Quanto Costa la Liquidazione Giudiziale?

IHai un’impresa in grave difficoltà o sei un imprenditore che teme l’apertura di una procedura di liquidazione giudiziale (ex fallimento)? Ti stai chiedendo quanto può costare affrontare questa procedura e se esistono soluzioni più convenienti per uscire dalla crisi?

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto fallimentare, crisi d’impresa e responsabilità patrimoniale – ti spiega in modo chiaro e concreto quali sono i costi diretti e indiretti della liquidazione giudiziale, cosa devi sapere prima di arrivarci e come difenderti da rischi personali, professionali e patrimoniali.

Scopri quali sono le spese iniziali (come contributo unificato, spese di giustizia, onorari del curatore), quali costi emergono durante la procedura (relazioni, inventari, gestione dei beni), chi paga in caso di attivo insufficiente, e quali possono essere le conseguenze per amministratori e soci, anche dopo la chiusura.

Alla fine della guida troverai tutti i contatti per richiedere una consulenza riservata con l’Avvocato Monardo, analizzare la situazione della tua azienda e costruire una strategia alternativa alla liquidazione giudiziale, per risparmiare, tutelarti e ristrutturare i debiti prima che sia troppo tardi.

Introduzione

La liquidazione giudiziale è la procedura concorsuale che, a seguito della riforma del Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII, D.Lgs. 12 gennaio 2019 n. 14 e successive modifiche), ha sostituito il tradizionale fallimento nel diritto italiano. Si tratta di uno strumento giudiziario finalizzato alla liquidazione del patrimonio di un’impresa insolvente sotto il controllo di un tribunale, con l’obiettivo di soddisfare collettivamente i creditori secondo l’ordine delle cause di prelazione. Per avvocati e imprenditori con competenze giuridiche avanzate, comprendere quanto costa la liquidazione giudiziale è fondamentale sia per valutare l’impatto economico diretto della procedura, sia per ponderare gli effetti indiretti e confrontarla con soluzioni alternative di regolazione della crisi d’impresa.

Il presente approfondimento, aggiornato a maggio 2025, esamina dettagliatamente tutti i costi – espliciti ed occulti – connessi all’apertura e allo svolgimento di una liquidazione giudiziale. Verranno analizzati i costi diretti (oneri procedurali, compensi degli organi della procedura, spese legali e amministrative, contributi dovuti, ecc.) e i costi indiretti (come la perdita dell’avviamento aziendale, il danno reputazionale e le conseguenze fiscali) che l’imprenditore e i creditori possono subire durante la procedura. Saranno citate fonti normative (in particolare le disposizioni del Codice della Crisi e i decreti attuativi) e le più recenti pronunce giurisprudenziali (sentenze della Corte di Cassazione e decisioni di merito) per fornire un quadro giuridico aggiornato e puntuale.

Oltre ai costi propri della liquidazione giudiziale, la guida propone un confronto con gli altri strumenti di gestione della crisi d’impresa introdotti o disciplinati dalla riforma: il concordato preventivo, il concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio (introdotto dal D.L. 118/2021, conv. in L. 147/2021) e la composizione negoziata della crisi. Questo confronto aiuterà a valutare le alternative al fallimento in termini di oneri economici e tempistiche, evidenziando vantaggi e svantaggi di ciascun istituto.

La trattazione approfondirà anche le responsabilità patrimoniali e personali che la liquidazione giudiziale comporta per i diversi soggetti coinvolti: l’imprenditore (o i soci nel caso di società), gli amministratori e gli organi di controllo (sindaci e revisori) della società fallita, nonché gli organi della procedura concorsuale stessa (in particolare il curatore fallimentare e, se del caso, il giudice delegato). Capire in quali casi tali soggetti possono essere chiamati a rispondere con il proprio patrimonio personale – per mala gestio, ritardata dichiarazione di insolvenza o altre violazioni di legge – è essenziale per valutare i “costi” potenziali in senso lato associati alla procedura.

Saranno incluse simulazioni pratiche di calcolo dei costi di una liquidazione giudiziale in diversi scenari tipici: una società di capitali (es. una S.r.l. commerciale), una società di persone (es. una S.n.c. nel settore edilizio) e un’impresa individuale manifatturiera. Questi esempi numerici illustreranno come stimare i compensi del curatore e le altre spese procedurali in base alla dimensione dell’attivo e del passivo, nonché come i costi indiretti possono variare a seconda del tipo di attività e del settore.

Infine, è presente una sezione di Domande e Risposte (FAQ) che affronta in modo sintetico i quesiti operativi e strategici più frequenti relativi ai costi della liquidazione giudiziale – ad esempio chi anticipa le spese, come si collocano in graduatoria i compensi, quali misure si possono adottare per contenere i costi, e così via. Sono fornite anche tabelle riepilogative che sintetizzano i costi medi e le tempistiche tipiche della liquidazione giudiziale a confronto con concordato preventivo, concordato semplificato e composizione negoziata, evidenziando le principali differenze tra questi istituti in termini di oneri economici e durata.

Quadro Normativo e Aspetti Generali della Liquidazione Giudiziale

Per contestualizzare i costi, è opportuno delineare brevemente il quadro normativo della liquidazione giudiziale e i suoi presupposti, alla luce della riforma del Codice della Crisi. La liquidazione giudiziale è disciplinata dal CCII (D.Lgs. 14/2019), entrato pienamente in vigore dal 15 luglio 2022 dopo vari rinvii e correttivi, che ha innovato profondamente la legislazione concorsuale italiana. In particolare, il termine “fallimento” è stato eliminato dal lessico normativo e sostituito con “liquidazione giudiziale”, per attenuare lo stigma terminologico e sottolineare la natura liquidatoria (piuttosto che sanzionatoria) della procedura.

Presupposti di apertura: Possono essere assoggettati a liquidazione giudiziale gli imprenditori commerciali insolventi che superano determinate soglie dimensionali previste dalla legge (le stesse che un tempo delimitavano la fallibilità). Il presupposto oggettivo è lo stato d’insolvenza, definito dall’art. 2, co. 1, lett. b) CCII come l’incapacità del debitore di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni (cioè il perdurante e non transitorio stato di impotenza finanziaria). Sul piano soggettivo, restano esclusi dalla procedura gli imprenditori minori (sotto soglia), gli imprenditori agricoli e altri soggetti espressamente non assoggettabili per legge, i quali in caso di insolvenza ricadono semmai nelle procedure di sovraindebitamento ex L. 3/2012 (oggi inserite nel CCII). Possono richiedere l’apertura della liquidazione giudiziale diversi soggetti: lo stesso debitore (istanza di autofallimento), uno o più creditori, il Pubblico Ministero in taluni casi. La competenza è del Tribunale del luogo in cui l’impresa ha la sede principale.

Procedimento dichiarativo: La fase iniziale (prefallimentare) consiste in un ricorso al tribunale, seguito da un’istruttoria in camera di consiglio nella quale il debitore può contraddire e proporre soluzioni alternative (come un concordato preventivo). Se lo stato di insolvenza risulta accertato e non vi sono soluzioni negoziali praticabili, il Tribunale pronuncia la sentenza dichiarativa di liquidazione giudiziale, che costituisce l’atto formale di apertura della procedura. Con la sentenza vengono nominati gli organi della procedura – il Giudice Delegato (GD) e il Curatore – e contestualmente si spossessa l’imprenditore della gestione dei suoi beni (che passano sotto l’amministrazione del curatore). La sentenza può anche contenere ulteriori disposizioni, ad esempio autorizzare l’esercizio provvisorio dell’impresa (in tutto o in parte) quando funzionale a conservare il valore dell’azienda in vista di una possibile cessione unitaria. Dalla sentenza decorrono una serie di effetti immediati su debitore e creditori (divieto di azioni esecutive individuali, sospensione degli interessi sui crediti chirografari, scioglimento o sospensione di contratti pendenti salvo diversa decisione del curatore, ecc.), che il CCII disciplina in continuità con la vecchia legge fallimentare.

Durata della procedura: Uno degli obiettivi della riforma era accelerare i tempi di chiusura delle procedure liquidatorie. In sede di introduzione del Codice della Crisi, si auspicava una durata entro 2 anni; tale obiettivo è stato successivamente rivisto. All’esito delle modifiche apportate dal decreto correttivo del 2023-2024, oggi l’art. 213 CCII stabilisce che la liquidazione dell’attivo debba completarsi entro 5 anni dalla sentenza di apertura, salvo proroghe concesse dal GD in casi eccezionali di particolare complessità (ad es. beni di difficile vendita). In pratica, il curatore nel suo programma di liquidazione deve prevedere la vendita dei beni e la chiusura entro questo termine quinquennale, e il giudice può autorizzare una proroga oltre i 5 anni solo per completare vendite ancora in corso, motivandola specificamente. Questo tetto normativo, introdotto col correttivo 2024, mira a evitare i fallimenti “infiniti” del passato e a incentivare i curatori a definire la procedura in tempi ragionevoli. Va detto, tuttavia, che la durata effettiva di una liquidazione giudiziale dipende molto dalla composizione dell’attivo: procedure con attivo semplice e liquido (es. solo crediti prontamente esigibili) possono chiudersi anche in tempi brevi (1-2 anni), mentre procedure con molti beni immobili da vendere o cause legali pendenti possono ancora richiedere diversi anni, pur nel limite legale. In ogni caso, per legge, decorso il quinquennio il curatore dovrà affrettarsi a chiudere la procedura (eventualmente anche cedendo ai creditori eventuali beni rimasti invenduti), oppure chiedere una proroga motivata al tribunale; superata questa soglia temporale, aumentano comunque le pressioni per la chiusura.

In questo contesto normativo si innestano i costi della liquidazione giudiziale, che affronteremo nel dettaglio. È importante notare che molti costi (in primis il compenso del curatore e le spese di giustizia) godono per legge di una collocazione privilegiata rispetto agli altri debiti: sono considerati crediti prededucibili, ossia vengono soddisfatti con precedenza assoluta sul ricavato dell’attivo prima di ogni altro credito (anche ipotecario). Di conseguenza, i costi della procedura riducono direttamente la percentuale di attivo distribuibile ai creditori concorrenti. Questo è un elemento cruciale: una procedura concorsuale costosa e lunga erode la soddisfazione dei creditori e può disincentivare iniziative liquidatorie quando l’attivo atteso è modesto. La legge cerca di bilanciare tale effetto prevedendo, ad esempio, compensi proporzionati all’attivo realizzato e meccanismi per evitare spese inutili in caso di attivo insufficiente (come vedremo, il CCII consente la chiusura anticipata per insufficienza di attivo senza neppure procedere all’accertamento del passivo, proprio per non aggravare la situazione quando non c’è nulla da distribuire).

Nei paragrafi seguenti analizzeremo dapprima i costi diretti della liquidazione giudiziale (contributi e bolli, compensi agli organi, spese varie), poi i costi indiretti sul patrimonio e sull’attività dell’impresa. In seguito li confronteremo con quelli delle procedure alternative (concordati e composizione negoziata), per poi approfondire le responsabilità economiche dei soggetti coinvolti, presentare esempi pratici e rispondere a FAQ operative. Procediamo quindi con l’esame dettagliato dei costi nella liquidazione giudiziale.

Costi Diretti della Liquidazione Giudiziale

I costi diretti della liquidazione giudiziale sono quegli esborsi che la procedura concorsuale comporta in via immediata e quantificabile. Essi includono sia importi da pagare all’inizio o durante il processo (ad esempio il contributo unificato all’atto del ricorso, le spese di procedura via via sostenute dal curatore), sia soprattutto i compensi spettanti agli organi e ai professionisti coinvolti, che normalmente vengono liquidati dal tribunale e prelevati dall’attivo a fine procedura. Possiamo distinguere diverse categorie di costi diretti:

  • Costi di avvio della procedura (contributo unificato, marche da bollo, eventuale fondo spese iniziali).
  • Compenso del Curatore (organo gestore della procedura).
  • Compensi di altri organi o ausiliari, se previsti (ad es. Comitato dei creditori, sebbene non remunerato, ed eventuali coadiutori, periti, legali nominati durante il fallimento).
  • Spese generali di procedura (spese di giustizia, spese di custodia beni, spese di vendita, pubblicità legale, ecc.).
  • Oneri fiscali durante la procedura, considerati anch’essi spese prededucibili (es. IVA e imposte legate alle operazioni compiute dal curatore).

Esaminiamo ciascuna di queste voci nel dettaglio.

Contributo unificato, bolli e spese di avvio

L’accesso alla procedura concorsuale comporta il pagamento di un contributo unificato al momento del deposito del ricorso per la dichiarazione di liquidazione giudiziale. Si tratta di un importo fisso – indipendente dal valore del fallimento – previsto dal Testo Unico Spese di Giustizia (D.P.R. 115/2002) per i procedimenti in camera di consiglio. Attualmente, il contributo unificato per l’istanza di fallimento è pari a €98,00, cui si aggiunge la marca da bollo da €27,00 per diritti forfettari. In totale, dunque, circa €125 per avviare la procedura. Questo importo è dovuto sia che a presentare l’istanza sia un creditore istante, sia che sia lo stesso debitore in autofallimento (non vi sono differenze di importo in tal senso).

Alcune categorie di istanti sono esonerate dal versamento del contributo unificato: in particolare, i lavoratori dipendenti che chiedono il fallimento del proprio datore di lavoro insolvente (ad esempio per ottenere accesso al Fondo di Garanzia INPS) non pagano il contributo. Questa esenzione mira a facilitare l’accesso dei creditori-lavoratori alla tutela concorsuale.

In aggiunta al contributo e ai bolli, in alcuni tribunali è prassi richiedere al creditore istante un deposito cauzionale iniziale per anticipare le prime spese vive della procedura. Si tratta di un versamento (di importo variabile, spesso €500 – €1.000) che serve a coprire costi urgenti come notifiche, sopralluoghi, custodia immediata dei beni, nel caso in cui la procedura all’inizio sia priva di liquidità disponibile. Ad esempio, se si deve subito sigillare un magazzino o notificare centinaia di PEC ai creditori, il tribunale preferisce avere un piccolo fondo cassa. Formalmente, il CCII prevederebbe che a tali prime spese provveda il Fondo spese di giustizia statale (anticipazione a carico dell’erario), ma nella prassi molti uffici giudiziari preferiscono cautelarsi richiedendo questo deposito iniziale all’istante. Se poi emergono attivi in procedura, il creditore che ha anticipato la cauzione verrà rimborsato in prededuzione; viceversa, se la procedura risulta incapiente, quel deposito potrà andare perduto per l’istante (rappresentando dunque un costo a carico del creditore procedente). In caso di istanza di autofallimento proposta dallo stesso debitore, di solito non si chiede deposito cauzionale (dato che il debitore insolvente difficilmente disporrebbe di liquidità); alcune spese iniziali essenziali saranno in tal caso prenotate a debito (anticipate dallo Stato).

Compenso del Curatore Fallimentare

Il curatore (o curatore fallimentare, oggi curatore della liquidazione giudiziale) è la figura centrale della procedura: è il gestore dell’intero patrimonio fallimentare e il responsabile della liquidazione e riparto dell’attivo. Il suo compenso professionale rappresenta normalmente la voce di costo più significativa della procedura concorsuale.

La determinazione del compenso del curatore è disciplinata dalla legge e da specifici decreti ministeriali. Attualmente, i criteri sono stabiliti dal D.M. 21 giugno 2021, che ha modificato il precedente D.M. 2016 (a sua volta discendente dal D.M. 30/2012) in adeguamento al Codice della Crisi. Il compenso è commisurato principalmente al risultato della gestione: viene infatti calcolato a scaglioni percentuali sull’attivo realizzato e sul passivo esaminato. In altri termini, si somma il valore di realizzo dell’attivo (cioè l’ammontare effettivamente ricavato dalle vendite e recuperi durante la procedura) con l’ammontare del passivo concursuale esaminato (ossia i debiti ammessi al passivo), e su tale somma si applicano aliquote a scaglioni decrescenti. Questa formula intende remunerare il curatore sia per l’attività di liquidazione (attivo realizzato) sia per l’attività di accertamento del passivo (esame e verifica dei crediti).

A titolo di esempio indicativo, le aliquote attualmente previste sono all’incirca: 12% sui primi €15.000 di attivo + passivo, 9% sulla fascia da €15.000 a €75.000, percentuali via via decrescenti fino a circa 1% oltre i €50 milioni. Ciò significa che per una procedura di piccole dimensioni (es. attivo €15.000) il curatore prenderebbe attorno a €1.800; per masse maggiori le percentuali calano progressivamente. È comunque previsto un compenso minimo garantito di €800 (anche se, applicando le percentuali, venisse una cifra inferiore). Inoltre il tribunale ha facoltà di applicare maggiorazioni o riduzioni fino al 40% sul compenso risultante, tenendo conto della particolare difficoltà o semplicità della procedura, della qualità dei risultati ottenuti e della tempestività dell’operato del curatore. Ad esempio, in un fallimento molto complesso con attività straordinaria, il giudice può aumentare il compenso sino al +40%; viceversa, in una procedura banale o gestita con lentezza, può ridurlo sino al -40%.

Il pagamento del compenso avviene di regola a fine procedura, con decreto di liquidazione del tribunale su relazione conclusiva, ed è a carico della massa attiva in prededuzione. Ciò significa che il curatore verrà pagato con i soldi ricavati dalla liquidazione prima che questi vengano distribuiti ai creditori (ha priorità assoluta sui riparti). È comunque possibile, nelle procedure lunghe, che il tribunale riconosca al curatore acconti sul compenso in corso di procedura, specie dopo la liquidazione di beni importanti, per evitare che debba attendere anni senza remunerazione.

Un aspetto critico è cosa accade se l’attivo non è sufficiente a pagare il compenso dovuto al curatore. Il legislatore, bilanciando l’interesse pubblico a svolgere le procedure anche quando poco capienti, prevede che il curatore possa attingere a un Fondo di Garanzia statale per la parte di compenso non coperta dall’attivo. Tale fondo (gestito dal Ministero della Giustizia) interviene quindi a integrazione, entro certi limiti, per garantire almeno in parte la remunerazione del curatore nei fallimenti poveri. In passato, la Corte Costituzionale aveva escluso che l’intero compenso potesse gravare sull’erario per ragioni di equilibrio finanziario (sent. n. 174/2006): la soluzione attuale è un compromesso per cui il compenso è dovuto “nei limiti dell’attivo disponibile” e solo una parte minoritaria può essere richiesta allo Stato. Se la procedura è totalmente priva di attivo – caso di liquidazione chiusa per insufficienza – il curatore ha comunque diritto per legge a un compenso ridotto forfettario, di entità modesta, anch’esso a carico dello Stato. Ad esempio, oggi è previsto un fisso di poche centinaia di euro in tali casi, proprio a riconoscimento dell’attività svolta dal curatore anche se non ci sono beni. In ogni caso, la regola generale rimane che il compenso del curatore è un costo necessario e prededucibile della procedura, da pagarsi al di fuori del riparto e prima di ogni altro debito, in quanto senza la figura del curatore la procedura non potrebbe neppure aver luogo.

