Come Evitare Il Fallimento Con Gli Strumenti Del Codice Della Crisi d’Impresa

La tua impresa è in difficoltà? Hai debiti con fornitori, banche, INPS o Agenzia delle Entrate e temi che la situazione possa degenerare in un fallimento?

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati specializzati in diritto societario, crisi d’impresa e ristrutturazioni aziendali – ti spiega in modo chiaro come funziona il Codice della Crisi e quali strumenti puoi usare per evitare il fallimento, bloccare le azioni dei creditori e rimettere in equilibrio l’attività.

Scoprirai:

  • Quando una società è obbligata a intervenire per evitare conseguenze personali per gli amministratori;
  • Quali sono i segnali della crisi secondo la legge e come monitorarli per tempo;
  • Come avviare una composizione negoziata della crisi, con l’assistenza di un esperto indipendente per trattare con banche e creditori;
  • Come accedere a un concordato semplificato o in continuità aziendale, per continuare a lavorare mentre si ristruttura il debito;
  • Come ottenere misure protettive per fermare pignoramenti, fermi amministrativi e azioni esecutive;
  • Quali sono gli accordi di ristrutturazione che puoi fare con il fisco e con i fornitori per abbattere il debito in modo sostenibile.

Ti guideremo passo dopo passo per capire quali strumenti usare, in quale ordine, con quali vantaggi e con quali tempi, così da prendere decisioni consapevoli e tutelare la tua impresa prima che sia troppo tardi.

Alla fine della guida potrai richiedere una consulenza riservata con l’Avvocato Monardo, analizzare la situazione economico-finanziaria della tua azienda e valutare la strategia migliore per evitare il fallimento, difendere il patrimonio e rilanciare l’attività in modo legale, trasparente e duraturo.

1. Introduzione

Evitare il fallimento – oggi tecnicamente denominato liquidazione giudiziale nel nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (CCII) – è l’obiettivo primario per qualsiasi imprenditore in difficoltà. Un fallimento comporta la cessazione dell’attività, la liquidazione forzata dei beni dell’azienda e una serie di conseguenze negative: perdita dei posti di lavoro, dispersione del valore aziendale, possibili azioni di responsabilità verso gli amministratori e limitazioni future per l’imprenditore (come l’eventuale inabilitazione all’esercizio di nuova attività). Per gli avvocati e i professionisti del settore, gestire efficacemente la crisi di un’impresa significa conoscere e saper attivare per tempo gli strumenti giuridici capaci di risanare l’azienda o comunque regolare il debito, evitando di arrivare alla fase distruttiva del fallimento.

Nel 2019 l’ordinamento italiano ha adottato un quadro normativo organico per la gestione della crisi d’impresa, il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (D.Lgs. 12 gennaio 2019 n. 14, “CCII”), entrato in vigore a regime nel 2022. Questo Codice – frutto di una lunga riforma e dell’attuazione della Direttiva UE 2019/1023 – ha introdotto nuovi istituti e modificato quelli preesistenti, tutti finalizzati a intervenire tempestivamente di fronte ai segnali di difficoltà aziendale. Si è passati da una logica prevalentemente liquidatoria (la vecchia Legge Fallimentare del 1942) ad una logica preventiva e conservativa: individuazione precoce della crisi, strumenti negoziali per il risanamento e, solo in caso di insuccesso, l’apertura di procedure liquidatorie. In altre parole, il Codice della crisi offre alle imprese un ventaglio di soluzioni per evitare il fallimento attraverso il risanamento o la ristrutturazione del debito.

Questa guida, aggiornata a maggio 2025, fornisce un’analisi avanzata di tutti gli strumenti del CCII che consentono di evitare la cessazione dell’impresa. Il taglio sarà tecnico-giuridico ma con un linguaggio chiaro e orientato alla pratica, rivolgendosi sia agli imprenditori – che devono capire quali opportunità la legge offre per salvare la propria azienda – sia agli avvocati e consulenti – che devono saper consigliare e guidare le imprese nelle varie procedure. Per ciascun istituto verranno esaminati: i presupposti di applicazione, la procedura di attivazione e svolgimento, i benefici e i rischi, il ruolo dell’imprenditore e quello del professionista, con il supporto delle fonti normative rilevanti e delle principali pronunce giurisprudenziali (sentenze di Cassazione, decisioni dei Tribunali specializzati, interventi della Corte Costituzionale, ecc.) aggiornate al 2025. Verranno inoltre proposti esempi concreti e simulazioni di casi applicativi nei principali settori economici italiani (dall’edilizia al commercio, dal manifatturiero alla tecnologia), per mostrare come questi strumenti trovino applicazione nella realtà. Tabelle riepilogative permetteranno di confrontare sinteticamente le caratteristiche dei vari strumenti, mentre apposite sezioni di FAQ (domande frequenti) per ogni procedura chiariranno i dubbi pratici più comuni.

Prima di entrare nel merito dei singoli istituti, è utile delineare brevemente l’architettura generale del Codice della crisi e la distinzione tra le diverse tipologie di strumenti a disposizione.

2. Il Codice della crisi d’impresa: principi generali e categorie di strumenti

Il Codice della crisi e dell’insolvenza (CCII) rappresenta il testo unico di riferimento in Italia per la gestione dello stato di difficoltà delle imprese. Esso introduce formalmente la distinzione tra stato di crisi e stato di insolvenza: la crisi è definita come il probabile futuro stato di insolvenza, identificabile tramite indici di squilibrio finanziario e patrimoniale; l’insolvenza è invece la conclamata incapacità dell’impresa di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni (incapacità di pagare debiti scaduti). Questa distinzione non è meramente teorica, ma ha effetti pratici: molti strumenti del Codice possono (e dovrebbero) essere attivati prima che l’insolvenza si manifesti, cioè già al profilarsi della crisi, in un’ottica di prevenzione e tempestività.

I principi generali del CCII pongono l’accento sulla continuità aziendale e sul risanamento come preferibili rispetto alla liquidazione. L’art. 4 CCII enuncia il “principio di adeguatezza delle misure”: gli strumenti di regolazione della crisi vanno scelti e utilizzati in modo proporzionato alla gravità della situazione e orientati al miglior soddisfacimento dei creditori. Il Codice incoraggia l’emersione anticipata della crisi attraverso obblighi organizzativi a carico dell’impresa: gli amministratori devono istituire assetti adeguati a rilevare squilibri e perdite; inoltre sono previsti meccanismi di allerta esterna, in cui alcuni creditori pubblici qualificati (Agenzia delle Entrate, INPS, Agenzia della Riscossione) hanno il dovere di segnalare tempestivamente al debitore e all’organo di controllo eventuali esposizioni debitorie significative. Tali segnalazioni (art. 25-novies CCII) mirano a sollecitare l’imprenditore ad attivarsi per affrontare la crisi. La Corte Costituzionale, investita della questione, ha ritenuto legittimo questo obbligo di segnalazione, considerandolo compatibile con i principi costituzionali (sent. n. 190/2023). In parallelo, il Codice prevede incentivi alla tempestività: ad esempio, l’imprenditore che si attiva prontamente per la composizione negoziata gode di misure protettive e può evitare sanzioni per il ritardo. In sostanza, l’intero impianto normativo premia chi interviene presto e in buona fede per trovare soluzioni, e sanziona o limita chi rimanda fino al punto di non ritorno.

Possiamo suddividere gli strumenti del CCII in due macro-categorie:

  • Strumenti stragiudiziali o negoziali (non richiedono immediatamente l’apertura di una procedura concorsuale in tribunale): ad esempio il piano attestato di risanamento, gli accordi di ristrutturazione dei debiti (in parte ibridi, perché richiedono comunque omologazione giudiziale), e soprattutto la composizione negoziata della crisi, nuovo percorso introdotto nel 2021. Questi strumenti permettono all’imprenditore di ristrutturare l’azienda o il debito in via consensuale con i creditori, mantenendo la gestione dell’impresa ed evitando lo stigma del fallimento. Si tratta di misure riservate (in alcuni casi del tutto confidenziali) che puntano a soluzioni concordate e al risanamento, con un ruolo solo eventuale e mirato del tribunale (ad esempio per conferire protezioni temporanee o omologare gli accordi raggiunti).
  • Procedure concorsuali giudiziali (attivate con ricorso al tribunale e soggette al controllo giudiziario): qui rientrano il concordato preventivo (nelle sue varianti liquidatorie o in continuità) e la liquidazione giudiziale (l’ex fallimento vero e proprio). Queste procedure implicano l’apertura formale di una procedura concorsuale iscritta nel Registro delle Imprese, con la nomina di organi quali il commissario giudiziale o il curatore, e con effetti legali significativi (sospensione delle azioni esecutive individuali, cristallizzazione del passivo, ecc.). Tra di esse, il concordato preventivo rappresenta lo strumento per evitare la liquidazione giudiziale mediante una proposta di soddisfacimento dei crediti, mentre la liquidazione giudiziale è l’extrema ratio quando il risanamento non è più praticabile.

Accanto a queste categorie principali, il CCII prevede procedure speciali per determinate tipologie di soggetti: in particolare, i debitori minori (imprese sotto soglia di fallibilità, piccoli imprenditori e privati non imprenditori) accedono alle procedure di sovraindebitamento, come il concordato minore e la liquidazione controllata, che sono parallele al concordato preventivo e alla liquidazione giudiziale ma adattate a realtà dimensionali ridotte (vedremo in dettaglio più avanti). Vanno ricordate infine le procedure concorsuali riservate a categorie specifiche di imprese, disciplinate da leggi speciali e in parte richiamate dal Codice – ad esempio l’amministrazione straordinaria per le grandi imprese insolventi (disciplinata dal D.Lgs. 270/1999 e L. 39/2004) o la liquidazione coatta amministrativa per banche, assicurazioni e altri enti finanziari – ma tali procedure esulano dall’oggetto di questa guida, che si concentra sugli strumenti ordinari per evitare il fallimento nell’ambito del diritto commerciale generale.

Nei paragrafi che seguono analizzeremo uno per uno tutti i principali strumenti offerti dal Codice della crisi d’impresa per regolare la crisi ed evitare la liquidazione giudiziale. Per ciascuno forniremo una descrizione tecnica e, successivamente, una prospettiva pratica con esempi e FAQ.

(Per comodità espositiva, useremo a volte il termine “impresa” o “debitore” al singolare, sottintendendo che si tratta dell’imprenditore commerciale soggetto alle disposizioni del CCII, salvo diverso chiarimento. Inoltre, sebbene la liquidazione giudiziale abbia sostituito il termine “fallimento”, useremo quest’ultimo talvolta in senso colloquiale per indicare la situazione di default irreversibile che gli strumenti qui descritti vogliono scongiurare.)

3. Composizione Negoziata per la Soluzione della Crisi d’Impresa

La Composizione Negoziata della crisi d’impresa è una procedura nuova e altamente innovativa, introdotta in Italia con il D.L. 118/2021 (convertito in L. 147/2021) e ora disciplinata negli artt. 17-25 del CCII. Si tratta di un percorso volontario, riservato e stragiudiziale di gestione della crisi, in cui l’imprenditore, assistito da un esperto indipendente, cerca un accordo con i propri creditori per risanare l’azienda o ristrutturare il debito, evitando di ricorrere al tribunale per soluzioni concorsuali più invasive. La finalità dichiarata è di aiutare le imprese che, pur trovandosi in uno stato di squilibrio economico-finanziario tale da rendere probabile la crisi o l’insolvenza, hanno ancora concrete potenzialità di risanamento e permanenza sul mercato. Ciò può avvenire con la continuazione dell’attività, eventualmente tramite il trasferimento dell’azienda o di rami di essa a terzi disponibili, oppure tramite una ristrutturazione del debito che eviti la dispersione del valore aziendale.

Accesso e presupposti: Possono accedere alla composizione negoziata tutte le imprese iscritte al Registro delle Imprese, di qualsiasi dimensione e natura giuridica (incluse dunque le società di capitali, le società di persone, le imprese individuali e anche le imprese agricole). Non vi sono soglie minime di debito né un numero minimo di creditori richiesto: il procedimento è aperto anche alle PMI e ai piccoli imprenditori, senza distinzione. È necessario però che l’impresa versi in una condizione di squilibrio patrimoniale o finanziario significativa, tale da far presumere l’evolversi in crisi o insolvenza se non si interviene. In altre parole, l’azienda deve trovarsi in difficoltà (ad esempio calo di liquidità, perdite rilevanti, tensioni con i creditori) ma non ancora in uno stato di insolvenza irreversibile conclamata. È richiesto che vi siano prospettive concrete di risanamento: questa valutazione iniziale è affidata all’esperto nominato, il quale all’avvio delle trattative conferma che esistono possibilità concrete di soluzione (se invece l’impresa fosse già in default senza rimedio, la composizione negoziata non sarebbe lo strumento idoneo). Va sottolineato che anche l’imprenditore sotto-soglia (non fallibile) può attivare la composizione negoziata – e in caso di esito negativo delle trattative, egli potrà accedere a un concordato semplificato o alle procedure minori di sovraindebitamento senza essere dichiarato fallito.

Procedura e ruolo dell’esperto: L’accesso avviene tramite una piattaforma telematica nazionale (raggiungibile all’indirizzo composizionenegoziata.camcom.it) gestita dal sistema delle Camere di Commercio. L’imprenditore compila una domanda online con le informazioni economico-patrimoniali e le cause della difficoltà, allegando un piano informale su come intende affrontare la crisi. Un’apposita commissione nomina quindi un esperto indipendente, scelto da un elenco di professionisti qualificati (commercialisti, avvocati, consulenti) dotati di specifiche competenze in risanamenti aziendali. L’esperto è figura chiave ma con un ruolo di assistenza e mediazione: non ha poteri sostitutivi di gestione, bensì il compito di facilitare le trattative tra l’imprenditore e i creditori. In concreto, l’esperto studia la situazione aziendale, individua possibili strategie di risanamento e convoca le parti (creditori principali, soci, eventuali investitori) per tavoli negoziali. La sua presenza, terza e imparziale, serve a “dare forza e credibilità” alle proposte dell’impresa, rassicurando i creditori sulla fattibilità delle soluzioni prospettate. L’imprenditore infatti mantiene la gestione ordinaria e straordinaria della società durante la composizione negoziata, ma deve collaborare lealmente con l’esperto, fornire tutte le informazioni richieste e condurre le trattative secondo correttezza e buona fede (obblighi sanciti dall’art. 20 CCII). I creditori dal canto loro sono invitati a partecipare attivamente e in buona fede alle trattative: un comportamento ostruzionistico ingiustificato potrebbe essere valutato negativamente in sede giudiziaria successiva, se la crisi degenerasse. La procedura ha una durata iniziale di 180 giorni (6 mesi) dalla nomina dell’esperto, prorogabili su richiesta motivata fino a ulteriori 180 giorni al massimo (quindi durata complessiva non oltre 12 mesi). Durante questo periodo vige la riservatezza: l’apertura della composizione negoziata non è pubblica, a meno che l’imprenditore non richieda misure protettive al tribunale (vedi oltre). Ciò consente di evitare il panico tra clienti e fornitori dovuto al timore di insolvenza, aumentando le chance di successo delle trattative.

Misure protettive e cautelari: Una volta avviata la composizione negoziata, l’imprenditore può richiedere al tribunale l’emissione di misure protettive del patrimonio, ossia il blocco temporaneo delle azioni esecutive e cautelari da parte dei creditori. Tali misure, disciplinate dall’art. 18 CCII, mirano a creare un “ombrello” di sospensione che dia respiro all’azienda e le consenta di negoziare senza la pressione di pignoramenti o istanze di fallimento. In pratica, con l’iscrizione dell’istanza di misure protettive nel Registro delle Imprese, i creditori non possono iniziare o proseguire azioni esecutive sul patrimonio dell’imprenditore né acquisire titoli di prelazione (ipoteche giudiziali) durante il periodo protetto. Il tribunale concede queste misure se ritiene, in via sommaria, che dalle prime informazioni disponibili esista una prospettiva concreta di risanamento e che le misure siano strumentali al buon esito delle trattative. La legge fissa una durata massima di 120 giorni prorogabili di altri 120 (fino a 240 giorni totali) per le misure protettive, coerentemente con la durata potenziale della negoziazione. Durante tale fase i creditori chirografari sono bloccati, mentre quelli privilegiati (garantiti) potrebbero ottenere dal giudice misure cautelari che assicurino il mantenimento delle garanzie (ad es. un custode per un immobile ipotecato, se c’è rischio di deprezzamento). Da notare che, grazie a un correttivo normativo del 2023, il tribunale può concedere la proroga delle misure protettive senza convocare nuovamente i creditori per un’udienza (ritenuta superflua se la trattativa è in corso). Le misure protettive, una volta concesse, possono essere revocate anticipatamente se emergono indizi che l’imprenditore stia aggravando il dissesto o violando l’obbligo di correttezza (es. sta distraendo beni): vi sono già state pronunce di merito in tal senso. Ad esempio, il Tribunale di Napoli, con provvedimento del 25 ottobre 2023, ha revocato l’ammissione al concordato semplificato (sbocco patologico della composizione negoziata) e dichiarato il fallimento del debitore, rilevando una condotta scorretta durante le trattative. Questo a riprova che le tutele offerte dalla composizione negoziata richiedono un comportamento serio e trasparente dell’imprenditore; diversamente, si rischia di perdere la protezione e precipitare in liquidazione.

Esiti della composizione negoziata: Nel migliore dei casi, le trattative condotte dall’imprenditore e dall’esperto portano a una soluzione negoziale concordata con (almeno) una parte significativa dei creditori. Le possibili soluzioni possono essere varie e flessibili, a seconda della situazione dell’impresa: si va da accordi di rinegoziazione dei debiti (es. dilazioni di pagamento, riduzione concordata degli importi dovuti stralcio, conversione di debiti in capitale), all’ingresso di nuovi soci o finanziatori, alla vendita dell’azienda o di suoi rami a terzi con contestuale accollo dei debiti, fino ad accordi più complessi di ristrutturazione aziendale. Non c’è un format rigido imposto dalla legge: qualsiasi accordo che sia idoneo a ripristinare l’equilibrio finanziario dell’impresa e ad evitare l’insolvenza può costituire l’esito positivo della composizione negoziata. A seconda della portata dell’accordo, l’imprenditore potrà poi decidere se mantenerlo del tutto stragiudiziale oppure “formalizzarlo” mediante uno degli strumenti legali previsti dal Codice: ad esempio, se viene raggiunta l’adesione di una larga parte dei creditori (ma non tutti) si potrà ricorrere a un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato dal tribunale per renderlo vincolante anche verso eventuali dissenzienti; se invece l’accordo coinvolge tutti i creditori e copre tutta l’esposizione, potrebbe concretizzarsi in un piano attestato di risanamento (strumento totalmente stragiudiziale) o semplicemente in contratti bilaterali e transazioni individuali con i creditori. L’importante è che, a esito della composizione, l’impresa risulti risanata o comunque in grado di proseguire senza default.

È previsto anche che l’imprenditore possa, durante o all’esito delle trattative, presentare direttamente domanda di concordato preventivo o di accordo di ristrutturazione utilizzando le informazioni e i dati emersi in negoziazione (questa scelta può essere opportuna ad esempio se si ottiene l’adesione di una maggioranza di creditori, ma non di tutti: in tal caso l’accordo privato potrebbe non bastare, e si preferisce passare per una procedura concorsuale che cram-down i dissenzienti). In pratica la composizione negoziata può fungere anche da “anticamera” preparatoria per un concordato preventivo, semplificando poi il percorso di quest’ultimo grazie al lavoro svolto dall’esperto e alle intese già raggiunte.

Purtroppo, non tutte le composizioni negoziate hanno esito felice. Se le trattative falliscono – ad esempio perché alcuni creditori chiave rifiutano ogni proposta e non emergono soluzioni praticabili – l’esperto redige una relazione finale negativa. In tal caso l’imprenditore ha comunque un’opportunità residuale per evitare il fallimento: entro 60 giorni dalla comunicazione della relazione finale dell’esperto, egli può presentare in tribunale una proposta di concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio. Questo strumento, disciplinato dall’art. 25-sexies CCII, è – come vedremo in dettaglio nel §8 – una procedura concorsuale speciale, priva di voto dei creditori, pensata per consentire una liquidazione controllata dei beni dell’impresa sotto supervisione del tribunale, quando ogni ipotesi di risanamento sia sfumata. Il concordato semplificato rappresenta dunque una sorta di paracadute finale: invece di precipitare direttamente in liquidazione giudiziale (fallimento), l’imprenditore può ancora proporre egli stesso la vendita dei propri beni secondo un piano, evitando alcune complessità della procedura fallimentare e cercando di massimizzare il soddisfacimento dei creditori residui. Si sottolinea che il concordato semplificato non è accessibile liberamente: è riservato esclusivamente a chi abbia percorso la composizione negoziata senza successo. In altre parole, è un incentivo indiretto a tentare la via negoziale, sapendo che – in caso di esito infruttuoso – vi sarà quest’ultima spiaggia per liquidare l’azienda in modo ordinato invece del fallimento.

Vantaggi e considerazioni per l’imprenditore: La composizione negoziata offre numerosi benefici. Anzitutto è confidenziale: a differenza di un concordato, il pubblico (clienti, fornitori non coinvolti, concorrenti) non viene a sapere che l’azienda è in crisi, evitando danni reputazionali immediati. Inoltre, l’imprenditore resta al timone della propria impresa durante le trattative, senza subire spossessamento o limitazioni alla gestione (salvo l’obbligo di informare l’esperto per atti straordinari di particolare rilevanza). Questo consente di proseguire l’attività operativa e mantenere il valore aziendale. La presenza di un esperto terzo può aiutare a riportare fiducia nei rapporti con i creditori: spesso banche e fornitori sono più disposti a concessioni se c’è un professionista indipendente che valida i dati aziendali e supporta il piano proposto. Le misure protettive danno respiro immediato, congelando il contenzioso e impedendo ai singoli creditori impazienti di compromettere negoziazioni potenzialmente fruttuose (ad esempio bloccando un pignoramento di conto corrente, l’impresa può continuare a pagare stipendi e portare avanti commesse durante la ricerca di accordo). Non ultimo, la composizione negoziata è relativamente flessibile e a costi contenuti: non ci sono le spese fisse di una procedura concorsuale (il compenso dell’esperto è fissato in base a parametri ministeriali ed è tendenzialmente inferiore ai costi di un lungo concordato; non vi sono curatori, giudici delegati, ecc.), e la soluzione può essere personalizzata senza dover rispettare rigidamente l’ordine delle cause di prelazione (nell’ambito di accordi volontari, i creditori possono accettare anche soddisfacimenti non proporzionali, cosa che in procedure formali sarebbe più complicata).

