’incasso di dividendi. L’Agenzia, forta della presunzione legale, presume la residenza in Italia di Alfa Holding. La prova contraria addotta (lettere del fiduciario, certificato di residenza fiscale lussemburghese) è giudicata insufficiente: tali documenti sono formali, non smentiscono che le decisioni fossero prese dalla famiglia in Italia (cosa che diversi indizi confermano: email tra i soci, procure, etc.). Dunque notifica un avviso di accertamento dichiarando Alfa Holding residente in Italia sin dalla costituzione. Effetti: le società figlie italiane sarebbero state controllate da una holding italiana e non estera; i dividendi che quest’ultima incassava avrebbero dovuto scontare tassazione italiana (anche se molti erano esenti per participation exemption interna, ma alcune plusvalenze realizzate all’estero su titoli diventerebbero imponibili se la residenza è italiana). Inoltre, eventuali vantaggi come la non applicazione di ritenute sui dividendi pagati all’estero decadono: l’Agenzia può richiedere ai withholding agent (società operative) la ritenuta del 26% su quanto distribuito negli anni alla holding, perché in realtà era italiana e andavano fatte. Si genera quindi un ricalcolo a catena di imposte non pagate su molti anni (compatibilmente con la prescrizione).

Esito potenziale: La famiglia verosimilmente farà ricorso, ma l’esito è incerto: i fatti sono contro di loro (classico schema holding di famiglia). Cassazione in passato (caso Dolce & Gabbana, simile con holding Luxembourg) aveva deciso pro contribuente in penale e, in tributario 2018, li ha salvati anche lì sul filo del rasoio. Ma successivamente altre famiglie non così celebri hanno avuto meno fortuna: ad esempio, Cass. 16697/2019 (cit.) con una società trustee estera controllata da italiani, fu decisa a favore del Fisco. Se la holding in questione non può provare un minimo di sostanza (es. che svolgesse una gestione finanziaria con personale dedicato all’estero, o servizi intragruppo reali), la battaglia legale è in salita. Probabile che la CTR in primo/secondo grado confermi l’accertamento appellandosi al substance over form. La difesa potrà richiamare Cadbury e sostenere che in Lussemburgo c’è comunque un regime ordinario e non un paradiso, che quindi non era puro artificio. Ma con CdA familiare tutto in Italia e zero attività fuori, è arduo sostenere la genuinità. In definitiva, l’epoca delle holding letterbox sta finendo: molte famiglie in situazioni analoghe hanno preferito rimpatriare le holding (spesso sfruttando la Voluntary Disclosure qualche anno fa). In caso di verifica, come questo scenario mostra, la strategia difensiva deve puntare a transigere magari (accordo in mediazione? definizione agevolata se disponibile), perché rischiare fino in Cassazione può significare pagare tutto con interessi e sanzioni piene se si perde.

5. Settore immobiliare: Società estera proprietaria di immobili in Italia

Scenario: Un investitore italiano decide di intestare i suoi immobili di lusso italiani (ville, case vacanza) a delle società estere (es. una LLC negli USA per una villa in Costa Smeralda, una Ltd in UK per un appartamento a Roma). Lo scopo è molteplice: privacy (schermare il nome), vantaggi fiscali (nessuna IMU se l’intestatario è estero e gode di esenzioni? imposte di successione differite? forse anche evitare il monitoraggio fiscale). Queste società estere sono scatole vuote, possedute fiduciaramente dall’italiano. Non svolgono alcuna attività d’impresa: detengono solo l’immobile, che viene utilizzato dall’italiano come casa vacanza. Formalmente incassano un piccolo affitto dall’italiano stesso (come comodato). Un giorno l’investitore decide di vendere un immobile e lo fa vendere dalla società estera a un compratore estero: ciò evita l’atto di compravendita in Italia (si trasferiscono le quote societarie all’estero). Il Fisco italiano viene a conoscenza del passaggio.

Accertamento: L’Agenzia delle Entrate considera queste situazioni come interposizione e/o esterovestizione. La società USA e UK sono in realtà veicoli per possesso immobiliare in Italia. Applicando i principi, la sede effettiva di tali società è dove l’immobile è gestito (Italia), e soprattutto c’è soggetto di controllo italiano con bene in Italia: caso di presunzione forte. L’Agenzia innanzitutto può contestare all’investitore il possesso diretto degli immobili, ignorando la società (lifting the veil): per le imposte patrimoniali (IMU, IVIE) e sui redditi da eventuale utilizzo a titolo personale, l’italiano non può nascondersi dietro la società estera. Inoltre, se c’è stata compravendita, l’Agenzia può ritenere che la vendita in realtà riguardava un immobile italiano (sostanza) e quindi soggetta a registrazione in Italia e relative imposte. Un caso simile c’è stato (Cass. 14485/2024, già discusso): conferimento di immobile a società UK e rivendita con tassa fissa, poi riqualificati come operazioni elusive. L’accertamento dunque sostiene: le società estere sono esterovestite, essendo semplici schermi patrimoniali di un residente. Si richiede all’italiano le imposte non versate: ad es. recupero dell’IMU come se fosse lui il proprietario (le società estere non pagavano? o pagavano aliquote ridotte?), eventuali imposte sulle locazioni se l’immobile era dato in uso a terzi (anche se non, diciamo fittizio), e soprattutto l’imposta di registro evasa con lo stratagemma della cessione quote estere (che di fatto nasconde una compravendita immobiliare italiana). Il tutto con sanzioni pesanti per simulazione.

Esito potenziale: Il contribuente ha poche chance in contenzioso: la giurisprudenza è molto severa contro queste pratiche, specie se fatte ad hoc per eludere imposizione su immobili. Ad esempio, Cass. 11245/2019 (fittizia esterovestizione per non pagare IVIE su casa a Montecarlo) ha dato ragione al Fisco. L’esterovestizione qui si manifesta come “esterovestizione della residenza di beni”, concetto improprio ma che rende l’idea: usare società estere come parking di asset italiani. Il Fisco tratta tali società come fiscalmente italiane (avendo centro d’interessi in Italia) o semplicemente le ignora considerandole interposte. L’esito tipico: contribuenti colti in queste operazioni di solito definiscono per evitare guai peggiori – magari con ravvedimento o adesione. In caso di vendita di immobili tramite share deal estero, l’Agenzia spesso riprende l’imposta di registro evasa con successo (ci sono diversi precedenti).