In sintesi, il compenso del curatore incide significativamente sul costo totale della liquidazione giudiziale. In termini percentuali sul realizzo, si può stimare che in una procedura di media complessità il compenso complessivo del curatore si aggiri attorno al 5-10% dell’attivo liquidato, ma può variare in base alle dimensioni (più alto percentualmente nei micro-fallimenti, più basso in quelli grandi per via delle aliquote decrescenti). È un costo che di fatto riduce i ritorni ai creditori, ma che è considerato imprescindibile (“costo di giustizia”) per assicurare la gestione imparziale e qualificata del dissesto.

Compensi di altri organi e ausiliari della procedura

Oltre al curatore, nella liquidazione giudiziale operano altri soggetti che possono dare luogo a costi diretti, anche se in misura generalmente minore:

  • Comitato dei Creditori: È l’organo collegiale consultivo formato da 3 o 5 creditori nominati dal Tribunale, con funzione di vigilanza e pareri sugli atti del curatore. I membri del Comitato dei Creditori non percepiscono alcun compenso per la loro funzione. La loro opera si considera un munus honorario, e al massimo hanno diritto al rimborso delle spese vive documentate che abbiano eventualmente sostenuto per partecipare alle attività (es. spese di viaggio per riunioni). Dunque, il Comitato non rappresenta un costo significativo: incide solo marginalmente se i suoi membri chiedono rimborsi di piccole somme. Ciò rispecchia la natura pubblicistica del loro incarico (partecipano per tutelare gli interessi della massa creditoria, non per lucro personale).
  • Giudice Delegato: Il GD è il magistrato che sovrintende alla procedura. Non ha compensi aggiuntivi poiché agisce nell’ambito delle sue funzioni giurisdizionali. Dunque il giudice non costituisce un costo a carico della procedura (la sua attività è retribuita dallo Stato come parte dell’amministrazione della giustizia). Salvo casi eccezionali (ad es. responsabilità civile aggravata), non vi è incidenza patrimoniale per le parti dalla presenza del giudice.
  • Ausiliari del giudice o del curatore: Spesso durante il fallimento vengono nominati professionisti ausiliari per svolgere compiti specifici. Rientrano in questa categoria i CTU e periti stimatori (ad es., un esperto per valutare un immobile o un’azienda da vendere), i coadiutori tecnici del curatore (un consulente contabile, un commercialista o avvocato che affianca il curatore in attività specialistiche), gli avvocati incaricati dal curatore per promuovere o resistere a cause attive/passive, i notai delegati per vendite all’asta, ecc. Questi ausiliari hanno diritto a un compenso per la loro opera, che viene determinato caso per caso dal giudice delegato o dal tribunale, solitamente a fine incarico, in base alle tariffe professionali applicabili: ad esempio per gli avvocati si applicano i parametri forensi (D.M. 55/2014 e s.m.), per i periti si fa riferimento alle tabelle dei CTU, etc.. Tali compensi sono a carico della massa e pagati in prededuzione, previa autorizzazione del GD sia alla nomina dell’ausiliario sia alla liquidazione della parcella. Il curatore infatti deve chiedere autorizzazione prima di assumere consulenti esterni e anche per poter pagare le relative fatture. Questi costi possono essere significativi in procedure complesse: si pensi a un fallimento con molti immobili che richiede varie perizie di stima, oppure a un contenzioso milionario dove il curatore deve pagare avvocati per diversi gradi di giudizio. Anche tali spese, se l’attivo è scarso, possono gravare (in parte) sullo Stato: ad esempio, se il curatore promuove un’azione legale e vince, recupererà le spese dal soccombente; ma se perde o se la procedura è incapiente, alcuni compensi legali potrebbero essere coperti tramite il patrocinio a spese dello Stato (in quanto finalizzati a incrementare l’attivo nell’interesse della massa). Complessivamente, però, i compensi agli ausiliari incidono di solito meno del compenso del curatore, perché vengono attivati solo se necessari. In procedure medio-piccole possono anche non esservi affatto ausiliari (tutto il lavoro viene svolto direttamente dal curatore). In procedure maggiori, bisognerà mettere a budget qualche percento dell’attivo per tali consulenze.
  • Curatore di fallimenti collegati: Un cenno va fatto all’ipotesi di fallimenti estesi ad altre persone. Ad esempio, se viene dichiarata la liquidazione giudiziale di una società di persone (es. S.n.c.), il fallimento viene per legge esteso anche ai soci illimitatamente responsabili. In tal caso in realtà non si aprono due procedure distinte, ma si unifica in un unico fallimento cumulativo della società e dei soci, con un solo curatore e organi comuni. Ciò evita il raddoppio dei costi: non si pagherà due volte il curatore, ma il compenso verrà calcolato sull’attivo/passivo complessivo unico. Quindi, l’estensione del fallimento ai soci illimitatamente responsabili non raddoppia i costi fissi, anzi ottimizza la gestione (costi unificati per masse comunque connesse).

In conclusione, oltre al curatore, gli organi ausiliari che possono generare costi diretti sono remunerati in prededuzione e tendono ad aumentare l’esborso complessivo della procedura soprattutto nei casi complessi. Un curatore ben diligente cercherà di minimizzare il ricorso ad ausiliari se non strettamente necessario, proprio per non gravare eccessivamente sulla massa (ciò anche perché il tribunale, in sede di liquidazione del compenso al curatore, valuta la sua capacità di controllare i costi di procedura e può ridurne il compenso se reputa eccessive spese non giustificate).

Spese di Giustizia e Spese Procedurali Generali

La liquidazione giudiziale comporta una serie di spese procedurali, oltre ai compensi già esaminati. Si possono elencare le principali spese di giustizia e spese generali tipiche:

  • Spese amministrative e diritti di cancelleria: comprendono le marche da bollo applicate sugli atti, i diritti di copia per documenti eventualmente estratti, le tasse di registro su determinati provvedimenti. Ad esempio, la sentenza dichiarativa di fallimento deve essere registrata fiscalmente: ciò genera un’imposta di registro dovuta allo Stato (che oggi è fissata in misura fissa, ad es. €200). Questa tassa viene anticipata dall’erario (prenotata a debito) e poi, se c’è attivo, recuperata sul fallimento. Analogamente, la sentenza va trascritta nei registri immobiliari (se il fallito ha immobili) e iscritta nel Registro delle Imprese: queste formalità comportano imposte ipotecarie e tasse di iscrizione. Anche tali importi sono anticipati e poi addebitati alla massa. Insomma, vi sono vari balzelli fiscali e amministrativi connessi alla pubblicità legale del fallimento.
  • Spese di pubblicazione e comunicazione: la legge prevede la pubblicazione degli avvisi di fallimento sul Registro delle Imprese e, fino a qualche tempo fa, anche sulla Gazzetta Ufficiale (oggi le formalità sono digitalizzate, ma eventuali pubblicazioni sui quotidiani possono ancora essere disposte in casi particolari). Ogni comunicazione ai creditori, ai pubblici registri, ecc., comporta costi postali o telematici. Fortunatamente con il processo telematico gran parte degli avvisi avviene via PEC a costo nullo; restano però da considerare, ad esempio, i costi per l’invio di raccomandate nei confronti di quei creditori non raggiungibili via PEC o per notifiche di atti processuali. Anche questi costi ricadono sulla procedura.
  • Spese di custodia e conservazione dei beni: dal momento in cui è nominato, il curatore assume la custodia di tutti i beni del fallimento. Ciò significa dover mettere in sicurezza locali, magazzini, macchinari, beni mobili, ecc. Potrebbe essere necessario affittare un deposito o mantenere attive polizze assicurative. Se l’impresa aveva sedi operative, si dovranno pagare bollette (utenze di luce, gas) almeno per evitare danni, o spese di sorveglianza per prevenire intrusioni. Tutte queste sono spese di gestione che il curatore è autorizzato a fare in via di ordinaria amministrazione per preservare il valore dell’attivo. Ad esempio, se c’è un capannone pieno di merci, il curatore potrà pagare un servizio di vigilanza notturna per 2-3 mesi finché non vende il magazzino, al fine di evitare furti che danneggerebbero i creditori.
  • Spese di esercizio provvisorio (se concesse): qualora il tribunale autorizzi l’esercizio provvisorio dell’azienda o di un ramo (cioè che il curatore continui temporaneamente l’attività d’impresa in fallimento), ciò comporta dei costi operativi: pagare fornitori correnti, dipendenti per il periodo, acquisto materie prime, ecc. Queste spese sono in prededuzione (il curatore vi fa fronte con le risorse ricavate dalla continuità stessa, oppure, se manca cassa iniziale, con autorizzazione a credito di esercizio). Si tratta di costi particolari che però, idealmente, dovrebbero essere compensati dai ricavi dell’esercizio provvisorio stesso (si continua l’attività appunto per mantenere valore e generare cassa). In caso di deficit dell’esercizio provvisorio, tale passivo va comunque in prededuzione. Quindi l’esercizio provvisorio è un’arma a doppio taglio: può preservare l’avviamento e aumentare il ricavato finale, ma se mal gestito può creare costi che riducono l’attivo netto. La scelta di disporlo viene valutata attentamente proprio considerando il rapporto costi/benefici atteso.
  • Spese di procedura per realizzazione dell’attivo: quando il curatore passa a liquidare i beni, devono spesso sostenersi costi specifici. Ad esempio, per vendere un immobile all’asta, bisogna nominare un esperto stimatore (costo: qualche migliaio di euro in base al valore dell’immobile), spesso ci si avvale di un notaio delegato o di una piattaforma d’aste telematica che applica commissioni (di solito a carico dell’acquirente, ma se l’asta va deserta più volte magari la procedura sostiene spese di ripubblicazione). La pubblicità delle vendite (pubblicazione dei bandi sul Portale delle Vendite Pubbliche e su quotidiani, se opportuno) è un altro costo. Inoltre, su ogni trasferimento immobiliare concluso in sede concorsuale vi sono imposte di registro, ipotecarie e catastali: tuttavia, la legge dispone che queste imposte sulle vendite giudiziarie siano a carico dell’acquirente e non della procedura. In pratica l’acquirente di un immobile dal fallimento paga lui le tasse di trasferimento (che in caso di vendita privata avrebbe pagato comunque il compratore salvo patto contrario), quindi la massa ne è esonerata. Ciò riduce di molto l’onere fiscale sulle vendite: il ricavato incassato dal curatore è al lordo solo dell’IVA eventualmente dovuta. Se infatti l’operazione è soggetta a IVA (es. vendita di beni aziendali), la procedura dovrà versare l’IVA all’Erario, ma spesso in ambito concorsuale si applicano regimi come il reverse charge o lo split payment che neutralizzano l’IVA, evitando esborsi immediati. Dunque, il credito IVA o altre imposte sorte in corso di procedura sono considerati spese prededucibili, ma in molti casi non comportano esborso effettivo perché l’IVA è detratta a monte dal cessionario o rimane comunque all’interno di meccanismi contabili. Diverso è il caso di imposte sul reddito: il fallimento è soggetto ad Irpeg/Ires per gli eventuali redditi generati durante la procedura (ad esempio plusvalenze da cessioni). Tuttavia, normalmente il reddito di procedura è zero o negativo, perché le plusvalenze sono compensate dai debiti verso i creditori (che in contabilità fallimentare sono costi deducibili). Inoltre la legge fiscale (art. 86 TUIR) esclude che l’eventuale utile finale di liquidazione sia tassabile, in quanto le sopravvenienze attive da falcidia dei debiti in procedure concorsuali non generano imposizione. Questo per evitare un paradosso: se i creditori rinunciano a parte dei crediti (come avviene nel concordato o nella chiusura per insufficienza), il debitore fallito non viene gravato di ulteriori imposte su quel “guadagno”. Pertanto, le conseguenze fiscali interne alla procedura sono per lo più limitate a IVA e imposte indirette sulle vendite – spese che, come visto, o gravano sugli acquirenti o sono gestite come costi prededucibili recuperabili.
  • Spese legali varie: durante il fallimento possono sorgere giudizi, ad esempio opposizioni allo stato passivo, reclami contro provvedimenti del GD, azioni revocatorie o risarcitorie promosse dal curatore, cause di lavoro dei dipendenti, ecc. Le spese di lite (contributo unificato per iscrivere a ruolo un’opposizione, compensi agli avvocati, eventuali consulenze tecniche d’ufficio da anticipare, ecc.) rientrano nelle spese di giustizia della procedura. Per dire, se un creditore propone opposizione allo stato passivo e vince, il tribunale può porre a carico del fallimento le spese legali liquidate in suo favore. Al contrario, se il fallimento vince una causa attiva, le spese legali recuperate entreranno nell’attivo. In ogni caso, la gestione giudiziale del contenzioso è un fattore di costo: andrà valutato caso per caso se vale la pena spendere per cause lunghe con esiti incerti. Il CCII, a tal proposito, ha confermato l’istituto della cessione delle azioni: il curatore può, con autorizzazione, cedere a terzi i crediti litigiosi o le cause risarcitorie (ad es. vendere l’azione di responsabilità verso gli amministratori ad un terzo interessato), così da incassare subito qualcosa ed evitare di sostenere costi processuali. Questa soluzione, a volte, permette di ridurre i costi di procedura trasferendo la gestione (onerosa) del contenzioso fuori dalla massa.

Tutte le spese generali elencate sopra sono considerate spese di giustizia prededucibili, e hanno priorità su ogni altro pagamento. Ciò significa che, quando il curatore accumula cassa, prima di fare qualsiasi riparto ai creditori deve accantonare e pagare tutte le spese di procedura. Nella prassi, il curatore tiene un fondo spese man mano alimentato con l’attivo in entrata, da cui attinge per pagare i vari oneri autorizzati dal GD (ad esempio, paga le bollette, gli stipendi dell’esercizio provvisorio, le fatture dei periti, ecc.). Periodicamente, presenta al GD uno stato delle spese che viene approvato. Solo le eventuali spese di giustizia prenotate a debito rimangono non pagate se l’attivo è poi inesistente (in tal caso lo Stato se ne fa carico, come avviene per le imposte di registro della sentenza in fallimenti senza fondi).

In sintesi, le spese dirette di procedura oltre ai compensi possono variare molto a seconda del caso concreto: in un fallimento senza beni, saranno limitate a poche centinaia di euro di bolli e notifiche; in un fallimento con beni immobili, ammontano a qualche migliaio di euro per perizie e atti di vendita; in un fallimento con esercizio provvisorio e vari contenziosi, possono arrivare a decine o centinaia di migliaia di euro (si pensi ai costi di gestione di un’azienda in esercizio provvisorio per 6 mesi, o alle spese legali di 10 anni di cause). Il curatore ha il dovere di contenere queste spese entro ciò che è necessario e proporzionato all’attivo atteso; l’art. 124 CCII gli impone di amministrare con diligenza e, in caso di negligenza grave nella gestione dei costi, potrebbe risponderne (tema che riprenderemo parlando delle responsabilità del curatore). Il tribunale, da parte sua, può chiudere anticipatamente la procedura se ritiene che l’attivo sia insufficiente a coprire le spese di ulteriore gestione: l’art. 234 CCII prevede la chiusura per “insufficienza dell’attivo” quando proseguire comporterebbe solo aggravio inutile. Ad esempio, se dopo aver venduto quel poco che c’era si vede che non si riusciranno neppure a pagare integralmente il curatore, il GD può chiudere il fallimento prima di fare ulteriori passi, evitando di incorrere in spese aggiuntive (come l’accertamento del passivo) destinate a rimanere scoperte. Anche questa norma è pensata per limitare i costi quando non c’è margine.

Di seguito, Tabella 1 riassume le principali voci di costo diretto nella liquidazione giudiziale, con il criterio di calcolo e chi di norma sopporta l’esborso:

Tabella 1 – Costi diretti tipici della Liquidazione Giudiziale

Voce di costoImporto / CriterioChi paga – Note
Contributo unificato e bolli iniziali€98 (CU fisso per il ricorso) + €27 (marca da bollo). Alcune categorie esenti (lavoratori istanti).Anticipato da chi presenta il ricorso (creditore istante o debitore). Costo contenuto (~€125). Se più creditori presentano istanze, ciascuno paga il proprio CU.
Eventuale fondo spese inizialiDeposito cauzionale richiesto in alcuni tribunali (es. €500–1.000).Anticipato dal creditore istante se previsto. Copre prime spese vive (notifiche, custodia). Rimborsato in prededuzione se l’attivo lo consente; altrimenti resta a carico dell’istante. Prassi non uniforme (il CCII prevedrebbe intervento del Fondo Giustizia).
Compenso del CuratoreLiquidato dal Tribunale a fine procedura (possibili acconti). Calcolato per legge a scaglioni percentuali su attivo realizzato + passivo accertato. Es.: 12% sui primi €15.000, 9% da €15k a €75k, decrescente fino ~1% oltre €50 mln. Minimo €800. Possibile +40% / -40% per complessità, risultati, tempestività.Pagato dalla massa attiva in prededuzione (priorità assoluta). Se l’attivo non basta a coprirlo, il curatore può accedere al Fondo statale di garanzia per la parte scoperta (nei limiti di legge). Se la procedura è priva di attivo (chiusura per insufficienza), spetta al curatore un compenso ridotto forfettario a carico dello Stato.
Spese generali di proceduraSpese di giustizia: marche da bollo, diritti, contributi di registrazione atti, pubblicazioni Registro Imprese.– Spese di custodia/amministrazione: es. affitto magazzini, assicurazioni, vigilanza, utenze, manutenzioni.– Spese di vendita: compensi delegati (notai), commissioni d’asta, perizie di stima, pubblicità bandi, bolli e imposte di trasferimento immobiliari.Tutte a carico della massa attiva (prededuzione). Il Curatore le paga con i fondi della procedura. Se manca liquidità iniziale, alcune sono prenotate a debito (anticipate dallo Stato) e recuperate appena entra attivo. Es.: imposta registro sentenza, ipotecaria per trascrizioni – anticipate Erario. Priorità assoluta: le spese di giustizia vanno pagate prima di ogni altro credito.
Compensi di altri organiComitato dei Creditori: nessun compenso (solo rimborso spese vive documentate: es. viaggi).Giudice Delegato: nessun compenso extra (funzione giurisdizionale).– Il Comitato svolge funzione pubblica, senza oneri per la massa (eventuali rimborsi spese minuti a carico procedura).– Il GD è retribuito dallo Stato, nessun costo a carico procedura.
Compensi ausiliari e consulentiPeriti stimatori, coadiutori tecnici, legali, notai, ecc. nominati caso per caso. Liquidati dal GD di regola a fine incarico, secondo tariffe professionali (es. parametri forensi per avvocati, tariffa CTU per periti).Pagati dalla massa in prededuzione. Il Curatore richiede autorizzazione per nominare consulenti e transigere parcelle. Anche questi compensi, se la massa è incapiente, possono in parte gravare sullo Stato (es. ammissione al patrocinio a spese dello Stato per azioni legali intraprese dal curatore).
Oneri fiscali durante proceduraLa procedura ha propria partita IVA. Può maturare debito IVA su vendite di beni o altre imposte (registro sulle vendite, ecc.). L’IVA sulle vendite fallimentari spesso è neutralizzata (reverse charge, split payment); le imposte di registro/ipotecarie/catastali sulle vendite giudiziarie sono per legge a carico dell’acquirente.Le imposte relative alle operazioni concorsuali sono spese di procedura (prededotte). In pratica, la massa paga solo eventuale IVA non detraibile o altre imposte non trasferite all’acquirente. Esempio: se un bene fallimentare è venduto con IVA reverse charge, l’IVA è assolta dal compratore, senza esborso per il curatore.