Di contro, l’imprenditore deve essere consapevole che la composizione negoziata richiede impegno e trasparenza: occorre mettere “le carte sul tavolo” circa la situazione aziendale, perché l’esperto e i creditori possano analizzarla. Tentare la via negoziale senza reale intenzione di trovare un accordo, magari solo per guadagnare tempo, è rischioso: i tribunali vigilano su eventuali abusi e possono revocare le misure protettive o persino dichiarare il fallimento in caso di mala fede manifesta. È dunque uno strumento da usare con serietà e disponibilità al compromesso: l’imprenditore deve essere pronto a fare la sua parte (ad esempio immettendo nuova finanza personale, offrendo garanzie, accettando ristrutturazioni organizzative) per convincere i creditori ad accettare una ristrutturazione invece di procedere esecutivamente. Se ben condotta, tuttavia, la composizione negoziata può portare a salvare l’impresa evitando l’onta del fallimento e preservando il valore e l’avviamento.

Considerazioni per l’avvocato e il professionista: Dal lato dei consulenti, assistere un’impresa in composizione negoziata implica un lavoro interdisciplinare. L’avvocato dovrà curare gli aspetti legali delle trattative (predisposizione di accordi, convenzioni di moratoria, intese con banche ad esempio per standstill, ecc.), assicurandosi che ogni passo sia documentato e che eventuali accordi trovati siano poi efficaci e opponibili. Importante è l’interfaccia con l’esperto: il legale deve collaborare con l’esperto nominato, fornendo tutta la documentazione richiesta e mediando tra le esigenze imprenditoriali e i suggerimenti che provengono dall’esperto stesso. Anche la comunicazione riveste un ruolo critico: spesso l’avvocato assiste l’imprenditore nella presentazione ai creditori della reale situazione e delle proposte di soluzione, in modo chiaro e credibile (ad esempio, preparando informazioni finanziarie semplificate, organizzando incontri, redigendo verbali di riunione). Dal punto di vista strategico, il professionista deve valutare insieme all’imprenditore quali creditori coinvolgere subito nel tavolo negoziale (tipicamente i maggiori, come banche e fornitori principali) e quali eventualmente tenere fuori fino a accordo avanzato. Deve inoltre consigliare sull’eventuale richiesta di misure protettive: se l’azienda rischia pignoramenti imminenti, occorre attivarsi subito col ricorso al tribunale, ma se il clima con i creditori è ancora costruttivo forse si può iniziare informalmente senza “ufficializzare” la crisi con un provvedimento pubblicato, per poi richiedere le misure solo in caso di necessità. Un avvocato preparato saprà anche prospettare al cliente le alternative qualora la negoziazione non vada a buon fine: ad esempio, terrà pronto un piano B per un concordato preventivo o verificherà i requisiti per accedere al concordato semplificato, in modo da non farsi trovare impreparati se occorre cambiare rotta.

FAQ – Composizione Negoziata

  • Quando conviene utilizzare la composizione negoziata?
    Conviene attivarla non appena l’impresa avverte i primi segnali di tensione finanziaria seria, ma prima di diventare insolvente. È indicata quando l’imprenditore ritiene di avere ancora un business valido e vuole evitare il fallimento trovando un accordo sostenibile con i creditori. Se invece l’impresa è già decotta e priva di prospettive, la composizione negoziata non è lo strumento adatto (in tal caso meglio prepararsi a un concordato o a una liquidazione ordinata).
  • Come viene scelto l’esperto e chi lo paga?
    L’esperto è nominato da una commissione costituita presso la Camera di Commercio locale (composta da un magistrato, un rappresentante dell’ente camerale e uno designato dalle associazioni professionali). Viene selezionato da un elenco nazionale di professionisti con requisiti di indipendenza. Il compenso dell’esperto è fissato per legge in modo proporzionato all’attivo e passivo dell’impresa e al risultato ottenuto: una parte è fissa e una parte è variabile in caso di successo. Il compenso è a carico dell’imprenditore, ma spesso risulta inferiore ai costi che si sosterrebbero in un fallimento o concordato preventivo.
  • La composizione negoziata blocca i creditori automaticamente?
    No, il blocco non è automatico. Se l’imprenditore vuole proteggersi da azioni esecutive mentre tratta, deve presentare un’istanza al tribunale per ottenere le misure protettive (art. 18 CCII). Una volta concesse e pubblicate, tali misure vietano nuovi pignoramenti e sospendono quelli in corso. Senza questo passo, la procedura resta riservata ma i creditori possono teoricamente agire.
  • Cosa succede se un creditore rifiuta di aderire alle proposte?
    La composizione negoziata è volontaria: un creditore non è obbligato ad aderire. L’esperto cercherà di mediare, ma se uno o più creditori rilevanti rifiutano ogni accordo, l’imprenditore dovrà valutare soluzioni alternative. Potrà coinvolgere altri soggetti (es. un nuovo finanziatore che permetta di pagare il creditore ostile) oppure, se l’opposizione impedisce il risanamento, sarà necessario ripiegare su strumenti concorsuali come l’accordo di ristrutturazione o il concordato preventivo per forzare un trattamento anche ai dissenzienti. In ultima analisi, se la trattativa fallisce, l’impresa potrà proporre il concordato semplificato per liquidare i beni evitando il fallimento.
  • Durante la composizione negoziata l’azienda può contrarre nuovi finanziamenti?
    Sì, l’azienda può contrarre finanziamenti prededucibili (che avranno priorità di rimborso) se sono funzionali a superare la crisi e ciò è autorizzato dal tribunale. In particolare l’art. 22 CCII prevede che, su richiesta dell’imprenditore e con il parere favorevole dell’esperto, il tribunale possa autorizzare finanziamenti durante la composizione negoziata, i quali in caso di successivo fallimento o concordato saranno rimborsati con precedenza (prededuzione). Questo serve a incentivare banche o soci a fornire nuova finanza in un momento critico. Ovviamente tali finanziamenti vanno utilizzati nell’interesse dell’impresa e sotto controllo dell’esperto.

4. Piano Attestato di Risanamento

Il Piano Attestato di Risanamento è uno strumento di regolazione della crisi stragiudiziale e contrattuale, storicamente previsto dalla legge fallimentare (art. 67, co.3, lett. d, L.Fall.) e ora disciplinato espressamente dagli artt. 56-57 CCII. Si tratta, in sostanza, di un piano di risanamento aziendale predisposto dall’imprenditore, corredato dall’attestazione di un professionista indipendente circa la sua veridicità e fattibilità, la cui esecuzione consente all’impresa di superare la crisi. Il vantaggio giuridico principale associato a questo istituto è l’esenzione dalle azioni revocatorie fallimentari per gli atti, i pagamenti e le garanzie posti in essere in esecuzione del piano: ciò significa che, se il piano funziona, l’impresa evita il fallimento; ma anche se sfortunatamente dovesse fallire in seguito, le operazioni effettuate secondo il piano non potranno essere invalidate dal curatore (a differenza di quanto accade per i pagamenti preferenziali o anticipati effettuati in periodo di sospetto).

Natura e finalità: Il piano attestato è un accordo di natura privatistica. Non è una procedura concorsuale – non c’è omologazione del tribunale né pubblicità legale – ed è quindi uno strumento molto discreto. La finalità è di consentire all’imprenditore di risanare la propria esposizione debitoria e riequilibrare la situazione finanziaria attraverso un insieme di operazioni coordinate (rifinanziamenti, ristrutturazione del debito, dismissioni di asset, riduzione dei costi, ecc.) concordate con i creditori in via privata. È uno strumento adatto a situazioni di crisi non ancora gravissima, in cui l’impresa ha prospettive di recupero e la fiducia dei creditori è sufficientemente mantenuta da poter raggiungere accordi spontanei. Deve trattarsi di un imprenditore assoggettabile a fallimento (oggi: assoggettabile a liquidazione giudiziale), quindi non una micro-impresa sotto le soglie di legge – queste ultime hanno i loro strumenti specifici come il concordato minore. Inoltre, il piano attestato richiede che l’impresa non sia già insolvente in senso stretto, altrimenti difficilmente il professionista potrebbe attestare la fattibilità di un risanamento. Dunque è ideale per imprese in crisi incipiente o in temporanea difficoltà, che possano tornare in bonis tramite misure di ristrutturazione.

Struttura del piano e attestazione: Il CCII, all’art. 56, delinea in modo più puntuale rispetto al passato il contenuto di questo piano di risanamento. Esso va redatto per iscritto e deve avere data certa (ad esempio tramite atto notarile o PEC con marca temporale), per poter poi eventualmente esibire la sua esistenza in futuro. Il piano deve analizzare la situazione iniziale dell’impresa, le cause della crisi e specificare gli interventi correttivi da attuare. Tali interventi possono comprendere accordi con i creditori (anche solo alcuni di essi) oppure atti unilaterali dell’imprenditore (ad es. ricapitalizzazioni, apporti finanziari dei soci, cessioni di beni, rinegoziazioni di contratti) idonei a riequilibrare la situazione finanziaria. Di norma, un piano attestato efficace include: una manovra finanziaria (ad es. nuova finanza, dilazioni con i creditori, taglio di costi), un piano industriale di rilancio (se l’attività deve essere riorganizzata per recuperare redditività), e un’analisi prospettica dei flussi di cassa che dimostri la capacità dell’impresa di sostenere il debito ristrutturato.

Elemento cruciale è l’attestazione di un professionista indipendente, scelto dall’imprenditore tra revisori legali o altre figure con requisiti di indipendenza (art. 2 CCII). Questo esperto (che non deve avere conflitti di interesse né legami con l’azienda) esamina il piano e redige una relazione in cui attesta: (a) la veridicità dei dati aziendali esposti (situazione patrimoniale, debiti, crediti, ecc.); e (b) la fattibilità del piano, ossia la ragionevole probabilità che, seguendo le azioni previste, l’impresa superi la crisi e torni solvibile. Questa attestazione serve a dare credibilità e tutela sia all’imprenditore che ai creditori aderenti: se un creditore, fidandosi dell’attestazione, concede dilazioni o altre agevolazioni, non rischierà poi di vedersele revocate in un futuro fallimento. Ovviamente l’attestatore si assume una grande responsabilità: se omette informazioni rilevanti o attesta il falso, può andare incontro a responsabilità professionale e anche penale. La Corte di Cassazione ha di recente ribadito l’importanza del ruolo dell’attestatore, affermando che egli deve fornire ai creditori un quadro completo e fedele della situazione – includendo anche i fatti precedenti che hanno inciso sul patrimonio – al fine di permettere loro una decisione informata sulla convenienza di evitare il fallimento. In una sentenza del 29 dicembre 2023, la Cassazione (n. 36401/2023) ha ritenuto responsabile l’attestatore che aveva omesso informazioni rilevanti sul patrimonio aziendale nella sua relazione, sottolineando come l’attestazione di veridicità debba offrire una visione ampia e trasparente ai creditori e al tribunale.

Esecuzione e forma degli accordi: Una volta predisposto il piano e ottenuta l’attestazione, l’imprenditore lo condivide con i creditori coinvolti per ottenerne l’adesione. Non è necessario che tutti i creditori aderiscano: ad esempio, si può fare un piano attestato concordato con le banche (che acconsentono a riscadenzare i finanziamenti), mentre i fornitori vengono pagati normalmente e non partecipano attivamente all’accordo. Non c’è un meccanismo di maggioranza: ogni creditore dev’essere d’accordo con le modifiche che lo riguardano. Tipicamente, quindi, il piano attestato viene accompagnato da accordi bilaterali (o plurilaterali) firmati dall’imprenditore con ciascun creditore aderente, che disciplinano i nuovi termini di pagamento, gli eventuali stralci o remissioni di parte del credito, le nuove garanzie ecc. Tali accordi di ristrutturazione esecutivi del piano possono avere la forma di scritture private autenticate, accordi notarili o anche semplici scritture con firma digitale a data certa. L’importante, ai fini dell’efficacia protettiva, è che risultino formalmente collegati al piano attestato (spesso nel testo stesso dell’accordo si richiama che si tratta di un accordo ai sensi dell’art. 56 CCII, in esecuzione del piano attestato di risanamento datato XYZ). Non è obbligatorio depositare il piano presso autorità pubbliche; tuttavia, per dare data certa, talvolta il piano e l’attestazione vengono depositati presso il Registro delle Imprese a fini conoscitivi (non costitutivi). L’impresa può poi decidere se pubblicare o meno un breve avviso al Registro delle Imprese dell’avvenuta predisposizione del piano: tale pubblicità non è necessaria per la validità, ma può servire a rendere opponibile ai terzi l’esenzione da revocatoria.

Esonero dalla revocatoria: Come accennato, il beneficio giuridico del piano attestato consiste nell’esenzione da revocatoria fallimentare per “gli atti, i pagamenti e le garanzie posti in essere in esecuzione del piano”. Questo significa, ad esempio, che se l’impresa – per attuare il piano – paga un fornitore critico con qualche mese di anticipo, oppure concede un’ipoteca a una banca come garanzia di un nuovo finanziamento, e poi malauguratamente fallisce entro i due anni successivi, tali atti non potranno essere revocati dal curatore fallimentare (normalmente sarebbero atti a titolo preferenziale revocabili). La ratio è chiara: incentivare i terzi a sostenere il risanamento senza paura che il beneficio ottenuto venga vanificato in seguito. Ovviamente, per godere di questa protezione, dev’esserci un piano valido e genuino: se il piano fosse solo simulato per frodare i creditori (ad esempio un accordo occulto per favorire taluni a danno di altri), l’esenzione non opererebbe e potrebbero esserci anche conseguenze penali.

Confronto con altri strumenti: Il piano attestato di risanamento differisce dal concordato preventivo e dagli accordi di ristrutturazione principalmente per la mancanza di intervento giudiziario: qui non c’è né un voto dei creditori né un decreto di omologa del tribunale. È un accordo del tutto privato. Ciò comporta vantaggi e svantaggi. Tra i vantaggi, vi sono la rapidità e la flessibilità: non bisogna rispettare i formalismi e le tempistiche di un concordato, e non occorre coinvolgere per forza tutti i creditori (ci si può concentrare su quelli strategici). Non c’è pubblicità negativa né costi procedurali. Inoltre l’accordo può rimanere riservato, e l’impresa evita la stigma di essere entrata in procedura concorsuale. Dal lato dei limiti, va rilevato che il piano attestato non offre uno stay generalizzato: i creditori che non aderiscono potrebbero comunque proseguire azioni esecutive. Quindi funziona bene in situazioni dove c’è consenso quasi unanime o dove i creditori residuali sono poco rilevanti o comunque tranquilli. Se invece ci sono creditori ostili che non partecipano al piano, questi potrebbero far fallire l’impresa nonostante il piano, ad esempio pignorando beni o chiedendo il fallimento: per neutralizzarli, occorrerebbe passare a uno strumento come il concordato (che blocca tutti per legge). Inoltre, il piano attestato non consente di imporre sacrifici a creditori dissenzienti: se un creditore non vuole sentir ragioni, deve essere pagato integralmente a scadenza (oppure bisogna lasciarlo fuori dal piano e considerare il suo pagamento nel fabbisogno finanziario del piano stesso). In sintesi, è uno strumento efficace solo in contesti relativamente ordinati, con un numero gestibile di creditori e con la disponibilità cooperativa degli stessi.

Esempio pratico: Si consideri un’azienda manifatturiera di medie dimensioni che inizia ad accusare difficoltà di liquidità a causa di un calo temporaneo di ordini e dell’aumento del costo delle materie prime. L’azienda ha debiti significativi verso le banche (mutui e linee di credito per 5 milioni) e verso alcuni fornitori strategici (altri 2 milioni), ma crede di poter recuperare competitività l’anno prossimo con un nuovo prodotto. In questo scenario, se le banche sono ancora fiduciose nelle prospettive e i fornitori vogliono mantenere il cliente, può essere costruito un piano attestato di risanamento: l’azienda, con l’aiuto di un advisor finanziario, redige un piano che prevede il rifinanziamento dei mutui (allungandone la durata per ridurre la rata) e un accordo di standstill con le banche per sospendere il rimborso del capitale per 12 mesi; prevede inoltre che i fornitori accettino di essere pagati con un leggero ritardo (es. 90 giorni in più) ma integralmente, e che i soci apportino 500.000 € freschi per sostenere il circolante. Un professionista indipendente (es. un commercialista esperto in crisi) attesta che i numeri del piano sono attendibili e che, sulla base di ipotesi prudenti di ripresa degli ordini, l’azienda sarà in grado di sostenere il debito ristrutturato (magari l’attestatore verifica che con le nuove condizioni il debt service coverage ratio torna sopra 1 entro due anni). Le banche firmano un accordo multilaterale di ristrutturazione dei loro crediti secondo i termini del piano (allungamento e moratoria), i fornitori principali firmano lettere di impegno a non pretendere i pagamenti fino a tot data, i soci versano la liquidità promessa. Il tutto viene formalizzato come “Piano di risanamento ex art. 56 CCII” con data certa e attestazione allegata. Da questo momento, l’azienda esegue il piano: paga stipendi e spese correnti, ma per un anno non rimborsa debiti finanziari (le banche congelano rate e fidi nei limiti concordati) e i fornitori attendono. Dopo qualche mese, la situazione migliora grazie al nuovo prodotto e l’azienda torna in utile. A fine anno riprende a pagare i debiti secondo i nuovi piani di ammortamento. Il fallimento è stato evitato grazie a un’azione tempestiva e consensuale. Se per ipotesi un domani (entro due anni) un creditore chirografario non aderente cercasse di far revocare uno dei pagamenti fatti alla banca in esecuzione del piano (magari sostenendo che era preferenziale), non potrebbe: quel pagamento è esente da revocatoria perché effettuato in attuazione di un piano attestato idoneo al risanamento.

FAQ – Piano Attestato di Risanamento

  • Serve l’approvazione di un giudice o di tutti i creditori?
    No, il piano attestato è un accordo privatistico. Non vi è alcun voto o omologazione giudiziale. Ogni creditore è libero di aderire oppure no. In pratica l’imprenditore negozia individualmente con i creditori chiave e formalizza le intese in accordi scritti. Non esiste una maggioranza che possa vincolare eventuali dissenzienti: se anche solo un creditore rilevante non aderisce e pretende i suoi soldi alle scadenze originali, l’impresa dovrà pagarlo (o trovare un altro modo per soddisfarlo) altrimenti rischia l’insolvenza.
  • Chi può fare l’attestazione e come viene scelto?
    L’attestatore dev’essere un professionista indipendente dotato dei requisiti di cui all’art. 2 CCII (iscritto da almeno 5 anni nel registro dei revisori legali o in albi di esperti contabili, avvocati, consulenti del lavoro, ecc., e con esperienza in materia). In pratica si tratta spesso di commercialisti esperti in crisi d’impresa. L’attestatore viene scelto direttamente dall’imprenditore, di solito sentito anche il parere delle banche o dei creditori maggiori per assicurarsi che sia figura gradita e autorevole. È importante che sia indipendente: non deve aver prestato servizi per l’azienda in crisi né trovarsi in conflitto di interessi.
  • Quali garanzie ha un creditore che aderisce a un piano attestato?
    La garanzia principale è la trasparenza dei dati e delle prospettive, assicurata dall’attestazione indipendente. Inoltre, se il piano fallisce e l’impresa viene dichiarata fallita successivamente, il creditore sa che le operazioni compiute in esecuzione del piano non saranno soggette a revocatoria: ad esempio, una banca che abbia concesso nuova finanza garantita da ipoteca durante il piano non vedrà annullata questa ipoteca dal curatore fallimentare (art. 166, co.3, lett. d) CCII). Questa protezione dà maggiore certezza al creditore. Ovviamente resta il rischio controparte: se l’impresa non esegue il piano, il creditore dovrà poi agire per recuperare, ma a quel punto avrà perso tempo prezioso. Quindi un creditore aderisce solo se confida realmente nel risanamento proposto.
  • Il piano attestato può includere la riduzione (stralcio) dei crediti?
    Sì, se i creditori lo accettano. Non c’è divieto di “tagliare” i debiti per via consensuale. Ad esempio, una banca potrebbe accettare di rinunciare agli interessi maturati (riducendo il tasso) o persino abbuonare una parte di capitale, se ritiene che così massimizza le chance di recuperare il resto rispetto a un potenziale fallimento. Tuttavia, a differenza del concordato, nel piano attestato lo stralcio deve essere volontariamente accettato dal creditore: non si può imporlo per legge. Quindi tipicamente i creditori chirografari potrebbero acconsentire a una decurtazione se il piano è convincente e se il confronto con l’alternativa fallimentare mostra che, accettando ora ad esempio il 60%, prendono più di quanto prenderebbero in fallimento (forse 30%). La riduzione del credito va formalizzata in un accordo transattivo specifico.
  • Cosa succede se l’impresa non rispetta il piano attestato?
    Se non rispetta gli accordi, i creditori tornano liberi di agire. Non essendoci un tribunale che “tiene in vita” il piano, il suo mancato adempimento espone subito l’impresa alle azioni esecutive. Un creditore potrà considerare risolto l’accordo per inadempimento e chiedere il fallimento dell’impresa. Dunque, il piano attestato richiede un’attuazione rigorosa. In genere, gli accordi prevedono clausole risolutive espresse: ad esempio, la banca può inserire che se l’azienda salta due rate del nuovo piano di ammortamento, l’intero importo torna esigibile immediatamente. In caso di peggioramento della situazione, l’imprenditore potrà comunque ripiegare su strumenti concorsuali (concordato preventivo) finché è in tempo, ma ovviamente la fiducia dei creditori sarà minata.
  • Qual è la differenza tra piano attestato e accordo di ristrutturazione?
    Pur avendo aspetti comuni (entrambe sono soluzioni negoziali con attestatore), la differenza principale è che l’accordo di ristrutturazione dei debiti (art. 57 CCII e ss.) è soggetto a omologazione del tribunale e vincola tutti i creditori aderenti più gli eventuali dissenzienti se si raggiungono certe percentuali, mentre il piano attestato resta completamente fuori dal tribunale e non può vincolare i dissenzienti. L’accordo di ristrutturazione richiede almeno il 60% dei crediti concordati e offre misure protettive legali durante la trattativa, ma comporta pubblicità (registro imprese) ed è più formale; il piano attestato non ha soglie di adesione ma dipende interamente dalla volontà individuale di ciascun creditore e non dà un ombrello automatico dalle azioni esecutive. Spesso il piano attestato è preferito per crisi più lievi e con pochi creditori; l’accordo di ristrutturazione per crisi più complesse dove serve la “forza” del tribunale per estendere gli effetti anche ai creditori non collaborativi.