Considerazione finale sulle simulazioni: ogni settore ha le sue peculiarità, ma il filo conduttore è il medesimo: se la sostanza economica (produzione, erogazione servizio, detenzione bene) rimane in Italia, l’esterovestizione verrà contestata a prescindere dalla forma adottata. Diversamente, se l’attività è effettivamente sviluppata all’estero (clienti, base operativa, etc.), la società sarà rispettata come estera. Quindi, per chi opera in più Paesi, la chiave è l’effettività: un imprenditore digitale con team globale e presenza anche fuori può giustificare una sede estera; un consulente o una holding familiare, no, se tutto gravita attorno all’Italia.

FAQ – Domande frequenti su esterovestizione (per imprenditori e consulenti)

D1: Posso aprire una società all’estero per pagare meno tasse senza rischiare esterovestizione?
R: Sì, ma solo a condizione che la società operi davvero all’estero in modo autonomo. Aprire una società in un altro Stato esclusivamente per beneficiare di aliquote più basse, mantenendo però in Italia la direzione e l’attività, configura esterovestizione. In pratica, potete godere legittimamente di una fiscalità estera favorevole solo se trasferite anche la sostanza dell’attività in quel paese: uffici, personale, decisioni. Se invece costituite una società estera “di comodo” mentre tutto continua ad essere fatto dall’Italia, il Fisco italiano vi considererà comunque residenti qui e vorrà le sue imposte. Un contribuente non è obbligato a scegliere l’alternativa più tassata, ma non può neanche creare costruzioni artificiali prive di effettività economica al solo scopo di eludere le imposte italiane. Quindi, se volete davvero sfruttare le minori tasse di un altro paese, dovete trasferirvi voi o creare una struttura reale lì. Altrimenti, rischiate l’accertamento.

D2: Quali sono i criteri principali che il Fisco guarda per decidere se una società estera è esterovestita?
R: Gli indicatori chiave sono: (i) dove si trova la sede di amministrazione effettiva – ossia da dove vengono prese le decisioni di gestione (se dall’Italia, è un forte segnale); (ii) dove si svolge l’attività operativa o l’oggetto principale (se la produzione, i servizi, il mercato sono in Italia); (iii) la composizione dell’organo amministrativo (prevalenza di amministratori italiani); (iv) la proprietà (se è controllata da soggetti italiani); (v) la struttura organizzativa estera (esiste? ha uffici, dipendenti? O è solo un indirizzo postale?); (vi) i flussi finanziari (se gli utili vengono quasi tutti rimpatriati o spesi da residenti italiani). In sintesi, l’Agenzia verifica se la società estera ha una vita propria e indipendente all’estero o se è pilotata dall’Italia. Un esempio pratico: se trovano che la società estera non ha ufficio, non ha dipendenti e l’amministratore vive in Italia, mentre magari i contratti sono firmati a Milano – questi elementi messi insieme delineano la fittizietà dell’estero. Altro esempio: se la società straniera è una holding e serve solo a detenere quote di società italiane, con soci e manager italiani, scatta la presunzione di residenza qui. Il Fisco utilizza sia le norme (art.73 TUIR e presunzioni) sia la prassi investigativa: esamina email, spese aziendali, tabulati telefonici, testimoni, per capire dov’è il cervello e il cuore dell’impresa. Se sono in Italia, poco importa dove sia il “guscio” legale.

D3: Se gli amministratori di una società estera sono per la maggioranza italiani, la società è considerata automaticamente residente in Italia?
R: Non automaticamente, ma quasi. La prevalenza di consiglieri italiani è uno dei fattori che attivano la presunzione di esterovestizione se la società estera detiene partecipazioni di controllo in società italiane. In quel caso (holding estera di italiani) basta che il CdA sia a maggioranza italiana per presumere la residenza in Italia salvo prova contraria. Se invece la società estera non è holding di italiane, avere amministratori italiani resta comunque un indizio pesante, benché non ci sia la presunzione legale. In pratica, se il board è quasi tutto italiano, l’Agenzia sospetterà che le decisioni vengano prese in Italia. La società dovrà dimostrare che, nonostante ciò, le riunioni e la gestione avvengono oltreconfine (ad esempio con verbali di riunioni estere, presenza di uno stabilimento significativo all’estero, ecc.). Quindi, non è l’elemento singolo a fare prova assoluta, ma in combinazione con altri. Un CdA “tricolore” è sicuramente un campanello d’allarme: meglio, per chi vuole sostenere la residenza estera, avere amministratori principalmente locali o comunque non residenti in Italia.

D4: E se i soci (proprietari) sono italiani ma gli amministratori no? Ad esempio, una Ltd inglese con soci italiani ma amministratore unico britannico.
R: Questo migliora un po’ le cose, ma non garantisce. Il comma 5-bis copre due scenari alternativi: controllo da italiani o CdA a prevalenza italiano. Quindi, se anche evitate il CdA italiano nominando un britannico come amministratore, rimane il fatto che i soci di controllo sono italiani – sufficiente, in uno schema di holding, a innescare la presunzione (il caso a) del 5-bis). Anche al di fuori della presunzione, l’Agenzia si chiederà: l’amministratore locale è amministratore di facciata o esercita poteri reali? Spesso nei modelli “nominee director”, il locale firma ciò che i soci italiani gli dicono di firmare. Se emergono retroscena così, la presenza di un amministratore straniero non salverà dalla contestazione – anzi verrà vista come un elemento artificioso. Invece, se quell’amministratore è effettivamente un professionista che gestisce l’azienda, magari con autonomia, potrà essere un argomento difensivo. In conclusione: soci italiani + amministratore fantoccio estero = rischio altissimo di esterovestizione; soci italiani + amministratore estero indipendente e operativo = un po’ meno, ma serviranno prove concrete dell’indipendenza di quest’ultimo (deleghe, decisioni prese da lui, ecc.).