(Legenda: CU = contributo unificato; GD = Giudice Delegato; CTU = Consulente Tecnico d’Ufficio.)

Sintesi dell’impatto economico diretto

Dalla panoramica sui costi diretti, emergono alcuni punti chiave:

  • Inizio procedura a costo contenuto: l’avvio di un fallimento costa poche centinaia di euro di contributi e bolli. Questo facilita l’accesso alla procedura anche per piccoli creditori (e tutela i lavoratori esentandoli dal contributo). Di contro, l’imprenditore insolvente non deve pagare nulla di tasca propria per essere dichiarato fallito (salvo l’ipotesi di autofallimento con versamento del CU). Ciò risponde a logica: il fallimento è per definizione causato dall’insolvenza, quindi non avrebbe senso richiedere un esborso elevato che il debitore/creditore spesso non può permettersi.
  • Compenso del curatore come voce principale: la remunerazione del curatore incide notevolmente, ma è proporzionata all’attivo. Il fatto di calcolarlo a percentuale fa sì che in caso di grandi fallimenti il costo del curatore in percentuale diminuisce (e può essere considerato efficiente rispetto a gestioni esterne), mentre in fallimenti microscopici può sembrare “alto” (es. su €10.000 di attivo, €1.200 di curatore è il 12%). Tuttavia, esiste il minimo di €800 che assicura comunque un compenso dignitoso anche nei casi minimi.
  • Prededucibilità e priorità dei costi: tutti i costi diretti vengono prima di ogni soddisfazione dei creditori. In pratica, i creditori chirografari sopportano interamente il “peso” economico della procedura, vedendo ridursi la percentuale di incasso. Anche alcuni creditori privilegiati possono di fatto risentirne: ad esempio, il privilegio ex art. 2751-bis n.2 c.c. per i professionisti (come l’attestatore di un concordato preventivo, prededucibile) può entrare in concorrenza con i costi di procedura del successivo fallimento. La giurisprudenza ha discusso se il compenso del curatore stesso vada considerato al pari degli altri crediti prededucibili o come spesa di giustizia “fuori concorso”: orientamento prevalente è che sia spesa di giustizia con soddisfazione prioritaria persino rispetto ad altri crediti prededucibili, essendo costo necessario ex lege. Ciò significa che, esemplificando, il curatore viene pagato prima di un notaio che avesse un credito per attività svolte prima del fallimento ma considerata prededucibile. In generale, tutti i costi di giustizia (compenso curatore, spese procedura, ecc.) hanno il grado più elevato possibile.
  • Meccanismi di salvaguardia per attivi esigui: in caso di attivo insufficiente, la legge prevede accorgimenti per non penalizzare oltremodo i creditori (e i professionisti). L’art. 209 CCII consente al tribunale, su richiesta del curatore, di non procedere all’accertamento del passivo se prevede che l’attivo non darà alcun surplus oltre le spese. Ciò evita di accumulare costi (notifiche a tutti i creditori, udienze di verifica) inutili. L’art. 234 CCII permette di chiudere anticipatamente il fallimento per mancanza di attivo anche prima di vendere formalmente tutti i beni, se quelli rimasti sono di valore trascurabile rispetto ai costi futuri. Inoltre, come visto, il curatore in caso di mancanza di fondi può chiedere l’intervento del Fondo statale per coprire parzialmente il suo compenso e alcuni onorari legali. Tali previsioni riflettono un bilanciamento: da un lato non imporre la prosecuzione di procedure “in perdita”, dall’altro garantire un minimo di remunerazione al curatore affinché non lavori gratis (altrimenti nessuno accetterebbe incarichi di fallimenti poveri).

In conclusione, i costi diretti della liquidazione giudiziale sono certamente significativi ma controllati dalla normativa. In media, possiamo dire che una procedura fallimentare ordinaria può assorbire, in costi complessivi, tra il 10% e il 20% dell’attivo realizzato (la percentuale scende se l’attivo è ingente, sale se l’attivo è molto modesto). Ovviamente i creditori preferirebbero incassare il 100%, ma senza la procedura concorsuale spesso incasserebbero 0% in caso di insolvenza disordinata. Il vero problema si pone quando l’attivo è talmente basso che viene interamente eroso dalle spese: scenario che, come detto, il sistema cerca di evitare chiudendo prima e caricando alcune spese sull’erario.

Dopo aver trattato i costi “monetari” immediati, passiamo a considerare i costi indiretti della liquidazione giudiziale, che pur non comparendo nei rendiconti, possono risultare anche più gravi in termini di perdita economica complessiva.

Costi Indiretti della Liquidazione Giudiziale

Oltre agli esborsi diretti analizzati, la liquidazione giudiziale comporta conseguenze economiche indirette sia per l’imprenditore, sia per i creditori e l’intero contesto dell’impresa. Per costi indiretti intendiamo quelle perdite di valore o quei danni economici collaterali che derivano dallo stato di insolvenza e dalla procedura concorsuale stessa, al di là delle spese ufficiali della procedura. Possono includere:

  • Perdita dell’avviamento e deprezzamento dei beni aziendali venduti in modo frazionato.
  • Danno reputazionale per l’impresa e i suoi esponenti, con effetti sull’attività futura o sulla carriera imprenditoriale.
  • Effetti fiscali negativi per l’imprenditore o i soci (ad es. perdita di eventuali agevolazioni, emersione di utili tassabili, indetraibilità di perdite).
  • Costi opportunità per i creditori (tempi lunghi di attesa dei pagamenti, incertezza sugli esiti).
  • Impatto sul tessuto socio-economico (perdita di posti di lavoro, indotto locale sfavorito, ecc.).

Analizziamo le principali voci di costo indiretto legate al fallimento.

Perdita dell’avviamento e disgregazione del valore aziendale

Uno degli effetti più significativi di una liquidazione giudiziale è la distruzione dell’avviamento e del valore organizzato dell’impresa. Quando un’azienda viene dichiarata fallita, di norma cessa l’attività (salvo brevi esercizi provvisori). Gli asset sono liquidati singolarmente o in blocchi, ma spesso non nell’ottica di proseguire il business sul lungo termine. Questo comporta che elementi intangibili come la clientela, il know-how organizzativo, la reputazione commerciale e il brand vadano in fumo o comunque si riducano drasticamente di valore. In pratica, ciò che valeva come complesso funzionante, nel fallimento viene smembrato: macchinari venduti separatamente, magazzino liquidato stock, personale licenziato, contratti risolti.

Il costo è la differenza tra il valore che avrebbe potuto avere l’azienda come going concern (in funzionamento) e la somma ricavata dalla vendita atomistica dei suoi beni. Spesso questo delta è enorme: ad esempio, un’azienda retail con un marchio conosciuto e una rete di negozi potrebbe valere milioni se ceduta intera a un competitor; se invece fallisce e si vendono solo gli arredi, le scorte e il marchio separatamente dopo mesi, il ricavato potrebbe essere una frazione ridotta. La liquidazione giudiziale tende ad essere una vendita forzata in condizioni non ideali, quindi con realizzi più bassi rispetto a una vendita volontaria. Anche quando si cerca di vendere l’azienda in blocco tramite il fallimento, il contesto spesso ha già deteriorato l’avviamento: i clienti sono scappati, i dipendenti chiave se ne sono andati, i contratti favorevoli sono decaduti. Inoltre, molti acquirenti diffidano nel trattare con procedure concorsuali, oppure cercano affari a sconto approfittando della situazione. Pertanto, un costo indiretto ineludibile del fallimento è che i creditori recuperano meno di quanto avrebbero potuto se l’impresa fosse stata ceduta in attività prima dell’insolvenza (questo è spesso indicato come il “gap concorsuale”).

Bisogna peraltro riconoscere che il nuovo Codice della Crisi cerca di mitigare questa perdita di valore: incoraggia l’imprenditore a intervenire precocemente (tramite strumenti di allerta o negoziazione) proprio per evitare di arrivare al punto di rottura in cui l’avviamento si annulla. Inoltre, il curatore può ricorrere a strumenti come l’esercizio provvisorio o l’affitto d’azienda durante la procedura per preservare temporaneamente l’operatività in attesa di trovare un acquirente unitario. Ad esempio, se una fabbrica fallisce ma ha commesse in corso e potenziale di mercato, il curatore potrebbe continuare a gestirla per qualche mese e nel frattempo indire un’asta per la cessione dell’intera azienda con i dipendenti e i contratti, massimizzando il valore (questo è lo scenario ideale in cui il fallimento non distrugge l’avviamento, ma lo trasferisce a un terzo). Tuttavia, non sempre è possibile: servono risorse e circostanze favorevoli.

In sintesi, dal punto di vista dell’imprenditore la liquidazione giudiziale significa la fine della propria azienda e la dispersione di tutto il valore costruito negli anni (contatti commerciali, reputazione, know-how). Dal punto di vista dei creditori, significa che le loro possibilità di soddisfo dipendono solo dal valore liquidatorio dei beni, tipicamente inferiore al valore di continuità. Questo costo indiretto è difficile da quantificare, ma è spesso il più pesante in assoluto: basti considerare che nei concordati in continuità spesso i creditori ottengono percentuali sensibilmente maggiori proprio grazie alla conservazione del valore aziendale, mentre nel fallimento puro le percentuali medie di realizzo (per chirografari) possono essere basse (ad esempio 5-10%).

Danno reputazionale e riflessi sulle attività future

Il fallimento comporta un inevitabile danno di reputazione. La dichiarazione di insolvenza di un’impresa è pubblica (viene iscritta al Registro Imprese, comunicata sui bollettini, ecc.) e porta con sé uno stigma, ancorché attenuato nel nome, che può ripercuotersi sui suoi esponenti. In particolare:

  • L’imprenditore individuale dichiarato fallito subisce limitazioni personali (in passato l’“interdizione dal commercio”, oggi superata dall’istituto dell’esdebitazione immediata di cui diremo più avanti) e comunque vede compromessa la propria credibilità commerciale. Ottenere credito in futuro, avviare nuove iniziative imprenditoriali o semplicemente preservare la propria immagine professionale diventa difficile dopo un fallimento clamoroso. Va detto che il CCII ha fatto progressi per ridurre la “morte civile” del fallito: ad esempio, una volta chiusa la procedura con esdebitazione, l’ex fallito può tornare subito a fare impresa, senza dover attendere i 5 anni previsti in passato. Inoltre l’esdebitazione (se concessa) cancella i debiti residui, offrendo all’imprenditore onesto una fresh start. Ciò attenua il retaggio negativo, ma non elimina il discredito sociale e di mercato che un fallimento porta con sé.
  • I soci e amministratori di società fallite, pur non essendo “falliti” personalmente (se società di capitali), possono subire danni reputazionali nel mondo degli affari. Un amministratore che ha portato una società al dissesto potrebbe trovare difficoltà a ricoprire incarichi in altre società, sia per diffidenza di soci e partner, sia perché se emergono profili di responsabilità può incorrere in interdizioni dagli uffici direttivi (misure accessorie a eventuali condanne penali per bancarotta). Anche senza reati, il fallimento spesso affiora nei curricula e nelle banche dati, generando diffidenza (ad es. banche e fornitori faranno controlli sul passato di chi chiede credito o fa business). Insomma, c’è un costo di “affidabilità” perso.
  • La stessa impresa fallita vede crollare la fiducia verso il suo marchio. Clienti e fornitori generalmente fuggono non appena sanno del fallimento (anche se ci fosse esercizio provvisorio, è difficile convincere nuovi clienti a fare contratti con un curatore). Nei casi in cui l’azienda venga rilanciata dopo il fallimento, spesso deve cambiare nome proprio per scrollarsi di dosso la cattiva fama.

Sul piano pratico, il danno reputazionale può tradursi in mancati guadagni futuri. Ad esempio, un imprenditore fallito che avvii una nuova attività potrebbe trovare precluso l’accesso a finanziamenti se figura nei database rischiosi; oppure un ex amministratore fallimentare può essere estromesso da albi professionali o da incarichi pubblici (pensiamo a chi volesse partecipare a gare pubbliche – l’esistenza di fallimenti alle spalle è fattore valutato negativamente se non motivo di esclusione in certi contesti).

Inoltre, la liquidazione giudiziale espone a potenziali strascichi giudiziari: non di rado porta con sé indagini penali per bancarotta e possibili condanne dei responsabili. Questo è un costo indiretto notevole per gli amministratori colpevoli di illeciti, ma anche per quelli onesti comporta stress e spese legali per difendersi e chiarire la propria posizione. La sola prospettiva di dover affrontare anni di procedimenti (pur magari senza esito sfavorevole) è di per sé un deterrente e un costo emotivo/economico.

In definitiva, il fallimento rovina la reputazione e causa perdita di “capitale relazionale” sia all’impresa (che cessa) sia alle persone chiave. È un effetto collaterale immateriale, ma estremamente importante: molti imprenditori sono terrorizzati dal fallimento più per il disonore e le difficoltà future che per il fatto in sé. Questo spiega perché spesso si cerca di evitarlo quasi a ogni costo, a volte anche quando sarebbe economicamente la soluzione più efficiente (portando magari a tardive soluzioni peggiori). Dal punto di vista dei creditori, il danno reputazionale del debitore non è un costo diretto per loro, ma si riflette indirettamente: se l’imprenditore perde credibilità, è meno probabile che riesca a generare risorse per pagare i creditori (ad es. proponendo un concordato o trovando investitori). Quindi un insolvente con reputazione compromessa ha meno chance di trovare soluzioni migliorative. Inoltre, per i creditori commerciali può esserci un danno reputazionale riflesso: si pensi a fornitori abituali coinvolti nel fallimento di un partner, talvolta devono giustificare nei propri bilanci la perdita subita e ciò può fare rumore nel settore.

Effetti fiscali e contributivi

Il fallimento di un’impresa ha alcune implicazioni fiscali, sebbene spesso vengano trascurate. Ne elenchiamo alcune:

  • Perdita di agevolazioni o crediti fiscali: quando un’azienda fallisce, generalmente perde eventuali crediti d’imposta accumulati (IVA a credito, crediti verso l’Erario, ecc.), perché tali poste attive entrano nella massa ma spesso non trovano capienza per essere rimborsate ai soci. Inoltre, il fallimento fa decadere eventuali rateizzazioni con il fisco o accordi di rottamazione in corso: l’Erario e gli enti previdenziali si insinueranno per l’intero debito residuo, e la procedura non beneficia più di dilazioni o sconti precedenti. In caso di concordato preventivo, al contrario, la legge consente di conservare alcuni benefici (ad esempio transazioni fiscali con stralcio sanzioni). Dunque, scegliere la liquidazione giudiziale può implicare che il debito tributario torni al 100% se non si era prima trovato un accordo (salvo la regola sulla falcidia prevista dall’art. 88 CCII: il tribunale può omologare un concordato o accordo anche senza adesione del fisco se la proposta è più conveniente del fallimento stesso, ma nel fallimento puro quell’esame comparativo non avviene e il fisco concorre per intero con i suoi privilegi).
  • Tassazione delle sopravvenienze attive: come anticipato, in linea generale le eventuali riduzioni di debito nel fallimento non generano tassazione (art. 88 TUIR esclude da imponibile le sopravvenienze da procedure concorsuali). Questo è un vantaggio per il debitore fallito (persona fisica): quando ottiene l’esdebitazione delle somme non pagate, tale “beneficio” non è considerato reddito tassabile. Anche per la società, eventuali stralci di debito deliberati in sede di concordato fallimentare non sono tassati. Dunque, da questo punto di vista, la legge cerca di evitare un danno fiscale aggiuntivo. In passato, prima di queste norme, capitava che il fisco esigesse le imposte su crediti annullati (cosa paradossale); oggi non accade più.
  • Mancato utilizzo di perdite e interessi passivi: quando una società fallisce, decadono le eventuali perdite fiscali pregresse che non siano state utilizzate. In un concordato in continuità, invece, l’azienda potrebbe proseguire e usare le perdite per compensare utili futuri. Nel fallimento ciò non succede: la partita fiscale si chiude con la liquidazione. Quindi eventuali asset fiscali (come perdite, ACE, ecc.) non hanno più valore. Questo è un costo indiretto per i soci (che perdono quell’opportunità di risparmio fiscale futuro) e anche per un potenziale acquirente: acquisire un’azienda fuori da fallimento consente di usare le sue DTA (Deferred Tax Assets), mentre comprarla da fallimento spesso no, perché la società è disciolta o ha perso quei benefici.
  • Conseguenze per i soci o garanti: se l’impresa fallita è una società di persone, i soci illimitatamente responsabili diventano falliti anch’essi, con possibili impatti fiscali personali (ad es. difficoltà a beneficiare di regimi fiscali di vantaggio come flat tax per professionisti, ecc., finché in stato di fallimento). Se invece l’impresa era una società di capitali, i soci perdono il capitale investito (costo immediato) ma potrebbero ottenere una deducibilità fiscale della perdita della partecipazione (in certe condizioni, l’art. 101 TUIR consente la deduzione delle perdite su crediti o partecipazioni quando la società partecipata è assoggettata a procedura concorsuale). Ad esempio, se un socio finanziatore aveva erogato un finanziamento soci alla società poi fallita, potrà dedurre la perdita di quel credito come perdita certa da fallimento, riducendo il suo carico fiscale personale. Dunque, paradossalmente, per i soci/creditori fiscali di un fallito c’è un beneficio: possono recuperare fiscalmente la perdita senza dover provare l’irrecuperabilità oltre il fatto stesso del fallimento (l’art. 101 TUIR considera elemento certo e preciso di perdita su credito la presenza del debitore in procedura concorsuale).
  • Contributi previdenziali e TFR lavoratori: quando un’azienda fallisce, i dipendenti non pagati attivano il Fondo di Garanzia INPS per ottenere TFR e ultime retribuzioni. L’INPS eroga ai lavoratori quanto dovuto (nei limiti di legge) e poi subentra nel fallimento come creditore privilegiato per gli importi anticipati. Dal punto di vista del fallimento, ciò non è un costo (anzi, agevola perché l’INPS paga subito i dipendenti e toglie pressione), ma dal punto di vista del sistema socio-economico è un costo indiretto trasferito sulla collettività (il Fondo di Garanzia è alimentato dai contributi di tutti). Inoltre, il datore di lavoro fallito può subire conseguenze: l’INPS, dopo aver pagato i dipendenti, diventa molto attiva nel far valere i propri privilegi, e in caso di deficit patrimoniale potrebbe rivalersi sui coobbligati (es. soci illimitati) per la parte non recuperata nel fallimento. Similmente, i crediti contributivi e fiscali non soddisfatti potranno essere successivamente richiesti agli obbligati in solido (ad esempio, amministratori responsabili per mancato versamento IVA o ritenute, se rilevano violazioni tributarie).