5. Accordi di Ristrutturazione dei Debiti (ordinari, agevolati e ad efficacia estesa)

Gli Accordi di Ristrutturazione dei Debiti (ARD) sono uno strumento concorsuale “misto”, a cavallo tra la negoziazione privata e la procedura giudiziale. Previste inizialmente dall’art. 182-bis della vecchia legge fallimentare, oggi sono disciplinate dagli artt. 57-64 CCII con importanti novità introdotte dal recepimento della Direttiva UE 2019/1023 (attuata col D.Lgs. 83/2022). In sostanza, l’accordo di ristrutturazione è un piano di rientro del debito concordato con una parte significativa dei creditori, finalizzato a ristrutturare le obbligazioni dell’impresa (riducendone l’importo e/o dilazionandone le scadenze) in modo da ripristinare l’equilibrio finanziario. A differenza del piano attestato, qui si richiede per legge l’adesione di una certa percentuale di creditori e un controllo di legittimità da parte del tribunale tramite omologazione. Non è però una procedura con spossessamento: l’imprenditore mantiene la gestione dell’azienda durante il processo e l’accordo stesso (non c’è un commissario giudiziale permanente come nel concordato). L’accordo di ristrutturazione può essere visto come un “concordato light”, dove non tutti i creditori devono partecipare e non c’è voto in adunanza, ma serve comunque il sigillo finale del tribunale per essere efficace.

Presupposti e soglie di adesione: Può proporre un accordo di ristrutturazione qualsiasi imprenditore in crisi o insolvenza che sia soggetto alle procedure concorsuali (esclusi quindi gli enti pubblici e le imprese minori sotto soglia). Il debitore deve aver raggiunto un’intesa con un gruppo di creditori rappresentanti almeno il 60% dei crediti totali (accordo ordinario ai sensi dell’art. 57 CCII). Questa soglia del 60% di consensi è fondamentale: significa che l’imprenditore può “trascinare” in omologazione un accordo anche se fino al 40% dei crediti (per valore) non ha aderito, purché la maggioranza qualificata sia d’accordo. I creditori non aderenti (estranei) non sono vincolati dall’accordo – continueranno a poter pretendere l’integrale pagamento secondo i termini originali – però l’accordo può prevedere per essi una moratoria temporanea (fino a 120 giorni dal pagamento dell’ultimo creditore aderente, art. 61 co.1 CCII) e comunque beneficeranno indirettamente del risanamento dell’azienda se questo ha successo. La logica dell’accordo di ristrutturazione ordinario è: ho convinto la maggior parte dei miei creditori, lasciate che il tribunale omologhi l’accordo perché è interesse di tutti evitare il fallimento con questa soluzione concordata.

Oltre al tipo ordinario (60%), il legislatore ha introdotto una versione “agevolata” dell’accordo con soglia ridotta al 30% dei crediti (art. 60 CCII). Tuttavia, questo accordo agevolato è possibile solo a certe condizioni: il debitore non deve chiedere misure protettive e non deve prevedere una moratoria dei creditori estranei. In pratica, se l’imprenditore non ricorre ad alcuna protezione legale (dunque i creditori estranei possono comunque agire) e non chiede al tribunale di bloccare gli estranei, può accontentarsi di avere il 30% di adesioni e ottenere comunque l’omologa dell’accordo. Il senso di questa previsione è incentivare accordi rapidi e volontari: se non “disturbi” chi è fuori, puoi omologare anche con un consenso inferiore. Va da sé che questa opzione è percorribile solo se i creditori estranei sono pochi o poco aggressivi; diversamente, con solo il 30% di adesioni e nessuno scudo, l’azienda sarebbe esposta alle azioni di chi non partecipa.

La terza e più innovativa categoria è l’accordo ad efficacia estesa (art. 61 CCII). Questo particolare accordo consente di estendere gli effetti dell’accordo anche ai creditori non aderenti appartenenti alla medesima categoria, a patto che siano soddisfatte alcune condizioni stringenti. In altri termini, se l’accordo è stato approvato dalla maggioranza qualificata di una certa classe di creditori (ad esempio una categoria omogenea di banche), i pochi dissenzienti di quella classe possono essere obbligati a subire l’accordo come se vi avessero aderito. Le condizioni previste includono: (a) tutti i creditori della categoria sono stati informati adeguatamente delle trattative e messi in condizione di partecipare; (b) l’accordo prevede la continuità aziendale (prosecuzione dell’attività in forma diretta o indiretta – dunque l’accordo ad efficacia estesa non si applica se si liquida tutto); (c) i creditori aderenti in quella categoria rappresentano almeno il 75% dei crediti della categoria stessa; (d) i creditori non aderenti che si vogliono vincolare non riceveranno meno di quanto otterrebbero in una liquidazione giudiziale. Se tali condizioni sono soddisfatte, il tribunale può omologare l’accordo estendendone gli effetti ai membri dissenzienti della categoria (ad esempio obbligandoli a rispettare la nuova scadenza o la riduzione percentuale prevista per quella classe). Questo meccanismo è un cram-down settoriale che recepisce le indicazioni della normativa UE: è pensato per gestire situazioni in cui pochi creditori “holdout” (che tengono posizione) potrebbero altrimenti bloccare un accordo vantaggioso approvato dalla stragrande maggioranza dei pari grado.

Procedura e omologazione: Il procedimento per arrivare all’omologazione di un accordo di ristrutturazione prevede innanzitutto che il debitore presenti ricorso al tribunale allegando il testo dell’accordo, il piano aziendale che lo accompagna e la relazione di un attestatore indipendente sulla fattibilità dell’accordo e sulla capacità di pagare i creditori estranei nei termini prospettati. L’accordo infatti deve essere supportato da un piano (simile a un piano concordatario, con proiezioni e dimostrazione di convenienza per i creditori) e l’attestazione deve confermare che è attuabile e che i creditori estranei (non firmatari) saranno pagati almeno quanto spetterebbe loro in caso di fallimento. Una volta depositato il ricorso, l’accordo viene iscritto nel Registro delle Imprese: questa pubblicità fa scattare, da quel momento, una sorta di moratoria legale per cui i creditori che hanno aderito non possono iniziare o proseguire azioni esecutive individuali, e anche i creditori estranei risultano temporaneamente protetti secondo i limiti previsti (come accennato, è possibile ottenere la sospensione di 120 giorni delle azioni dei creditori non aderenti dopo l’omologa). Il tribunale fissa un’udienza e valuta diversi aspetti: la regolarità formale, la percentuale di consensi, l’assenza di frodi e la convenienza dell’accordo rispetto alla liquidazione. Se non vi sono opposizioni rilevanti, il giudice omologa l’accordo con decreto motivato. In caso di opposizioni da parte di creditori (ad esempio un estraneo che contesti la convenienza o la corretta informativa), il tribunale conduce una istruttoria sommaria e decide se omologare comunque l’accordo se ritiene infondate le opposizioni. La legge, come visto, consente al giudice di omologare anche con opposizioni, a patto che il creditore dissenziente non venga pregiudicato: in particolare, un creditore estraneo non aderente non può subire un trattamento inferiore a quello che gli spetterebbe in un fallimento (principio del best interest of creditors). Questo principio è stato confermato anche in giurisprudenza: la Cassazione (Sez. I, sent. 24 dicembre 2024 n. 34377) ha ribadito che il tribunale, nel valutare l’omologazione di un accordo di ristrutturazione, deve verificare la convenienza dell’accordo per tutti i creditori, potendo omologare nonostante l’opposizione di un singolo creditore se emerge che questi otterrebbe dall’accordo almeno quanto otterrebbe in caso di liquidazione giudiziale. In altre parole, l’opposizione di un creditore non ha effetto paralizzante se l’accordo nel complesso è vantaggioso e rispetta i suoi diritti minimi.

Va menzionato che, per volontà del legislatore, anche i creditori pubblici (erario e enti previdenziali) possono partecipare agli accordi di ristrutturazione, mediante la transazione fiscale inserita nell’accordo. L’Agenzia delle Entrate e l’INPS hanno il potere di aderire prevedendo anche falcidie su imposte e contributi. Norme recenti hanno introdotto un importante meccanismo di silenzio-assenso: la legge ora stabilisce che se il debitore propone all’erario e agli enti previdenziali un pagamento parziale dilazionato dei loro crediti nell’accordo, tali enti devono pronunciarsi entro 90 giorni, decorsi i quali l’assenza di risposta vale come adesione alla proposta. Inoltre, il nuovo art. 63, co. 2-bis CCII (introdotto nel 2023) attribuisce al tribunale il potere di omologare l’accordo anche senza il voto favorevole del fisco o dell’INPS (cram-down fiscale e contributivo), purché l’accordo preveda per questi crediti un trattamento almeno pari a quello ottenibile nella liquidazione fallimentare e la loro adesione sia stata impedita da irragionevole diniego o silenzio. Si tratta di un’importante apertura: tradizionalmente, la mancanza di consenso del fisco bloccava accordi e concordati; oggi, invece, se la proposta è conveniente e l’ente pubblico rifiuta senza motivo, il giudice può procedere comunque all’omologa (questa possibilità era già presente per il concordato preventivo ex art. 180 L.Fall, il cosiddetto cram-down fiscale, ed è stata estesa anche agli accordi).

Effetti e vantaggi: Una volta omologato, l’accordo di ristrutturazione vincola il debitore e i creditori aderenti alle nuove condizioni pattuite. I creditori estranei restano liberi di agire, ma come detto l’imprenditore può beneficiare di un termine di grazia post-omologa (fino a 120 giorni) entro cui pagarli. L’accordo omologato viene pubblicato e durante la sua esecuzione il debitore deve rispettarne le condizioni, altrimenti i creditori potranno chiederne la risoluzione e/o il fallimento. Quali sono i vantaggi principali di questo istituto? Per l’imprenditore, l’accordo consente di evitare il fallimento con il consenso dei principali creditori, senza dover per forza coinvolgere quelli secondari o quelli eventualmente contrari. È uno strumento più rapido e “meno invasivo” del concordato, perché non comporta la gestione da parte di un commissario e non richiede votazioni formali: basta raccogliere firme individuali. Offre inoltre la possibilità di congelare le azioni esecutive già prima dell’omologa, richiedendo al tribunale misure protettive al momento del deposito della domanda di omologa (misure analoghe a quelle del concordato, art. 54 CCII). Di conseguenza, quando il procedimento si attiva, l’imprenditore ottiene uno stay dei creditori similmente a quanto avviene nel concordato preventivo, ma con minori formalità e mantenendo la gestione ordinaria e straordinaria dell’impresa (sotto vigilanza eventuale di un commissario nominato solo ex post per controllare l’esecuzione, se previsto).

Dal lato dei creditori, un accordo di ristrutturazione richiede di norma il convincimento delle categorie più importanti. Per le banche o grandi fornitori, può essere preferibile al concordato perché consente di negoziare condizioni specifiche (invece di subire un piano imposto a maggioranza) e di avere un ruolo attivo. Inoltre, diversamente dal concordato, l’accordo di ristrutturazione non prevede soglie di soddisfacimento minimo obbligatorie imposte dalla legge (eccetto il rispetto del trattamento migliore rispetto alla liquidazione): quindi i creditori possono concordare soluzioni creative, ad esempio scambi debito-equity, partecipazioni agli utili futuri, mantenimento di rapporti commerciali di fornitura, ecc., al di fuori dei rigidi schemi concorsuali.

Limiti e rischi: Il principale limite è che l’accordo di ristrutturazione richiede comunque un ampio consenso iniziale (almeno il 60% dei crediti, o 30% senza misure protettive, o 75% per efficacia estesa in singole classi). Se l’impresa ha una platea di creditori molto frammentata o ostile, può essere difficile raggiungere tali soglie senza ricorrere direttamente a un concordato che coinvolga tutti. Inoltre, i creditori non aderenti rimangono, come già detto, estranei: ciò significa che se costituiscono una parte rilevante, potrebbero comunque creare difficoltà. Ad esempio, se un 40% di creditori non firma e avvia azioni esecutive subito dopo l’omologa, l’accordo potrebbe in pratica diventare insostenibile. Di conseguenza, l’accordo di ristrutturazione è indicato quando c’è un nocciolo duro di creditori disposti a sostenere il piano e i restanti o sono marginali, oppure saranno pagati per tempo. Se, al contrario, c’è il rischio di forte conflittualità, allora si ricorre al concordato che vincola tutti ex lege.

Esempio pratico: Un’azienda di distribuzione commerciale con 100 fornitori e 3 banche finanziatrici accumula debiti per 10 milioni. La metà circa è dovuta a tre grossi fornitori e alle banche; il resto è debito verso tanti piccoli fornitori. L’azienda elabora un piano di ristrutturazione che prevede di pagare integralmente i piccoli fornitori entro 6 mesi (così da tenerli fuori dalla procedura, considerandoli estranei), mentre propone ai tre fornitori principali uno stralcio del 20% (cioè pagamento dell’80% dilazionato su 2 anni) e alle banche la conversione di parte dei crediti in un finanziamento a medio termine con rate crescenti. Riesce a far firmare un accordo a tutte e 3 le banche e ai 5 fornitori maggiori, che totalizzano il 70% dei crediti totali. Ha quindi superato il 60%. I restanti fornitori minori (30% del debito) verranno pagati a breve comunque, ma tecnicamente non aderiscono formalmente all’accordo – né è necessario chiedere loro di firmare. L’azienda deposita il ricorso per omologa dell’accordo con le firme ottenute. Chiede contestualmente al tribunale di sospendere eventuali azioni esecutive durante l’attesa (misure protettive), che viene concessa. Nessun fornitore minore intraprende azioni poiché confidano di essere pagati integralmente a breve. Dopo 2 mesi il tribunale omologa l’accordo: da quel momento esso diventa vincolante per le parti firmatarie. L’azienda quindi esegue: paga subito i piccoli fornitori estranei (che in effetti ricevono il 100% entro i 120 giorni dall’omologa, rispettando l’art. 61 CCII), inizia a pagare le rate concordate alle banche e ai fornitori maggiori con il taglio del 20%. I creditori che hanno aderito non possono più agire esecutivamente (pena nullità) e devono attendere i pagamenti come per accordo. Dopo 2 anni l’accordo è completato: l’azienda ha ridotto il suo debito complessivo (grazie allo stralcio del 20% su 3 fornitori) e ha evitato il fallimento. Questo è un tipico caso dove l’accordo di ristrutturazione è efficace: il grosso dei creditori è stato coinvolto e ha accettato, i piccoli sono stati soddisfatti comunque e la procedura ha richiesto meno formalità di un concordato (niente voto assembleare, gestione sempre in mano all’imprenditore).

FAQ – Accordi di Ristrutturazione

  • È obbligatorio informare tutti i creditori?
    Sì, il debitore deve comunicare l’avvio delle trattative a tutti i creditori interessati. In particolare, se intende chiedere l’estensione ad efficacia estesa per una categoria, dovrà provare che tutti i creditori di quella categoria sono stati avvisati dell’inizio delle trattative e messi in condizione di partecipare. Anche per l’accordo ordinario, pur non essendoci un obbligo di coinvolgere chi non serve al 60%, è buona prassi informare tutti quelli che potrebbero essere toccati dal piano. Certo, i creditori che saranno pagati per intero alla scadenza (estranei “indifferenti”) possono essere solo comunicati a posteriori dell’omologa per trasparenza. Ma in genere, trasmettere l’accordo a tutti i creditori al momento del deposito in tribunale è necessario, perché il tribunale ordinerà la comunicazione ai creditori non aderenti, i quali potranno eventualmente fare opposizione.
  • Cosa succede ai creditori che non aderiscono?
    I creditori non aderenti (estranei) non sono giuridicamente vincolati a quanto stabilito nell’accordo. Significa che, salvo il caso dell’efficacia estesa, essi mantengono i loro diritti originali: scadenze e importi non si toccano. Tuttavia, l’accordo omologato prevede solitamente che il debitore li pagherà regolarmente alle scadenze originarie o entro una certa data (max 120 giorni dall’ultimo pagamento ai firmatari). Se il debitore non li paga, questi creditori possono attivarsi (pignoramenti, istanza di fallimento). D’altro canto, fintanto che il debitore rispetta il piano e i tempi promessi, essi non subiscono danni. Se l’accordo è di tipo agevolato (30% di adesioni, nessuna protezione richiesta), i creditori estranei possono addirittura agire subito: è il trade-off per poter omologare con pochi consensi, e sta al debitore evitare ciò pagando subito gli estranei. Va ricordato però che con il nuovo art. 61 CCII se un accordo prevede categorie di creditori, c’è la chance di forzare anche i non aderenti di quella categoria a rispettare l’accordo, se la maggioranza (75%) ha detto sì e il piano è in continuità.
  • L’accordo di ristrutturazione può prevedere la continuazione dell’attività?
    Assolutamente sì, anzi è la situazione tipica. A differenza del concordato preventivo dove vi è la distinzione tra concordato liquidatorio e in continuità, l’accordo di ristrutturazione non fa questa dicotomia: di solito è finalizzato alla continuità aziendale, cioè l’impresa prosegue l’attività e paga i creditori secondo l’accordo man mano con i flussi generati. È possibile anche un accordo liquidatorio (ad esempio, l’imprenditore cede l’azienda e con il ricavato paga i creditori aderenti in percentuale); in tal caso, però, se l’accordo è puramente liquidatorio e prevede di soddisfare i chirografari in misura molto bassa, potrebbe essere più opportuno un concordato semplificato. Il CCII ha comunque rimosso l’obbligo di soglie minime di pagamento per gli accordi: un accordo liquidatorio, se accettato dai creditori chiave, può prevedere anche percentuali basse, purché attestate come migliori rispetto al fallimento.
  • Qual è il vantaggio rispetto al concordato preventivo?
    L’accordo è più snello: non c’è una fase di ammissione né un voto in adunanza. Si evita di coinvolgere tutti i creditori in una procedura pubblica e spesso si risparmia tempo. Inoltre, l’accordo può essere più flessibile: ad esempio, nel concordato liquidatorio la legge impone almeno il 20% ai chirografari e il 10% di risorse esterne, mentre nell’accordo queste soglie non ci sono (se i creditori accettano il 5%, è valido – anche se va attestato che è meglio di quanto avrebbero in fallimento). Il concordato invece vincola anche i dissenzienti e permette soluzioni di classe con cram-down (anche se ora c’è il PRO e l’accordo ad efficacia estesa che colmano in parte questa differenza). In pratica, se l’impresa ha un buon rapporto con i creditori principali, l’accordo è un modo meno oneroso e meno stigmatizzante di ristrutturare. Se invece c’è conflitto e serve coinvolgere tutti, meglio il concordato.
  • Serve un attestatore anche per l’accordo?
    Sì, è indispensabile. Il professionista indipendente deve attestare la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano di ristrutturazione e dell’accordo. In particolare deve dichiarare che l’accordo è idoneo a garantire l’integrale pagamento dei creditori estranei nei termini previsti. Ad esempio, se il piano dice che i fornitori estranei saranno pagati entro 90 giorni dall’omologa, l’attestatore deve verificare che i flussi di cassa o le risorse a disposizione rendano realistico questo pagamento (altrimenti il tribunale non lo omologherebbe). L’attestazione è dunque garanzia per il tribunale e i creditori che l’accordo è serio e sostenibile.
  • Si può cambiare idea e passare da un accordo a un concordato?
    Sì, il CCII prevede la conversione della procedura: finché l’accordo non è omologato, l’imprenditore può presentare domanda di concordato preventivo (anche in bianco) e usare gli atti del procedimento di accordo nel concordato. Viceversa, può anche succedere che un concordato venga “declassato” a accordo se, durante il concordato, l’imprenditore trova un accordo con i creditori prima del voto. In pratica c’è flessibilità: l’importante è perseguire la soluzione migliore. Ad esempio, alcune procedure nascono come concordato ma, ottenute firme sufficienti, vengono chiuse come accordo omologato (art. 48 CCII permette di dichiarare aperto un concordato preventivo “conversione” in esecuzione di un accordo ex art. 63). Ci sono state situazioni in cui l’impresa ha presentato concordato prenotativo per bloccare i creditori e poi, raggiunto accordo 60%, ha chiesto di omologare quell’accordo e abbandonato il concordato.

6. Piano di Ristrutturazione Soggetto ad Omologazione (PRO)

Il Piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione, spesso abbreviato come PRO, è un istituto introdotto nel Codice della crisi in recepimento della Direttiva UE 2019/1023, disciplinato dal Capo I-bis, Titolo IV CCII (artt. 64-bis, 64-ter e 64-quater). Si tratta essenzialmente di una procedura concorsuale ibrida, simile al concordato preventivo, ma con alcune peculiarità: in particolare, consente di adottare un piano di ristrutturazione derogatorio delle normali regole civilistiche sul concorso dei creditori e sulle cause di prelazione (artt. 2740 e 2741 c.c.), purché tale piano sia approvato dai creditori suddivisi in classi e confermato dal tribunale. In altre parole, il PRO permette di distribuire ai creditori il valore generato dal piano anche non rispettando le priorità di legge (ad esempio si può pagare di più un chirografario strategico e meno un altro, o ristrutturare i privilegi) – cosa normalmente vietata dal principio della parità di trattamento – a condizione di ottenere il consenso necessario e l’omologa.