D5: Qual è la differenza tra esterovestizione e stabile organizzazione occulta?
R: Sono due concetti diversi, anche se a volte legati. L’esterovestizione riguarda la residenza della società: significa che una società formalmente estera in realtà è considerata fiscalmente residente in Italia, tassando tutti i suoi redditi mondiali in Italia. La stabile organizzazione occulta riguarda invece una presenza operativa in Italia di una società estera che resta estera: in questo caso la società viene considerata non residente, ma si ritiene che abbia un “ramo” o base fissa in Italia (una sede, un ufficio, un impianto stabile) attraverso cui svolge attività, e per questo i redditi attribuibili a quella base vengono tassati in Italia. Esempio: una società USA non è esterovestita (direzione rimane negli USA), però apre di nascosto un ufficio commerciale a Milano senza dichiararlo – qui non diremmo che la società è residente in Italia, ma diremmo che ha una stabile organizzazione non dichiarata a Milano e i profitti generati da quell’ufficio vanno tassati qui. Nel caso dell’esterovestizione, invece, si afferma che la sede dell’amministrazione dell’intera società è in Italia, quindi l’intera società è residente qui, non solo una branch. Molte volte, situazioni border-line possono essere viste in entrambi i modi: se un’azienda sposta sede legale fuori ma continua ad avere stabilimenti produttivi in Italia, il Fisco potrebbe contestare sia la residenza (esterovestizione totale) sia, in via subordinata, almeno la stabile organizzazione in Italia. In pratica, l’esterovestizione è concetto più ampio (residenza fittizia), la stabile organizzazione occulta è un fenomeno più circoscritto (evasione dovuta al mancato riconoscimento di una base fissa). Entrambi portano comunque a far pagare tasse in Italia, ma in modo diverso. L’esterovestizione è spesso più “vantaggiosa” per il Fisco perché prende tutto il reddito societario. La stabile organizzazione riguarda solo la quota attribuibile alle attività italiane.

D6: Se una società estera viene considerata residente in Italia, cosa succede in concreto? Doppia imposizione? Devo pagare due volte le tasse (sia estere che italiane)?
R: In linea di massima, la società verrà trattata come un contribuente italiano, quindi dovrà presentare dichiarazioni in Italia e pagare le imposte italiane sui redditi ovunque prodotti, come se fosse sempre stata italiana. Per evitare doppia imposizione, però, si possono scomputare le eventuali imposte pagate all’estero su quei redditi, secondo le regole del credito d’imposta estero. Inoltre, se esiste una Convenzione contro le doppie imposizioni col Paese in questione, si attiverà il meccanismo del tie-breaker: normalmente le Convenzioni prevedono che, in caso di doppia residenza (residente per ciascun Stato secondo le leggi interne), la società si considera residente solo in uno dei due Stati, di solito quello della sede di direzione effettiva. Quindi se l’Italia accerta che la direzione effettiva è qui, e l’altro Stato concorda, quell’altro Stato dovrebbe rinunciare a tassare come residente (potrà tassare solo eventuali stabili organizzazioni lì, se esistono). Se invece l’altro Stato non concorda e continua a considerarla residente, si ha un conflitto: in teoria andrebbe risolto via Mutual Agreement Procedure (MAP) tra le due amministrazioni. Nella pratica, molti Paesi cooperano: ad esempio, in casi di holding Luxembourg poi tassate in Italia, spesso il Lussemburgo ha accettato il risultato (anche perché spesso quelle holding pagavano poco niente lì). Quindi, non è che pagherete doppio: pagherete la differenza se l’Italia ha aliquote più alte, e redistribuirete il diritto impositivo. Tuttavia, attenzione: se l’altro paese è un paradiso fiscale che non tassa affatto il reddito, allora non c’è neanche doppia imposizione da eliminare – pagherete tutto in Italia e basta. In sintesi: l’obiettivo dell’Agenzia non è farvi pagare due volte, ma farvi pagare almeno una volta in Italia. Il coordinamento convenzionale poi evita (in teoria) duplicazioni; in assenza di convenzione, si userà il credito unilaterale. Ovviamente, potrebbero esserci complicazioni temporali: ad esempio, se il fisco italiano arriva dopo anni, può capitare che abbiate già pagato tasse estere in certi anni e ora vi chiedano anche quelle italiane: dovrete attivare procedure di rimborso o credito, non sempre immediate.

D7: L’esterovestizione riguarda solo i rapporti società italiane-estere o anche le persone fisiche?
R: Il termine in sé si riferisce alle società (esterovestizione = “vestire da estero” un soggetto societario domestico). Per le persone fisiche c’è un concetto analogo ma normato diversamente: se un cittadino italiano trasferisce la residenza in un paese black list (paradiso fiscale), la legge presume che non abbia effettivamente perso la residenza italiana salvo prova contraria (art. 2, c.2-bis TUIR). Quindi, un individuo può essere soggetto a contestazione di fittizia espatrio (spesso si parla di esterovestizione della persona, impropriamente). È lo stesso meccanismo: se vai a vivere a Montecarlo o Dubai solo sulla carta, ma di fatto stai sempre in Italia, l’Agenzia ti può considerare ancora residente qui e tassarti su tutto (redditometro, ecc.). Nel tuo interesse, se sei persona fisica, devi trasferire realmente il centro dei tuoi interessi all’estero (dimora, famiglia, lavoro) per non essere considerato residente. Diciamo che esterovestizione è un termine usato soprattutto per società, ma esiste anche la “esterovestizione individuale” (evasori che spostano anagrafe all’estero fittiziamente). Tra l’altro, ultimamente l’Agenzia è molto attenta a influencer, sportivi, manager che dichiarano residenza estera (tipo a Dubai, Svizzera) ma passano gran parte del tempo in Italia: questi casi sono analoghi e spesso vengono contestati. Quindi sì, il concetto di fondo vale anche per le persone: residenza formale estera vs residenza effettiva in Italia. Stesse regole di sostanza>forma.