Riassumendo, gli effetti fiscali indiretti del fallimento possono includere sia aspetti negativi (perdita di asset fiscali, decadenza benefici) sia mitigazioni normative (no tassazione sopravvenienze, deducibilità perdite creditori). Dal punto di vista dell’erario, curiosamente, i fallimenti spesso comportano incassi minimi (il fisco di solito recupera poco, giacché viene chirografario su buona parte dei crediti) e anche un onere: spese di giustizia, copertura di compensi, attivazione di fondi INPS, ecc. Quindi in un certo senso il fallimento costa anche allo Stato, non solo ai privati. Ciò ha spinto il legislatore a favorire soluzioni alternative in cui il debitore continui a produrre reddito (così il fisco magari incassa di più in futuro) piuttosto che chiudere baracca.

Costi indiretti per i creditori: tempi di attesa e incertezza

Un ulteriore costo indiretto della liquidazione giudiziale è a carico dei creditori, in termini di tempo e incertezza. Una procedura fallimentare, pur ben gestita, richiede mediamente alcuni anni per arrivare a riparto: i creditori chirografari possono dover attendere 2, 3, 5 anni o più per vedere soddisfatta (in parte) la propria ragione di credito. Questo tempo perso ha un valore economico: l’attesa è di per sé un costo finanziario (il mancato guadagno sugli importi, l’inflazione che erode il valore, ecc.). Inoltre, i creditori non sanno in anticipo quanto recupereranno – potrebbero ricevere solo una percentuale bassa – e questa incertezza pesa nei loro bilanci. Alcuni creditori a loro volta rischiano crisi di liquidità a causa di insolvenze subite: il fallimento di un cliente importante può mettere in difficoltà un fornitore, che dovrà magari ricorrere a finanziamenti per coprire il buco di cassa.

Questi aspetti si collegano ai costi diretti (più il fallimento dura a lungo per via di attivo difficile, più costa e più tempo richiede), ma meritano un cenno autonomo. Da notare che strumenti alternativi (come la composizione negoziata o certi accordi stragiudiziali) possono consentire soluzioni più rapide e certe, riducendo il “time cost” per i creditori. Ad esempio, un accordo di ristrutturazione potrebbe far incassare ai creditori il 40% in 6 mesi; un fallimento magari farebbe incassare il 50% ma dopo 5 anni – quale è migliore? Dipende dal tasso di sconto che i creditori attribuiscono al tempo. Spesso le banche preferiscono prendere meno ma subito, piuttosto che di più ma chissà quando, proprio perché il tempo è denaro.

Infine, c’è l’aspetto del controllo: nel fallimento i creditori perdono il controllo del processo di recupero (che passa al curatore e al giudice). Questo può generare apprensione e minor soddisfazione rispetto a soluzioni concordate in cui i creditori hanno voce in capitolo (voto in concordato, negoziazione diretta). La percezione di aver “subìto” la procedura fallimentare può essere considerata un “costo psicologico” o di relazioni d’affari. Ad esempio, fornitori storici di un’azienda fallita possono sentirsi traditi e interrompere rapporti anche con eventuali successori o imprese collegate.

Impatto sociale e sul territorio

Anche se non strettamente richiesto dalla domanda, va ricordato che il fallimento di un’impresa ha costi sociali: perdita di posti di lavoro, minori indotti per i fornitori, talvolta abbandono di stabilimenti. Questi costi ricadono sulla comunità locale o sul sistema paese (disoccupazione, minori entrate fiscali, etc.). Non sono “costi” per le parti del processo strettamente considerato, ma costituiscono esternalità negative della liquidazione giudiziale. È anche per questo che il legislatore oggi spinge per soluzioni di risanamento dove possibile: mantenere in vita l’impresa evita questi costi sociali.

In conclusione, i costi indiretti del fallimento possono superare di molto i costi diretti. La perdita di valore aziendale e l’erosione dell’avviamento sono probabilmente l’onere maggiore in termini assoluti, seguiti dal danno reputazionale e dall’impatto sui tempi di recupero dei crediti. Nel valutare “quanto costa” la liquidazione giudiziale, un consulente deve assolutamente considerare questi fattori: a volte un’alternativa come un concordato preventivo appare costosa per oneri procedurali (ad es. devi pagare un attestatore, un commissario, ecc.), ma può far risparmiare costi indiretti enormi (salvando l’azienda come going concern). Viceversa, in situazioni dove l’avviamento è già perso e la reputazione compromessa, la liquidazione giudiziale rapida può essere la soluzione più efficiente, minimizzando il prolungamento dell’agonia.

Nei prossimi paragrafi confronteremo proprio i costi della liquidazione giudiziale con quelli di altri strumenti di regolazione della crisi d’impresa, evidenziando tali differenze.

Confronto dei Costi: Liquidazione Giudiziale vs Concordato Preventivo, Concordato Semplificato e Composizione Negoziata

Il sistema concorsuale italiano, specialmente dopo la riforma del Codice della Crisi, offre diversi strumenti per affrontare la crisi o insolvenza di un’impresa. Oltre alla liquidazione giudiziale (procedura liquidatoria giudiziale ex fallimento), abbiamo:

  • Concordato Preventivo (nelle sue varianti in continuità o liquidatorio),
  • Concordato Semplificato per la liquidazione del patrimonio (introdotto nel 2021 per i casi in cui la composizione negoziata non raggiunga accordo),
  • Composizione Negoziata della Crisi (procedura stragiudiziale/para-giudiziale di negoziazione assistita da un esperto).

Ogni strumento comporta tipologie di costi differenti – sia in termini di costi diretti procedurali, sia come costi indiretti e impatti sul valore. Di seguito effettuiamo un confronto dettagliato, così da valutare il “costo” comparato di ciascuna soluzione.

Costi del Concordato Preventivo

Il concordato preventivo è una procedura concorsuale giudiziale che consente all’imprenditore insolvente o in crisi di proporre ai creditori un piano per evitare la liquidazione giudiziale, attraverso la ristrutturazione del debito o la liquidazione concordata dei beni, sotto il controllo del tribunale. Dal punto di vista dei costi, il concordato preventivo presenta sia oneri diretti (costi procedurali e professionali) sia potenziali vantaggi indiretti rispetto al fallimento.

Costi diretti principali nel concordato preventivo:

  • Contributo unificato e bolli: anche per il ricorso di concordato preventivo è previsto un contributo unificato, analogamente al fallimento. Trattandosi di un procedimento in camera di consiglio, l’importo è lo stesso (€98, salvo aumenti se ci sono fasi contenziose ulteriori) più bolli, quindi ~€125. Non ci sono esenzioni particolari (sebbene raramente un lavoratore presenti un concordato, caso marginale). In alcuni casi si potrebbe aggiungere il costo di pubblicazione del decreto di ammissione.
  • Spese di pubblicità legale e comunicazioni: il concordato va pubblicato al Registro delle Imprese e comunicato ai creditori. Anche qui costi modesti di cancelleria, PEC, etc., comparabili a quelli di un fallimento.
  • Compenso del Commissario Giudiziale: una volta ammesso il concordato, il tribunale nomina un commissario giudiziale, figura di controllo analoga al curatore ma con ruoli diversi (non gestisce direttamente i beni ma vigila sull’attività del debitore e sulle operazioni proposte nel piano). Il commissario ha diritto a un compenso per il suo operato, anch’esso liquidato dal tribunale. I criteri di liquidazione sono fissati per legge: il D.M. 21/06/2021 ha aggiornato anche i compensi dei commissari giudiziali, prevedendo importi fissi o percentuali ridotti rispetto a quelli del curatore. In particolare, pare che i compensi dei commissari siano tarati su parametri dimensionali (attivo e passivo del concordato) ma con riduzione forfettaria (ad es. ridotti del 30% rispetto a equivalenti compensi del curatore). In pratica, il commissario guadagna meno di un curatore per unità di valore, riflettendo che il suo ruolo è di sorveglianza e non di gestione attiva della liquidazione. Indicativamente, si potrebbe dire che il costo del commissario in un concordato preventivo è attorno al 50-70% di quello che sarebbe il costo di un curatore in caso di fallimento di pari dimensioni. Va aggiunto che se il concordato non arriva a buon fine (es. viene revocato e l’azienda fallisce), il commissario va comunque pagato per l’attività svolta e il suo compenso diventa un credito prededucibile nel successivo fallimento. Questo è un elemento importante: i costi del tentativo di concordato finito male si scaricano poi sul fallimento seguente, aggravandolo. La Cassazione ha confermato ad es. che il commissario nel concordato “con riserva” poi sfociato in fallimento va soddisfatto in prededuzione.
  • Attestatore e consulenti per il piano: diversamente dal fallimento, dove il debitore non sostiene costi professionali (ci pensa il curatore nominato d’ufficio), nel concordato preventivo **l’imprenditore deve prima di tutto predisporre un piano e farlo asseverare da un professionista indipendente (il cosiddetto attestatore) ai sensi dell’art. 87 CCII. L’attestatore – di norma un commercialista o esperto di crisi – verifica veridicità dei dati e fattibilità del piano, rilasciando una relazione. Il suo compenso è a carico del debitore e di solito viene concordato contrattualmente. Può essere significativo: per medie imprese spesso parliamo di decine di migliaia di euro (dipende dalla complessità, dall’impegno richiesto). Questo costo non esiste nel fallimento (nessuno fa un piano). Tuttavia, se il concordato va a buon fine, il credito dell’attestatore può venire soddisfatto come costo prededucibile nel concordato stesso; se il concordato fallisce, l’attestatore potrebbe insinuarsi nel successivo fallimento come prededucibile (c’è qualche disputa su ciò, ma in genere i costi funzionali a un tentativo di soluzione precedente sono considerati prededucibili). In ogni caso, inizialmente è l’imprenditore che deve pagare o quantomeno impegnarsi a pagare l’attestatore, quindi è un esborso anticipato (sunk cost se poi la procedura non riesce). Oltre all’attestatore, l’azienda in concordato spesso si avvale di consulenti legali e finanziari per preparare la domanda: l’avvocato che redige il ricorso, il consulente che fa la bozza di piano, ecc. Questi costi, pur non obbligatori per legge, sono quasi inevitabili (raramente l’imprenditore ha le competenze per fare da sé un piano di ristrutturazione). Anche tali spese professionali possono ammontare a migliaia di euro e vanno considerati costi diretti (spesso a carico dell’impresa prima e durante il concordato). Nota: alcuni di questi consulenti, se non pagati prima, potrebbero chiedere di essere inseriti nel concordato come creditori prededucibili.
  • Spese di gestione durante il concordato: se l’azienda prosegue l’attività in concordato (concordato in continuità aziendale), continua a produrre costi operativi (acquisti, stipendi, ecc.). Questi in parte vengono pagati normalmente dall’impresa in bonis; ma in parte, per nuovo debito contratto durante il concordato con autorizzazione, divengono crediti prededucibili (art. 99 CCII). Quindi, il concordato può generare nuovi debiti di massa da pagare poi con preferenza. È un concetto simile all’esercizio provvisorio nel fallimento, con la differenza che nel concordato l’imprenditore stesso è in possesso e contrae obbligazioni nuove. In un concordato liquidatorio (senza continuità) questo è meno rilevante perché l’azienda cessa o viene venduta e non fa nuovi debiti, ma potrebbero esserci costi di custodia beni, affitto di rami d’azienda temporaneo, ecc., sempre prededucibili.
  • Spese di votazione e adunanza: il concordato preventivo prevede tipicamente un’adunanza dei creditori e una votazione. Questo comporta spese organizzative (invio delle convocazioni a tutti i creditori, organizzazione dell’udienza anche telematica, eventuali costi per raccogliere i voti scritti, etc.). Sono costi modesti (posta, cancelleria), ma da segnalare. Nel concordato semplificato invece non c’è votazione (vedremo), quindi tali costi non ci sono.
  • Eventuale liquidatore e spese di esecuzione del piano: se il concordato è di tipo liquidatorio (cioè prevede la vendita dei beni, ma concordemente tra le parti), di solito il piano indica chi effettuerà le vendite. Talora viene nominato un liquidatore giudiziale (che potrebbe essere lo stesso commissario o un soggetto diverso dopo l’omologa) con un suo compenso, oppure le vendite sono lasciate in capo al debitore sotto controllo. In ogni caso, le spese di liquidazione dei beni (aste, notarili, perizie) saranno simili a quelle viste per il fallimento. Semplicemente avverranno in un contesto più flessibile: il debitore potrebbe già avere acquirenti individuati e vendere a trattativa privata, risparmiando su alcune spese d’asta. Oppure potrebbe vendere beni prima dell’omologa col consenso dei creditori, accelerando. Se viene nominato un liquidatore post-omologa, anche quello è un costo in più (avvicinabile a un curatore ma con ruolo ridotto, quindi compenso minore del curatore tipico).

Riassumendo i costi diretti del concordato preventivo: da un lato alcuni costi sono analoghi al fallimento (contributo, spese di procedura, vendite, etc.), dall’altro vi sono costi propri in più (attestatore, commissario, consulenti per la domanda). Nel complesso, il concordato preventivo è spesso considerato più costoso da avviare rispetto al fallimento. Per dire, un imprenditore prima di depositare un concordato deve mettere in conto magari €20-30 mila di spese professionali (attestatore e advisor), più sapere che poi ci sarà un commissario da pagare. Avviare un fallimento “costa” €125 e nessuna spesa di piano. Questo è un motivo per cui a volte le PMI esitano a intraprendere concordati: il costo iniziale è elevato per soggetti già in crisi.

Tuttavia, vanno considerati i costi indiretti e i benefici:

Costi indiretti (e benefici) del concordato preventivo:

  • Conservazione del valore d’impresa: se il concordato è in continuità, l’impresa continua l’attività e ne viene preservato l’avviamento. Questo di solito permette di offrire ai creditori percentuali di soddisfo più alte. Ad esempio, in concordato in continuità i creditori chirografari possono ottenere il 40-50% su lungo termine, mentre in un fallimento avrebbero avuto il 20%. Dal punto di vista economico generale, è un beneficio (minori perdite di valore). Anche se il concordato genera costi diretti maggiori, può valere la pena perché il “piatto” da spartire è più ricco. Quindi, in termini di efficienza economica, il concordato può ridurre il costo indiretto di distruzione dell’avviamento che invece il fallimento comporta. Nella versione liquidatoria (dove si vendono i beni ma all’interno del concordato), pure c’è un potenziale vantaggio: spesso il debitore nel concordato liquidatorio propone l’apporto di finanza esterna o di terzi investitori che in fallimento non comparirebbero. La legge richiede nel concordato liquidatorio il pagamento di almeno il 20% ai chirografari (salvo apporti esterni), quindi c’è uno standard minimo di soddisfo che il fallimento non garantisce. In pratica, se un debitore non può dare almeno 20%, non può fare concordato liquidatorio (salvo usare beni di terzi a colmare). Ciò significa che dove si fa concordato, i creditori di regola prendono di più che nel fallimento medio (anche perché altrimenti non converrebbe omologarlo, visto che il tribunale confronta convenienza rispetto all’alternativa liquidatoria ai sensi dell’art. 112 CCII). Ad esempio, se un imprenditore sa di poter realizzare solo 5%, non può fare concordato (20% richiesto), andrà in fallimento col 5%. Se può arrivare al 30% magari tramite un socio che mette soldi, allora il concordato è fattibile e i creditori prendono 30% invece di forse 10% in un fallimento.
  • Reputazione e rapporti commerciali: aprire un concordato è sicuramente un segnale negativo sul mercato, ma è percepito un po’ meno negativamente rispetto al fallimento. Un’azienda in concordato è in crisi ma sta cercando di pagare un po’ tutti e salvarsi; un’azienda fallita è considerata “morta”. Quindi l’impatto reputazionale su imprenditore e soci è mitigato: se riescono a chiudere con un concordato, possono dire di aver evitato il fallimento (cosa che, in molti ambienti, è vista come prova di correttezza verso i creditori). Inoltre, durante il concordato l’imprenditore spesso resta alla guida (sorvegliato dal commissario), quindi preserva un ruolo attivo e può cercare di mantenere rapporti con clienti/fornitori, spiegando la situazione. Alcuni contratti possono proseguire (nel concordato in continuità, i contratti pendenti possono rimanere in essere con la prededuzione dei nuovi crediti). Ciò riduce il crollo di relazioni che invece avviene col fallimento, dove subentra il curatore e l’imprenditore è estromesso.
  • Tempi e controllo: un concordato preventivo, dalla domanda all’omologa, dura in media meno di un anno (tra 6 e 12 mesi), salvo casi complicati. Dopodiché, se è in continuità, l’esecuzione si protrae per gli anni previsti (ad es. pagamenti dilazionati 5 anni). Però almeno i creditori sanno quanto avranno e quando. Invece un fallimento ha tempistiche incerte e spesso più lunghe (2-5 anni come visto). Quindi dal lato creditori, il concordato riduce l’incertezza e talvolta accorcia i tempi di incasso (specie se c’è finanza immediata per un pagamento iniziale). Anche l’imprenditore beneficia di chiudere prima il capitolo: con l’omologa del concordato, il vecchio debito è cristallizzato e poi al termine se adempie è libero. Nel fallimento deve attendere la chiusura e poi chiedere l’esdebitazione (che però la legge nuova concede subito, dunque anche lì l’attesa per liberarsi dai debiti è stata ridotta).
  • Costi eventuali di ristrutturazione interna: un concordato in continuità può prevedere investimenti o ristrutturazioni dell’impresa (es. taglio del personale, riduzione rami improduttivi) che comportano costi (TFR da pagare subito a chi licenzi, etc.). Questi non sono esattamente costi della procedura concorsuale, ma sono spese che l’impresa deve affrontare per portare avanti il piano. Tali costi non esistono nel fallimento (in cui l’impresa cessa, punto). Quindi c’è un trade-off: il concordato prova a salvare il business, ma l’impresa deve essere in grado di sostenere i costi di riorganizzazione. A volte quelle spese sono coperte da finanza esterna o vendendo asset (che però vanno a scapito dei creditori se non integrati). Sono valutazioni da fare caso per caso.

In termini quantitativi, è arduo confrontare linearmente i costi totali di un concordato vs un fallimento, perché molto dipende dall’esito: un concordato ben riuscito può far incassare ai creditori molto di più (quindi il “costo” si ripaga da sé), uno mal concepito può fallire e allora aggiunge costi su costi (il fallimento successivo trova meno attivo perché si sono spesi soldi e tempo in un concordato abortito). Tendenzialmente però:

  • Se l’impresa è risanabile (concordato in continuità): il concordato è preferibile perché minimizza la distruzione di valore, nonostante costi procedurali maggiori. Il costo complessivo (inteso come perdita per i creditori) sarà minore rispetto al fallimento.
  • Se l’impresa è decotta senza speranza: meglio il fallimento subito. Un concordato liquidatorio puro che differisca solo l’inevitabile aggiungerebbe costi (attestatore, commissario) e magari ritarderebbe vendite senza vero valore aggiunto. Infatti, la legge cerca di scoraggiare concordati liquidatori “impropri” con la soglia del 20% e con l’esclusione del voto del fisco se offre meno del fallimento. Il concordato liquidatorio ha senso se c’è qualche elemento che lo rende più efficiente del fallimento: ad esempio un terzo che apporta denaro (finanza esterna), oppure la volontà di evitare alcune revocatorie (nel concordato ex art. 120 CCII, certi atti non sono soggetti a revocatoria). Questi fattori possono aumentare il “patrimonio distribuito” ai creditori, compensando i costi in più.