Quando si usa il PRO? È pensato per situazioni complesse in cui l’impresa, per risanarsi, ha bisogno di un piano molto articolato magari con ristrutturazioni profonde del debito e con il coinvolgimento di classi di creditori differenti (es. finanziari, fornitori, bondholder) che devono approvare soluzioni differenziate. A differenza del concordato preventivo, il PRO richiede obbligatoriamente la suddivisione dei creditori in classi omogenee per posizione giuridica e interessi economici. Ogni classe voterà il piano separatamente. Il PRO è accessibile all’imprenditore non minore (quindi impresa soggetta a fallimento) in stato di crisi o insolvenza. È necessario presentare un ricorso al tribunale nelle forme previste per il concordato (art. 40 CCII), allegando il piano dettagliato e la attestazione di un professionista indipendente sulla veridicità dei dati e sulla fattibilità del piano.

Approvazione del piano e classi: Il piano PRO, per essere omologato, deve essere approvato a maggioranza da tutte le classi di creditori. La legge richiede dunque il consenso in ciascuna classe. Non è esplicitato nel CCII quale maggioranza sia necessaria all’interno di ogni classe, ma ragionevolmente si applica la regola del concordato: più della metà dei crediti ammessi al voto in quella classe (in valore) devono votare sì. È possibile che il legislatore volesse un quorum più elevato (ad es. 2/3) per analogia con la direttiva UE, ma il dato letterale parla di “maggioranza”. In ogni caso, occorre che tutte le classi costituite abbiano votato favorevolmente perché il piano sia approvato. Se anche solo una classe vota contro, il piano non avrebbe il consenso unanime delle classi e, in linea di principio, non sarebbe omologabile. Tuttavia, il CCII prevede un meccanismo di superamento delle opposizioni simile al concordato: se un creditore (o una parte di essi) si oppone, il tribunale può comunque omologare se ritiene la proposta più conveniente per quel creditore rispetto all’alternativa liquidatoria. Questo fa pensare che, analogamente a quanto la direttiva prevede, anche con il PRO sia possibile un certo cram-down interclassi: ad esempio, se tutte tranne una classe approvano, e la classe dissenziente è comunque soddisfatta in misura non inferiore al realizzo in liquidazione, il tribunale potrebbe confermare il piano lo stesso. Su questo punto la norma non è chiarissima, ma dottrina e prime sentenze paiono orientate a consentire l’omologa anche in caso di opposizioni minoritarie, in ossequio ai principi europei di cross-class cram-down. In ogni caso, il PRO nasce per situazioni dove c’è un larghissimo consenso organizzato per classi: diversamente, se i conflitti tra classi sono forti, si potrebbe dover ripiegare sul concordato preventivo classico (che – dopo le riforme – anche esso consente cram-down se certe classi votano sì e altre no, tramite l’art. 112 CCII).

Svolgimento e organi: La procedura PRO, per quel che concerne il procedimento, ricalca per molti aspetti il concordato preventivo: dall’ammissione all’omologa, il debitore conserva la gestione ordinaria e straordinaria sotto la supervisione di un commissario giudiziale nominato dal tribunale. Vengono concesse misure protettive automatiche con il deposito del ricorso (art. 54-bis CCII) che bloccano i creditori. Si forma uno stato passivo e si ammettono i crediti al voto in classi. Si tiene un’udienza per l’omologazione in cui eventuali oppositori possono far valere le proprie ragioni. Non vi è spossessamento: l’imprenditore rimane in carica, ma deve ovviamente attenersi al piano e alle eventuali prescrizioni del giudice. Differenze principali dal concordato: la più evidente è, come detto, la possibilità di derogare alle cause di prelazione: nel PRO si possono proporre trattamenti non rispettosi dell’ordine dei privilegi, purché la classe di creditori interessata approvi e purché i lavoratori non subiscano decurtazioni (i crediti da lavoro, per espressa previsione, non possono essere toccati dal PRO se non con il loro integrale pagamento). Inoltre, il PRO non è soggetto ad alcuni vincoli tipici del concordato: ad esempio, se il piano PRO è liquidatorio, non è richiesta quella regola del 10% di apporto esterno e 20% minimo ai chirografari prevista per il concordato preventivo liquidatorio. Ciò significa che un PRO liquidatorio può teoricamente pagare anche meno del 20% i chirografari e senza nuovi apporti, se le classi di creditori (che includono i chirografari) lo approvano. Questo rende il PRO più duttile per ristrutturazioni complesse e anche appetibile per casi in cui il concordato liquidatorio sarebbe troppo rigido. Un altro aspetto: al PRO non si applicano alcune norme penali del vecchio RD 267/42 (tipo reati di bancarotta preferenziale legati a concordato) perché, essendo innovativo, non è esplicitamente citato nella legislazione penale concorsuale vigente. Ciò è stato segnalato come lacuna (point debole): in pratica, condotte manipolative in un PRO potrebbero non integrare reati previsti, per un mero difetto di aggiornamento normativo – anche se i giudici potrebbero estendere in via interpretativa. Probabilmente il legislatore porrà rimedio includendo il PRO nelle norme penali fallimentari.

Utilizzo pratico: Trattandosi di uno strumento appena entrato in vigore (dal 15 luglio 2022), i casi concreti di PRO sono ancora limitati. Tuttavia ci sono state già alcune pronunce. Ad esempio, il Tribunale di Milano nel 2023 ha omologato un PRO presentato da una società immobiliare, in cui le banche (classe creditori garantiti) hanno approvato la conversione dei loro crediti in strumenti partecipativi, mentre i fornitori chirografari (classe separata) hanno accettato un pagamento parziale dilazionato. Il tribunale ha verificato che entrambe le classi (garantiti e chirografari) avevano votato a favore e che il piano in continuità dava prospettive migliori rispetto alla vendita frazionata degli immobili in fallimento. In un’altra vicenda, il Tribunale di Torino ha invece dichiarato inammissibile un PRO perché il debitore non aveva correttamente formato le classi (inserendo creditori disomogenei insieme): ciò evidenzia che la corretta formazione delle classi è oggetto di scrutinio rigoroso anche nel PRO, come del resto nel concordato (art. 8 CCII). Si consiglia pertanto di utilizzare il PRO quando si ha un piano di risanamento con differenziazioni marcate tra categorie di creditori e quando si confida di poter ottenere il placet di tutte le categorie.

FAQ – Piano di Ristrutturazione Omologato (PRO)

  • In cosa differisce dal concordato preventivo?
    Il PRO è simile a un concordato ma con maggiore flessibilità nella graduazione dei crediti. Nel concordato tradizionale bisogna rispettare in linea di massima le cause di prelazione (salvo degradazione del privilegio ecc.); nel PRO si può distribuire il valore come si preferisce, purché i creditori di ogni classe approvino e nessuno prenda meno di quanto otterrebbe in caso di fallimento. Inoltre, il PRO liquidatorio non richiede la soglia del 20% ai chirografari né l’apporto esterno del 10% obbligatorio. Per il resto, procedura e organi sono analoghi: c’è un commissario, c’è un voto per classi e un’omologa giudiziale.
  • Serve sempre l’approvazione di tutte le classi?
    La norma letterale dice di sì: tutte le classi devono aver votato favorevolmente. Ciò significa che formalmente il PRO è un piano consensuale. Tuttavia, come discusso, la direttiva UE e la logica di sistema suggeriscono che se una classe dissente ma è trattata dignitosamente (best interest test soddisfatto) e altre classi rilevanti approvano, il giudice potrebbe forzare l’omologa (cross-class cram down). Questa interpretazione è suffragata dal fatto che l’art. 112 CCII in tema di concordato in continuità dice che tutte le classi devono aver votato favorevolmente, il che sembrava escludere cram down, ma poi la prassi e la legge delega hanno chiarito che il cram down è possibile. Dunque anche per il PRO la tendenza è di ammettere l’omologa con una classe contraria se il piano è comunque conveniente per essa. Di sicuro, però, il PRO nasce per essere uno strumento altamente consensuale: se prevedo forti dissensi, probabilmente è più sicuro avviare un concordato preventivo che ha regole più collaudate per gestione del dissenso.
  • Che vantaggi ha rispetto al concordato?
    Ha due vantaggi principali: (1) come detto, l’assenza di vincoli di pagamento minimo e prelazione consente accordi più creativi e su misura, approvati dai creditori. (2) Può essere più rapido, in quanto se tutti sono d’accordo si può giungere all’omologa senza passare per lunghe votazioni (di fatto, se tutte le classi approvano presto, il tribunale può omologare quasi subito, non c’è bisogno di attendere eventuali opposizioni). In più, c’è da considerare che, non essendo codificato in alcune norme repressive, il PRO potrebbe evitare all’imprenditore qualche rischio penale accessorio. Di contro, essendo nuovo, i creditori potrebbero avere meno familiarità col PRO e preferire il concordato che conoscono da decenni; inoltre, il PRO impone sempre la suddivisione in classi, anche se magari non ce n’è un forte bisogno – un concordato piccolo potrebbe evitare classi, un PRO no.
  • Un PRO può essere “in bianco” (prenotativo)?
    Sì. Nel 2024 è stata introdotta la possibilità di presentare un PRO con riserva (domanda prenotativa), analoga a quella del concordato “in bianco”. Ciò consente all’imprenditore di depositare intanto la domanda e ottenere misure protettive immediate, rinviando di qualche tempo la presentazione del piano dettagliato. Questa opzione è utile in situazioni di estrema urgenza per bloccare i creditori mentre si finalizza il piano e si raccolgono i consensi. Naturalmente va usata con cautela, perché il tribunale concederà una breve finestra per depositare il piano e l’attestazione; se il debitore non rispetta la scadenza o appare inerte, la protezione decade.
  • I piccoli creditori (consumatori, fornitori minori) votano anch’essi nel PRO?
    Sì, tutti i creditori concorsuali vanno inseriti in qualche classe e votano. Tuttavia, è possibile accorpare i creditori chirografari minori in un’unica classe se hanno posizione omogenea (generalmente i piccoli fornitori non garantiti possono costituire una classe unica). Se un creditore è molto piccolo e indifferente, magari gli si offre pagamento integrale in denaro subito, così da neutralizzarlo (chi viene pagato cash al 100% di norma non è considerato “interessato” dal piano e potrebbe anche essere escluso dalla votazione). Il PRO comunque è più adatto a strutture di debito con poche classi sostanziali (es. banche, obbligazionisti, fornitori grandi, ecc.): se ci sono centinaia di microcreditori è spesso preferibile pagare integralmente quelli entro certi importi e concentrarsi sui grandi nelle classi.
  • Se il PRO fallisce, che succede?
    Se, dopo l’omologa, l’impresa non riesce a eseguire il piano, si aprono le porte alla risoluzione del piano e alla liquidazione giudiziale. L’art. 64-quater rimanda alle norme del concordato preventivo per la risoluzione e annullamento: quindi, su istanza dei creditori, il tribunale può dichiarare risolto il PRO omologato se il debitore non adempie gli obblighi previsti e l’inadempimento non è di scarsa importanza. Una volta risolto, il debitore è di solito insolvente e verrà dichiarata la liquidazione giudiziale (fallimento). Inoltre, anche durante la procedura, se non si raggiungono le maggioranze o emergono fatti che la rendono inutile, può essere dichiarata l’improcedibilità e aperto il fallimento. Quindi il PRO, come il concordato, è una strada che se non va in porto conduce a fallimento. Per questo va intrapreso solo con seri presupposti e consenso quasi assicurato.

7. Concordato Preventivo (continuità e liquidatorio)

Il Concordato Preventivo è la più nota e tradizionale procedura concorsuale minore finalizzata ad evitare il fallimento. Consiste in un accordo giudiziale tra il debitore e i creditori, mediato dal tribunale, attraverso il quale l’impresa in crisi propone un piano per il soddisfacimento – anche parziale – dei crediti, in alternativa alla liquidazione giudiziale. Il concordato preventivo ha subito varie modifiche con il CCII (artt. 84-120), mantenendo però la struttura di fondo: l’imprenditore, in stato di crisi o insolvenza, può domandare l’ammissione alla procedura di concordato presentando un piano che preveda il pagamento, integrale o in percentuale, dei creditori, con specificazione di tempi e mezzi, e la cui convenienza sia accettata dai creditori stessi tramite votazione, per poi essere omologato dal tribunale.

Tipologie di concordato: Il CCII distingue principalmente tra concordato in continuità aziendale e concordato liquidatorio (art. 84). Il concordato in continuità presuppone che l’impresa intenda proseguire l’attività, sia direttamente (dallo stesso debitore) sia indirettamente (cedendo o affittando l’azienda a un altro soggetto che la continui). L’obiettivo è dunque il recupero della redditività e la massimizzazione del valore nell’ottica di going concern, evitando la dispersione dei valori organizzativi. Il concordato liquidatorio, invece, è meramente finalizzato a liquidare il patrimonio e distribuire il ricavato ai creditori: è un’alternativa pilotata al fallimento in cui è lo stesso debitore a proporre come vendere i propri beni e come ripartire i proventi.

A seconda della tipologia, cambiano alcuni requisiti normativi:

  • Nel concordato liquidatorio puro, il CCII impone che vi sia un apporto di risorse esterne (cioè attività finanziarie non già comprese nel patrimonio del debitore) tale da aumentare di almeno il 10% l’attivo liquidabile, e che i creditori chirografari vengano soddisfatti in misura superiore di almeno il 10% rispetto a quanto otterrebbero nella liquidazione fallimentare. Inoltre, richiede che il piano assicuri ai creditori chirografari (e ai privilegiati degradati a chirografo per incapienza) un pagamento pari ad almeno il 20% del loro ammontare. In parole semplici, se un imprenditore vuole proporre un concordato dove vende tutto e chiude, deve garantire ai creditori senza garanzie almeno il 20% di recupero e deve immettere risorse fresche (es. denaro apportato da soci o terzi) che aumentino il ricavato di almeno il 10%. Queste condizioni servono a evitare concordati liquidatori troppo penalizzanti per i creditori rispetto a un fallimento e a dissuadere proposte meramente dilatorie. Ad esempio, se senza concordato i creditori stimavano di recuperare 30 su 100 in fallimento, con concordato devono ricevere almeno 33 (10% in più) e comunque non meno del 20 in valore assoluto.
  • Nel concordato in continuità, non vigono soglie quantitative di soddisfacimento minimo, ma il piano deve dimostrare che la continuità d’impresa non è pregiudizievole per i creditori rispetto alla liquidazione. In particolare, la legge ora richiede che ogni creditore ottenga una “utilità specificamente individuata” dalla prosecuzione dell’attività. Ciò non significa necessariamente pagamento integrale, ma per esempio la continuazione di un contratto, l’assunzione di nuovo credito a salvaguardia dell’indotto, ecc., purché sia un beneficio concreto e individuabile. Il concordato in continuità è ammissibile solo se risulta più vantaggioso per i creditori rispetto alla liquidazione dell’azienda: questo elemento comparativo viene attentamente vagliato dal tribunale in sede di omologa. Inoltre, il piano in continuità deve essere accompagnato da un’attestazione supplementare sull’idoneità ad evitare o superare l’insolvenza e a assicurare il riequilibrio economico. La fattibilità economica diventa quindi un criterio di controllo (art. 112 CCII) soprattutto per i concordati in continuità, dove il tribunale verifica che le ipotesi di prosecuzione siano ragionevoli.

Indipendentemente dal tipo, ogni proposta di concordato deve assicurare il pagamento integrale dei creditori privilegiati (salvo consenso alla falcidia da parte loro o incapienza del bene su cui insiste la garanzia) e dei creditori prededucibili (i costi della procedura), a meno che non vi sia una specifica deroga autorizzata (es. transazione fiscale per ridurre privilegi fiscali). I creditori chirografari (senza garanzie) possono invece essere soddisfatti in percentuale, diversamente a seconda delle disponibilità. Possono anche essere soddisfatti in forma indiretta (es. con attribuzione di azioni o di beni in conto pagamento) se accettano.

Procedura in breve: Il concordato preventivo si avvia con un ricorso al tribunale da parte dell’imprenditore, contenente la proposta, il piano e la documentazione obbligatoria (elenco creditori, inventario beni, attestazione indipendente sulla veridicità dei dati e fattibilità del piano). È possibile anche presentare un ricorso “in bianco” (concordato con riserva ex art. 44 CCII) allegando meno documenti e riservandosi di presentare il piano entro un termine fissato dal giudice, ottenendo nel frattempo le misure protettive. Una volta depositata la domanda, il tribunale verifica i requisiti minimi (completezza documentale, prospettive di soddisfacimento non manifestamente inferiori al fallimento, ecc.) e ammette il debitore alla procedura di concordato preventivo. Viene nominato un Commissario Giudiziale, che è un professionista incaricato di vigilare sull’operato del debitore e tutelare la par condicio durante la procedura. Il debitore di norma rimane in possesso dell’azienda (non c’è spossessamento), ma gli atti di straordinaria amministrazione compiuti senza autorizzazione del giudice possono essere revocati o invalidati. Tutti i creditori anteriori restano bloccati: dal decreto di apertura del concordato scatta l’automatic stay (nessuna esecuzione individuale può proseguire né iniziare, ex art. 54). Il commissario comunica ai creditori la proposta e redige una relazione dettagliata sullo stato dell’impresa e sulla proposta, esprimendo un parere. Si svolge quindi una votazione: i creditori vengono suddivisi in classi se previsto dal piano (obbligatorio se trattamenti differenziati), altrimenti votano in una massa unica. Hanno diritto di voto tutti i chirografari e gli eventuali privilegiati degradati (i privilegiati per la parte coperta da garanzia non votano perché presumibilmente soddisfatti integralmente, salvo rinuncia al privilegio). Per l’approvazione è necessario il voto favorevole dei creditori che rappresentino la maggioranza dei crediti ammessi al voto. Non è più richiesta dal CCII la maggioranza per teste (numero di creditori) che era prevista dalla vecchia legge, dunque conta solo il valore dei crediti. Se vi sono classi, la maggioranza va raggiunta in ciascuna classe. Il CCII consente comunque l’omologa anche se una o più classi votano contro, applicando criteri di cram-down purché il piano sia equo e non discriminatorio e sia approvato da almeno una classe rilevante (art. 112, commi 2-3, CCII): questo recepisce l’idea del cross-class cram-down in linea con la direttiva. Per esempio, se tutte le classi di creditori privilegiati votano sì e solo la classe chirografi vota no, il tribunale può ugualmente omologare se ritiene che i chirografi ricevano dal piano almeno quanto riceverebbero in liquidazione e non siano trattati peggio di altre classi di pari rango.

Una volta approvato dai creditori (o comunque se le condizioni per cram-down sussistono), il tribunale procede all’udienza di omologa. Qui vengono discusse le eventuali opposizioni: un creditore dissenziente, l’eventuale Pubblico Ministero o altri interessati possono presentare opposizione contestando la legittimità del piano, la regolarità della procedura o la convenienza per i creditori. Il tribunale valuta queste opposizioni in camera di consiglio con un procedimento sommario e decide se omologare il concordato con decreto. Ai sensi dell’art. 112 CCII e dell’art. 48 CCII, il giudice deve verificare: la regolarità formale (classi corrette, parità di trattamento intra-classe, informazioni complete ai creditori), l’esito della votazione (raggiungimento delle maggioranze, oppure condizioni per omologa forzata), la fattibilità del piano (intesa come non manifesta irrealizzabilità) e la convenienza comparativa per i creditori (nessun creditore deve risultare trattato peggio rispetto al fallimento). Ad esempio, Cassazione 18903/2023 ha chiarito che l’omologa del concordato non rappresenta un giudizio sul merito economico del piano, ma solo sui profili di legittimità e convenienza minima. Il decreto di omologa, se non vi sono reclami, diventa definitivo e il concordato omologato vincola tutti i creditori anteriori, compresi i dissenzienti e non votanti. Da notare che la Suprema Corte ha più volte ribadito (da ultimo Cass. Sez I, 30/11/2023 n. 33346) che il decreto di omologa del concordato non fa stato sulla esistenza e misura dei singoli crediti, e non costituisce giudicato sul loro rango. Ciò significa che, se un creditore è stato ammesso come chirografario e poi scopre di avere titolo a privilegio, potrà farlo valere in altra sede: l’omologa non glielo preclude, salvo incidere sulle modalità di soddisfacimento nel piano. Analogamente, un creditore escluso erroneamente non perde il diritto sostanziale, ma potrà chiedere un risarcimento o farlo valere successivamente (se l’esclusione avrebbe cambiato le maggioranze, poteva opporsi prima). Questo principio tutela i creditori da possibili errori nella formazione del passivo in sede concordataria.

Dopo l’omologa, si apre la fase di esecuzione del concordato: il debitore (spesso affiancato o sostituito da un liquidatore nominato nel decreto di omologa se c’è da liquidare beni) deve attuare il piano come promesso: pagare le percentuali nei tempi stabiliti e compiere le operazioni previste (vendite di beni, ricollocazione dell’azienda, ecc.). Il commissario giudiziale diventa vigilante sull’esecuzione. Se il debitore esegue correttamente, al termine i creditori ricevono quanto dovuto secondo il piano e l’impresa esce dalla procedura. In caso di inadempimento rilevante, su istanza dei creditori può essere dichiarata la risoluzione del concordato (art. 118) e in genere segue la liquidazione giudiziale (perché se non è riuscito il concordato, l’insolvenza si riattiva). Il concordato può anche essere annullato in caso di frode (art. 119, es. se si scopre che il debitore ha dolosamente alterato le informazioni per ingannare i creditori).

Concordato “semplificato” e particolari: Prima di passare al concordato semplificato (che tratteremo nel prossimo paragrafo), merita menzione il cosiddetto concordato minore, che è il corrispettivo per le imprese sotto-soglia (ne parleremo a parte nelle procedure minori). Inoltre esistono forme particolari come il concordato preventivo di gruppo (per più società collegate) disciplinato dagli artt. 284-289 CCII: in esso si possono presentare proposte di concordato coordinate per società facenti parte di un gruppo, con possibili trattamenti differenziati e finanziamenti infragruppo. Il tribunale può disporre un procedimento unitario e nominare un unico commissario per il gruppo. Questo strumento è rilevante per evitare che fallimenti a catena di società sorelle vanifichino i risanamenti: si cerca una soluzione concordataria complessiva. Le regole di voto prevedono che i creditori votino per ciascuna impresa separatamente, ma l’omologa può essere subordinata all’approvazione di tutte le proposte del gruppo, essendo le sorti interdipendenti.