D8: Cosa rischio in caso di accertamento per esterovestizione?
R: Sul piano tributario, rischi un recupero di imposte massiccio: l’Agenzia ricalcolerà le imposte italiane dovute sui redditi della società come se fosse stata residente qui (tipicamente IRES 24% annuo sugli utili netti non dichiarati, più IRAP se applicabile). Ti contesteranno più annualità (di solito fino a 5 anni indietro, 8 se omissione). Alle imposte si aggiungono sanzioni amministrative per dichiarazione omessa o infedele: possono arrivare anche al 180% dell’imposta evasa per ciascun anno. Inoltre maturano interessi su tutte le somme. Se la cifra evasa è consistente, come visto c’è anche il rischio penale: omessa dichiarazione (art.5 DLgs 74/2000) comporta reclusione 1.5-4 anni se l’imposta evasa > €50.000 annui. Se sono stati usati schemi fraudolenti (falsi documenti, doppia contabilità) potrebbe configurarsi dichiarazione fraudolenta (art.3, soglia €30.000). La presenza di società estere fittizie in genere integra l’omessa dichiarazione (non hai presentato dichiarazione IRES in Italia mentre avresti dovuto). Quindi potenzialmente c’è un procedimento penale a carico degli amministratori/soci, con possibili misure cautelari (sequestro beni pari al vantaggio evaso). In aggiunta, potrebbero scattare sanzioni accessorie: ad esempio, interdizione dagli uffici direttivi di persone giuridiche per un periodo, se condannati. Non ultimo, sul piano civile, i rapporti economici potrebbero complicarsi: se avevi venduto un asset usando la società estera per pagare meno tasse, l’acquirente potrebbe trovarsi coinvolto come responsabile d’imposta (ad esempio l’Agenzia può chiedere a lui l’imposta di registro non pagata). Insomma, le conseguenze sono serie: si può arrivare a pagare oltre il doppio dell’imposta evasa originariamente (tra imposte e sanzioni) e in casi estremi anche a subire condanne.

D9: Come posso difendermi se l’Agenzia contesta esterovestizione?
R: La difesa migliore parte da lontano: predisporre sin dall’inizio una solida documentazione che provi l’effettiva operatività estera. Se però sei già in fase di verifica/accertamento, dovrai raccogliere e presentare:

  • Prove tangibili di sostanza estera: contratti di affitto di uffici all’estero, contratti di lavoro di dipendenti esteri, fatture di spese operative nel paese estero (utenze, fornitori locali), fotografie dei locali, iscrizioni a registri locali, qualsiasi cosa che dimostri che la società non è una scatola vuota. Ad esempio, se hai una società UK, portare evidenza che hai un ufficio vero a Londra con 3 impiegati e che lì si fanno riunioni.
  • Verbali e delibere: mostrare che le assemblee e riunioni del CdA si sono tenute all’estero (con tanto di travel tickets dei partecipanti, se possibile, per dimostrare che ci si è recati lì). Se ci sono stati voti, decisioni prese sul posto, è utile.
  • Testimonianze e perizie: a volte presentare dichiarazioni di terzi (clienti, fornitori esteri) attestanti che hanno sempre interagito con la sede estera può aiutare. Ottenere magari una perizia di un consulente fiscale locale che attesta l’aderenza alle normative locali e la sostanza. Queste non fanno prova certa, ma danno credibilità.
  • Argomentazioni giuridiche: il tuo difensore solleverà ogni eventuale vizio procedurale (es. mancato contraddittorio se dovuto, difetto di motivazione dell’avviso) e naturalmente contesterà nel merito la valutazione degli indizi. Potrà richiamare la giurisprudenza (ad es. “mancata prova del fine esclusivo di vantaggio fiscale” come in Cass. D&G) per cercare di alzare l’asticella probatoria a carico del Fisco. Se coinvolta la libertà UE, si invocherà Cadbury (se la società è UE con qualche attività reale).
  • Prova contraria specifica su singoli indizi: es: se l’Ufficio dice “non avete dipendenti”, controbattere con “non servono dipendenti perché l’attività è svolta da outsourcer locali, ecco i contratti”. Oppure se dicono “nessun ufficio”, rispondere “abbiamo una sede presso un business center perché l’attività non richiede stabilimenti, ed ecco le prove che quell’indirizzo è attrezzato e usato da noi”.
  • Accordi internazionali: se c’è di mezzo una convenzione e l’altro Stato magari convalida la residenza estera, portare la certificazione di residenza fiscale dall’estero e invocare l’art. 4(3) del trattato. (Attenzione: se però la direzione effettiva è in Italia, tale certificato vale poco). In casi di convenzioni più moderne con tie-breaker da accordo, si potrebbe chiedere l’attivazione della MAP, sperando in un negoziato favorevole.
  • Procedure deflative: parallelamente al ricorso, valutare un eventuale accertamento con adesione: se la posizione è debole, conviene negoziare con l’Agenzia una riduzione di sanzioni e magari un imponibile concordato (spesso in questi casi il Fisco potrebbe acconsentire a limitare le pretese per evitare lungo contenzioso). L’adesione interrompe i termini penali se si perfeziona con pagamento integrale, quindi potrebbe anche “salvare” dai guai penali se paghi tutto (causa estinzione del reato per integrale pagamento, come da riforme del 2019).
  • Ruling internazionale o interpello tardivo: se per caso l’esterovestizione non è ancora avvenuta ma temi contestazioni future, puoi valutare un interpello nuovi investimenti (se investi ≥30M e generi occupazione) per chiedere conferma al Fisco del trattamento (anche sulla residenza). O un interpello art.11 l.212/2000 per casi dubbi interpretativi (difficile sulla residenza, ma se c’è di mezzo una convenzione, magari su quella). In fase di contenzioso, invece, ormai l’interpello non è più opzione, ma puoi sempre “ravvederti” in parte, magari trasferendo la sede in Italia e pagando d’ora in poi le tasse corrette – mostrando buona fede, potrebbe aiutare perlomeno a trattare meglio le sanzioni.

In sintesi, la difesa deve demolire la tesi che la società sia un guscio e convincere che vi fosse una ragione economica sostanziale per operare all’estero (oltre al fisco) e che l’operatività estera c’è stata. Non è semplice: occorre predisporre un fascicolo dettagliato e spesso anche così la controparte porterà contro-indizi. La cosa migliore è farsi assistere da un professionista esperto in fiscalità internazionale e contenzioso tributario. Loro sapranno, caso per caso, quali prove sono più incisive e come impostare la strategia in Commissione tributaria (magari puntando su eventuali lacune della controparte, come onere della prova non assolto, ecc., specie dopo L.130/2022 che richiama l’onere in capo all’Amministrazione).