Costi del Concordato Semplificato (post Composizione Negoziata)

Il concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio è uno strumento speciale, introdotto in via sperimentale con il D.L. 118/2021 e ora inserito nel CCII, riservato ai casi in cui l’impresa abbia tentato la composizione negoziata della crisi senza raggiungere un accordo con i creditori. In tale scenario, il debitore può proporre direttamente al tribunale un concordato “liquidatorio” senza passare per il voto dei creditori. È dunque un istituto “residuale” e molto rapido.

Dal punto di vista dei costi, il concordato semplificato presenta alcune differenze rispetto al concordato preventivo ordinario:

  • Niente fase di ammissione né voto: Questo elimina interamente i costi legati all’adunanza dei creditori, alla raccolta dei voti e persino la figura del commissario giudiziale tradizionale. Infatti non viene nominato un commissario giudiziale, bensì il tribunale può nominare un ausiliario con funzioni di vigilanza. L’ausiliario potrebbe essere ad esempio lo stesso esperto della composizione negoziata o altro professionista scelto dal giudice per coadiuvare. Il costo dell’ausiliario presumibilmente sarà inferiore a quello di un commissario classico, sia perché la procedura dura meno, sia perché l’ausiliario non deve gestire votazioni ma solo verificare il piano e controllare la liquidazione. Il suo compenso sarà comunque in prededuzione e determinato dal tribunale, ma date le caratteristiche semplificate, dovrebbe essere ridotto.
  • Procedure semplificate = meno spese burocratiche: Non essendoci l’ammissione, non c’è l’onere di pubblicare un decreto di ammissione e di far tutta la trafila fino all’omologa. In realtà un ricorso e un’udienza di omologa ci sono, quindi il contributo unificato va comunque pagato (sempre ~€98). Ma si risparmia in termini di tempo giudiziale (un’unica fase invece di due). Anche la motivazione del provvedimento è semplificata (il tribunale valuta solo legalità e convenienza rispetto all’alternativa).
  • Nessuna soglia di soddisfacimento minima richiesta: a differenza del concordato preventivo liquidatorio ordinario (20% ai chirografari richiesto salvo finanza esterna), il concordato semplificato non prevede soglia minima di pagamento. Questo potrebbe sembrare non un costo ma un “risparmio” per il debitore, che potrebbe proporre anche percentuali basse se proprio non c’è di più. Indirettamente, però, significa che i creditori potrebbero subire un concordato che dà loro meno di quel 20%. (Anche se poi il tribunale valuterà la convenienza sul fallimento.)
  • Costi della composizione negoziata pregressa: è opportuno dire che il concordato semplificato non nasce da solo ma appunto dopo un tentativo di composizione negoziata. Quindi quando si arriva al semplificato, l’impresa avrà già sostenuto il costo della composizione negoziata (compenso dell’esperto negoziatore, eventuali consulenze durante la trattativa). Questi costi vanno sommati per avere il quadro completo. Se la composizione negoziata è fallita, ha comunque generato spese (vedi sezione successiva) che ora pesano. Alcuni di questi costi però potrebbero diventare crediti prededucibili nel concordato semplificato (ad esempio il compenso dell’esperto nominato ex art. 25-ter CCII è prededucibile).
  • Durata molto breve: il concordato semplificato è pensato per chiudersi in pochi mesi. Non c’è voto, c’è solo la fase di omologa con eventuale opposizione. I costi indiretti legati al tempo sono quindi contenuti: i creditori scontenti potranno opporsi ma altrimenti la procedura si chiude rapidamente con un decreto.
  • Liquidazione del patrimonio con meno formalità: nel concordato semplificato si liquida comunque tutto, ma presumibilmente il debitore avrà già indicato acquirenti o modalità nella proposta. Si evita ad esempio la necessità di far istanza di fallimento se va male la votazione (perché non c’è). Questo può limitare i casi in cui, come nei concordati preventivi tradizionali, si arriva a metà e poi salta tutto generando costi duplicati.

In sintesi, i costi diretti di un concordato semplificato dovrebbero essere inferiori a quelli di un concordato preventivo ordinario: niente commissario (solo ausiliario, forse neppure nominato se il tribunale ritiene di poterne fare a meno), niente spese di voto, struttura più snella. Rimangono però i costi di base (contributo unificato, legali, ecc.) e i costi già sostenuti nella fase di composizione negoziata. Indirettamente, se paragonato a un fallimento, il concordato semplificato ha il vantaggio di definire velocemente la situazione (quindi meno incertezza, qualche possibilità in più che i beni siano venduti bene perché la trattativa può essere iniziata durante la negoziazione).

Dal punto di vista dei creditori, il concordato semplificato può essere visto come imposto dall’alto (non votano). Questo può essere percepito come un “costo” in termini di accettazione: se si sentono penalizzati, potrebbero fare opposizione (a loro volta costi legali per opporsi). Però se il tribunale lo omologa, i creditori evitano il lungo iter del fallimento e ottengono quanto previsto (che può essere poco, ma magari non meno di ciò che avrebbero ottenuto dopo anni di fallimento).

In pratica, il concordato semplificato è un strumento di chiusura rapida che cerca di ridurre i costi procedurali al minimo indispensabile per dare esecuzione a una liquidazione concordata. Lo scambio è che i creditori perdono la possibilità di rifiutare la proposta (non votano), purché la proposta sia più vantaggiosa del fallimento come risultato (criterio di omologa). Quindi, se un debitore propone un concordato semplificato, di norma sarà perché può offrire qualcosa di meglio in tempi più brevi che il fallimento non darebbe. In tal caso, per definizione, il “costo” per i creditori è inferiore all’alternativa (perché altrimenti il tribunale non lo concederebbe, dovendo valutare la convenienza ex art. 18 CCII).

Quindi si può affermare che: il concordato semplificato minimizza i costi procedurali (meno fasi, meno figure) ma non è percorribile da chiunque – solo chi ha fatto composizione negoziata e non è riuscito a concludere accordi, ma ha comunque elementi per offrire un esito liquidatorio soddisfacente. Possiamo immaginare che i costi diretti di un concordato semplificato siano circa il 50% o meno di quelli di un concordato ordinario (niente commissario, ausiliario con compenso ridotto, meno spese di pubblicità). E rispetto a un fallimento, sicuramente il risparmio maggiore è di tempo.

Costi della Composizione Negoziata della Crisi

La composizione negoziata (CNC) introdotta nel 2021 è un percorso volontario e stragiudiziale in cui l’imprenditore, con l’ausilio di un esperto indipendente nominato dalla CCIAA, cerca di negoziare con i creditori una soluzione per superare la crisi. Non è propriamente una procedura concorsuale (non comporta spossessamento, né coinvolgimento del tribunale salvo misure protettive opzionali), ma è rilevante confrontarla perché il suo scopo è appunto evitare l’insolvenza conclamata e il ricorso a concordati o liquidazioni.

In termini di costi diretti, la composizione negoziata presenta:

  • Accesso gratuito o quasi: la presentazione dell’istanza tramite la piattaforma telematica dedicata è gratuita. Non c’è contributo unificato per avviare la CNC, perché è una procedura amministrativa presso la CCIAA. L’imprenditore deve dotarsi di firma digitale e preparare dei documenti, ma non paga una “causa”. Quindi già qui c’è un vantaggio: costa zero (salvo le eventuali consulenze per predisporre i documenti).
  • Compenso dell’esperto negoziatore: L’esperto nominato ha diritto a un compenso per la sua attività di facilitazione delle trattative. L’art. 16 D.L. 118/2021 (ora art. 25-ter CCII) ha previsto che tale compenso sia determinato in percentuale sull’attivo dell’impresa secondo scaglioni, con aumenti legati al numero dei creditori e all’esito positivo delle trattative. Quindi, se l’esperto riesce a portare ad un accordo (che sia un contratto, un piano attestato, un concordato, etc.), il suo compenso viene aumentato. Se non si raggiunge accordo, si applica un criterio (forse un range minimo-massimo a discrezione del tribunale o Camera di Commercio). Le norme secondarie hanno fissato degli importi di massimale: per esempio, fonti professionali indicano che per PMI il compenso potrebbe essere tra €500 e €5.000 a seconda di dimensione e complessità. Tuttavia, per imprese più grandi, in base all’attivo la percentuale potrebbe far salire anche oltre 5.000. In generale, comunque, il compenso dell’esperto appare notevolmente inferiore a quello di un curatore o commissario, riflettendo il fatto che la composizione negoziata di solito dura pochi mesi e non implica la gestione diretta dei beni. Inoltre, se l’esperto non trova soluzioni, tende a non percepire un premio grosso (magari solo il minimo). Questo compenso è prededucibile nel caso poi si apra una successiva procedura concorsuale, ma in prima istanza può doversi fare carico l’imprenditore di pagarlo (in pratica, alla fine delle trattative, se si chiude con esito negativo, l’esperto presenterà il conto: l’impresa, se ha liquidità, paga; altrimenti resta un credito prededucibile per eventuale concordato/fallimento seguente). Esiste peraltro un Fondo statale che può intervenire a integrazione o anticipazione del compenso degli esperti in composizione negoziata (per incentivare l’utilizzo dello strumento, il MiSE aveva previsto risorse per compensare in parte l’attività degli esperti, specialmente per le piccole imprese).
  • Consulenze e supporto durante la negoziazione: l’esperto non agisce in sostituzione degli advisor del debitore: l’imprenditore spesso deve comunque farsi assistere da un commercialista e/o avvocato nelle trattative (per predisporre piani, fare proposte, calcolare impatti). Queste consulenze non sono obbligatorie per legge, ma di fatto se la crisi è seria l’imprenditore difficilmente fa da solo il piano di risanamento. C’è però da dire che la CNC è pensata come uno strumento snello: per imprese minori, non occorre allegare un piano dettagliato inizialmente, basta una situazione aggiornata e idee generali, e sarà l’esperto a guidare. Questo può contenere i costi di consulenza iniziali. Certo, se poi devono redigersi accordi formali (un accordo di ristrutturazione, un concordato semplificato, ecc.), allora subentrano i costi di attestatore o notaio per formalizzare, ma lì siamo già nella fase successiva.
  • Spese di protezione (facoltative): l’imprenditore può richiedere al tribunale delle misure protettive (stay dei creditori, sospensione di azioni esecutive) durante la negoziazione. Questa è l’unica parte “giudiziale”: comporta il deposito di un ricorso al tribunale per ottenere le misure, con un eventuale contributo unificato (sempre €98 come procedura cautelare) e l’intervento del giudice. In alcune giurisdizioni, può essere nominato un ausiliario del giudice per monitorare l’osservanza delle misure. Ciò introduce qualche costo (legale per fare il ricorso, ecc.), ma è opzionale e limitato.
  • Durata e impegno dell’esperto: per legge la CNC dura 180 giorni prorogabili di altri 180. Quindi al massimo ~12 mesi. L’esperto tipicamente lavora part-time su quel caso (ha incontri periodici, non è H24 sul fallimento come un curatore). Questo incide sul perché il suo compenso è relativamente basso.

Costi indiretti e benefici della composizione negoziata:

  • Il vantaggio principale è la riservatezza iniziale e la continuità integrale dell’impresa. Finché l’imprenditore tratta, non c’è dichiarazione d’insolvenza, non c’è pubblicità negativa (a parte la leggera pubblicità sul Registro Imprese dell’accettazione dell’incarico, prevista per trasparenza, che però non espone dettagli e spesso passa inosservata). Ciò conserva al massimo l’avviamento e le relazioni. Molte CNC si risolvono in accordi stragiudiziali confidenziali senza che il mercato lo percepisca. Dunque si evitano i danni reputazionali e di fiducia tipici delle procedure concorsuali pubbliche.
  • Se la composizione negoziata ha successo con un accordo stragiudiziale (ad esempio un accordo con le banche, o nuovi investitori), l’impresa evita proprio la procedura concorsuale: continua la sua attività, magari ristrutturata, con costi molto minori (nessuna procedura formale, nessun curatore). I creditori tipicamente accettano qualche sacrificio in cambio di evitare lungaggini, e l’impresa può risanarsi. Questo scenario è il migliore in termini di minimizzazione dei costi totali della crisi: i creditori perdono qualcosa, ma potenzialmente meno che nel fallimento; l’imprenditore mantiene l’azienda; lo Stato non spende nulla in tribunali e ammortizzatori (anzi l’azienda salvata continua a pagare tasse e occupare lavoratori).
  • Anche se la composizione non porta a un risanamento completo, può preludere a soluzioni concordate come un concordato preventivo semplificato (non quello liquidatorio semplificato, ma anche un eventuale concordato “normale” può essere presentato dopo la CNC, con la differenza che l’istruttoria fallimentare è rimandata e c’è un piano condiviso). Insomma l’aver fatto la negoziazione consente di arrivare preparati a un eventuale concordato con costi già spesi (attestatore, piani, ecc.), ma con consensi magari già raccolti informalmente. Questo aumenta le chance di successo e riduce la durata successiva. Così alcuni costi vengono ottimizzati.
  • Dal punto di vista dei creditori, partecipare a una CNC richiede di investire tempo nelle trattative e forse acconsentire a dilazioni o rinunce. Alcuni potrebbero preferire far fallire subito l’impresa e tentare di aggredire garanzie personali. Tuttavia la legge ha previsto incentivi: ad esempio ha stabilito che durante la CNC gli interessi sui debiti fiscali sono ridotti a quelli legali, le sanzioni fiscali dimezzate se poi c’è concorsuale, etc., per rendere la trattativa più appetibile per tutti (specialmente per il Fisco, che ottiene condizioni di favore se sta nel negoziato anziché far saltare tutto). Quindi i costi indiretti per i creditori sono mitigati: partecipare alla CNC non peggiora la loro posizione giuridica (possono sempre tirarsi indietro e far fallire dopo), e anzi se collaborano possono ottenere trattamenti migliori di quelli standard (il fisco ad esempio se sta al gioco non subisce la postergazione del 20% minima che patisce in un concordato, ma può negoziare transazioni).
  • Un costo per l’impresa in CNC potrebbe essere il vincolo di buona fede: l’imprenditore deve agire in modo da non danneggiare i creditori durante le trattative (c’è una sorta di moratoria sui pagamenti extra-ordinari, salvo autorizzazione dell’esperto, per equità tra creditori). Questo potrebbe voler dire dover pagare subito fornitori strategici per continuare l’attività (costoso) oppure astenersi da certe operazioni di ristrutturazione aziendale finché la trattativa è in corso (con possibile aggravamento se va male). Tuttavia l’esperto può autorizzare atti urgenti e finanziamenti prededucibili per tenere in vita l’azienda (ad es. ottenere nuova finanza durante la CNC con protezione prededucibile).

Quantificazione: In media, il costo dell’esperto è spesso nell’ordine di qualche migliaio di euro (es. PMI con attivo 5 mln, attuatore ~1% su attivo -> €50k, ma con massimali che lo contengono; micro-imprese anche solo €1-2k). Consulenze varie dipendono dalla complessità. Comunque, raffrontato a un fallimento dove il curatore magari avrebbe preso €100k e spese di procedura altri €50k, la CNC può costare un decimo di ciò e salvare valore. Dunque il bilancio costi-benefici pende a favore della CNC se c’è ragionevole prospettiva di esito positivo. Certo, se la CNC fallisce, l’impresa ha comunque allungato di 6 mesi l’agonia (potenziale aggravio del dissesto? La legge cerca di evitarlo imponendo vigilanza dell’esperto su atti peggiorativi), e ha aggiunto i costi dell’esperto e del tempo perso prima di andare in concorsuale. Ma quell’allungamento è breve (6 mesi, prorogabili 6) e spesso se fallisce la CNC si passa immediatamente a concordato semplificato, quindi in totale non è che si perdeno anni.

Conclusione del confronto:

Possiamo sintetizzare le differenze di costi tra le varie procedure in una tabella riepilogativa:

Tabella 2 – Confronto sintetico tra Liquidazione Giudiziale, Concordato Preventivo, Concordato Semplificato e Composizione Negoziata

Voce / AspettoLiquidazione GiudizialeConcordato PreventivoConcordato SemplificatoComposizione Negoziata
Contributo iniziale~€125 (istanza fallimento)~€125 (ricorso concordato)~€125 (ricorso omologa semplificato)€0 (istanza tramite piattaforma)
Organi e compensiCuratore: compenso % attivo (~5-10%, min €800).Commissario: compenso ridotto (circa 50-70% di quello di un curatore). Liquidatore post-omologa se previsto (compenso extra). Attestatore e advisor: costi elevati (es. decine di migliaia €).Ausiliario del tribunale in luogo del commissario (compenso minore, procedura più breve). Costi già sostenuti in composizione negoziata (esperto).Esperto negoziatore: compenso su attivo con scaglioni (in media modesto, es. €500-5.000). Possibili consulenti per piano di risanamento (variabili).
Spese proceduraliSpese giustizia, pubblicazioni, vendite: tutte a carico massa. Possono essere rilevanti (aste, custodie) ma anche ridotte se poco attivo.Spese simil-fallimento per vendite (se liquidatorio). In continuità: costi per adempimento piano (investimenti, ecc.). Costi di voto (convocazioni) e istruttoria.Spese di procedura minime (niente voto, iter rapido). Vendite eseguite come da piano concordato (alcune spese aste se previste). Nessuna fase di ammissione: risparmio tempo e costi.Nessuna spesa di giustizia salvo si chiedano misure protettive (eventuale contributo €98). Costi organizzativi minimi (incontri, report finale).
Durata tipica2-5 anni (chiusura attivo). Limite legale 5 anni (proroghe solo eccezionali). Possibile chiusura anticipata se attivo inesistente.6-18 mesi per omologa. Esecuzione piano: se liquidatorio immediato, chiusura in ~1 anno; se continuità, pagamenti dilazionati (es. 2-5 anni). Durata massima per legge (liquidat.) 2-3 anni per esecuzione atti (spesso indicato < 5 anni).~3-6 mesi per ottenere omologa e iniziare liquidazione. Liquidazione beni successiva relativamente rapida (obiettivo: completare entro 1 anno dall’omologa). Procedura residuale: tempi compressi al minimo necessario.3-6 mesi (180 giorni standard) prorogabili di ulteriori 6 mesi max. Trattative modulabili: se accordo trovato prima, può chiudersi anticipatamente.
Esiti per i creditoriRealizzo spesso parziale e tardivo (chirografari mediamente <20%). Distruzione avviamento: minor attivo distribuibile.Miglior soddisfazione se piano fattibile (chirografari spesso >20%). Pagamenti eventualmente dilazionati ma certi. Creditori votano (controllo).Soddisfazione prevista spesso simile al fallimento o leggermente superiore (debitore deve far meglio del fallimento per omologa). Vantaggio: incasso più rapido. Nessun voto (minor controllo per creditori, ma risparmio di tempo).Potenziale esito migliore: se accordo di risanamento, creditori possono recuperare la maggior parte (evitando insolvenza formale). Se fallisce: comunque possibilità di passare a concordato semplificato (tutela convenienza).
Impatto su aziendaCessazione attività (salvo brevi esercizi provv.). Perdita totale di avviamento e mercato. Imprenditore estromesso, azienda spossessata.Continuità (se prevista) mantiene operatività, posti di lavoro, valore. Se liquidatorio, cessione ordinata beni con contributo debitore/terzi (meno dispersione rispetto a fallimento puro). Imprenditore sotto sorveglianza ma coinvolto nella fase di proposta e (in continuità) gestione.Liquidazione del patrimonio senza prosecuzione dell’attività (azienda comunque disgregata). Però tempi brevi riducono rischio depauperamento e si possono prevedere cessioni in blocco a terzi più facilmente nel contesto semplificato. Imprenditore coopera nel proporre la soluzione.Attività prosegue normalmente durante negoziazione (nessun spossessamento). Avviamento preservato al 100% finché dura il negoziato. Se si arriva ad accordo, impresa salva (nessuna discontinuità). Se no, si è persa poca continuità nel frattempo e l’avviamento è in gran parte intatto all’inizio del concordato/fallimento eventuale.
Costi per l’erarioProcedura finanziata dallo Stato in parte: anticipazione spese giustizia, eventuale integrazione compenso curatore. Poca soddisfazione crediti erariali (spesso stralciati di fatto).Stato recupera qualcosa in più (nel piano di solito fisco prende quota concordata, spesso più che zero). Costi giudiziari: giudice, commissario (ma compensi a carico massa, non erario). Incentivi: se concordato tempestivo, fisco incassa meglio che in fallimento.Simile al fallimento in termini di incasso per Erario (che partecipa come creditore). Meno costi di tribunale (procedura più snella occupa meno risorse).Se accordo extra-giudiziale: nessun costo a carico Stato, anzi evita ammortizzatori sociali e cassa integrazione. Se si va poi a concorsuale, almeno è stato tentato tutto prima (giustificando eventuali stralci fiscali). Stato prevede fondi per compensare parzialmente esperti (costo limitato rispetto gestione di un fallimento).