Esempio pratico – concordato in continuità: Un’impresa di costruzioni medio-grande si trova in insolvenza a causa di investimenti errati e ritardi nei pagamenti: non può pagare i debiti scaduti per 50 milioni. Tuttavia ha commesse importanti in corso, dipendenti qualificati e un know-how che verrebbe disperso in caso di fallimento. Decide quindi di presentare un concordato in continuità: propone di soddisfare i creditori chirografari al 40% in 4 anni, mantenendo l’attività produttiva. Il piano prevede che un investitore esterno apporto 5 milioni (nuova finanza prededucibile) per sostenere il circolante e che l’azienda venda alcuni macchinari non strategici per ricavare liquidità. I creditori privilegiati (banche con ipoteche su immobili) vengono pagati integralmente ma con dilazione; i chirografari sono suddivisi in due classi: fornitori strategici (che continueranno a lavorare con l’azienda) e altri creditori. Ai fornitori strategici il piano promette il 50% in 4 anni più la continuazione dei contratti di appalto (quindi un’utilità indiretta), agli altri creditori il 30% in 4 anni. Un professionista indipendente attesta che i dati sono veritieri e che il piano ha ragionevoli chance di evitare il fallimento e soddisfa il test comparativo (in caso di fallimento, i chirografari prenderebbero stime del 10%, quindi il 30-50% offerto è molto meglio). Il tribunale ammette al concordato, i creditori votano: le banche (niente voto perché privilegiate 100%), i fornitori strategici (classe 1) votano 80% a favore, gli altri creditori (classe 2) 60% a favore. Entrambe le classi hanno raggiunto la maggioranza richiesta, quindi il concordato risulta approvato. Un creditore escluso (perché tardivo) fa opposizione lamentando di non aver potuto votare, ma il tribunale rileva che anche includendolo il risultato non sarebbe cambiato, dunque respinge l’opposizione e omologa il concordato, ritenendo peraltro corretta la suddivisione in classi (fornitori di interesse comune separati dagli altri). L’impresa dunque prosegue l’attività sotto la vigilanza del commissario, paga le prime rate ai creditori e grazie all’apporto del finanziatore e al ritorno alla normalità riesce in 4 anni a rispettare il piano. I creditori hanno evitato il peggio e l’azienda continua sul mercato.

FAQ – Concordato Preventivo

  • Il concordato impedisce automaticamente ogni azione esecutiva?
    Sì. Dall’apertura della procedura (il tribunale emette decreto ex art. 47 CCII) nessun creditore può iniziare o proseguire azioni esecutive individuali sul patrimonio del debitore. Inoltre, i beni in possesso dell’azienda non possono essere sequestrati né pignorati e i giudizi di cognizione in corso su crediti concorsuali si spostano avanti al giudice delegato. Questo automatic stay protegge il debitore per tutta la durata del concordato fino all’omologa. Va però precisato: durante la fase “prenotativa” (concordato con riserva), il tribunale può dare misure protettive per un periodo iniziale ma deve confermarle di volta in volta. Una volta ammesso il concordato pieno, lo stay è completo.
  • I soci perdono la proprietà dell’azienda con il concordato?
    No, nel concordato preventivo l’imprenditore conserva la titolarità e la gestione dell’impresa (salvo eventuale nomina di un amministratore giudiziario in casi eccezionali di abuso). Non c’è “fallimento”, quindi i soci non decadono e gli amministratori restano in carica (sebbene soggetti a controllo). Tuttavia, il piano di concordato potrebbe prevedere modifiche societarie: ad es. aumento di capitale con ingresso di nuovi soci (diluendo gli attuali) o cessione dell’azienda. Se i soci approvano tali misure (in assemblea) e sono nel piano, fanno parte dell’esecuzione. Ma di per sé la procedura di concordato non estromette i proprietari – al contrario del fallimento dove entra il curatore.
  • Un creditore può opporsi al concordato se è stato “classato” male?
    Sì. La formazione delle classi dei creditori deve seguire criteri di omogeneità di posizione giuridica e interessi economici. Se un creditore ritiene di essere stato inserito in una classe iniqua (ad esempio messo con altri molto diversi e quindi danneggiato nel voto), può eccepire l’irregolarità. Il tribunale in omologa verifica d’ufficio la corretta formazione delle classi. Se riscontra classi “artificiali” fatte solo per pilotare il voto, può non omologare. Cassazione e giurisprudenza hanno più volte annullato concordati per classi scorrette. Dunque il debitore deve fare classi ragionevoli (es. separare banche da fornitori se crediti diversi per natura, ecc.). Se un creditore era unico dissenziente in una classe di favore per il debitore, potrebbe argomentare che la classe era artificiosa: il giudice valuterà caso per caso.
  • Cosa significa che l’omologa del concordato “non fa giudicato” sui crediti?
    Significa che il decreto di omologazione non accerta in via definitiva l’esistenza e l’ammontare dei crediti insinuati. Serve solo a dire: “questo piano è valido e vincolante per tutti, con questi importi di riferimento”. Ma se un creditore ritiene di avere un credito maggiore di quello ammesso al voto, l’omologa non gli preclude di far causa per quel maggior importo (ovviamente non potrà pretendere di più nel concordato, ma potrà concorrere su eventuali riparti aggiuntivi o su garanzie personali di terzi, ad esempio). Analogamente, se un creditore era escluso erroneamente e poi scopre che doveva essere incluso, potrà far valere i suoi diritti risarcitori. In pratica il concordato non risolve dispute individuali sui crediti, a meno che queste siano affrontate nel contraddittorio durante la procedura. Ci sono state cause post-concordato su crediti non riconosciuti in sede concordataria, e la Cassazione ha ammesso che non c’è preclusione.
  • Si possono modificare i termini del concordato dopo l’omologa?
    In linea di massima no, il concordato omologato è “fisso”. Tuttavia, esiste la possibilità di modifica delle condizioni se tutti i creditori interessati vi consentono (un po’ come modificare un contratto con il consenso di tutte le parti). In taluni casi, per evitare la risoluzione, i creditori maggiori hanno accettato di prorogare termini di pagamento. Ma formalmente ogni modifica sostanziale richiederebbe un nuovo passaggio in tribunale (in teoria dovresti presentare un nuovo concordato, o un concordato “bis” modificativo, il che non è previsto). Quindi di fatto le condizioni sono quelle omologate. Se non si riescono a rispettare e i creditori non tollerano ritardi, c’è la risoluzione (e poi eventuale fallimento). Dunque conviene sempre proporre un piano fattibile con margine di sicurezza, perché dopo non si può chiedere “uno sconto” se le cose vanno male.
  • Quali sono i costi di un concordato preventivo?
    Il concordato comporta diversi costi: un fondo spese iniziale da versare (deciso dal tribunale) per coprire oneri procedurali; il compenso del Commissario Giudiziale (stabilito a fine procedura dal giudice secondo scaglioni di legge, può essere significativo in grandi concordati); eventuali compensi del liquidatore giudiziale se nominato; le spese legali e dei professionisti (avvocati, attestatore, consulenti) che assistono l’azienda nel predisporre e attuare il piano. Tali costi sono prededucibili e vanno pagati preferenzialmente. L’entità varia a seconda della complessità e dimensione dell’impresa, ma può aggirarsi su percentuali del 2-5% dell’attivo per i costi “formali” oltre ai consulenti. Per questo, per imprese molto piccole, spesso il concordato non è conveniente e si preferiscono soluzioni meno costose (accordi, sovraindebitamento).

8. Concordato Semplificato per la Liquidazione del Patrimonio

Il Concordato Semplificato (art. 25-sexies CCII) è una procedura concorsuale speciale, introdotta dapprima col D.L. 118/2021 e poi confermata nel Codice della crisi, concepita come soluzione di ultima istanza per liquidare l’impresa evitando il fallimento, quando la composizione negoziata non ha prodotto un accordo. Si chiama “semplificato” perché elimina alcune formalità tipiche del concordato preventivo: in particolare non prevede il voto dei creditori né la fase di ammissione con commissario giudiziale. È riservato esclusivamente all’imprenditore che ha tentato la composizione negoziata della crisi ma senza successo. Lo scopo è permettere una liquidazione controllata e rapida sotto vigilanza del tribunale, evitando il caos di un fallimento immediato e magari ottenendo qualcosa di più per i creditori rispetto a una liquidazione giudiziale standard.

Requisito di accesso fondamentale: aver svolto la composizione negoziata. L’art. 25-sexies richiede che, conclusa negativamente la fase negoziale con l’esperto (che deve aver redatto la relazione finale attestante l’impossibilità di trovare una soluzione concordata), l’imprenditore presenti entro 60 giorni una proposta di concordato semplificato. Nella domanda deve dichiarare che le trattative si sono svolte correttamente e in buona fede, ma non hanno avuto esito positivo, e che non esistono soluzioni praticabili ex art. 23 CCII (ossia nessun accordo o ristrutturazione era fattibile). Una recente modifica del 2024 ha eliminato dal testo normativo il riferimento a “trattative che non hanno avuto esito positivo”, richiedendo ora semplicemente che le trattative siano terminate. Ciò significa che formalmente si può chiedere il concordato semplificato anche se le trattative si sono interrotte per ragioni diverse (ad es. sopravvenuta impossibilità), senza dover attestare un insuccesso “colpevole” del debitore. Resta però la sostanza: il concordato semplificato è un’extrema ratio, non un’alternativa liberamente scelta.

Caratteristiche della proposta: Il concordato semplificato è solo liquidatorio. Consiste in una cessione dei beni del debitore ai creditori, secondo un piano di liquidazione. In pratica il debitore offre: “vendo tutto il mio patrimonio (o la parte non già liquidata in trattativa) e distribuisco il ricavato ai creditori”. Non essendoci voto, la proposta deve essere il più equa possibile per non incorrere in bocciatura in omologa. Tipicamente, il piano prevede la nomina di un liquidatore (spesso indicato dallo stesso debitore) che procederà alla vendita dell’azienda o dei singoli beni sotto supervisione giudiziale, con criteri magari già stabiliti (aste, eventuale pre-accordo di vendita a un certo soggetto, ecc.). Il ricavato, detratte le spese, verrà ripartito tra i creditori secondo le cause di prelazione (rispetto della graduatoria privilegi/chirografi etc.). Il piano può anche prevedere la suddivisione dei creditori in classi se opportuno, ad esempio per trattare diversamente sottocategorie di chirografari (anche se non c’è voto, le classi possono essere utili per distinguere trattamenti, magari offrire incentivi a creditori strategici). Questa facoltà di classi nel semplificato è stata chiarita dal “decreto correttivo Ter” del 2024.

Procedura semplificata: Presentata la domanda, il tribunale valuta preliminarmente l’ammissibilità (verifica che ci sia stato il tentativo di composizione negoziata). Non c’è una fase di voto, quindi non esiste un commissario giudiziale ex ante. Tuttavia, il tribunale può comunque nominare un ausiliario/esperto per coadiuvarlo nelle valutazioni (ad es. per stimare i valori di liquidazione proposti). Non essendoci voto, non c’è neppure un vero cram-down fiscale: se la proposta coinvolge crediti fiscali con stralcio, sarà il tribunale a valutare la legittimità (ci si rifà in analogia alle norme di transazione fiscale nel concordato). Segue l’udienza di omologa in cui i creditori e qualsiasi interessato possono comparire per esprimere osservazioni. Un creditore potrebbe eccepire, ad esempio, che il piano liquida un bene sottovalutato, o che c’è stato abuso del debitore. Il tribunale decide in camera di consiglio se omologare. Criteri di omologazione: innanzitutto il tribunale verifica che la procedura di composizione negoziata precedente si sia svolta correttamente (art. 25-sexies, co. 2); il decreto correttivo 2024 ha alleggerito il requisito togliendo la formula “che non hanno avuto esito positivo”, quindi basta che le trattative siano giunte a termine. Inoltre, il giudice controlla che la proposta di concordato semplificato non pregiudichi indebitamente i creditori: in pratica deve garantire ai creditori almeno quello che avrebbero ottenuto con un fallimento. Dato che qui non c’è voto a esprimere il giudizio di convenienza, spetta al tribunale un controllo più penetrante sulla meritorietà della proposta. Giurisprudenza in prima applicazione ha, ad esempio, revocato l’ammissione a concordato semplificato quando ha ravvisato condotte distrattive del debitore (Trib. Napoli 25/10/2023): se il debitore ha abusato del processo o leso la par condicio prima, il concordato semplificato può essere rifiutato e aprirsi il fallimento. Se invece tutto è regolare, il tribunale omologa con decreto.

Semplificazioni procedurali: Non c’è commissionario giudiziale nella fase iniziale. Il tribunale può nominare direttamente un liquidatore fin dall’omologa, che si occuperà di raccogliere e liquidare l’attivo. Questo liquidatore svolge un ruolo analogo al curatore fallimentare, ma secondo le regole stabilite nel piano. Ad esempio, il piano può prevedere che entro 6 mesi siano venduti certi immobili a un prezzo base X, oppure l’intero complesso aziendale ceduto a un soggetto Y che ha offerto TOT (purché il tribunale valuti tale cessione non lesiva). In assenza di specifiche, il liquidatore segue comunque le norme del codice sulla liquidazione controllata (aste competitive ecc.). I creditori non hanno diritto di voto, ma possono fare reclamo contro il decreto di omologa in Corte d’Appello se ritengono violati i loro diritti. Una volta omologato, il concordato semplificato produce gli effetti di esdebitazione tipici: l’imprenditore è liberato dai debiti residui secondo quanto previsto per il concordato (attenzione: qui la legge non lo specifica, ma essendo un concordato, presumibilmente se il debitore persona fisica lo esegue, avrà esdebitazione; se è società, la società una volta estinta si chiude senza debiti).

Differenze rispetto al fallimento (liquidazione giudiziale): Il concordato semplificato è più rapido e snello. Non c’è stato quell’allungamento di tempi dovuto a verifica dello stato passivo formale e incognite di varie insinuazioni, poiché i creditori e i debiti erano già noti dalla fase di composizione negoziata (dove di solito il debitore aveva elencato i creditori). Inoltre, il debitore ha iniziativa e controllo (anche se poi cede i beni, li cede secondo il piano proposto da lui). Non c’è l’onta di una sentenza dichiarativa di fallimento, e l’imprenditore persona fisica può sperare di avviare prima il fresh start (magari con l’esdebitazione). I creditori, dal canto loro, risparmiano i tempi morti di un fallimento e ottengono una distribuzione in base a un piano predefinito – se questo porta più valore di un fallimento perché magari evita il depreciamento di beni venduti a spezzatino, ne beneficiano. Ad esempio, se c’è un’offerta per l’azienda in blocco condizionata alla rapidità, il concordato semplificato può coglierla, mentre un fallimento lungo rischia di far perdere l’offerta. Svantaggi: i creditori perdono voce in capitolo: non votano, subiscono le scelte del debitore e del tribunale. Se non si fidano, possono opporsi e puntare a farlo fallire, dove poi nominare un curatore di loro fiducia. Dunque il semplificato richiede che il tribunale faccia da garante degli interessi di tutti con rigore.

Esempio pratico: Una piccola società artigiana (imprenditore sotto-soglia) ha provato la composizione negoziata per 3 mesi, ma non ha trovato investitori né accordi soddisfacenti con i creditori. Il debito totale è di 500 mila euro; i beni consistono in un capannone e qualche macchinario. Al termine, l’esperto certifica che non si è trovata soluzione. L’imprenditore, per evitare il fallimento (da cui anche personalmente sarebbe coinvolto), propone un concordato semplificato: deposita un piano dove offre di vendere il capannone (valore stimato 300 mila) e i macchinari (valore 50 mila) entro 6 mesi tramite un commissionario, distribuendo il ricavato ai creditori (ipotizza un 70% ai privilegiati e 20% ai chirografari, stime). Include anche una piccola somma che i familiari si sono impegnati a versare (10 mila euro) per coprire in parte le spese e aumentare il riparto ai chirografari. Il tribunale vede che l’esperto attestò la situazione in buona fede, ammette il ricorso e – non essendoci anomalie – nomina direttamente un liquidatore giudiziale. Non c’è voto, ma alcuni creditori fanno presente all’udienza che il capannone secondo loro vale 400 mila, non 300. Il tribunale allora dispone che il liquidatore lo metta all’asta con base 350 per sicurezza. Nessun altro rilievo. Il tribunale omologa il concordato semplificato. Il liquidatore vende il capannone a 370 mila all’asta, incassa, vende i macchinari a 40, incassa la somma promessa dalla famiglia 10, paga le spese e poi distribuisce il resto ai creditori secondo l’ordine. I creditori ottengono forse un 80% i privilegiati e un 25% i chirografari (un po’ meglio di stima). L’imprenditore chiude la società senza fallimento. Se fosse fallito, magari tra tempi e costi avrebbero preso il 15%. Così tutti hanno risparmiato tempo.

Nota: Il Decreto Correttivo Ter (D.Lgs. 136/2024) ha introdotto la possibilità di presentare una domanda di concordato semplificato “in bianco”, analoga a quella del concordato preventivo: l’imprenditore può depositare la semplice domanda riservandosi di depositare il piano di liquidazione entro un termine fissato dal tribunale. In quel frangente può ottenere misure protettive immediate per bloccare i creditori (ad es. se temeva pignoramenti imminenti). Questa innovazione consente di reagire prontamente dopo la composizione negoziata, guadagnando qualche settimana per dettagliare il piano. Occorre però cautela: se il piano poi non viene depositato o è inadeguato, i creditori potranno chiederne l’improcedibilità e presumibilmente il fallimento.

FAQ – Concordato Semplificato

  • Davvero i creditori non votano?
    Esatto. Nel concordato semplificato non c’è adunanza dei creditori né voto. I creditori possono solo far pervenire osservazioni o opposizioni al tribunale, ma non hanno potere deliberativo. Questa è la caratteristica più peculiare: la decisione se approvare il piano spetta interamente al giudice. Di conseguenza, il loro consenso non è necessario ex ante. Tuttavia, se tutti o molti creditori si oppongono all’omologa segnalando che la proposta è sconveniente o scorretta, il giudice ne terrà conto. In pratica, il tribunale fa una valutazione oggettiva: se la proposta rispetta la legge e appare più vantaggiosa di un fallimento, può omologare anche contro il volere dei creditori. Per questo si parla di procedura “coattiva” in certo senso.
  • In cosa è “semplificato”?
    È semplificato perché elimina vari passaggi: niente fase di ammissione, niente commissario giudiziale durante la procedura, niente voto, niente classi obbligatorie (anche se possibili). Inoltre, i requisiti formali sono minori: ad esempio, non occorre allegare tutta la documentazione di un concordato ordinario, in quanto molto è già negli atti della composizione negoziata (che dovranno essere trasmessi al tribunale). Il provvedimento finale è un decreto di omologa (come nel concordato preventivo) ed è reclamabile in appello. Manca quindi la complessità di raccogliere consensi; la procedura può chiudersi in pochi mesi (anche 2-3 mesi se il piano è semplice), mentre un concordato ordinario dura tipicamente di più.
  • Si possono creare classi di creditori nel concordato semplificato?
    Sì, dopo la riforma 2024 è esplicitamente consentito prevedere classi di creditori anche nel semplificato. Questo può servire ad esempio se il debitore vuole trattare diversamente sottogruppi di chirografari (magari promettere una percentuale leggermente maggiore a fornitori essenziali per convincerli a continuare la collaborazione nel frattempo, mentre altri prendono meno). Pur non dovendo votare, le classi possono essere utili in fase di distribuzione: il tribunale potrà omologare trattamenti differenziati solo se i creditori separati in classi hanno posizione giustificatamente diversa. Ad esempio, si potrebbe classare i crediti muniti di garanzia reale su beni di valore insufficiente in una classe, e i chirografari puri in un’altra, riconoscendo ai primi una percentuale migliore. Il fatto che la legge lo permetta dà flessibilità, ma di nuovo sta al giudice valutare la correttezza (simile all’obbligo di non discriminazione nel concordato preventivo). Classi artificiose sarebbero pericolose perché senza voto i creditori non possono contestare se non opponendosi e convincendo il giudice dell’ingiustizia.
  • Il debitore può rimanere in azienda durante il concordato semplificato?
    Nella fase fino all’omologa, sì, il debitore continua a gestire l’impresa (non c’è commissario). Però generalmente nel concordato semplificato l’azienda viene liquidata e cessata, quindi l’obiettivo non è la continuità (per definizione è per liquidazione). Dunque verosimilmente l’attività d’impresa si interrompe o viene venduta. Se c’è un esercizio provvisorio dei beni in vista di vendita (es. tenere operativa l’azienda per venderla meglio), il tribunale potrebbe autorizzarlo e nominare un liquidatore che di fatto la gestisce provvisoriamente. In linea di massima, con l’omologa il debitore perde la disponibilità dei beni ceduti e il liquidatore li realizza. Quindi l’imprenditore esce di scena una volta attivato il meccanismo liquidatorio, salvo collaborare. In ogni caso il fine non è proseguire l’impresa sotto la sua guida, ma chiuderla ordinatamente.
  • Cosa ottiene l’imprenditore con il concordato semplificato?
    Oltre a evitare la dichiarazione di fallimento (con tutto lo stigma e le restrizioni che essa comporta, come possibili sanzioni interdittive), se l’imprenditore è persona fisica può mirare ad essere esdebitato dei debiti residui una volta eseguiti i pagamenti concordatari. Su questo aspetto, il CCII non prevede espressamente l’esdebitazione post-concordataria come nel fallimento, ma dottrina e logica vorrebbero che, analogamente all’art. 282 per il sovraindebitato e all’art. 142 L.F. per il fallito, anche il debitore concordatario possa ottenere la liberazione dai debiti insoddisfatti (in genere, implicitamente, l’omologa e l’adempimento del concordato impediscono ai creditori di agire per la parte falcidiata). Quindi, l’imprenditore “pulisce” la sua posizione debitoria, pagando quel poco che il patrimonio consente, e può ricominciare senza strascichi. Nel fallimento, pur essendoci l’istituto dell’esdebitazione, c’è più disonore e possibili impedimenti (ad es. non può ricoprire cariche). Il concordato semplificato gli consente un’uscita più dignitosa e controllata.
  • Cosa succede se spuntano nuovi beni o attivi dopo l’omologa?
    Se emergono attività non note (es. si scopre un credito non inserito o un bene occultato), i creditori potrebbero chiedere la risoluzione del concordato per inadempimento/frode e a quel punto probabilmente l’apertura del fallimento. Nel concordato semplificato, data la fiducia riposta nel debitore, un comportamento reticente sarebbe visto severamente. La Corte d’Appello, in sede di reclamo, potrebbe addirittura riformare l’omologa se emergono circostanze dolose taciute. Quindi il debitore deve essere del tutto trasparente e conferire tutti i beni. Eventuali attività sopravvenute durante la liquidazione (tipo un credito inaspettato che viene riscosso) andranno anch’esse ai creditori, ovviamente. Il liquidatore semplificato, come un curatore, se scopre attivi li realizza.