D10: Vale la pena costituire una società all’estero per motivi di ottimizzazione fiscale oggi?
R: Dipende. Se parliamo di Paesi a fiscalità ordinaria (es. aprire in Francia, Spagna, USA per operare lì), e effettivamente si svolge attività in quei paesi, allora non c’è nulla di male e anzi è fisiologico in un’economia globalizzata. Se invece l’idea è di costituire in nazioni solo per tagliare il carico fiscale, senza spostare l’attività, oggi è molto rischioso. L’epoca in cui bastava aprire una società a Londra o a Panama e stare tranquilli è finita: la cooperazione internazionale e le normative anti-abuso sono diventate stringenti. L’Agenzia delle Entrate ha strumenti per scoprire dove realmente operate (dati finanziari, comunicazioni, scambio info). Dunque, a meno che non siate disposti a delocalizzare veramente la vostra vita e impresa, creare società estere solo per tasse minori è sconsigliabile. Esistono in Italia regimi agevolati che potreste sfruttare con meno patemi (ad es. il regime forfettario per piccole partite IVA al 5-15%, il Patent Box per redditi da beni immateriali, la tassazione per cassa per imprese minori, o l’IRI se reintrodotta, etc.). Ci sono modi leciti di ridurre il tax burden senza fingere di essere all’estero. Ovviamente, se avete un business genuinamente internazionale e potete scegliere dove basarlo, scegliete pure il paese più efficiente – ma allora stabilitevi davvero lì. In conclusione: fare esterovestizione “fai-da-te” è una strategia obsoleta e pericolosa. Vale la pena solo se accompagnata da reale sostanza estera.

Linee guida difensive e di compliance

Per professionisti e imprenditori che operano in contesti internazionali, riportiamo alcune linee guida sia preventive (per evitare di incorrere in contestazioni di esterovestizione) sia difensive (se ci si trova sotto accertamento):

1. Prevenzione e sostanza economica

  • Substance over form: Assicuratevi che la sostanza segua la forma. Se decidete di stabilire una società all’estero, predisponete una reale struttura operativa in loco: un ufficio vero, personale o collaboratori locali, un manager residente che prenda decisioni giorno per giorno. Documentate puntualmente tutte le attività svolte all’estero (rapporti, progetti, incontri). Più tangibile è la presenza all’estero, minore il rischio di essere considerati “esterovestiti”.
  • Evitare situazioni di mero artificio: Se l’entità estera è passiva (holding, sub-holding, società immobile) valutate attentamente il valore aggiunto che offre. Se il suo unico scopo è fiscale, siete nella zona rossa. Provate a conferirle anche compiti funzionali: es. una holding estera potrebbe fornire servizi finanziari centralizzati al gruppo, treasury, R&D condiviso – qualsiasi attività che giustifichi la sua esistenza oltre a incassare dividendi. Questo chiaramente va implementato davvero, non solo sulla carta.
  • Non abusare di prestanome: Nominare amministratori locali solo di facciata è controproducente. Se avete partner o dirigenti esteri affidabili, includeteli nella governance e delegate loro alcune decisioni. Un CdA misto con ruoli reali è meglio di un CdA italiano mascherato. Inoltre, se siete voi amministratori, fate in modo di trascorrere tempo nel paese estero per seguire la società: trasferte frequenti, periodi prolungati presso la sede estera (possibilmente >183 giorni se volete invertire la presunzione per persone fisiche). Biglietti aerei e soggiorni all’estero sono prove semplici ma efficaci della vostra presenza gestionale fuori.
  • Separazione delle attività: Non gestite dall’Italia ciò che formalmente appartiene alla società estera. Ad esempio, non firmate contratti della società estera mentre siete in Italia (o almeno fatelo con procura notarile localizzata). Se ci sono email, distinguete i server: un trucco può essere utilizzare server/cloud situati nel paese estero per la corrispondenza aziendale, così gli header IP risultano di lì. (Da non confondere: non è per barare, ma per coerenza – se tutto il traffico dati passa per server italiani, emerge subito).
  • Utilizzare transfer pricing logico: In gruppi internazionali, se la società estera presta servizi o vende beni all’italiana, rispettate la normativa transfer pricing. Ma nel caso opposto, se l’italiana fa praticamente tutto e l’estera è solo una holding, quello non è un vero rapporto TP: è un sintomo di interposizione. Comunque, fatevi analizzare le transazioni intercompany: prezzi fuori mercato o remunerazioni anomale destano sospetti di spostamento utile all’estero e possono essere corretti d’ufficio.
  • Conoscere le white list/black list: Sebbene le black list formali siano state in parte abrogate nel TUIR, restano usi di liste ai fini antielusivi (es. elenco paradisi fiscali per controlli su residenza persone fisiche, o per CFC). Stabilire sedi in giurisdizioni notoriamente offshore (es. Panama, Isole Vergini, etc.) vi pone immediatamente sotto lente. Se dovete scegliere, privilegiate paesi con fiscalità normale e accordi con l’Italia. Ad esempio, una società a Dubai è a rischio elevato (UAE ha tasse quasi zero e scambio info limitato fino a poco fa), mentre una società in UK/Irlanda se ben strutturata è più difendibile (fisco non nullo, cooperazione piena – in tal caso si punterà sulla sostanza). Attenzione anche alle Zone Franche: se aprite in un Free Zone con tassazione nulla, potreste innescare l’applicazione delle nuove norme CFC o essere considerati privilegiate.
  • Attenti ai confini soggettivi: L’art. 73 comma 5-bis colpisce anche enti non societari (trust, fondazioni) se hanno quelle caratteristiche (controllo di entità italiane etc.). Quindi, non crediate di eludere aprendo un trust alle Bahamas: se dietro ci sono residenti italiani e asset italiani, siete nei guai uguale, anzi peggio (anche sotto profili monitoraggio capitale estero).