(Nota: i dati percentuali e tempistici sono indicativi e medi; singoli casi possono discostarsi significativamente.)

Come si evince dalla Tabella 2, la liquidazione giudiziale resta lo strumento più costoso in termini di valore distrutto, mentre la composizione negoziata è quello più economico e conservativo di valore (ma richiede che l’impresa sia ancora recuperabile). I concordati preventivi comportano costi procedurali maggiori del fallimento ma salvano avviamento, risultando in genere preferibili se l’azienda è vitalmente ristrutturabile; il concordato semplificato è una via di mezzo, pensata per ridurre tempi e costi rispetto al fallimento, quando però non si è riusciti a raggiungere un accordo pieno in modo volontario.

In definitiva, “quanto costa” ogni procedura va valutato guardando non solo alle spese immediate (dove la negoziazione assistita è regina del risparmio, e il fallimento paradossalmente appare il più economico per chi promuove l’azione), ma soprattutto al costo finale per i creditori e per il sistema in termini di perdita di valore e tempo. Sotto questo profilo, spesso una soluzione concordataria o negoziale, pur avendo più “spese legali”, risulta meno costosa del fallimento in senso sostanziale, perché massimizza il valore distribuibile e riduce la distanza tra debito e pagamento effettivo.

Dopo aver confrontato gli istituti, restano da esaminare le responsabilità patrimoniali e personali legate alla liquidazione giudiziale, che rappresentano un’altra forma di “costo” potenzialmente rilevante per alcune figure (amministratori, soci, curatore stesso). Successivamente, si presenteranno simulazioni pratiche di calcolo costi e una sezione FAQ per consolidare la comprensione operativa.

Responsabilità Patrimoniali e Personali dei Soggetti Coinvolti

La liquidazione giudiziale, oltre a distribuire i costi economici, porta con sé una ripartizione delle responsabilità – in parte preesistenti, in parte derivanti dalla procedura – tra i vari soggetti interessati: l’imprenditore stesso, gli amministratori e i controllori della società fallita, gli organi della procedura (curatore e giudice delegato). Queste responsabilità possono implicare conseguenze patrimoniali (cioè dover rispondere con i propri beni di danni o debiti) e personali (limitazioni, sanzioni civili e penali, obblighi di condotta). Analizziamo ciascuna figura:

Imprenditore e Soci dell’Impresa Fallita

Imprenditore individuale: Nel caso di impresa individuale, la persona dell’imprenditore coincide col soggetto fallito. La dichiarazione di liquidazione giudiziale comporta per l’imprenditore persona fisica lo spossessamento dei suoi beni: tutto il suo patrimonio (esclusi i beni dichiarati impignorabili per legge, come alcune cose personali) viene destinato al soddisfacimento dei creditori. Questo significa che l’imprenditore insolvente risponde con tutti i suoi beni presenti e futuri dei debiti (futuri fino alla chiusura fallimento, poi si apre parentesi esdebitazione). In termini di responsabilità patrimoniale, nulla di nuovo: è il principio generale dell’art. 2740 c.c. (patrimonio del debitore a garanzia delle obbligazioni).

Tuttavia, la procedura in sé introduce alcune peculiarità: durante il fallimento, l’imprenditore persona fisica non può disporre dei propri beni (se lo fa compie atti inefficaci) e neppure delle sue nuove sopravvenienze (es. se vince alla lotteria, quei soldi entrano nel fallimento se ricevuti prima della chiusura). C’è quindi un sacrificio patrimoniale totale nell’immediato.

Sul piano personale, il fallito subisce alcune limitazioni (in passato molto afflittive, oggi attenuate dal CCII): ad esempio, ha l’obbligo di collaborare col curatore, di comunicare i cambi di residenza, di non lasciare il territorio senza avviso al GD (questo non è più un divieto forte come un tempo, ma se necessario il GD può disporre misure per assicurare la presenza). Inoltre, per la durata del fallimento l’imprenditore fallito non può ricoprire cariche come amministratore di società o altre posizioni che richiedono fiducia creditizia (questo è effetto indiretto: alcune leggi speciali vietano a falliti di essere iscritti a certi albi o di avere licenze, finché in stato di fallimento). Terminato il fallimento, però, grazie all’esdebitazione il soggetto è riabilitato in tempi brevi: il CCII prevede l’esdebitazione di diritto per il fallito persona fisica “meritevole” (cioè che non ha frodato) entro la chiusura o immediatamente dopo. Con l’esdebitazione, decadono le incapacità personali e il fallito torna libero da debiti residui (questo è un enorme beneficio introdotto dalla riforma, mentre prima doveva aspettare 5 anni per la riabilitazione).

Va evidenziato che l’imprenditore individuale fallito può andare incontro a responsabilità penale se ha commesso fatti di bancarotta (fraudolenta o semplice) o altri reati fallimentari (es. false comunicazioni, sottrazione di beni ai creditori, ecc.). In tal caso alle conseguenze civili si aggiungono possibili condanne penali con pene detentive e interdittive (ad es. l’interdizione dai pubblici uffici, l’incapacità a esercitare impresa per 10 anni, ecc., come pene accessorie). Questa è una responsabilità strettamente personale, non patrimoniale, ma chiaramente incide in modo grave. Ad esempio, un imprenditore condannato per bancarotta fraudolenta subirà carcere e non potrà tornare a fare l’amministratore per lungo tempo. Tali profili esulano dallo scopo economico, ma completano il quadro dei “costi personali”.

Soci di società di persone (S.n.c., S.a.s.): In società con soci a responsabilità illimitata, la dichiarazione di fallimento della società comporta per legge anche la dichiarazione di fallimento dei soci illimitatamente responsabili (art. 147 L.F., confluito nel CCII). I soci illimitati diventano quindi falliti in estensione, con effetti praticamente identici a quelli di un imprenditore individuale: il loro patrimonio personale entra nella procedura (spesso unificata con quella sociale) e subiscono le stesse limitazioni personali. Quindi i soci illimitati rispondono personalmente e solidalmente dei debiti sociali con tutti i loro beni. Un aspetto particolare: se il patrimonio sociale non basta, i creditori possono rifarsi su quello dei soci. Questo avviene all’interno della procedura fallimentare unica (ormai si tende a non fare due procedure separate, ma un unico fallimento di società + soci per economia). I soci accomandanti (nella S.a.s.), che hanno responsabilità limitata, non falliscono personalmente; però se hanno indebitamente ingerito amministrazione, possono perdere il beneficio.

Anche i soci illimitati falliti possono chiedere l’esdebitazione dopo la chiusura, liberandosi dai debiti residuali non soddisfatti.

Soci di società di capitali (S.r.l., S.p.A.): Qui c’è distinzione: i soci non sono di per sé responsabili dei debiti sociali (principio della responsabilità limitata). Quindi non rispondono con patrimonio personale del fallimento della società, salvo il caso di soci garanti (es. se avevano firmato fideiussioni personali verso banche, quelle restano escutibili al di fuori del fallimento). Dunque un socio al 100% di una S.r.l. fallita può perdere tutto il capitale investito, ma non gli verranno a prendere la casa per pagare debiti della società (a meno di frodi, vedi dopo). Tuttavia, possono sorgere responsabilità indirette:

  • Se la società aveva debiti verso l’erario rimasti insoddisfatti per mala gestione, l’Erario può agire sui soci per distribuzioni fatte nei due anni precedenti (es. dividendi percepiti possono essere revocati, come atto a titolo di capitali restituiti indebitamente). Il curatore può esercitare azione di responsabilità verso i soci in certi casi (ad es. se in una S.r.l. i soci hanno deciso riduzioni di capitale illegittime tali da recare danno ai creditori, anche se questo rientra più nell’azione contro amministratori/soci ex art. 2476 c.c. per mala gestio).
  • Sottocapitalizzazione e abusi: se i soci hanno di fatto utilizzato la società come schermo per attività illecite o contra legem, potrebbero essere soggetti a revoca della limitazione e considerati di fatto illimitatamente responsabili (è un tema di giurisprudenza: teoria della “penetration of corporate veil” in caso di abuso della personalità giuridica, raro in Italia ma presente nel concetto di “socio tiranno” che può rispondere di alcuni debiti). Più concretamente, i soci di S.r.l. che siano anche amministratori di fatto possono rispondere come amministratori (vedi dopo).
  • Obblighi di versamenti soci: se i soci non avevano liberato interamente il capitale, il curatore chiederà il versamento dei decimi ancora dovuti (responsabilità contrattuale del socio verso società). Similmente, se c’erano finanziamenti soci in conto capitale postergati, questi non verranno rimborsati (ma questo è un “costo” per il socio, non per altri: il finanziamento del socio viene dietro a tutti, di fatto perso).

In generale però i soci di S.r.l./S.p.A. hanno la fortuna di non rischiare il patrimonio personale per i debiti sociali, se si sono comportati lecitamente. Il loro “costo” è perdere l’investimento e subire il danno indiretto reputazionale. Vi è però un’eccezione importante: se emerge che la società era in realtà gestita in maniera fraudolenta o con confusione di patrimoni, i creditori possono promuovere l’azione di responsabilità verso i soci amministratori (spesso coincide con l’azione verso amministratori). Ad esempio, Cassazione ha confermato la legittimazione del curatore ad agire contro i soci (specie unici) per abusiva concessione di credito o aggravamento del dissesto tramite direttive nocive.

Quindi, sul piano patrimoniale i soci di capitali in principio sono al riparo, ma sul piano personale possono comunque subire:

  • Perdita totale del valore delle quote (ovvio).
  • Cause di responsabilità se erano coinvolti nella gestione (vedi amministratori).
  • Eventuali misure penali: i soci di S.p.A. ad esempio potrebbero aver concorso in reati fallimentari (es. socio che istiga l’amministratore a distrarre beni può risponderne penalmente).
  • Interdizioni: un socio di controllo condannato per reati connessi può subire interdizione dall’esercizio di imprese.

Esdebitazione: Va menzionato che l’esdebitazione post-fallimento (art. 278 CCII) consente solo all’imprenditore persona fisica fallito di liberarsi dai debiti residui. La società, essendo ente, viene liquidata e cancellata; i soci di capitali non hanno debiti (tranne fideiussioni personali). I soci illimitati, falliti anch’essi, possono chiedere esdebitazione personale per i debiti rimasti. L’esdebitazione non copre però le sanzioni penali pecuniarie ed eventuali obblighi di mantenimento/familiari.

Amministratori della società fallita

Gli amministratori (e in generale chi ha gestito l’impresa, inclusi amministratori di fatto, direttori generali nelle S.p.A., etc.) sono soggetti a un regime di responsabilità articolato. Possiamo distinguere:

  • Responsabilità civile verso la società e i creditori: se il fallimento evidenzia che gli amministratori con il loro comportamento hanno cagionato un danno al patrimonio sociale (e indirettamente ai creditori), il curatore è legittimato ad esercitare l’azione di responsabilità nei loro confronti. Questa azione cumula la natura di:
    • azione sociale (ex art. 2393 c.c. o 2476 c.c. per S.r.l.) per danni alla società (es. mala gestio che ridusse il patrimonio);
    • azione dei creditori sociali (ex art. 2394 c.c.) per danno da insufficienza patrimoniale aggravata (cioè quando la gestione ha peggiorato il deficit causando l’insoddisfazione creditori).
    Nel vecchio ordinamento era l’art. 146 L.F. a prevedere espressamente questa legittimazione del curatore; nel CCII ciò è ribadito (artt. 255-256 CCII). La Cassazione (tra cui Cass. SU 9100/2015, Cass. 17197/2016) ha chiarito che l’azione del curatore compendia entrambe le azioni in un’unica causa. Dunque gli amministratori possono essere chiamati a risarcire con proprio patrimonio i danni causati: importi che possono essere molto alti, talora prossimi all’intero deficit fallimentare se si prova che la mala gestione l’ha prodotto. Esempio tipico: amministratori che hanno continuato ad accumulare debiti pur essendo la società già decotta (c.d. “ritardata richiesta di fallimento”). La giurisprudenza configura questo come inadempimento dei doveri di corretta gestione: se il ritardo nell’accesso alla procedura ha aggravato il dissesto, gli amministratori ne rispondono per il peggioramento (ad es. debiti passati da 1 milione a 2 milioni nell’anno in cui non hanno fatto nulla). Cassazione ha costantemente affermato la responsabilità in questi casi: ad esempio Cass. 14873/2022 ribadisce che i sindaci (ma analogamente i amministratori) sono responsabili se non rilevano tempestivamente la causa di scioglimento e la perdita di capitale che portano a insolvenza; Cass. 3804/2022 conferma che l’azione contro sindaci/amministratori può essere esercitata anche se pende analoghe azioni dei creditori (coordinate poi). La quantificazione del danno segue vari criteri (il cosiddetto criterio differenziale tra attivo e passivo al momento in cui avrebbero dovuto attivarsi e quello riscontrato poi, oppure la perdita incrementale netta, ecc.). Gli amministratori quindi rischiano di dover pagare di tasca propria somme ingenti, che in un certo senso sono “costo del fallimento” perché vanno a vantaggio dei creditori (il risarcimento raccolto dal curatore entra nell’attivo e viene distribuito). In pratica, anche se la società era a responsabilità limitata, l’amministratore che l’ha condotta male può perdere il proprio patrimonio via risarcimento. Gli amministratori rispondono in modo illimitato e solidale tra loro (ciascuno per l’intero danno, salvo diritto di regresso internamente). Per le S.r.l., anche il socio unico che abbia agito come dominus può essere considerato amministratore di fatto e chiamato in causa (Cass. 11324/2024 ha accolto azione del curatore contro amministratori per operazioni dolose su una S.p.A., ribaltando decisione di merito che li aveva assolti, sottolineando onere probatorio del curatore – segno che le corti superiori tendono a dare opportunità di ristoro alla curatela dove possibile).
  • Responsabilità penale: I medesimi comportamenti possono costituire reati fallimentari: bancarotta fraudolenta se c’è distrazione di beni, libri contabili falsificati, etc.; bancarotta semplice se c’è imprudenza grave (es. spese personali esagerate, omissione di libri). Gli amministratori che abbiano commesso queste condotte possono essere condannati a pene detentive (bancarotta fraudolenta: fino a 10 anni). La condanna comporta anche interdizione dai pubblici uffici e dall’esercizio di impresa commerciale per 10 anni. Quindi, dal punto di vista personale, un amministratore colpevole paga un costo altissimo: oltre al carcere, l’impossibilità per un decennio di fare l’amministratore o avviare un’impresa. Ciò è previsto dall’art. 216 L.F. (ora trasfuso nel codice penale/leggi speciali). Non solo: la condanna penale di solito include la condanna al risarcimento danni verso i creditori costituiti parti civili, e alle spese di giustizia. Dunque l’amministratore può trovarsi a dover risarcire pure in sede penale le stesse voci (anche se questi importi spesso confluiscono nell’azione civile del curatore, evitando duplicazioni).
  • Obblighi durante la procedura: Gli amministratori, se ancora in carica alla data del fallimento, hanno obblighi di consegna documenti e collaborazione col curatore. Devono consegnare i libri sociali, fornire informazioni e rendere il conto della gestione fino alla dichiarazione di fallimento. Se omettono ciò, commettono reato di bancarotta documentale o semplice. Quindi devono stare attenti a essere trasparenti. Non c’è un compenso per loro (ovviamente decadono dalla carica senza liquidazione del loro mandato salvo crediti pregressi, che comunque diventano chirografari).
  • Patrimonio personale vincolato?: Se vi sono cause di responsabilità in corso, il curatore può chiedere sequestro conservativo sui beni degli amministratori per preservare garanzia del futuro risarcimento (art. 2905 c.c. e art. 15 L.F. permettevano su richiesta del curatore). Quindi l’amministratore può vedere i suoi beni congelati durante il fallimento.

Riassumendo, per un amministratore le responsabilità patrimoniali riguardano risarcimento danni (potenzialmente altissimi) e oneri di restituzione di eventuali somme indebitamente prese (es. compensi non in linea col mercato possono essere richiesti indietro, oppure utili distribuiti illegalmente). Le responsabilità personali comprendono le restrizioni post-condanna e l’infamia di reati fallimentari.

Negli ultimi anni, le Corti sono state piuttosto rigorose: ad esempio Cass. 30383/2022 ha ribadito che in caso di mancanza di contabilità, si facilita l’onere probatorio del curatore (nel dubbio su entità danno, la negligenza del manager va interpretata sfavorevolmente). Cass. 3922/2024 ha pure sottolineato responsabilità dei sindaci inerti e visto nelle dimissioni tardive un indice di colpa (arriviamo ai sindaci).