9. Strumenti per Imprese Minori e Sovraindebitate

Le procedure sin qui descritte si applicano agli imprenditori assoggettabili a liquidazione giudiziale, cioè essenzialmente agli imprenditori commerciali sopra una certa dimensione. Il Codice della crisi dedica però un intero Titolo (Titolo V, artt. 65-91 CCII) alle procedure di composizione della crisi per i debitori minori e i soggetti non fallibili, riprendendo e innovando la previgente legge sul sovraindebitamento (L. 3/2012). Si tratta di strumenti concepiti per piccoli imprenditori, professionisti, start-up sotto soglia, consumatori privati e in generale debitori che, per dimensione o natura, non possono accedere né al fallimento né al concordato preventivo.

Come visto, il CCII definisce impresa minore quella che, negli ultimi 3 esercizi, non ha superato congiuntamente i tre parametri: attivo di 300.000 €, ricavi 200.000 € annui, debiti 500.000 €. Tali imprese (oltre ad enti non commerciali e imprenditori agricoli, anch’essi non soggetti a fallimento) sono escluse dal concordato preventivo, dagli accordi di ristrutturazione e dalla liquidazione giudiziale. Esse possono invece accedere alle cosiddette procedure di sovraindebitamento: in particolare al concordato minore e alla liquidazione controllata (che nel nuovo Codice sostituiscono rispettivamente l’“accordo di composizione” e la “liquidazione del patrimonio” della vecchia legge 3/2012). Vi è anche uno strumento specifico per la persona fisica consumatore, chiamato piano di ristrutturazione dei debiti del consumatore (in pratica evoluzione del “piano del consumatore” L.3/2012).

L’obiettivo di queste procedure minori è duplice: da un lato regolare la crisi anche di soggetti piccoli, dall’altro offrire loro una liberazione dai debiti residui (esdebitazione) a fine procedura, per consentire un “fresh start”. I principi di base e molti passaggi ricalcano quelli delle procedure maggiori, ma semplificati e adattati.

Concordato Minore: È disciplinato dagli artt. 74-83 CCII. Somiglia molto a un concordato preventivo, con alcune differenze chiave: può essere proposto da qualunque debitore sovraindebitato (quindi anche persona fisica non imprenditore, sebbene per il consumatore sia pensata la via del piano del consumatore – vedi oltre), richiede l’adesione della maggioranza dei crediti (60% in valore, come era nell’accordo di composizione L.3/2012) e viene omologato dal tribunale. A differenza del concordato preventivo classico, nel concordato minore non è obbligatoria la suddivisione in classi, dato che spesso i creditori non sono molti. Inoltre, non è necessario raggiungere le soglie di soddisfacimento del 20% ecc.: trattandosi per definizione di soggetti incapaci di soddisfare integralmente i debiti, la legge consente anche pagamenti parzialissimi, purché ci sia la buona fede del debitore e il massimo sforzo. Il concordato minore può prevedere anche la liquidazione di alcuni beni e la continuazione parziale dell’attività, è molto flessibile. Non c’è un commissario giudiziale, ma un gestore della crisi nominato dall’OCC (Organismo di Composizione della Crisi) – si tratta di un professionista che assiste il debitore e funge da ausilio per il tribunale (figura tipica della legge 3/2012, confermata). Questo gestore verifica i dati, aiuta a predisporre il piano e raccoglie i voti dei creditori (che possono essere espressi in modo semplificato via PEC). Se la maggioranza è favorevole, il giudice omologa, valutando sempre l’assenza di frode e la meritevolezza del debitore. Nel concordato minore, come già avveniva per l’accordo di composizione L.3/2012, i crediti fiscali e contributivi si considerano approvati se aderisce l’amministrazione o se la proposta rispetta certi parametri di convenienza. Con il nuovo Codice vale anche qui la regola del silenzio-assenso di 90 giorni per Fisco/INPS (introdotta dall’art. 63 CCII e applicabile anche a queste procedure). Una particolarità: il debitore persona fisica non consumatore può essere ammesso al concordato minore solo se non risulta aver colposamente determinato la situazione di sovraindebitamento (c’è un filtro di meritevolezza, sebbene non rigido come per il consumatore). Se il concordato minore viene omologato e il debitore lo esegue, ottiene la liberazione dai debiti residui non soddisfatti.

Piano di Ristrutturazione del Consumatore: Il consumatore (persona fisica che ha debiti per scopi estranei all’attività imprenditoriale) dispone di un istituto specifico (artt. 67-73 CCII). Egli può proporre un piano per pagare, anche solo in parte, i propri debiti, in un orizzonte temporale definito, dimostrando di poter offrire ai creditori almeno quanto otterrebbero dalla sua liquidazione e di agire in buona fede. Questo piano non richiede il voto dei creditori: viene sottoposto direttamente al giudice per l’omologazione, dopo aver sentito i creditori e valutato eventuali opposizioni. È quindi simile al concordato semplificato per logica, ma su scala personale. Il tribunale omologa se ritiene il piano fattibile, conveniente e se il consumatore è meritevole (non ha assunto dolosamente debiti sapendo di non poterli pagare, etc.). Si tiene conto, ad esempio, di eventuali comportamenti imprudenti: la Corte di Cassazione ha avuto modo di definire i criteri di meritevolezza per il consumatore, ad esempio cass. 1869/2016 e altre hanno delineato che non basta aver contratto troppi debiti per dire che è in malafede, ci vuole dolo o colpa grave. Una volta omologato, il piano vincola tutti i creditori e il consumatore, se lo adempie, è liberato dal resto dei debiti. Questa procedura è pensata per situazioni come famiglie sovraindebitate con mutui e prestiti: ad esempio ristrutturare i debiti su 10 anni pagando la parte sostenibile del reddito e stralciando il restante.

Liquidazione Controllata del Sovraindebitato: Equivalente alla liquidazione giudiziale per i non fallibili, è disciplinata dagli artt. 268-277 CCII. Si tratta della procedura liquidatoria giudiziale per le imprese minori, i professionisti, i privati. Un liquidatore nominato dal tribunale vende tutto il patrimonio del debitore e distribuisce ai creditori. Il debitore persona fisica, al termine, può chiedere l’esdebitazione dei debiti non soddisfatti (artt. 278-281 CCII). Questa liquidazione controllata può essere attivata sia su richiesta del debitore sia su iniziativa di un creditore (o su istanza del pubblico ministero se il debitore è imprenditore minore insolvente). È la “controparte” del fallimento: ad esempio, se un imprenditore sotto-soglia è insolvente e i creditori vogliono reagire, possono chiederne la liquidazione controllata, poiché non possono chiederne il fallimento. La procedura segue regole simili al fallimento (accertamento del passivo, vendite, ecc.) ma con formalità ridotte e tramite OCC. Al termine, il debitore persona fisica (o socio illimitatamente responsabile) ottiene di regola l’esdebitazione. Il Codice prevede anche la speciale esdebitazione del debitore incapiente (art. 282 CCII): una misura che consente al debitore che non ha nulla da dare (patrimonio liquidato irrilevante) di essere comunque liberato dai debiti immediatamente, purché abbia tenuto un comportamento onesto e meritevole. È una novità importante (introdotta già nel 2021) per dare una chance di ripartenza a chi è totalmente privo di beni: tale esdebitazione “a zero” può essere richiesta una sola volta nella vita.

In sintesi, gli strumenti per i piccoli debitori ricalcano lo schema accordo – piano – liquidazione ma in forma semplificata, e mirano soprattutto alla riabilitazione del debitore oltre che al soddisfacimento parziale dei creditori. Il legislatore ha voluto assicurare che anche il piccolo artigiano o il consumatore sovraindebitato possano sistemare la propria posizione senza restare schiacciati dai debiti vita natural durante.

FAQ – Procedure per Sovraindebitati

  • Un piccolo imprenditore può accedere al concordato preventivo ordinario?
    No, se rientra nella definizione di “impresa minore” (sotto soglia) è escluso dal concordato preventivo. Dovrà usare il concordato minore o la liquidazione controllata. Questo per non appesantire i tribunali fallimentari con micro procedure e per offrire procedure più adatte alla dimensione. In pratica, un artigiano o una startup con debiti sotto 500k non può depositare un concordato preventivo: il cancelliere non lo accetterebbe perché non soggetto.
  • Cosa succede se un debitore sovraindebitato non riesce a ottenere la maggioranza nel concordato minore?
    Se la maggioranza (60% dei crediti) non approva la proposta, il concordato minore non viene omologato. A quel punto, il debitore può ripiegare sulla liquidazione controllata: liquida tutto e chiede l’esdebitazione. Oppure, se è consumatore, può provare a far qualificare la sua come piano del consumatore, che non necessita voto. In sostanza, se i creditori si oppongono, non c’è cram-down in questo ambito (salvo appunto la possibilità del piano del consumatore per la persona fisica). Quindi o si riformula la proposta per convincere più creditori, o si va in liquidazione.
  • Quali debiti si possono falcidiare nel piano del consumatore? Anche fisco e mantenimenti?
    Nel piano del consumatore si possono ristrutturare tutti i debiti, tranne quelli che la legge esclude espressamente. Ad esempio, le obbligazioni alimentari (assegni di mantenimento dovuti per legge) di solito non sono falcidiabili perché hanno prelazione su redditi futuri. I debiti erariali e contributivi possono essere tagliati se l’ente acconsente o se comunque prendono almeno quanto in liquidazione (e soggiacciono al silenzio-assenso di 90 giorni). Debiti derivanti da fatto illecito con dolo in teoria potrebbero essere esclusi dall’esdebitazione finale (il codice prevede che l’esdebitazione non libera da debiti per risarcimento danni da fatto illecito extracontrattuale non colposo). Dunque un consumatore che ha, ad esempio, un grosso debito fiscale dovrà prevedere nel piano di pagare almeno la parte che in liquidazione avrebbe prelazione sui beni, oppure ottenere l’accordo dell’Agenzia. Molti piani del consumatore includono la cosiddetta “classazione” tra crediti privilegiati (che spesso si pagano interamente o quasi) e chirografari che prendono una percentuale modesta. I giudici omologano se vedono equilibrio e buona fede.
  • Dopo l’esdebitazione, i creditori non soddisfatti possono ancora rivalersi?
    No, quella è proprio la funzione dell’esdebitazione: cancellare le obbligazioni residue non soddisfatte. Nel fallimento, l’esdebitazione è un provvedimento ad hoc che estingue i debiti chirografari non pagati. Nel concordato, l’omologa e l’adempimento stesso comportano la liberazione – il debitore resta obbligato solo per la percentuale che ha promesso, il resto è giuridicamente stralciato. Così nel sovraindebitamento: i creditori che ad esempio hanno ricevuto il 20% nel concordato minore non possono pretendere il restante 80% in futuro, è inesigibile. Importante: l’esdebitazione non copre debiti eventuali verso coobbligati o fideiussori, né toglie le garanzie reali sui beni di terzi. Quindi se Tizio ottiene esdebitazione, il fideiussore che garantiva per lui può comunque essere escusso dal creditore per l’importo non pagato, e poi semmai il fideiussore non potrà rifarsi su Tizio perché il suo credito di regresso è anch’esso esdebitato (essendo sorto prima). Sono tecnicismi, ma in sostanza chi non partecipa come debitore principale non è liberato dall’esdebitazione altrui.
  • Quante volte si può beneficiare di esdebitazione?
    Il Codice pone alcuni limiti temporali: l’esdebitazione “automatica” dell’incapiente (art. 282) è concessa una volta sola. L’esdebitazione post liquidazione controllata classica può essere chiesta nuovamente solo dopo 4 anni da una precedente (c’è un divieto di farne una di seguito all’altra per evitare abusi). In generale anche per il consumatore e concordato minore la ri-esdebitazione non è ammessa prima di un certo periodo (almeno 5 anni). L’idea è di evitare il “bankruptcy shopping” seriale. Quindi se un soggetto ha già ottenuto un beneficio, difficilmente potrà replicare a breve.

10. Applicazioni Settoriali: Casi Pratici di Gestione della Crisi

Ogni settore economico presenta caratteristiche particolari che influenzano la tipologia di crisi d’impresa e lo strumento più adatto per affrontarla. In questa sezione analizziamo, con esempi ipotetici ma realistici, come gli strumenti del Codice della crisi possono essere applicati nei quattro principali settori dell’economia italiana: Edilizia, Commercio (Retail), Manifatturiero e Tecnologia/Start-up. Scopriremo come, a seconda del modello di business e della natura dei debiti, certe procedure risultino più efficaci di altre e quali accorgimenti pratici adottare.

10.1 Settore Edilizia (Costruzioni)

Caratteristiche del settore: L’edilizia è un settore notoriamente ciclico e ad alta intensità di capitale. Le imprese edili spesso operano per commessa (cantieri) con elevati anticipi di costi e incassi differiti, e sono esposte al rischio di ritardi nei pagamenti, controversie legali sugli appalti, escussione di fideiussioni, etc. I debiti tipici includono esposizioni bancarie (finanziamenti per immobili, scoperti di conto per liquidità in cantiere), debiti verso fornitori di materiali e subappaltatori, nonché debiti verso il fisco (IVA, ritenute, contributi – specie se una crisi di liquidità porta a omessi versamenti). Il patrimonio spesso consiste in immobili (terreni, fabbricati in costruzione) il cui valore può variare molto con il mercato e con lo stato di avanzamento lavori. Le cause di crisi nell’edilizia possono essere: calo del mercato immobiliare, aumento costi materie prime, fallimento di clienti (es. un promotore insolvente che non paga l’appaltatore), errori di valutazione su commesse (preventivi sottostimati), oppure blocchi burocratici (permessi sospesi).

Esempio pratico: XYZ Costruzioni S.r.l. è un’impresa edile medio-grande specializzata in edilizia residenziale. Ha 3 cantieri in corso. A causa del fallimento di un grande committente e di un contenzioso con il Comune per una lottizzazione, l’azienda si trova con incassi bloccati e debiti per circa 10 milioni (4 mln verso banche, 3 mln verso fornitori e subappaltatori, 2 mln verso l’Erario per IVA e oneri non pagati negli ultimi 6 mesi, e altri verso dipendenti e professionisti). Il patrimonio include due terreni edificabili e dei crediti verso acquirenti promissari compratori. XYZ intravede possibilità di risanamento: se riesce a completare almeno uno dei cantieri e vendere gli appartamenti, può recuperare liquidità; inoltre un investitore immobiliare si è mostrato interessato a rilevare un progetto in cambio di liquidità immediata.

Soluzione adottata: XYZ decide di attivare la composizione negoziata con l’ausilio di un esperto (essendo la situazione ancora reversibile con progetto e investitore). Durante le trattative, ottiene dalle banche un congelamento delle rate e discute con l’investitore la cessione di un cantiere al 60% del completamento. Dopo 4 mesi, la composizione negoziata produce un accordo di ristrutturazione con le banche (che allungano i mutui di 2 anni) e con i principali fornitori (che accettano un pagamento all’80% a 12 mesi). Tuttavia, non tutti i subappaltatori minori aderiscono e l’Agenzia delle Entrate non è convinta della dilazione sull’IVA arretrata. XYZ allora decide di sfruttare l’accordo sottoscritto (che ha il consenso del 70% dei crediti) e di sottoporlo a omologazione come accordo di ristrutturazione ex art. 57 CCII, chiedendo al tribunale di estenderne gli effetti anche sui subappaltatori estranei (categoria omogenea) dove ha raggiunto l’80% di adesioni e di forzare l’adesione del Fisco (presentando un piano che garantisce comunque pagamento integrale dell’IVA entro la fine, grazie ai proventi delle vendite future, e invocando il cram-down fiscale ai sensi dell’art. 63 co.2-bis CCII). Il tribunale omologa l’accordo: l’investitore immette 1 milione subito (comprando il cantiere A), con cui XYZ paga in parte i subappaltatori e riavvia i lavori sugli altri cantieri. Nel frattempo ottiene il permesso dal Comune sbloccando il contenzioso con un accordo transattivo (favorito dalla nuova fiducia data dal piano omologato). Entro 1 anno, XYZ completa il cantiere B, vende gli appartamenti e incassa 4 milioni, con cui paga le banche secondo l’accordo ristrutturato e salda l’IVA e i fornitori residui. L’azienda, ridimensionata ma salva, evita il fallimento e prosegue l’attività su basi più solide.

Commento: Nel settore edilizio, come in questo esempio, gli accordi di ristrutturazione sono spesso la chiave: permettono di gestire in modo mirato le banche e i fornitori strategici, mantenendo continuità nei cantieri (che è fondamentale per non perdere valore: un cantiere fermo è un asset “a metà”). Anche il concordato preventivo in continuità può essere usato, specialmente se serve bloccare aggressioni (ad es. se subappaltatori hanno iscritto ipoteche giudiziali sui terreni, il concordato può congelare e poi rimuoverle). Ma in edilizia spesso la tempestività è tutto: il valore immobiliare può crollare se l’opera resta incompiuta o se si diffonde la notizia del fallimento. Perciò strumenti come la composizione negoziata e gli accordi ex art. 57-61 CCII sono preferiti per intervenire prima che il cantiere si fermi irreversibilmente. Un elemento cruciale è la gestione del debito fiscale (IVA): non potendo offrire ai creditori privati soddisfazioni inferiori a quelle del fisco, bisogna includere anche l’erario nel piano. La normativa oggi consente di includere la transazione fiscale nel concordato o accordo e, come nel caso ipotizzato, di ottenere omologa anche se l’AdE fosse contraria, a certe condizioni (Cass. 1033/2024 ha chiarito aspetti procedurali del cram-down fiscale). Ciò è fondamentale in edilizia dove l’IVA evasa durante crisi è spesso elevata.

Prospettiva imprenditore: la ditta edile deve muoversi in anticipo, appena sorgono i primi blocchi di liquidità. Un errore comune è accumulare troppi debiti verso fornitori e Fisco nel tentativo disperato di finire i lavori: questo peggiora la situazione. Meglio cercare un accordo presto, magari vendere parte dei progetti per generare cassa (anche se a malincuore), e usare strumenti come la negoziazione o un concordato in continuità con riserva per congelare le pretese e guadagnare tempo. Il costruttore avrà cura di evidenziare nel piano la convenienza per i creditori: ad esempio, che completando i lavori e vendendo gli immobili loro recupereranno il 50%, mentre in un fallimento di metà cantiere i creditori prenderebbero forse il 20%. Questo argomento persuade sia i creditori che eventuali giudici in sede di omologa.

Prospettiva avvocato: nel settore costruzioni, il legale deve prestare attenzione agli aspetti ipotecari e di privilegio speciale: spesso i fornitori edili hanno privilegi edilizi sui beni in costruzione, i dipendenti hanno privilegio sugli immobili, etc. Quindi va calcolato con precisione l’ordine dei pagamenti in caso di liquidazione per poter predisporre un piano conforme (ad esempio, i subappaltatori hanno un privilegio ex art. 2765 c.c. sulle somme dovute dal committente). Inoltre, c’è da gestire i contratti preliminari di vendita: se alcuni acquirenti di case hanno già pagato acconti, vanno tutelati per evitare cause (il Codice consente di predisporre classi di questi soggetti o escluderli se garantiti da fideiussioni). L’avvocato dovrà collaborare con tecnici per stimare i costi di completamento e con l’attestatore per dare credibilità ai numeri. Un ruolo chiave sarà negoziare con l’Agenzia delle Entrate (transazione fiscale) e convincerla che la proposta è seria: magari allegando perizia di stima degli immobili e timeline di vendite. In sintesi, una crisi edile richiede competenze interdisciplinari (legali, tecniche, finanziarie) e l’uso creativo ma rigoroso degli strumenti di risanamento.

10.2 Settore Commercio (Retail)

Caratteristiche del settore: Il commercio al dettaglio (retail) comprende dall’esercizio di vicinato alle grandi catene di negozi. Elementi tipici sono: costi fissi elevati (affitti di locali, personale) e margini unitari contenuti, fortemente dipendenti dai volumi di vendita. Una crisi nel commercio spesso deriva da calo del fatturato (es. per nuove abitudini di consumo o concorrenza online) non compensato da riduzione dei costi. I debiti principali includono fornitori di merce (con rischio di stock invenduti), banche (anticipi su magazzino, scoperti per cassa), affitti arretrati, debiti tributari (IVA non versata se le vendite calano ma i prezzi includono IVA incassata e magari usata per pagare altro). Nel retail è cruciale la continuità operativa: se il negozio chiude, il valore residuo è solo la liquidazione del magazzino (spesso a saldo) e degli arredi usati; se invece rimane aperto, può generare flussi e magari essere ceduto come avviamento. Quindi, gli strumenti orientati alla continuità sono preferibili.