2. Documentazione difensiva

  • Dossier permanente: Create un file difensivo sin dal giorno 1 della vita della società estera. Includete: visura locale, organigramma con ruoli e nazionalità, contratti di locazione, bollette, buste paga, fotografie dell’ufficio e del personale, brochure aziendali con sede estera, articoli di giornale locali su di voi, ecc. Aggiornatelo annualmente. Questo vi sarà utilissimo se e quando arrivasse un accertamento: avere tutto a portata di mano permette di rispondere al questionario del Fisco in modo puntuale, dando subito l’impressione (e la realtà) di una struttura genuina.
  • Verbali e registri ufficiali: Assicuratevi di tenere tutti i verbali di assemblea e CdA e di compilarli diligentemente, indicando luogo (estero) e data. Se possibile, fateli firmare dai presenti in loco. Se un CdA avviene in call, potete redigere verbale come “riunione avvenuta via teleconferenza con sede di riferimento [estero]”, ma è meno efficace: meglio fisicamente. Mantenete anche registri contabili e libri sociali presso la sede estera come richiesto dal paese locale – il Fisco vi chiederà dove sono tenuti, e se dite “in Italia” vi date la zappa sui piedi.
  • Prova delle decisioni all’estero: un’idea: se prendete decisioni importanti (es. approvazione bilancio, piano industriale), fatevi qualche foto/timbro a testimonianza. Es: se l’assemblea l’avete fatta a Lugano, conservate ricevute di ristorante o hotel di quei giorni a Lugano col nome dei partecipanti. Sono pezzi di puzzle che poi compongono la narrazione che “sì, noi andavamo lì a occuparci della società”.
  • Contratti e corrispondenza bilingue: se la vostra società estera opera con controparti locali, cercate di avere contratti nella lingua locale o quantomeno bilingue, e corrispondenza in quell’idioma. Se tutto è in italiano, stride. Per esempio, se la vostra società rumena ha contratti scritti solo in italiano con fornitore italiano, appare come mera estensione. Se invece i contratti con fornitori rumeni sono in rumeno, difficile dire che non c’è sostanza locale.
  • Consulenze professionali estere: avvalersi di commercialisti/avvocati nel Paese estero e conservare le loro fatture (pagate dalla società estera) dimostra che la società opera nel suo contesto giuridico. Se la contabilità della società bulgara la tiene il consulente in Italia, è un errore: meglio un contabile bulgaro. Costa forse di più ma vi fornisce prova di radicamento.
  • Due diligence interna periodica: ogni anno, fatevi mentalmente (o con l’aiuto di un fiscalista) un “check-up” su come starebbe la vostra società estera di fronte a un accertamento. Chiedetevi: riuscirei a dimostrare che ha direzione all’estero? quali elementi potrebbero attaccarmi?. Se trovate punti deboli, corretteli subito (es. magari nominando un altro amministratore estero, o affittando un ufficio più grande, ecc.). Questa autovalutazione onesta può salvarvi in anticipo.

3. In caso di accertamento

  • Non sottovalutare la verifica: se ricevete un questionario o PVC in tema esterovestizione, attivatevi immediatamente con i vostri consulenti. Sono questioni delicate che vanno seguite da un professionista esperto di internazionale. Fornite collaborazione ma in modo calibrato: rispondete per iscritto con precisione e completezza, allegando i documenti richiesti e magari qualcuno in più strategico. È qui che il dossier preparato torna utile.
  • Contraddittorio e spiegazioni: chiedete (o comunque partecipate a) un incontro di contraddittorio con l’ufficio per illustrare la vostra posizione. Spiegate l’business rationale della struttura estera: esponete ragioni non fiscali (mercato, investitori esteri, ecc.). Mostrate genuinità. Se convincete l’ufficio che c’era un motivo di business sensato e che avete operato alla luce del sole all’estero, potrebbe orientarsi per chiudere con esito favorevole o almeno ridurre l’aggressività.
  • Focus sui punti deboli dell’Agenzia: verificate se l’accertamento ha rispettato le regole: ad esempio, se la vostra società era UE e l’accertamento verte su abuso di libertà, forse andava attivato il contraddittorio preventivo (diritto UE) – la giurisprudenza dice che la mancanza può invalidare l’atto in certi casi. Oppure controllate la delega di firma dell’atto, eventuali errori di notifica. Questi aspetti procedurali possono offrire appigli di annullamento, indipendenti dal merito.
  • Valutare sanatorie o regolarizzazioni: talvolta il legislatore offre finestre di pacificazione fiscale (condoni, definizioni agevolate). Se siete nel bel mezzo di un contenzioso e arriva una norma tipo “definizione controversie fino a Cassazione con pagamento ridotto”, valutate seriamente di aderire. Pagherete qualcosa ma toglierete incertezza e soprattutto rischi penali (pagare, anche se ridotto, aiuta poi in sede penale per estinguere reato). Ad esempio nel 2023 c’è stata la possibilità di chiudere liti pendenti con sconto sanzioni – molti con cause di esterovestizione ne hanno approfittato.
  • Risoluzione del contenzioso: se decidete di procedere in Commissione, predisponete un ricorso tecnico, con perizie giurate a supporto se opportuno (es. perizie su dove è la direzione effettiva, fatte da esperti esteri?). Durante il processo, potete proporre conciliazione giudiziale: l’Agenzia a volte preferisce chiudere lì con compromesso (pagamento imposte, sanzioni ridotte 50%). È un’opzione da non scartare, specie se il giudizio è incerto.

4. Strumenti preventivi: ruling e cooperative compliance

  • Interpello anti-abuso (art. 11, c.2): Formalmente, l’esterovestizione rientra nell’elusione specifica, quindi l’interpello anti-abuso generale non è applicabile (art. 10-bis non copre fattispecie con sanzioni specifiche come questa). Tuttavia, se avete in mente un’operazione transnazionale complessa dove il confine di residenza è labile, potete comunque consultare informalmente l’Agenzia (pre-filing rulings, incontri con Cooperative Compliance se aderite). Non aspettatevi risposte ufficiali su “dove sarà la sede effettiva”, ma un confronto con l’ufficio grandi contribuenti su come vedono una struttura può orientare.
  • Ruling nuovi investimenti: Se investite almeno 20 (ora 15) milioni in Italia in un progetto internazionale, potete chiedere un ruling su vari aspetti tributari connessi (art.2 DL 147/2015). Questo può includere chiarimenti sulla residenza delle società coinvolte. È uno strumento poco usato ma potente: vincola l’Agenzia. Certo, è riservato a grandi operazioni d’impresa.
  • Adempimento collaborativo: Se la vostra è un’azienda di grandi dimensioni (parametri di volume d’affari > €1 mld o inferiori se progetto pilota), potete aderire al regime di cooperative compliance. In tale contesto di trasparenza con l’Agenzia, potreste discutere a priori di eventuali rischi di esterovestizione nelle vostre strutture e ottenere comfort dall’Agenzia su come gestirle. È un approccio di compliance avanzata che evita a monte il contenzioso, ma richiede massima disclosure.