Sindaci e organi di controllo (Revisori)

I componenti del collegio sindacale (o il sindaco unico nelle s.r.l.), nonché i revisori legali se presenti, hanno il compito di vigilare sulla gestione e segnalare tempestivamente irregolarità. In caso di fallimento, anche loro possono essere chiamati a rispondere:

  • Responsabilità civile verso società e creditori: Il curatore può citare in giudizio i sindaci se ritiene che, con la loro omissione di controllo, abbiano concorso a cagionare il danno. Ai sensi dell’art. 2407 c.c., i sindaci rispondono solidalmente con gli amministratori se il danno era evitabile esercitando la dovuta vigilanza. Ad esempio, se i sindaci non hanno denunciato ai sensi dell’art. 2409 c.c. gravi irregolarità e queste sono proseguite portando al fallimento, possono dover risarcire. La Cassazione in varie pronunce recenti ha confermato linea dura: ad es. Cass. 23200/2023 afferma che basta l’inosservanza del dovere di vigilanza (quindi non serve dimostrare dolo) per configurare la colpa dei sindaci che non hanno rilevato tempestivamente la crisi. Cass. 3922/2024 – citata prima – rimarca che sindaci dimissionari all’ultimo minuto non si liberano da colpe pregresse. Quindi i sindaci rischiano di pagare anch’essi per il quantum di aggravamento del dissesto dovuto alla loro inerzia. Anche i revisori contabili potrebbero rispondere se con pareri negligenti hanno fuorviato i terzi (es. certificando bilanci falsi). I sindaci solitamente hanno assicurazioni professionali che coprono questi rischi, ma non sempre bastano se danni grandi. Dal punto di vista patrimoniale, un sindaco può essere condannato a risarcimenti cospicui, anche se di solito la giurisprudenza tende a imputare la quota di danno principale agli amministratori, e ai sindaci una parte per culpa in vigilando. Comunque, è una minaccia reale: responsabilità solidale significa che se amministratori non hanno beni, i creditori/curatore possono rifarsi per l’intero sui sindaci (poi questi avranno azione di regresso, ma se gli amministratori erano nullatenenti, è inutile). Questo è molto rilevante: diverse cause post-fallimento prendono di mira i sindaci per recuperare ciò che dagli amministratori non si riesce a prendere.
  • Responsabilità penale: Non esistono reati di “bancarotta dei sindaci” in quanto tali, ma i sindaci possono essere puniti come concorrenti nei reati degli amministratori se consapevolmente li hanno agevolati (es. non hanno impedito distrazioni di beni pur sapendole). Inoltre, esiste il reato di omessa denuncia delle irregolarità (ex art. 2409 c.c. c’era sanzione, ma credo sia amministrativa; invece in contesto di crisi il CCII prevedeva obbligo di segnalazione interna e ai nuovi OCRI, ma quell’allerta è stata depotenziata). Comunque, se la loro omissione è stata gravissima, potrebbero incorrere in responsabilità penale per concorso in bancarotta semplice (ad esempio se ignorano deliberatamente la mancanza di libri, diventano complici del reato di bancarotta documentale). Tuttavia, nella prassi, i sindaci raramente vengono perseguiti penalmente, tranne in casi eclatanti di collusione. Più spesso subiscono le azioni civili.
  • Altre conseguenze: Un sindaco coinvolto in un fallimento rischia di vedersi sospendere o radiare dall’albo dei commercialisti se riconosciuto responsabile grave (norme deontologiche). E in generale danneggia la sua carriera (chi assumerebbe come sindaco uno che ha dovuto pagare per un fallimento?). Quindi vi è un costo reputazionale e professionale elevato.
  • Amministratori di fatto e altri soggetti: Va aggiunto qui che a volte vengono qualificati come responsabili anche altri soggetti: ad esempio la banca che ha finanziato abusivamente l’impresa aggravandone il dissesto può essere chiamata a rispondere (azione di responsabilità per concessione abusiva di credito, che il curatore può esercitare in alcuni casi). Oppure i consulenti che hanno certificato cose false (il curatore potrebbe citare anche loro per concorso in illecito civile). Non è comune, ma fa parte dello spettro.

In conclusione, i controllori (sindaci e revisori) condividono con gli amministratori il destino di possibili target di azioni risarcitorie e, in misura minore, di sanzioni penali. Quindi la liquidazione giudiziale può comportare per loro un costo patrimoniale enorme (nel caso di condanna) e un costo personale in termini di reputazione e carriere. Cass. 11324/2024 citata prima evidenzia come spesso i giudici di merito sono restii a condannare i sindaci, ma la Cassazione sta spingendo per un approccio rigoroso (in quel caso cassò l’assoluzione dei amministratori, segnale che il clima è severo verso chi ha causato danni ai creditori).

Curatore Fallimentare

Il curatore, pur essendo organo pubblico ausiliario, può anch’egli incorrere in responsabilità, sebbene in posizione diversa:

  • Responsabilità civile verso la massa: Se il curatore, nella conduzione della procedura, causa per dolo o colpa grave un danno ai creditori o ad altre parti, può essere chiamato a risarcirlo. Il CCII conferma la responsabilità del curatore per atti o omissioni dannosi. Tipico caso: curatore che vende un bene a prezzo vile per negligenza, o che omette di insinuarsi in un credito attivo importante facendolo prescrivere. Il danneggiato (che può essere la massa nel suo complesso o singoli creditori) può agire contro il curatore. Spesso occorre l’autorizzazione del tribunale per citarlo (in passato c’era la procedura di giurisdizione volontaria ex art. 38 L.F. per valutarne la responsabilità prima di ammettere causa; ora non sono aggiornato se c’è analogo filtro nel CCII, credo di no esplicito, ma sempre l’autorizzazione può essere chiesta ex art. 124 CCII al giudice delegato per promuovere cause in corso di procedura). Il curatore deve avere una polizza assicurativa obbligatoria per i rischi professionali, quindi eventuali risarcimenti di norma li paga l’assicurazione (fino a massimale). Ma se il danno supera o l’assicurazione non copre (es. dolo o atti fuori polizza), potrebbe essere responsabile personalmente. Peraltro, l’incarico di curatore può essere revocato se inadempiente e il tribunale può ridurre/rifiutare il suo compenso come sanzione. Quindi un curatore negligente subisce intanto il costo di perdere onorario e reputazione (difficilmente otterrà altri incarichi).
  • Responsabilità penale: Il curatore può incorrere in reati se si appropria di beni della procedura (peculato, in quanto esercita pubbliche funzioni; c’è una specifica fattispecie di peculato fallimentare se distrae attivo). Può anche rispondere di corruzione se prende mazzette per favorire qualcuno nelle vendite. E anche di reati minori come violazione di segreto d’ufficio. Questi casi fortunatamente sono rari. Ma, ad esempio, vi sono stati casi di curatori condannati per aver dolosamente favorito alcuni creditori (questo potrebbe configurare abuso d’ufficio se viola norme per arrecare intenzionalmente vantaggio a taluno). Insomma, anche il curatore ha sul capo la spada del codice penale se si discosta dal suo ruolo fiduciario.
  • Controllo giudiziario: Il giudice delegato e il comitato dei creditori controllano l’operato del curatore. Un curatore negligente può essere rimosso dal GD e può subire anche la perdita dei requisiti per iscrizione all’albo dei gestori della crisi. C’è quindi un potenziale costo professionale: la carriera di curatore finisce se sbaglia gravemente.

In sostanza, il curatore benché figura “terza” rispetto al fallimento può avere responsabilità patrimoniali (risarcimento danni) analoghe a quelle di un professionista verso il cliente, con la differenza che qui il “cliente” è la massa dei creditori. La giurisprudenza è abbastanza severa su errori grossolani dei curatori: Cass. 29747/2018 evidenziava il dovere d’ufficio del curatore di attivarsi ad esempio per insinuare tempestivamente crediti nelle procedure collegate, pena responsabilità. Cioè, se il curatore non adempie doveri come depositare istanze ex art. 144 TUSG per spese legali, quell’omissione è un grave inadempimento.

Un elemento di tutela per i curatori è che spesso, per citare in giudizio un curatore, serve il parere/autorizzazione del tribunale fallimentare (questo per evitare cause temerarie contro il curatore da parte di scontenti). Ad esempio, se un creditore ritiene che il curatore abbia pagato troppo tardi e male il suo credito, in generale non può fare causa se non prova dolo/colpa grave e deve passare dal tribunale fallimentare.

Giudice Delegato e Tribunale

I magistrati (giudice delegato e collegio) godono sostanzialmente di immunità per le loro decisioni, salvo i rimedi previsti per responsabilità civile dei magistrati (L. 117/1988). Ciò significa che un creditore o un fallito non può fare causa al giudice per come ha condotto la procedura, se non in casi eccezionali (tipo diniego di giustizia o dolo). Dunque, per scopi pratici, il giudice delegato non risponde patrimonialmente verso le parti, tranne casi di colpa grave travolgente accertati dallo Stato (in quel caso, peraltro, risponde lo Stato ed eventualmente si rivale sul giudice).

Il giudice delegato potrebbe incorrere in sanzioni disciplinari se violasse norme (ad es. ritardi ingiustificati, comportamenti inopportuni). Ma per i creditori questo non comporta ristori economici. In via teorica, un fallito danneggiato da atto illegittimo di un giudice che configuri reato potrebbe ottenere risarcimento dallo Stato.

Quindi, il Giudice Delegato per definizione non paga costi. L’unica cosa: se il giudice compie atti in conflitto di interesse o su pressione, potrebbe essere punito penalmente (es. corruzione in atti giudiziari), ma sono casi estremi.

Riassumendo le responsabilità:

  • L’imprenditore/debitore sopporta la perdita del suo patrimonio (e soci illimitati uguale). Se persona fisica e onesto, può ottenere esdebitazione e ripartire, ma in caso di condotte dolose subisce condanne penali e interdizioni. Questo è in parte il “prezzo” del fallimento per lui: cede tutto però può liberarsi dei debiti residui (il CCII vede l’esdebitazione come scambio).
  • Gli amministratori rischiano di dover risarcire il deficit causato dalla loro mala gestio e di subire condanne per bancarotta, con tutte le conseguenze del caso (anche rovina reputazionale e interdizione decennale).
  • I sindaci e revisori rischiano analoghi risarcimenti se ritenuti colpevoli di vigilanza omessa, e possibili concorsi in reati (oltre a rovinarsi la carriera).
  • Il curatore può essere chiamato a rispondere di errori gravi e può perdere onorari e incarichi, oltre all’ombra di eventuali reati se disonesto.
  • Il giudice delegato sostanzialmente non risponde civilmente verso le parti (salvo casi rarissimi), in linea col principio di indipendenza della magistratura; dunque la sua eventuale responsabilità è una questione di stato (lo Stato potrebbe essere responsabile per malagiustizia, ma è tema diverso).

In termini di “costo”, queste responsabilità delineano chi può dover mettere mano al portafoglio in seguito al fallimento: di solito, amministratori e sindaci (oltre, ovviamente, all’imprenditore stesso) sono i principali candidati. Ed infatti, nei grandi fallimenti, spesso il “recovery” per i creditori passa anche attraverso transazioni con gli amministratori e sindaci (magari coperti da assicurazioni) per ottenere contributi al passivo.

Va sottolineato che il nuovo Codice della Crisi ha rafforzato i doveri di prevenzione a carico degli amministratori (art. 2086 c.c., obbligo di assetti adeguati a rilevare la crisi). Se gli amministratori non hanno predisposto assetti tali da accorgersi in tempo della crisi, ciò può essere usato come elemento di colpa grave nella loro responsabilità. Per i sindaci, la mancata attivazione degli strumenti di allerta (quando erano previsti) era una colpa: anche se l’allerta esterna (OCRI) è stata tolta, rimane l’obbligo morale di sollecitare l’organo amministrativo a intervenire. Cassazione in molte pronunce rimarca la tempestività come discrimine: chi tardivamente rileva la crisi paga. Ad esempio, la Cass. 17 ottobre 2022 n. 30383 (citata) e Cass. 31 luglio 2023 n. 23200 insistono su questo per i sindaci.

In conclusione, il “costo” del fallimento in senso ampio può colpire direttamente il patrimonio personale di coloro che hanno contribuito a causare o ad aggravare l’insolvenza. Per l’imprenditore può voler dire restare senza nulla (ma almeno libero dai debiti futuri se esdebitato); per gli amministratori e controllori può significare rispondere con i propri beni (case, risparmi) ai creditori. Queste responsabilità fungono anche da deterrente e da strumento di giustizia distributiva: spostano parte delle perdite dai creditori (vittime passive) ai gestori colpevoli del dissesto.

Dopo questa disamina delle responsabilità, passiamo ora a vedere esempi pratici di costi di procedure concorsuali per diverse tipologie di imprese, con alcuni numeri simulati che aiutino a capire l’ordine di grandezza e la composizione di tali costi.

Simulazioni Pratiche di Calcolo dei Costi

In questa sezione verranno presentati alcuni esempi pratici (“case studies”) per illustrare come si possono calcolare i costi diretti di una liquidazione giudiziale in situazioni concrete. Verranno considerati diversi tipi di imprese e settori, così da coprire lo spettro richiesto: società di capitali (ad es. una S.r.l.), società di persone (es. una S.n.c.) e ditta individuale, operanti nei settori del commercio, dell’edilizia e della manifattura rispettivamente.

Ogni simulazione fornirà dati ipotetici di attivo e passivo, e procederà a stimare:

  • il compenso del curatore (secondo gli scaglioni di legge),
  • le principali spese procedurali (contributo, spese di pubblicazione, eventuali perizie),
  • eventuali compensi di ausiliari (se nel caso),
  • i tempi presumibili e i costi indiretti salienti (perdita di avviamento, etc.),
  • l’eventuale confronto con altre soluzioni nel caso specifico.

Sono simulazioni semplificate, ma basate su criteri reali, utili per capire quanti euro “assorbe” in concreto un fallimento di una certa dimensione.

Esempio 1: S.r.l. commerciale di medie dimensioni

Scenario: “Alfa S.r.l.” gestisce una catena di negozi di abbigliamento (settore commercio). A causa della crisi e di errori gestionali, accumula debiti e viene dichiarata in liquidazione giudiziale nel 2025. Dati salienti:

  • Attivo: merci a magazzino €100.000 (valore di costo; realizzo previsto magari €50.000 perché vendute stock), arredi e scaffalature €20.000 (valore realizzo), un automezzo €10.000, crediti verso clienti €30.000 (ma molti insoluti, se ne recupereranno forse €10.000). Totale attivo realizzabile stimato: circa €90.000.
  • Passivo: debiti verso fornitori €200.000, debiti bancari €150.000 (di cui garantiti da pegno su magazzino per €50.000), debiti verso Fisco €50.000, TFR e stipendi arretrati dipendenti €30.000. Totale passivo €430.000.
  • Soci: è una S.r.l. con capitale 20.000 detenuto da due soci (responsabilità limitata).
  • Cause di insolvenza: calo vendite, merce invenduta, e-commerce competitor, ecc. Niente reati apparenti, solo gestione un po’ allegra di scorte.
  • Prospettive: l’azienda ha perso avviamento (clienti passati alla concorrenza), quindi non c’è interesse a esercizio provvisorio. Si liquideranno le merci e si chiuderà.

Costi diretti stimati:

  • Contributo unificato: €98 + €27 bolli, anticipati dalla banca creditrice che ha fatto istanza (costo per la banca, che poi rimane a suo carico perché il fallimento non restituirà – ma importo trascurabile).
  • Compenso del Curatore: Bisogna calcolarlo sul “attivo + passivo”. Attivo realizzato ipotizzato €90.000; passivo accertato (esclusi privilegi soddisfatti integralmente) magari €400.000 (i privilegiati come banca sui pegni e dipendenti verranno pagati qualcosa, ma comunque il passivo esaminato include tutti). Somma base: diciamo €490.000. Applichiamo scaglioni DM 2021:
    • 12% su €15.000 = €1.800;
    • 9% su €60.000 (da 15k a 75k) = €5.400;
    • 6% su €75.000 (da 75k a 150k; scaglione presunto) = €4.500;
    • 3% su €150.000 (da 150k a 300k) = €4.500;
    • 1.5% su €190.000 (da 300k a 490k – supponendo scaglione 300k-∞ al 1%, ma qui potremmo usare 1.5% medio se scaglioni precisi non noti) = ~€2.850.
      Sommiamo: €1.800+5.400+4.500+4.500+2.850 ≈ €19.050. Ipotizziamo che il giudice non applichi né aumento né riduzione. Quindi ~19k.
      Visto l’attivo realizzato è solo 90k, chiaramente 19k non potrà essere pagato integralmente. Come si procede? Prima si pagano spese, poi i privilegiati (tra cui il curatore se considerato spesa giustizia). Il curatore qui prende priorità su tutti come spesa di giustizia. Quindi incasserà la maggior parte di quei 90k fino a saturare 19k. Rimarrebbero 71k per i creditori privilegiati (che sono banca 50k e dipendenti 30k, totale 80k; probabilmente dipendenti prendono quasi tutto il TFR, banca non del tutto coperta).
      Se l’attivo fosse addirittura sotto 19k, il curatore avrebbe diritto al minimo (€800) e poi chiederebbe il resto al Fondo di Garanzia dello Stato.
  • Spese procedurali:
    • Pubblicazione sentenza e iscrizioni varie: supponiamo €300 (registro imprese, PEC ai creditori, ecc.).
    • CUSTODIA beni: il curatore forse affida a un commissionario la vendita delle merci, che magari applicherà una commissione (es. casa d’aste per stock). Diciamo 5% del ricavato merci (€50k) = €2.500, che si può includere in spese di vendita. Oppure, se vende direttamente con trattativa, risparmia.
    • Perizia di stima iniziale? Forse non serve per merce, il curatore può valutare da solo o con base fatture.
    • Compenso delegato per vendere automezzo: forse un commissionario d’asta online con €500 di commissioni.
    • Spese di procedimento passivo: il curatore invierà 100 PEC, spesa praticamente zero, e userà il portale giustizia, anche qui irrilevante.
    • Diciamo, prudenzialmente, spese varie totali ~€3.000 (incluse quelle anticipate).
    • Se c’è un affitto magazzino per tenere la merce 2 mesi: €1.000.
    • Tassa registro sentenza €200 (anticipata Erario).
    • Totale spese giustizia: ~€4.500 (curatore poi li paga in prededuzione come indicato).
  • Compensi ausiliari:
    • Il curatore decide di non nominare nessun consulente esterno perché è abbastanza semplice: si limiterà a vendere a stock la merce a un liquidatore di stock e a recuperare i crediti con letterine (se serve assume un legale per decreto ingiuntivo su 2 clienti principali, spesa €1.000).
    • Diciamo spese legali €1.000.
  • TOTALE costi diretti: Curatore ~€19.000 + spese proc. €4.500 + legali €1.000 = €24.500 circa.
    Questo 24.5k verrà coperto dall’attivo 90k in prededuzione. Ne restano 65.5k per i crediti privilegiati: dipendenti 30k e banca 50k (ipotecaria su magazzino 50k, ma magazzino ha reso solo 50k dimezzati? Attenzione: la banca aveva pegno su merci per 50k, però merce ha reso 50k al 100%. Banca come pignoratizia è privilegiata su quell’incasso al netto spese su quell’attivo).
    For sake of simplicity, dipendenti prenderanno i loro 30k dal fondo di garanzia INPS immediato e l’INPS subentrerà con privilegio, ma nel riparto quell’INPS e la banca si divideranno 65.5k pro rata sui loro 80k di privilegi (circa 82% di soddisfo).
    Chirografari (fornitori 200k, fisco chirografo 20k residui) purtroppo zero.
  • Tempi: Previsti 2 anni: 3 mesi verifica passivo, 1 anno vendite stock e recupero crediti, 3 mesi predisposizione riparto, 3 mesi attesa eventuali reclami, ecc. Totale ~18-24 mesi per chiudere. È un fallimento piccolo, può stare nei 2 anni auspicati dal CCII.
  • Costi indiretti: per l’impresa, l’avviamento è andato perso (ma era inevitabile, l’azienda già stava male). Effetti reputazionali: i due soci-imprenditori magari erano anche amministratori, quindi potrebbero subire azione di responsabilità se hanno tardato a chiudere negozi. Supponiamo però che hanno chiuso ragionevolmente, quindi niente azioni pesanti, magari solo qualche critica in relazione del curatore. Comunque i soci perdono l’investimento e uno di loro, che era garante di affitto di negozi, magari sarà escusso. Costo reputazionale: se volessero aprire altro, saranno guardati con sospetto dai fornitori (l’ambiente locale li conosce come “quelli falliti”).
    I creditori chirografari (fornitori moda) registrano perdita quasi totale, ma possono dedurla fiscalmente come perdita su crediti certa data la procedura concorsuale.
  • Alternative: Avrebbe potuto fare concordato? Con 90k attivo vs 430k debiti, la percentuale sarebbe 20% scarsa privilegi inclusi. Avrebbe dovuto garantire 20% ai chirografari (che sono 220k totali chirografari), cioè 44k ai chirografi, più pagare privilegi 80k = servivano 124k attivo per un concordato liquido. Ne aveva 90k, quindi non fattibile a meno di finanza esterna di 34k (che i soci non avevano). Composizione negoziata: probabilmente nessuna banca avrebbe accettato stralci, l’industry non attrae investitori. Quindi il fallimento era la via obbligata.