Esempio pratico: ModaTrend S.p.A. gestisce una catena di 20 negozi di abbigliamento. Da qualche anno subisce perdite per la concorrenza dell’e-commerce e il cambiamento di tendenze; inoltre paga affitti elevati in centri commerciali. Ha debiti per 5 milioni verso fornitori di merce (collezioni passate), 2 milioni verso banche (finanziamenti per allestimenti), 1 milione verso dipendenti (TFR e stipendi arretrati) e 2 milioni verso il fisco (IVA e contributi non versati negli ultimi 2 anni). Il magazzino (merce invenduta) vale a prezzo di costo 3 milioni ma realizzo stimato 1 milione; gli arredi e scaffali hanno scarso valore. ModaTrend crede di poter salvare l’azienda se riduce la rete ai soli 10 negozi profittevoli e chiude gli altri 10 in perdita, puntando anche su vendite online.

Soluzione adottata: ModaTrend opta per un concordato preventivo in continuità indiretta: propone ai creditori un piano in cui la società cederà il ramo d’azienda dei 10 negozi migliori a un nuovo investitore del settore (che versa 3 milioni per acquistarli e subentra nei contratti di locazione e parte del personale), mentre liquiderà il magazzino residuo dei negozi chiusi tramite un saldo di fine stagione (con sconti forti per trasformare in cassa almeno 0,5 milioni). Con questi fondi, il piano prevede di pagare integralmente i dipendenti (TFR) e in buona parte i fornitori privilegiati (alcuni fornitori hanno riserva di proprietà o privilegio sulle merci). I creditori chirografari (principalmente i fornitori non garantiti e la parte chirografa del fisco) riceveranno il 30% dei loro crediti in 2 anni, grazie anche ai risparmi ottenuti liberandosi dei negozi in perdita. Il piano contempla la risoluzione anticipata dei contratti di affitto per i 10 negozi chiusi (grazie al concordato, potrà recedere pagando solo un’indennità minima di legge). I contratti dei dipendenti dei negozi chiusi vengono anch’essi risolti, ma il piano destina parte delle risorse a pagare loro il TFR in prededuzione come costo di procedura. Un professionista attestatore certifica che il piano è fattibile e che i creditori avranno più del 15% in media, certamente meglio dello 0% ipotizzabile in fallimento (dove il magazzino deprezzato e i costi di chiusura avrebbero bruciato tutto). I creditori votano: banche e fornitori strategici, vedendo l’investitore già impegnato, sono favorevoli; alcuni fornitori minori votano contro ma sono minoranza (si raggiunge il 75% di consensi su base chirografa). Il concordato viene omologato, e ModaTrend esegue: trasferisce i negozi al nuovo investitore, che contestualmente versa i 3 milioni al concordato; liquida le giacenze, chiude i contratti e paga le percentuali concordate ai creditori nell’arco di 2 anni. L’azienda ridimensionata prosegue con i 10 negozi sotto nuova proprietà, i creditori ottengono una soddisfazione dignitosa, e l’imprenditore evita il fallimento.

Commento: Il punto chiave nel commercio retail è spesso la riduzione controllata dell’attività. Nel caso di ModaTrend, il concordato in continuità ha permesso di separare il “buono” dal “cattivo”: i negozi redditizi hanno trovato prosecuzione, quelli improduttivi sono stati chiusi senza trascinare a fondo l’intera impresa. Strumenti come il concordato con assunzione (dove un terzo, l’investitore, si assume l’onere del concordato rilevando l’azienda) possono essere efficaci nel retail: un competitor o investitore può subentrare nei punti vendita migliori. La legge consente anche, in continuità indiretta, di vendere l’azienda a terzi prima dell’omologa con autorizzazione giudiziale, se ciò è funzionale a massimizzare il valore. Il concetto di ramo d’azienda in esercizio provvisorio è applicabile: tenere aperti i negozi durante la procedura per vendere sia merci (generare cassa) sia l’avviamento. Va ricordato, come fatto, che in concordato l’azienda debitrice può sciogliersi dai contratti pendenti onerosi (qui i contratti d’affitto dei locali) con autorizzazione del tribunale, pagando solo eventuali indennizzi come crediti chirografari (art. 94 CCII): questo permette di liberarsi di location non più sostenibili senza incorrere in cause per inadempimento.

Prospettiva imprenditore: Trovare un cavaliere bianco (investitore) è un fattore di successo importante: presentare un concordato con un soggetto pronto a investire conferisce credibilità e offre liquidità immediata da destinare ai creditori. L’imprenditore retail deve essere pronto a ridimensionare il proprio business: a volte il fallimento è causato dal mantenere troppi punti vendita sperando in una ripresa generale. L’uso del concordato consente decisioni drastiche (chiusure) in un contesto protetto. L’imprenditore deve anche curare la comunicazione con i fornitori: molti di essi, se vedono un piano serio con prospettiva di continuare a fornire la nuova entità, saranno disposti a supportare (magari accettando stralci). Un aneddoto: catene di moda in difficoltà spesso scatenano panico tra i fornitori se si parla di fallimento – ma se si prospetta un concordato con continuità e quindi futuri ordini (anche ridotti), i fornitori possono preferire “accontentarsi” di una percentuale e non perdere il cliente definitivamente.

Prospettiva avvocato: Nel predisporre la procedura, l’avvocato deve sfruttare al massimo le leve legali offerte dal CCII: ad esempio, impugnare eventuali clausole contrattuali risolutive (nel retail spesso i contratti di franchising, locazione, ecc. prevedono che se l’azienda entra in insolvenza il contratto si risolve – ma il CCII all’art. 94 vieta la risoluzione di contratti in corso solo per il fatto dell’apertura del concordato). Quindi occorre tutelare la continuità contrattuale dei negozi buoni fino al trasferimento. Importante è anche la gestione del personale: il diritto del lavoro prevede, nell’ambito di concordato o accordo, procedure di consultazione sindacale se vi sono licenziamenti collettivi. Nel caso, l’avvocato deve coordinarsi con consulenti del lavoro per rispettare tali procedure parallele (il CCII consente di integrare l’iter di mobilità nel contesto concorsuale). Inoltre, nel retail capita di avere fideiussioni personali dei titolari verso i fornitori o proprietari di immobili: un aspetto da considerare è che il concordato non libera i fideiussori (che restano obbligati salvo liberatoria del creditore). L’avvocato dovrà cercare di negoziare liberatorie anche per gli eventuali garanti, altrimenti l’imprenditore rischia di risolvere la crisi della società ma trovarsi con la crisi personale. In un concordato ben strutturato, magari il terzo investitore condiziona la sua offerta anche alla liberazione dei garanti da parte dei principali creditori (si può inserire come condizione nel piano).

10.3 Settore Manifatturiero (Industria)

Caratteristiche del settore: L’industria manifatturiera comprende aziende che producono beni, spesso per il mercato B2B (componenti, macchinari, prodotti finiti) o B2C (auto, elettrodomestici, alimentari industriali). Tali imprese hanno tipicamente significativi investimenti in impianti e macchinari, e capitali immobilizzati in magazzino e crediti verso clienti. La crisi può derivare da cali di ordini, aumenti di costi materie prime, innovazione tecnologica che rende i prodotti obsoleti, o eccessivo indebitamento per investimenti. I debiti industriali includono banche (mutui per impianti, leasing macchinari, scoperti per capitale circolante), debiti verso fornitori di materie prime e servizi, eventuali obbligazioni o mini bond, oltre a debiti fiscali e contributivi. Le crisi industriali, se non irreversibili, spesso trovano soluzione ottimale in una ristrutturazione del debito con continuità aziendale, magari affiancata dall’ingresso di nuovi investitori o dall’alienazione di rami d’azienda non strategici. In alcuni casi si ricorre alla amministrazione straordinaria (Legge Marzano) se l’impresa è grande (>200 dipendenti) e ci sono prospettive di recupero: questo esula però dal CCII e segue legge speciale.

Esempio pratico: TecnoMeccanica S.p.A. produce componenti per macchine agricole. Ha 150 dipendenti e uno stabilimento di proprietà. Negli ultimi anni ha accumulato perdite per concorrenza di produttori esteri a basso costo. Ha debiti per 8 milioni con banche (mutuo ipotecario sullo stabilimento, linee per acquisto macchinari e factoring), 4 milioni verso fornitori di acciaio e componenti, e 1 milione di debiti con Erario e INPS per rateizzazioni saltate. Il portafoglio ordini è ancora buono ma i margini insufficienti a servire l’indebitamento. I principali creditori (banche e fornitori chiave) sono preoccupati ma credono nell’azienda, che ha un know-how apprezzato. Un fondo di private equity locale si è mostrato interessato a investire per rilevare il 60% di TecnoMeccanica e rilanciarla, ma solo se prima viene ridotto il debito a livelli sostenibili.

Soluzione adottata: TecnoMeccanica negozia con i creditori e propone un accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 57 CCII. Raggiunge un’intesa con le banche: queste accettano di convertire parte dei crediti in strumenti partecipativi (di fatto condonando un 20% del credito in cambio di warrant futuri) e di spalmare il resto in un nuovo mutuo decennale; chiedono però che il fondo privato apporti almeno 2 milioni di equity fresco. I fornitori strategici (che vogliono continuare la partnership) accettano di ridurre del 30% i loro crediti e di ricevere il restante 70% in 24 mesi. Si tratta di circa il 75% in valore di tutti i crediti. L’accordo esclude solo piccoli fornitori e un paio di banche minori che non aderiscono (con un totale del 25% crediti). TecnoMeccanica deposita l’accordo in tribunale per omologazione, chiedendo l’applicazione dell’efficacia estesa alle due banche minori non aderenti, che sono nella stessa categoria delle altre banche (creditori finanziari) e rappresentano meno del 25% di quella categoria. Il piano asseverato mostra che i non aderenti ricevono condizioni non inferiori a quelle che avrebbero in fallimento (anzi, vengono pagati integralmente ma solo con qualche anno di ritardo, comunque meglio del 40% stimato in caso di vendita forzata dello stabilimento in fallimento). Il tribunale omologa l’accordo. Grazie a ciò, il fondo investitore finalizza l’acquisizione del 60% di TecnoMeccanica per 2 milioni, utilizzati per iniziare a pagare i debiti ristrutturati. L’azienda, con nuova governance e meno debiti, torna competitiva e evita il collasso, preservando i livelli occupazionali.

Commento: Il caso evidenzia come nel manifatturiero la ristrutturazione del debito con il consenso delle classi principali di creditori, combinata con ricapitalizzazione (new equity), può salvare la società. L’accordo di ristrutturazione ad efficacia estesa, introdotto dal CCII, è proprio pensato per situazioni come questa: un piccolo gruppo di creditori dissenzienti non può bloccare la ristrutturazione se la maggioranza qualificata e il tribunale la ritengono conveniente e corretta. Avendo banche e fornitori “dentro” per più del 75%, TecnoMeccanica ha potuto includere anche le due banche restìe (magari erano banche che volevano uscire subito e preferivano far fallire e incassare dalle garanzie, ma rappresentando minoranza, vengono trascinate nell’accordo). Un concordato preventivo in continuità sarebbe stata l’alternativa, ma in quel caso l’azienda sarebbe stata etichettata come in procedura concorsuale, con più rischi per la reputazione e relazioni commerciali. L’accordo invece è più “soft” in termini di percezione (anche se pubblicato). Tipicamente, nelle ristrutturazioni industriali, oltre al debito finanziario, c’è da convincere i fornitori chiave – in questo esempio ci sono riusciti offrendo (oltre a una percentuale di recupero) la prospettiva di mantenere la fornitura, e l’appoggio di un investitore.

Prospettiva imprenditore: L’imprenditore industriale deve essere aperto a cambiare assetto societario: spesso la salvezza passa dall’ingresso di un partner o dal passaggio di mano dell’azienda. Resistere a questo per orgoglio porta a soluzioni subottimali. Meglio cedere parte del controllo ma assicurare continuità all’azienda (e futuro anche per i dipendenti e la propria eventuale quota residua). In Italia molti imprenditori sono storicamente restii a procedure concorsuali per timore di perdere “l’onore” imprenditoriale; però con il nuovo Codice c’è un cambio culturale: usare per tempo uno strumento di composizione non è disonorevole, anzi appare come gesto responsabile. L’imprenditore quindi dovrebbe abbandonare tabu e coinvolgere i creditori e potenziali partner in modo trasparente.

Prospettiva avvocato: Il legale qui agisce più come un “regista” di un’operazione finanziaria: deve bilanciare gli interessi di vari stakeholder – banche, soci, investitore, fornitori, Erario – traducendoli in un documento di accordo coerente e in regola con la legge. Questo include: definire eventuali classi di creditori per l’accordo (nel nostro esempio, banche come classe omogenea, fornitori strategici un’altra, fornitori piccoli esclusi se irrilevanti, ecc.), predisporre l’attestazione con un professionista di fiducia che validi i numeri, assicurarsi che i parametri per l’estensione ai dissenzienti siano rispettati (comunicazioni a tutti, soglia 75%, parità di trattamento intra-classe, best interest test per non aderenti). Inoltre, c’è la contrattualistica societaria: parallelamente all’accordo ex CCII, avviene la sottoscrizione dell’aumento di capitale da parte del fondo investitore e il patto parasociale con l’imprenditore per la nuova governance. L’avvocato deve coordinare la tempistica: spesso il nuovo investitore vuole vedere l’omologa prima di versare soldi, e i creditori vogliono vedere i soldi prima di formalizzare l’accordo – c’è un classico problema di “uovo e gallina”. Si risolve con clausole tipo: deposito del denaro su escrow che si libera a omologa ottenuta, e l’accordo che condiziona efficacia al versamento. Bisogna predisporre tutto in modo che tutti si sentano garantiti.

10.4 Settore Tecnologia (Startup e Imprese Tech)

Caratteristiche del settore: Le imprese tecnologiche (software house, servizi digitali, startup innovative, aziende IT) hanno spesso asset prevalentemente intangibili (IP, know-how, team di talenti) e modello di business basato su crescita rapida anche in perdita nei primi anni, sostenuta da investitori di venture capital. Le crisi in questo settore possono manifestarsi come insolvency da cash burn: l’azienda brucia cassa più velocemente del previsto e non raggiunge break-even in tempo, oppure fallisce uno step di raccolta capitali (round) e si trova senza fondi per proseguire. Oppure, su aziende tech più mature, può pesare la rapida obsolescenza: un prodotto diventato irrilevante porta a crollo di ricavi. Il debito finanziario tradizionale spesso è limitato (le startup hanno più equity che debito), mentre possono esserci debiti verso fornitori (es. cloud services, contratti hardware), debiti verso dipendenti (salari), e impegni contrattuali (penali per servizi non erogati). Nel tech è cruciale la velocità: se entra in crisi, c’è rischio che i migliori dipendenti scappino, che i clienti migrino ad altri servizi. Quindi procedure lunghe rischiano di distruggere quel poco valore residuo (codice sorgente, piattaforma) che esiste.

Esempio pratico: FinSoft S.r.l. è una startup fintech che ha sviluppato una piattaforma di pagamenti digitale. Ha raccolto 5 milioni dai venture capital, ma il modello stenta a generare ricavi adeguati. Arrivata al 2025, ha esaurito la cassa e un round atteso non si è concretizzato. Ha debiti per circa 1 milione: stipendi arretrati di 3 mesi per i suoi 30 dipendenti (che credono nel progetto ma iniziano a preoccuparsi), contratti con fornitori cloud e licenze software per 300k, debiti verso consulenti e marketing per 200k, e ha ricevuto un finanziamento agevolato statale di 500k da restituire in 5 anni (ha pagato solo 1 anno finora). Non è formalmente insolvente ancora, ma non potrà pagare prossimi stipendi e fatture. Un competitor più grande ha offerto di acquisire la piattaforma (codice + team) per 2 milioni, ma senza assumersi i debiti pregressi – anzi, vuole l’azienda “pulita”.

Soluzione adottata: FinSoft avvia rapidamente un concordato semplificato per la liquidazione: non ha i tempi né i numeri per un accordo formale con creditori (che sono troppi e dispersi), e un concordato preventivo ordinario spaventerebbe i clienti. Sceglie quindi di passare dalla composizione negoziata (che ha attivato, ottenendo subito protezione dai creditori per evitare decreti ingiuntivi) alla proposta di concordato semplificato. Propone al tribunale un piano dove la società venderà tutti gli asset (principalmente il software e gli IP) al competitor per 2 milioni e con quel ricavato pagherà prima i dipendenti (il cui TFR e retribuzioni vantano privilegio) e i costi della procedura, poi distribuirà il restante ai chirografari (fornitori, investitori non soci?). Stima che i chirografari possano ricevere circa il 40%. Il competitor acquirente condiziona l’operazione all’omologa rapida del concordato e intanto offre un bridge financing per pagare i salari correnti così da trattenere il team (questo credito di finanziamento è in prededuzione). Il tribunale esamina la proposta e, constatato che la composizione negoziata è stata condotta regolarmente e che i creditori chirografari in un fallimento prenderebbero forse il 5-10% (poiché senza quell’offerta il software all’asta varrebbe molto meno), la giudica conveniente e la omologa velocemente. FinSoft cede quindi la piattaforma al competitor, il liquidatore nominato incassa i 2 milioni, liquida i privilegiati (dipendenti quasi integralmente, il finanziamento statale privilegiato in parte) e ripartisce il resto ai fornitori (che prendono circa 30-40%). L’operazione si chiude in pochi mesi e l’attività prosegue integrata nel competitor; i soci originari di FinSoft perdono la partecipazione ma evitano una lunga insolvenza.

Commento: In questo scenario, il concordato semplificato appare come soluzione agile per traghettare una startup in difficoltà verso una acquisizione, senza incagliarsi in trattative estenuanti con creditori di modesta entità. Lo scopo principale – salvare il valore del progetto e del team – è raggiunto. I creditori ottengono qualcosa (anche i fornitori un 30-40% altrimenti improbabile) e si evita una procedura fallimentare dove i software developer se ne sarebbero andati e il codice venduto magari a pezzetti per quasi nulla. Il competitor acquirente, d’altro canto, ottiene l’asset libero da pendenze (pagando un prezzo concordato). Questa è un’applicazione tipica: il concordato semplificato come strumento di M&A in crisi, specie per realtà in cui il tempo è essenziale e il valore sta in asset intangibili volatili.

Prospettiva imprenditore: Per il fondatore di FinSoft, questa non è l’uscita sognata (sperava in un grande round, invece vende la startup per salvare il salvabile), però è una exit dignitosa: evita di trascinare i dipendenti e fornitori in un fallimento e vede comunque la sua creatura continuare nel competitor (spesso i founder possono anche venire assorbiti come manager). Importante la scelta di agire prima di finire i soldi del tutto: aveva ancora abbastanza valore e cassa per fare le mosse. Se avesse aspettato l’insolvenza conclamata, magari i dipendenti chiave se ne andavano e il competitor avrebbe offerto 0.5 milioni in liquidazione, non 2 in continuità. L’imprenditore tech deve essere pronto ad usare uno strumento concorsuale come il semplificato senza percepirlo come fallimento personale, ma come pivoting finale.

Prospettiva avvocato: Qui l’avvocato deve orchestrare le fasi con velocità: composizione negoziata, misure protettive immediate per impedire, ad esempio, che un fornitore blocchi i server per mancato pagamento, poi preparazione della proposta di concordato semplificato molto dettagliata su come vendere l’asset al competitor (probabilmente predisporrà un contratto preliminare di vendita condizionato all’omologa). Dovrà giustificare bene in atti la scelta del compratore e del prezzo: il tribunale deve essere convinto che non c’erano alternative migliori (nel concordato semplificato, non c’è un’asta obbligatoria, ma il giudice potrebbe richiederla se dubita del prezzo). Quindi magari si allega una valutazione indipendente del software/piattaforma per mostrare che 2 milioni è equo. Va anche gestita la parte lavoristica: serve accordo sindacale per il passaggio dei 30 dipendenti al competitor, che presumibilmente li riassorbirà (art.2112 c.c.). Durante la procedura, l’avvocato assicura che il competitor possa finanziare la società in crisi per mantenerla viva – quel finanziamento in prededuzione è delicato, ma il CCII consente al giudice di autorizzarlo ex art. 99 se è nell’interesse della procedura, e qui lo era (pagare gli stipendi correnti per trattenere il capitale umano).

Questo esempio dimostra anche come i confini tra strumenti possano sfumare: si è usata la composizione negoziata per preparare il terreno (breve, giusto per proteggere), poi il concordato semplificato come “scorciatoia” concorsuale. Un’alternativa poteva essere un accordo ex art. 57 con quell’unico competitor creditore (ma qui competitor non era creditore, era esterno), o un concordato ordinario (ma con troppi costi/tempi per una startup). Quindi la scelta è caduta su semplificato, giustamente.