5. In caso di dubbi, rientro o regolarizzazione

  • Rientro volontario dei capitali/società: Se vi rendete conto che la società estera non ha più senso economico e rappresenta un rischio fiscale, considerate di chiuderla o trasferirla in Italia spontaneamente. Ad esempio, liquidatela e riportate gli asset in Italia, pagando le eventuali imposte correnti. Meglio farlo prima che parta un accertamento. Ci sono state in passato due edizioni di Voluntary Disclosure (2015 e 2017) per regolarizzare attività estere non dichiarate, incluse partecipazioni in società esterovestite: hanno permesso di sanare pagando solo imposte e interessi, con sanzioni ridotte e immunità penale. Non sappiamo se ne riproporranno, ma se capitasse e vi trovate in situazione irregolare, cogliete l’opportunità. Dopo una VD, difficilmente quell’annualità verrà contestata come esterovestizione (avete già autodenunciato e pagato il dovuto).
  • Gestione delle sanzioni penali: Sul fronte penale, se siete sotto indagine per esterovestizione, la miglior difesa è pagare il dovuto (o far pagare alla società) prima della sentenza di primo grado: questo ai sensi dell’art. 13 DLgs 74/2000 estingue i reati di omessa e infedele dichiarazione. Quindi può letteralmente salvarvi dalla condanna. Anche il patteggiamento è più favorevole se c’è integrale pagamento. Coordinare la difesa tributaria con quella penale è cruciale: spesso è opportuno risolvere il contenzioso tributario (anche transando) per mettere a posto le cose col fisco e poi ottenere la non punibilità penale.
  • Occhio alla reputazione e altri effetti: Una contestazione di esterovestizione a carico di un imprenditore può avere riverberi reputazionali (appare sui giornali come “società fantasma estera per evadere tasse”). In determinati settori questo nuoce. Inoltre, riflettete su implicazioni come: se la società viene dichiarata residente, potrebbe dover soggiacere a normative italiane (es. depositare bilanci da noi, o normative golden power se settore strategico). Insomma, non è solo questione di tasse: riportare “in bonis” la propria posizione può evitarvi complicazioni a catena.

Conclusioni e riferimenti normativi e giurisprudenziali

In conclusione, l’accertamento di esterovestizione è un tema complesso che richiede un’attenta analisi di fatti, norme e principi. La normativa italiana offre gli strumenti per contrastare le residenze fittizie (in particolare l’art. 73 TUIR, commi 3 e 5-bis), e l’Agenzia delle Entrate ha sviluppato una prassi rigorosa e sofisticata per individuarle. La giurisprudenza ha definito criteri chiari: prevale la sostanza economica sulla forma, e solo le costruzioni puramente artificiali e prive di attività reale possono essere riqualificate senza violare il diritto UE. I casi concreti dimostrano che ogni vicenda fa storia a sé, ma esiste un fil rouge: se c’è davvero vita economica all’estero, la residenza estera sarà rispettata; se c’è solo il nome all’estero ma tutto il resto è qui, l’esterovestizione verrà (giustamente) sanzionata.

Per muoversi correttamente in questo ambito, è fondamentale per imprenditori e consulenti adottare un approccio prudente, trasparente e documentato, eventualmente facendosi assistere da esperti di fiscalità internazionale. L’adempimento spontaneo delle regole di transfer pricing, la cooperazione nei programmi di tax compliance, e un dialogo aperto con l’Amministrazione finanziaria (quando possibile) sono strategie che oggi ripagano, in un contesto globale dove la transparenza è aumentata e gli spazi per arbitraggi spinti si sono ridotti.

Chiudiamo con un’ultima raccomandazione: la scelta di localizzare un business all’estero deve essere guidata principalmente da logiche imprenditoriali (mercati, costi, opportunità) – il fattore fiscale può essere un elemento, ma non deve essere l’unico motore. Quando l’estero è scelto solo per il fisco, spesso la struttura non regge alle verifiche ed è destinata a crollare, con conseguenze ben più onerose delle imposte che si volevano risparmiare.


Fonti normative principali:

  • D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (TUIR), art. 73, commi 3, 5-bis e 5-ter: criteri di residenza fiscale delle società e presunzione di residenza per società controllate da residenti o con amministratori italiani.
  • Legge 30 dicembre 2015, n. 208 (Legge di Stabilità 2016), art. 1, comma 142: modifica dell’art. 73 TUIR e abrogazione commi 10-12-bis art. 110 TUIR (costi black list).
  • D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 7, comma 5-bis (introdotto da L.130/2022): onere della prova in processo tributario a carico dell’Amministrazione.
  • D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, artt. 4, 5, 11: reati di dichiarazione infedele, omessa dichiarazione e sottrazione fraudolenta, in relazione a condotte di esterovestizione; art.13 (cause di non punibilità per pagamento del debito tributario).
  • Codice Civile, art. 2359: definizione di società controllate (rilevante per art.73 TUIR).
  • Convenzioni contro le doppie imposizioni Italia – (paesi esteri vari), in particolare art. 4 (residenza) e criteri del tie-breaker (sede di direzione effettiva).
  • Direttiva 2008/7/CE del 12 febbraio 2008: imposte indirette sui conferimenti (capital duty), art. 10 (individuazione Stato in base alla sede di direzione effettiva per tassare i conferimenti).
  • Raccomandazione Commissione UE 2012/772/UE del 6/12/2012: definizione di costruzioni artificiose ai fini anti-abuso.