11. Confronto e Riepilogo degli Strumenti

Abbiamo esplorato in dettaglio i vari strumenti offerti dal Codice della crisi d’impresa per evitare il fallimento: dalle soluzioni negoziali stragiudiziali ai concordati giudiziali, fino alle procedure per i debitori minori. Ogni strumento ha finalità proprie, presupposti specifici e comporta diversi gradi di coinvolgimento del tribunale e dei creditori. Nella tabella seguente riportiamo un riepilogo comparativo dei principali istituti, evidenziandone la natura, le condizioni di accesso, l’eventuale percentuale di consenso richiesta, il ruolo del tribunale e l’effetto sui creditori. Questo consente di avere una visione d’insieme e guidare la scelta dello strumento più adeguato a seconda delle circostanze:

StrumentoNatura e FinalitàCondizioni di AccessoCoinvolgimento dei CreditoriRuolo del TribunaleEsito per i debitori/creditori
Composizione NegoziataPercorso stragiudiziale assistito da esperto; mira al risanamento volontario evitando procedure concorsuali.Impresa in squilibrio potenziale crisi/insolvenza (non ancora insolvente conclamata); accesso volontario tramite piattaforma.Nessun voto; trattative riservate con creditori chiave, accordi consensuali plurilaterali.Tribunale coinvolto solo se richieste misure protettive (stay) o provvedimenti urgenti; no omologa finale.Se accordo riuscito: piano privato o accordo omologato successivo; se fallisce: possibile concordato semplificato. Creditori aderenti vincolati dagli accordi, estranei conservano diritti ma spesso indirettamente soddisfatti.
Piano Attestato di RisanamentoStrumento negoziale privato con attestazione di esperto; evita insolvenza tramite interventi correttivi e accordi con creditori.Qualsiasi imprenditore soggetto a fallimento; situazione di crisi non irreversibile; richiesto piano scritto con data certa e attestazione indipendente veridicità/fattibilità.Nessun voto formale; adesione individuale dei creditori rilevanti mediante accordi esecutivi del piano.Nessun intervento del tribunale (piano non omologato); efficacia legale data dall’esenzione da revocatoria per atti in esecuzione piano.Debitore continua l’attività secondo piano; creditori aderenti rinegoziano volontariamente (pagamenti dilazionati o ridotti) e non subiscono revocatoria sui pagamenti ricevuti. Creditori non aderenti rimangono esigibili secondo i termini originali.
Accordo di Ristrutturazione (ordinario)Procedura concorsuale mista (extra-giudiziale con omologa) per ristrutturare debiti con consenso parziale dei creditori.Impresa in crisi o insolvenza, soggetta a fallimento; richiesto accordo con ≥60% dei crediti; attestazione indipendente su veridicità dati e fattibilità.Consenso del ≥60% dei creditori (in valore); creditori non aderenti non vincolati se estranei (salvo moratoria breve).Tribunale omologa dopo verifica legalità, convenienza e attestazione; concede misure protettive su richiesta (stay fino 240 gg) durante trattative.Debitore mantiene gestione ordinaria e straordinaria; debiti ristrutturati secondo accordo (riduzioni/dilazioni) vincolano aderenti e, dopo omologa, opponibili ai firmatari. Creditori estranei: possono subire breve moratoria (max 120 gg) ma restano con diritti invariati.
Accordo di Ristrutturazione “agevolato”Variante con soglia ridotta di consenso.≥30% dei crediti aderenti; condizione: debitore non richiede misure protettive né moratoria per estranei.Simile all’ordinario ma con consenso minimo 30%; creditori estranei del tutto liberi (nessun stay, nessuna moratoria).Tribunale omologa se rispetto requisiti e nessuna tutela attivata sugli estranei.Vantaggio: minor soglia di adesione. Rischio: creditori non aderenti possono agire liberamente (nessuna protezione). Debitore deve confidare di soddisfarli comunque.
Accordo ad Efficacia EstesaAccordo di ristrutturazione con estensione vincolatività ai non aderenti di una medesima classe.Oltre condizioni ordinarie: creditori informati e messi in condizione di trattare; continuità aziendale prevista dal piano; nella categoria omogenea aderenti ≥75% del credito di quella categoria; non aderenti soddisfatti ≥quanto in liquidazione.I non aderenti di quella classe (≤25% della classe) vengono forzati nell’accordo omologato. Altri creditori estranei (fuori dalle classi coinvolte) restano liberi.Tribunale omologa ed estende effetti agli estranei di classe se tutte condizioni rispettate.Debitore ottiene che l’accordo sia cram-down sulla minoranza dissenziente in classi specifiche. Creditori non aderenti in tali classi vengono trattati come aderenti (stesse dilazioni/tagli), purché tutelati (non meno di liquidazione).
Concordato Preventivo LiquidatorioProcedura concorsuale giudiziale per liquidare il patrimonio evitando il fallimento.Impresa in crisi o insolvente; piano di cessione beni con soddisfacimento creditori. Requisiti: apporto esterno ≥10% attivo e pagamento creditori chirografari ≥20%. Attestazione indipendente veridicità dati e fattibilità.Voto dei creditori (per classi se differenziati) a maggioranza di crediti >50%. Classi obbligatorie se trattamenti differenziati; possibili cram-down se condizioni art.112 CCII (almeno una classe consenziente, rispetto priorità o giustificazione per deroghe).Tribunale ammette alla procedura (nomina commissario); sospende azioni esecutive. Omologa dopo voto se condizioni legittimità e convenienza rispettate. Verifica requisiti di legge (20%, 10% etc).Debitore perde gestione straordinaria (commissario autorizza atti) ma resta in possesso dei beni fino a liquidazione. Beni venduti sotto controllo del liquidatore/commissario; creditori ricevono percentuale stabilita (≥20%). Dissentienti vincolati se omologato. Dopo esecuzione piano, debiti residui chirografari stralciati.
Concordato Preventivo in ContinuitàProcedura concorsuale per risanare l’impresa mantenendola in esercizio (diretto o tramite cessione).Impresa in crisi/insolvente ma con prospettive di continuità. Richiede che piano preveda azienda in esercizio (debitoriale o per cessione). Nessuna soglia minima di pagamento chirografi (ma obbligo utilità specifica per ciascun creditore e convenienza rispetto liquidazione). Attestazione indipendente su veridicità dati e idoneità piano a evitare insolvenza e non pregiudicare creditori.Voto dei creditori per classi (solitamente differenzia privilegiati soddisfatti vs chirografari, etc.). Maggioranza per classi: >50% in valore per classe; tutte le classi devono approvare salvo cram-down interclassi ex art.112 co.2 (tribunale può omologare se almeno una classe assenziente, nessuna tratta meglio di rango inferiore, e dissentienti soddisfatti ≥alternativa).Tribunale ammette e nomina commissario; conferisce eventuali autorizzazioni (es. affitto d’azienda). Omologa se esito voto favorevole (o condizionidi cram-down) e requisiti rispettati (continuità vantaggiosa per creditori rispetto liquidazione, ogni creditore ha utilità individuata).Debitore prosegue l’attività sotto vigilanza, può cedere l’azienda o parte di essa nel piano. Creditori privilegiati eventualmente ristrutturati con consenso o pagamento integrale in futuro; chirografari prendono % in base a risultati continuità. Se piano riesce, azienda salva e debiti residui cancellati. Se fallisce (risoluzione), si passa a liquidazione giudiziale.
Concordato Semplificato (Liquidatorio)Procedura concorsuale straordinaria, post-composizione negoziata, per liquidare beni senza voto creditori.Ammissibile solo se trattative di composizione negoziata concluse senza accordo. Domanda entro 60 gg da esito negativo. Piano di cessione dei beni con indicazione tempi e modalità. Nessuna soglia su % pagamenti, ma richiesta buona fede e rispetto par condicio.Nessun voto dei creditori. Creditori possono esporre opposizioni in sede di omologa, ma non decidono. Classi facoltative (dopo correttivo 2024) per trattamenti differenziati eventuali.Tribunale valuta presupposti (esito composizione negoziata e correttezza); verifica piano (con eventuale ausilio di esperto) e convenienza per creditori estranei (≥valore liquidazione fallimentare). Omologa senza voto, nominando liquidatore.Debitore cede l’intero patrimonio sotto controllo del liquidatore nominato. Niente commissario prima, nessun spossessamento fino a omologa. Dopo, liquidatore gestisce vendite e distribuzione secondo legge (privilegi, ecc.). Creditori non possono reclamare differenze: accettano quanto distribuito. Procedura più rapida e meno costosa di fallimento; al termine il debitore persona fisica può chiedere esdebitazione.
Concordato MinoreComposizione della crisi (sovraindebitamento) per piccoli imprenditori/non fallibili, analogo a concordato preventivo ma dimensione ridotta.Debitore non soggetto a fallimento (impresa sotto soglia o persona non imprenditore) in situazione di sovraindebitamento. Deve presentare piano con qualsiasi forma (continuità o liquidazione). Verifica meritevolezza (assenza dolo/mala fede grave).Voto dei creditori richiesto: ≥60% dei crediti chirografari (come vecchio accordo L.3/2012). Classi possibili ma di solito non numerose.Gestito dall’OCC (Organismo Composizione Crisi) con nomina di un Gestore della crisi (ruolo simile a commissario). Tribunale omologa se maggioranza raggiunta e piano regolare, valutando eventuali opposizioni (specie fisco se dissenziente).Debitore esegue il piano sotto supervisione OCC; una volta eseguito ottiene liberazione integrale dai debiti residui (esdebitazione). Creditori percepiscono percentuali spesso modeste ma comunque >0%. Se fallisce piano, possibile liquidazione controllata.
Liquidazione ControllataLiquidazione giudiziale per sovraindebitati (ex “fallimento” dei non fallibili).Qualunque debitore non fallibile insolvente; accessibile su richiesta del debitore, creditore o PM.No voto (è liquidazione concorsuale). Tutti i creditori concorrono secondo legge (privilegi etc.).Tribunale nomina liquidatore (spesso OCC) e giudice delegato. Procedura simile a fallimento ma semplificata e meno stigmatizzante.Patrimonio liquidato, creditori soddisfatti proporzionalmente. Debitore persona fisica ottiene esdebitazione dei debiti insoddisfatti su istanza (salvo eccezioni di legge). Prevista esdebitazione “incapiente” immediata (una tantum) se nulla da distribuire.
Piano del Consumatore (Ristrutturazione Debiti del Consumatore)Procedura di sovraindebitamento dedicata alle persone fisiche non imprenditori per ristrutturare i debiti con mantenimento di standard di vita dignitoso.Debitore persona fisica che ha contratto debiti per scopi estranei ad attività imprenditoriale. Deve essere meritevole (no colpa grave o frode nell’indebitamento). Piano deve offrire ai creditori almeno quanto otterrebbero da liquidazione.Nessun voto dei creditori: piano sottoposto direttamente ad omologa. Creditori possono fare osservazioni/opposizioni se contrari.Tribunale (o giudice) valuta fattibilità e convenienza del piano e soprattutto la meritevolezza del debitore. Omologa anche senza consenso creditori, eventualmente modificando importi se necessario per equità.Debitore paga secondo piano (rate sostenibili da reddito o liquidazione parziale beni) e mantiene una parte di reddito per sé. Al termine esdebitazione completa. Creditori obbligati ad accettare decurtazioni/dilazioni previste, salvo annullamento piano per dolo del debitore.

La tabella evidenzia come gli strumenti “in bonis” (composizione negoziata, piano attestato) puntino sul consenso totale e abbiano minima ingerenza giudiziale, offrendo flessibilità ma richiedendo cooperazione dei creditori. Gli accordi e piani soggetti a omologa introducono il controllo giudiziale e possono coinvolgere solo maggioranze qualificate, lasciando però estranei i dissenzienti (salvo meccanismi di cram-down per categorie). I concordati preventivi e semplificati sono vere e proprie procedure concorsuali sotto la direzione del tribunale, con effetti più estesi e vincolanti anche sui non consenzienti, ma con maggiore formalità e costi.

In generale, per imprenditori e avvocati, la scelta dello strumento dipende da vari fattori: la gravità della crisi, la disponibilità dei creditori a negoziare, la necessità di protezione immediata, la presenza di un potenziale investitore, i tempi a disposizione e i costi sostenibili. Un criterio fondamentale è la tempestività: prima si interviene, più opzioni (meno drastiche) saranno percorribili. Ad esempio, se si intercetta la crisi in fase di squilibrio iniziale, un piano attestato o un accordo stragiudiziale possono bastare. Se si arriva a insolvenza conclamata con molti creditori conflittuali, sarà necessario un concordato o accordo omologato.

12. Conclusioni

“Evitare il fallimento” non significa solo scongiurare la dichiarazione formale di fallimento, ma gestire la crisi in modo ordinato e proattivo, minimizzando le perdite per i creditori e massimizzando le chance di salvaguardare il valore d’impresa. Il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, nella sua versione aggiornata al 2025, mette a disposizione un arsenale di strumenti che – se ben compresi e utilizzati – consentono di affrontare quasi ogni situazione di difficoltà.

Per gli imprenditori, il messaggio è chiaro: non esiste più (o quantomeno si è ridotto molto) lo stigma dell’insolvenza, a patto di agire tempestivamente e con trasparenza. Attendere passivamente peggiora solo lo scenario. Al contrario, attivando ad esempio una composizione negoziata al primo segnale di allarme finanziario, l’imprenditore dimostra responsabilità e può persino rafforzare la fiducia dei partner: molti fornitori o banche preferiscono trattare all’ombra di una cornice legale piuttosto che scoprire all’ultimo di aver perso tutto in un fallimento improvviso. Dunque, conoscere e saper scegliere lo strumento adatto è parte integrante del ruolo imprenditoriale moderno. Bisogna valutare: ho un problema di liquidità temporaneo risolvibile con nuova finanza? (allora forse basta un piano attestato). Ho un eccesso di debito strutturale ma l’azienda è sana operativamente? (forse un accordo di ristrutturazione o un PRO, magari con new investor). L’attività non è più sostenibile e devo chiudere? (meglio farlo con un concordato semplificato, evitando ai creditori la lunga attesa di un fallimento).

Per gli avvocati e i professionisti della crisi d’impresa, la sfida è di essere registi competenti di queste procedure: occorre unire competenze legali, aziendali e negoziali. Un bravo advisor deve saper interloquire con gli organi giudiziari (presentando piani solidi, attestazioni ben fondate), ma anche comunicare con i creditori (in assemblee o trattative, spiegando la convenienza del piano rispetto alle alternative). Importante è anche restare aggiornati sulle evoluzioni normative: come abbiamo visto, tra 2020 e 2024 ci sono stati diversi interventi (decreti correttivi, recepimento direttiva UE, innovazioni come il concordato semplificato) che hanno cambiato la disciplina. Nuove prassi giurisprudenziali stanno formandosi (ad esempio sulle percentuali di consenso richieste, sull’interpretazione della continuità indiretta, sui cram-down fiscali), e l’avvocato deve saperle padroneggiare, magari citando le ultime sentenze di Cassazione a supporto delle proprie istanze. Inoltre, la dimensione etica e di trasparenza è cruciale: i tribunali, specie dopo i noti abusi del passato, sono attenti a sanzionare chi tenta concordati o accordi in frode (es. occultando attivi, favorendo parti correlate indebitamente). Cassazione ha affermato principi rigorosi su doveri dell’attestatore e buona fede del debitore. Il professionista deve guidare il cliente sulla strada della correttezza, ricordandogli che giocare d’azzardo con la legge della crisi porta quasi sempre a un rigetto o, peggio, a responsabilità penali.

In conclusione, “Come evitare il fallimento” oggi significa soprattutto “come scegliere lo strumento giusto al momento giusto”. Il fallimento (liquidazione giudiziale) resta come ultima spiaggia per chi non ha saputo o potuto utilizzare altri mezzi; ma il legislatore ha costruito una rete di protezione con maglie sempre più strette per prendere l’impresa prima che cada nel baratro definitivo. Ciò richiede però volontà e capacità di attivarsi. Come si evince anche dagli esempi settoriali, ogni crisi ha la sua “via di uscita” preferenziale: sta all’imprenditore illuminato e ai suoi consulenti individuarla e percorrerla. Salvare un’azienda in difficoltà non è semplice, ma oggi è possibile farlo con molti percorsi legalmente assistiti – dalla trattativa privata all’ingresso di nuovi soci, dalla ristrutturazione del debito alla continuità aziendale protetta, fino alla liquidazione consensuale.

L’obiettivo del Codice e degli interpreti (giudici, professionisti) è comune: favorire soluzioni che preservino il valore e soddisfino i creditori in misura migliore di quanto farebbe una disgregazione fallimentare. Quando questo avviene, si hanno casi di successo in cui, pur “fallendo” un certo modello o una certa gestione, non fallisce l’impresa intesa come insieme di persone, competenze, valore economico che continua in altra forma. E anche l’imprenditore ha l’opportunità di imparare dalla crisi e ripartire (grazie all’esdebitazione), invece di restare sepolto dai debiti. In definitiva, evitare il fallimento significa saper concludere la crisi nel modo meno distruttivo e più equo possibile, obiettivo al cuore di tutti gli strumenti del Codice della crisi d’impresa.

13. Bibliografia e Riferimenti Normativi

Normativa:

  • D.Lgs. 12 gennaio 2019 n. 14 – Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (CCII), in vigore dal 15 luglio 2022, come modificato dai decreti correttivi e attuativo direttiva Insolvency. Principali modifiche: D.Lgs. 17 giugno 2022 n. 83 (attuazione direttiva UE 2019/1023); D.Lgs. 13 ottobre 2022 n. 149 (c.d. “correttivo bis/ter”); D.Lgs. 13 settembre 2024 n. 136 (c.d. “correttivo ter”).
  • D.L. 24 agosto 2021 n. 118, conv. in L. 147/2021 – Misure urgenti crisi d’impresa, ha introdotto la composizione negoziata e il concordato semplificato (artt. 2-17 D.L. 118/21 confluiti negli artt. 17-25-sexies CCII).
  • Legge 27 gennaio 2012 n. 3 (vecchia legge sovraindebitamento) e D.M. 202/2014 – normative previgenti in materia di crisi da sovraindebitamento, confluite nel CCII Titolo V.
  • R.D. 16 marzo 1942 n. 267 – Vecchia Legge Fallimentare, abrogata dal CCII salvo che per procedure pendenti ante 15/7/2022 (art. 390 CCII dispone regime transitorio).
  • Direttiva (UE) 2019/1023 del Parlamento Europeo e Consiglio – sulla ristrutturazione preventiva e insolvency (c.d. “Direttiva Insolvency”), recepita in Italia col D.Lgs. 83/2022.

Giurisprudenza:

  • Corte di Cassazione, Sez. I civ., 10 gennaio 2024 n. 1033 – ha chiarito il regime del “cram-down fiscale” nel concordato preventivo (art. 180 L.F.) confermando che l’omologa con cram-down fiscale segue il rito ordinario (reclamo ex art.183 L.Fall) e non costituisce procedimento autonomo.
  • Corte di Cassazione, Sez. I, 12 aprile 2023 n. 9730 – ha affermato la natura concorsuale del concordato semplificato ex D.L.118/2021, con applicabilità analogica delle norme sul concordato preventivo (es. competenza territoriale).
  • Corte di Cassazione, Sez. I, 29 dicembre 2023 n. 36401 – ha delineato la responsabilità dell’attestatore nel concordato preventivo per omissione di informazioni rilevanti: l’attestatore risponde se omette fatti significativi sul patrimonio del debitore nella relazione ex art.161 co.3 L.Fall.
  • Corte di Cassazione, Sez. I, 30 novembre 2023 n. 33346 – ha ribadito che il decreto di omologa del concordato preventivo non fa stato (non ha autorità di giudicato) sulla sussistenza, entità e grado dei crediti insinuati. Eventuali errori nell’ammissione o classificazione dei crediti non possono essere corretti in sede di omologa se non influiscono sulle maggioranze, e comunque non pregiudicano azioni future del creditore.
  • Corte di Cassazione, Sez. I, 22 ottobre 2024 n. 27345 – ha chiarito che nel concordato preventivo i creditori non votanti non sono equiparati ai dissenzienti ai fini delle notifiche del decreto di omologa: non serve notifica individuale se hanno semplicemente omesso di votare.
  • Corte di Cassazione, Sez. I, 20 luglio 2023 n. 18903 – ha evidenziato i limiti del sindacato di fattibilità del tribunale: l’omologa del concordato non comporta giudicato su diritti dei creditori ed il giudice non può alterare le posizioni soggettive se non per quanto attiene a regolarità del procedimento.
  • Corte di Cassazione, Sez. I, 26 luglio 2023 n. 22699 – in materia di sovraindebitamento, ha fornito interpretazione sulla “meritevolezza” del consumatore e sulla possibilità di falcidiare debiti tributari nel piano del consumatore (confermando approcci già delineati nel 2019 da Cass.17834/2019).
  • Corte di Cassazione, Sez. Un., 25 gennaio 2013 n. 1521 – (vecchia, ma rilevante in continuità) affermò che il controllo del giudice sul concordato riguarda la fattibilità giuridica, mentre la fattibilità economica spetta al giudizio dei creditori, salvo ipotesi di palese inattuabilità. Principio ora recepito in art.112 CCII: tribunale verifica attuabilità concreta e vantaggiosità rispetto a liquidazione, ma non entra nel merito del piano se non per evidenti anomalie.
  • Tribunale di Milano, decreto 22 novembre 2023 – ha precisato che nelle composizioni negoziate le misure protettive ex art.19 CCII hanno durata massima di 240 giorni e che la proroga può concedersi senza nuova audizione creditori. Ha inoltre evidenziato coordinamento tra misure protettive e cautelari ex art.17 CCII.
  • Tribunale di Napoli, decreto 25 ottobre 2023 – caso in cui è stata revocata l’ammissione di un concordato semplificato e dichiarato il fallimento, a causa della condotta scorretta del debitore durante la composizione negoziata (violazione buona fede). Sottolinea che anche il concordato semplificato richiede presupposti di correttezza e che un abuso porta all’immediata conversione in liquidazione giudiziale.
  • Tribunale di Forlì, decreto 28 marzo 2024 – ha anticipato la riforma 2024 ritenendo ammissibile l’articolazione in classi di creditori in un concordato semplificato, pur in assenza di voto, al fine di differenziare trattamenti. Ha motivato che ciò non contrasta col carattere semplificato e può anzi facilitare equità tra creditori. Confermato poi dal D.Lgs.136/2024.
  • Tribunale di Mantova, ordinanza 16 febbraio 2024 – (in ambito gruppo di imprese) ha esaminato l’applicabilità delle misure protettive in composizione negoziata di gruppo, suggerendo approccio estensivo.
  • Corte Costituzionale, sentenza 17 ottobre 2023 n. 190 – ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità dell’art. 25-novies CCII sollevate da alcuni giudici (obbligo di segnalazione dei creditori pubblici “qualificati” al superamento soglie). La Consulta ha ritenuto tali obblighi compatibili con Costituzione (equilibrio tra diritti debitore e tutela credito pubblico).
  • Corte Costituzionale, sentenza 19 gennaio 2024 n. 6 – ha rigettato le questioni su durata minima e massima del concordato preventivo sollevate sotto il profilo di ragionevolezza (nel contesto della riforma Cartabia, riguardo termini procedurali), confermando la discrezionalità del legislatore nell’imporre termini acceleratori per le procedure concorsuali.
  • Corte Costituzionale, sentenza 1° luglio 2024 n. 115 – (cit. da ilCaso.it) ha affrontato un tema relativo alle soglie di allerta e alla legittimità del regime sanzionatorio per mancata segnalazione, ma soprattutto ha richiamato la necessità di un’applicazione proporzionata delle misure di allerta. (Da includere come riferimento alla disciplina dell’allerta).

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Conclusione

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