Principali documenti di prassi e dottrina:

  • Circolare Agenzia Entrate n. 28/E del 4 agosto 2006, §8: chiarimenti su presunzione di residenza ex art.73 co.5-bis, ratio legis e inversione onere prova.
  • Risoluzione Agenzia Entrate n. 312/E del 5 novembre 2007: interpello disapplicativo negato per esterovestizione, prova contraria solo in sede di accertamento.
  • Risposta a interpello n. 27/2022 dell’Agenzia Entrate: esclusa applicazione art.73(5-bis) a società estera non holding di partecipazioni italiane.
  • Risposta a interpello n. 164/2023 Agenzia Entrate: chiarimenti su presunzione relative di esterovestizione, società estera operativa ma con socio italiano che rientra in Italia – no presunzione perché non holding.

Principali sentenze giurisprudenziali:

  • Cass. civ. Sez. V n. 7682/2012: definizione di sede amministrativa effettiva vs sede legale.
  • Cass. civ. Sez. V n. 2869/2013: prima definizione esplicita di esterovestizione come fittizia residenza estera per elusione.
  • Cass. civ. Sez. V n. 29754/2011: (non citata sopra) su onere della prova in capo al Fisco in tema di residenza, ante L.130/22.
  • Cass. pen. Sez. III n. 43809/2015 (Dolce & Gabbana penale): assoluzione perché non provata costruzione artificiosa esclusiva.
  • Cass. civ. Sez. V n. 33234 e 33235/2018: caso Dolce & Gabbana tributario, necessità costruzione puramente artificiosa per qualificare esterovestizione.
  • Cass. civ. Sez. V n. 16697/2019: definisce fattispecie di esterovestizione (sede effettiva in Italia, sede formale estera per vantaggio fiscale).
  • Cass. civ. Sez. V n. 23051-23150/2022: serie di sentenze di luglio 2022 che chiariscono rapporto con abuso (23150 in particolare: criteri interni bastano, irrilevante intento).
  • Cass. civ. Sez. V n. 26538/2022: sentenza organica su esterovestizione, allineata a principi unionale (scopo essenziale vantaggio fiscale da accertare).
  • Cass. civ. Sez. V n. 2313/2023: (ipotetica, non citata, possibili principi su onere probatorio dopo L.130/22).
  • Cass. civ. Sez. V n. 5537/2023: ordinanza, conferma legittimità disconoscimento sede estera (Londra) in presenza di struttura fittizia.
  • Cass. civ. Sez. V n. 3386/2024: sede effettiva prevale per imposta registro, presunzione 5-bis non applicabile se no holding, ma residenza attratta comunque per indizi.
  • Cass. civ. Sez. V n. 14485/2024: conferma criteri accertamento: se mancano elementi sostanziali e CTR sopravvaluta prove formali, accertamento dell’esterovestizione va confermato.
  • Cass. pen. Sez. III n. 12084/2023: (penale) conferma sequestro per omessa dichiarazione in caso di esterovestizione (fattispecie che evidenzia rilevanza penale se prova dell’artificio è chiara).

Accertamento per Esterovestizione: Fatti Aiutare Da Studio Monardo

Hai costituito una società all’estero, ma l’Agenzia delle Entrate ti accusa di avere la sede effettiva in Italia?
Hai ricevuto un avviso di accertamento per “esterovestizione”?

⚠️ L’esterovestizione è una delle contestazioni fiscali più gravi e insidiose.
Ma con una difesa tecnica mirata, puoi dimostrare la regolarità della tua struttura societaria e respingere l’accusa.

Cos’è l’esterovestizione

📍 Si parla di esterovestizione quando l’Agenzia delle Entrate ritiene che una società formalmente residente all’estero operi in realtà dall’Italia.

❗ In questi casi, l’Italia può:

🔹 Tassare in Italia tutti i redditi della società
🔹 Contestare evasione fiscale o elusione internazionale
🔹 Applicare sanzioni pesantissime e avviare procedimenti penali

Quando si rischia l’accertamento

Se la società estera:

❌ Ha amministratori, soci o sede decisionale in Italia
❌ Opera solo o prevalentemente con clienti e fornitori italiani
❌ È priva di struttura operativa reale nel Paese estero
❌ Ha una residenza fiscale fittizia usata per motivi fiscali

📌 Anche le holding, le società di consulenza e le attività digitali sono particolarmente esposte.

Le conseguenze dell’esterovestizione

💣 Recupero di imposte non pagate (con interessi e sanzioni fino al 240%)
⚖️ Apertura di indagini penali per dichiarazione infedele o fraudolenta
🚫 Blocco dei conti, accertamenti bancari, misure cautelari
📉 Danni reputazionali e blocco dell’operatività societaria

Cosa fare subito

✅ Non ignorare l’avviso: i termini per reagire sono brevi
✅ Raccogli tutta la documentazione che prova l’effettiva operatività estera
✅ Dimostra che la gestione e le decisioni societarie avvengono realmente fuori dall’Italia
✅ Attiva una difesa legale e fiscale specializzata

🛡️ Come può aiutarti l’Avvocato Giuseppe Monardo

📂 Analizza l’atto di accertamento e la posizione societaria internazionale
📑 Redige il ricorso tributario e gestisce la strategia difensiva
🌍 Verifica la documentazione sulla residenza fiscale e operatività all’estero
⚖️ Ti rappresenta davanti alla Commissione Tributaria e, se necessario, in sede penale
🔐 Protegge i tuoi beni da eventuali sequestri o provvedimenti esecutivi

🎓 Le qualifiche dell’Avvocato Giuseppe Monardo

✔️ Avvocato esperto in diritto tributario
✔️ Gestore della Crisi – iscritto al Ministero della Giustizia
✔️ Fiduciario in procedimenti ad alta complessità contro l’Agenzia Entrate

Conclusione

L’accertamento per esterovestizione non è una formalità.
Serve una difesa tecnica, documentata e tempestiva per evitare sanzioni devastanti e proteggere la tua attività.

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Difendersi è possibile. Ma bisogna farlo bene, e farlo subito.

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Informazioni importanti: Studio Monardo e avvocaticartellesattoriali.com operano su tutto il territorio italiano attraverso due modalità.

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La consulenza fisica, a differenza di quella digitale, viene organizzata a partire da due settimane dal primo contatto.

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