Sintesi Esempio 1: Per una S.r.l. commerciale con ~€90.000 attivo realizzato e ~€430.000 di debiti, la procedura di liquidazione giudiziale genera costi diretti intorno a €25.000 (di cui la maggior parte – ~€19.000 – è il compenso del curatore). Tali costi rappresentano circa il 28% dell’attivo disponibile. I creditori privilegiati recuperano la parte residua (~72% dell’attivo), mentre i chirografari nulla. I costi indiretti includono la perdita del brand aziendale e i posti di lavoro (10 dipendenti licenziati, che però ricevono TFR dal Fondo INPS), nonché il danno reputazionale per i soci e amministratori. Nessuna responsabilità particolare se non la normale: gli amministratori potrebbero essere criticati se hanno tardato la chiusura saldi di magazzino, ma probabilmente non c’è azione giudiziale contro di loro in questo scenario lineare.

Esempio 2: S.n.c. edilizia (società di persone in costruzioni)

Scenario: “Beta S.n.c.” è una piccola impresa edile a conduzione familiare (settore edilizia). Ha due soci amministratori (Padre e Figlio) illimitatamente responsabili. Dopo alcuni lavori risultati in perdita e crediti non riscossi, Beta S.n.c. fallisce (liquidazione giudiziale) su istanza di fornitori. Dati:

  • Attivo: attrezzature da cantiere e macchinari per €40.000 (valore di mercato, ipotizziamo realizzo simile, perché macchinari usati edili hanno mercato discreto), 3 autocarri del valore €30.000 totale, un capannone di proprietà dal valore €100.000 (ipotecato a banca per mutuo residuo €80.000), crediti verso clienti (appaltatori) €50.000 (ma molti contestati; supponiamo di recuperarne €20.000 dopo cause), cassa €0. Totale attivo potenziale: €40k+30k+100k+20k = €190.000.
  • Passivo: debiti verso fornitori materiali €100.000, debiti verso subappaltatori €50.000, debiti bancari €90.000 (tra cui mutuo ipotecario €80k su capannone, più €10k scoperto conto, questo ultimo chirografo), debiti fiscali €30.000 (IVA, ritenute), debiti verso dipendenti €20.000 (ultime 2 mensilità e TFR di operai), un leasing di un escavatore (tra attrezzature, se restituiscono il bene leasing rescisso? Qui complicato dettagliare; facciamo finta attrezzature includono i beni di cui leasing ha già riscattato). Totale passivo ~€290.000.
  • Soci: Padre e Figlio, entrambi falliranno con la società (illimitatamente resp.).
  • L’attivo principale è l’immobile capannone.

Costi diretti:

  • Contributo unificato: solita €98+27, pagata dal fornitore istante (130€ ca).
  • Compenso curatore: Attivo prevedibile diciamo €190k realizzato. Passivo insinuato €290k (i soci non generano altri crediti perché stessi debiti). Somma €480k. Scaglioni:
    • 12% di 15k = €1.800;
    • 9% di 60k = €5.400;
    • 6% di 75k = €4.500;
    • 3% di 150k = €4.500;
    • 1% di 180k (da 300k a 480k) = €1.800.
      Totale circa €18.000. (Notiamo simile all’esempio 1).
      Però qui c’è un immobile ipotecato: di quei 100k venduti, 80k vanno alla banca ipotecaria. Il curatore in genere prende percentuale su tutto l’attivo distribuito (incluso ai garantiti). Quindi sì, su 190k attivo totale il curatore stima 18k compenso.
      Forse il giudice potrebbe ridurre un po’ se la procedura è semplice (pochi creditori, un immobile da vendere e qualche bene, non complicatissima) – ma poniamo invariato.
  • Spese procedura:
    • Stima immobile: va fatta per venderlo. Costo CTU stimatore €1.500 data semplicità (capannone piccolo).
    • Custodia e sicurezza: il capannone è già chiuso, i soci lo custodiscono con curatore (nessun costo, forse assicurazione €200).
    • Vendita immobile: il curatore potrebbe provare a vendere tramite asta telematica sul portale. Commissioni d’asta 1% (pagate dall’acquirente?), comunque supponiamo €1.000 costi pubblicità e bolli.
    • Vendita macchinari: forse un banditore locale o tramite trattativa con altre imprese. Diciamo spese di trasporto e aggiustamento €500.
    • Verifica passivo: 50 creditori, inviati PEC, moduli telematici – trascurabile.
    • Tasse: registro su decreto trasferimento immobile, ipocatastali – però a carico acquirente per legge, dunque la procedura non le paga (a parte 200 registro su sentenza).
    • Totale spese stimo: €3.000 (1.5k perito + 0.5k vendite + 0.5k spese varie + 0.2k assicurazione + 0.3k registro/aste).
  • Compensi ausiliari:
    • Legale per cause recupero crediti: c’erano €30k di crediti contestati. Il curatore ingaggia un avvocato per decreto ingiuntivo e atto di precetto – costo €2.000 (poi incluso in spese legali prededucibili, forse recuperabile se vince e addebita spese).
    • Commercialista per fare scritture finali fiscali: a volte curatore le fa, a volte delega. Diciamo €1.000.
    • Totale ausiliari: ~€3.000.
  • TOTALE costi diretti: €18k (curatore) + €3k (spese) + €3k (ausiliari) = €24.000 circa, simile a prima. Attivo 190k meno costi 24k = 166k disponibile per crediti: banca ipotecaria prende primariamente su immobile venduto a 100k – supponiamo venduto a base piena – ipoteca 80k, più interessi prededucibili su pre del mutuo? Lasciamo 80k. Resta 20k di quell’immobile, che confluisce in massa generale.
    Poi privilegio dipendenti 20k, privilegio INPS su TFR anticipato, privilegio fisco forse su IVA 10k, privilegio generale fornitore edile? (Dipendenti e fisco – privilegio generale e speciale).
    I dettagli complicati, ma a grandi linee:
    • Banca ipotecaria: soddisfatta integralmente con 80k dal ricavato immobile (suo credito 80k).
    • Rimangono 110k di attivo non vincolato (la differenza di attivo 190 – immobile 100 = 90 da beni mobili + 10 residuo immobile dopo ipoteca).
    • Privilegi: dipendenti 20k (privilegio generale sui mobili e anche speciale su pignoramenti se?), INPS subentrante forse, fisco 30k (di cui IVA privilegio speciale su immobili? forse ipoteca legale, troppo dettaglio).
    • Diciamo dipendenti (INPS per loro) e fisco 50k tot, attivo 110k, stanno dentro, quindi privilegio viene pagato 100%.
    • Rimangono 60k per chirografi su 150k chirografi (fornitori 100+ subappaltatori 50?), quindi chirografi prendono circa 40%. Questo è un caso con recupero decente per chirografari, grazie alla presenza di un immobile che dopo aver soddisfatto banca e privilegi lascia qualcosa.
  • Tempi: Liquidare immobile e beni può richiedere 1-2 anni (immobiliare spesso ritardi, ma il mercato 2025 edile è in ripresa, magari vendono in 1 anno). Verifica crediti 6 mesi, vendite 12 mesi, riparto 6 mesi, totale ~2 anni. Rientra nei 5 anni legali facilmente.
  • Responsabilità e costi indiretti:
    • I soci sono falliti essi stessi. Conseguenze: i soci perdono anche loro casa personale? Essendo snc, i creditori potrebbero aggredire pure i beni personali. Però nel fallimento con estensione, i beni personali confluiscono nell’unica massa. Per semplicità, consideriamo i soci non avevano grandi beni extra.
    • Avviamento perso: l’impresa edile come tale cessa, i pochi operai trovano altro o cassa integrazione straordinaria se attivata.
    • Danno reputazionale: nel mondo degli appalti locali, Beta snc fallita significa che difficilmente i soci potranno aprire subito un’altra impresa di costruzioni senza difficoltà (ma magari il figlio potrà dopo esdebitazione aprire ditta individuale di ristrutturazioni).
    • Azioni di responsabilità: i fornitori lamentano che i soci hanno incassato pagamenti dai clienti e non li hanno girati per materiali (un classico in edilizia). Se emergesse che i soci hanno distratto risorse (tipo prelevato utili sproporzionati), curatore potrebbe valutarlo. Supponiamo nulla di eclatante, i soci semplicemente non ce l’hanno fatta. I sindaci non esistono in snc di persone piccole, quindi niente organi controllo.
    • Penale: Edilizia spesso comporta rischio di bancarotta preferenziale (pagamenti ad alcuni subappaltatori prima di fallire? Se fatti in mala fede, reato). Se Beta snc prima di fallire ha pagato integralmente un fornitore “amico” e lasciato altri a bocca asciutta, il curatore potrebbe segnalare come atto preferenziale. Socio potrebbe essere incriminato per bancarotta preferenziale. Idem se mancano libri contabili (artigiani a volte hanno contabilità lacunosa – bancarotta semplice documentale).
    • Diciamo in questo scenario, costi indiretti notevoli per i soci: perderanno eventuali beni personali (perché illimitatamente responsabili), e hanno rischio penale se non hanno tenuto bene i conti.
  • Alternative possibili: Avessero tentato un concordato: Attivo 190k vs Debiti 290k, percentuale potenziale 65%. Concordato liquidatorio fattibile (supera 20%). Avrebbero potuto proporre: vendiamo immobile e tutto, diamo 100% a privilegiati e ~40% a chirografi come stimato. Probabilmente i creditori avrebbero accettato (40% non male). Avrebbero risparmiato costi fallimentari? Un po’ sì: niente curatore (ma c’è liquidatore e commissario che costano anch’essi). Forse come spese non avrebbero risparmiato granché, ma i soci sarebbero rimasti non falliti (quindi niente stigma e niente estensione a loro beni personali se piano soddisfaceva i chirografi oltre 20%). Forse sarebbero riusciti a salvare il capannone vendendolo a un parente? Non importa, scenario ipotetico.
    Concordato preventivo sarebbe potuto essere una via per evitare il fallimento dei soci, il che per loro era enorme differenza. Tuttavia, magari non erano ben assistiti e non ci hanno pensato.
    Composizione negoziata: in edilizia se i soci avessero coinvolto creditori in trattativa, forse avrebbero chiuso un accordo: vendono immobile, pagano 100% privilegiati e 50% a fornitori, ottenuto da vendite future dei mezzi. Possibile; ma se la fiducia era persa, i creditori hanno preferito farli fallire e nominare un curatore.

Sintesi Esempio 2: Per una società di persone edile con attivo ~€190.000 e debiti ~€290.000, i costi diretti della liquidazione giudiziale sono stimati intorno a €24.000 (curatore ~€18k, spese e ausiliari ~€6k). È circa il 12-13% dell’attivo, più basso che nel caso precedente, grazie alla presenza di beni (immobile) che generano attivo consistente. I creditori privilegiati (banca, dipendenti, fisco) vengono soddisfatti integralmente o quasi, e i chirografari ricevono un dividendo (stimato ~40%), il che è una buona performance per un fallimento. I soci, essendo illimitatamente responsabili, subiranno la procedura personale e vedranno i loro beni inclusi nell’attivo (nell’esempio non considerato separatamente), e portano il peso del fallimento anche reputazionalmente. I costi indiretti includono la chiusura dell’azienda di famiglia, la perdita di impiego per i dipendenti (mitigata dal Fondo di Garanzia per TFR), e potenziali grane giudiziarie (se emergono pagamenti preferenziali o contabilità irregolare, i soci amministratori rischiano incriminazioni). Questo caso mostra come, in presenza di beni reali come immobili, la percentuale per i creditori possa essere significativamente migliore rispetto a fallimenti puramente “finanziari”; i costi fissi del curatore rimangono però importanti in cifra assoluta (quasi pari all’intero passivo fiscale, ad esempio).

Esempio 3: Ditta individuale manifatturiera

Scenario: “Gamma” è una ditta individuale (imprenditore persona fisica) che produce mobili su misura (settore manifatturiero/artigianale). A causa di investimenti sbagliati in macchinari e calo ordini, Gamma cessa l’attività e il titolare chiede il proprio fallimento (autofallimento). Dati:

  • Attivo: un capannone in affitto (quindi niente immobili di proprietà), macchinari e attrezzature acquistati a leasing (valore di mercato €80.000, residuo leasing €60.000 – quei beni sono di proprietà della leasing, probabile prelazione), materie prime e semilavorati €10.000 (magazzino legname), crediti verso clienti €20.000 (molto incerti, alcuni privati che non hanno saldato cucine), un furgone usato €5.000. Cassa/banca nulla. Attivo stimato realizzabile: Macchinari – ipotizziamo li riprende la società di leasing, quindi attivo per la massa = forse nulla da macchinari se leasing risolve contratto e ritira; magazzino €5.000 (svendita rapida), crediti €5.000 (molti insoluti e contestati), furgone €5.000. Totale attivo disponibile: diciamo €15.000.
  • Passivo: debiti verso banca €30.000 (mutuo macchina in leasing? O finanziamento scorte, comunque chirografo o leasing come prelazione su beni), debiti leasing €60.000 (ma la leasing se riprende i macchinari magari rinuncia a insinuare per intero, vediamo), fornitori €40.000, debiti fiscali €15.000, debiti verso 2 dipendenti €10.000 (stipendio e TFR), debiti personali vari (no). Totale passivo ~€155.000.
  • Essendo ditta individuale, il titolare è il fallito personalmente. Nessuna distinzione tra persona e impresa.

Costi diretti:

  • Contributo unificato: €0 perché autofallimento di imprenditore forse è esente? (In verità anche il debitore deve pagare contributo se chiede lui: €98+27 come normale. Mettiamo che l’ha pagato, 125€, trascurabile).
  • Compenso curatore: Attivo realizzato 15k, passivo esaminato 155k, somma 170k. Calcolo:
    • 12% di 15k = €1.800;
    • 9% di 60k = €5.400;
    • 6% di 45k (75-15=60, poi 150-75=75, ma 170-75=95, ok scaglioni in quell range) = diciamo su 45k (da 75 a 120k, ipotizzando uno scaglione intermedio) = €2.700;
    • 3% su altri 50k (fino a 170k) = €1.500.
      Somma = ~€11.400. Tuttavia, notiamo: l’attivo 15k è inferiore al compenso teorico. Per legge il curatore ha comunque diritto a minimo €800, e se attivo non basta per intero compenso, può chiedere a Stato fondo garanzia per differenza.
      In questo caso, attivo 15k – supponiamo di destinare tutto a spese di giustizia: il curatore potrebbe ottenere dall’attivo quei 15k e poi chiedere allo Stato i restanti (11.4-15 = il calcolo che attivo è più grande di min comp, però altri crediti prededucibili competono; vediamo spese).
      Comunque, con attivo così basso, la procedura è incapiente e il tribunale potrebbe subito orientarsi a una chiusura per insufficienza (art. 234 CCII) senza nemmeno esaminare il passivo. A volte se attivo < spese base, chiudono senza passivo. Ma ipotizziamo che 15k qualcosa paga.
  • Spese procedurali:
    • Pubblicazioni e PEC: minima (pochi creditori).
    • Custodia: magazzino affittato, il curatore restituisce subito il capannone al locatore, vendendo le materie prime subito. Nessun costo di affitto prolungato (o 1 mese).
    • Trasporto macchinari: la leasing li ritira a sue spese. Ok.
    • Vendita furgone e materiali: curatore fa asta o trattativa locale, spende forse €300 tra annunci.
    • Tassa registro sentenza €200.
    • Diciamo spese totali ~€500 (veramente basse, perché lui cerca di ridurre al minimo).
  • Ausiliari:
    • Non nomina nessuno, fa tutto lui (pochi asset).
    • Forse un commercialista per chiudere contabilità e inviare dich.fiscale finale: €500.
    • Totale ausiliari: €500.
  • TOTALE costi diretti: ~€11.400 (curatore) + €500 + €500 = €12.400. Ma attivo è 15k; quindi i costi assorbono quasi tutto. In pratica, i creditori normali non vedranno quasi nulla:
    • Il curatore prenderà almeno €800 (minimo). Data l’attivo di 15k, il giudice potrebbe dargli un compenso ridotto rispetto al teorico 11k, ad esempio limitandolo all’attivo disponibile (ex art… la citazione trovata indicava Cass. 19399/2011 e Cass. 29747/2018 che dicono il compenso va pagato prima di ogni riparto e lo Stato non copre l’eccedenza se attivo misero, a meno del caso di stato autorizzato anticipare atti). Forse in questo caso: paga curatore €800 e altre spese, e lo Stato il resto?
      Probabilmente: Curatore piglia €800 (il minimo), spese vive €500 pagate, restano €13.700 di suo compenso non coperto -> può chiedere al Fondo di Garanzia un indennizzo fisso modesto (forse ~€2.000). Comunque, dettagli a parte, i creditori prenderanno zero, perché attivo non oltrepassa i costi prededucibili.
  • Tempi: Può essere chiuso rapidamente. Vista l’insufficienza attivo, il curatore può chiedere al GD di non fare nemmeno l’esame del passivo (art. 209 CCII). Se il GD concorda che non c’è prospettiva di soddisfare i creditori, può chiudere il fallimento entro pochi mesi restituendo i beni ai garanti (leasing). Qui tuttavia c’è il Fondo INPS per dipendenti: i 2 operai potranno chiedere subito TFR e ultime 3 mensilità al Fondo di Garanzia INPS. Per farlo serve lo stato passivo, se non si fa accertamento? Forse farebbero insinuazione e il GD li ammette d’ufficio giusto per far scattare Fondo.
    Possibile timeline: Apertura fallimento a gennaio, entro 60 giorni curatore fa relazione iniziale dicendo attivo insuff. Giudice in base a ciò può decidere di:
    • vendere subito furgone e magazzino per pagare almeno spese,
    • non aprire la procedura di verifica crediti (art. 209 “non luogo a procedere all’accertamento del passivo”),
    • chiedere intanto al Fondo Giustizia anticipo spese base.
    • verso metà anno chiudere la procedura per insufficienza attivo.
      Quindi in 6-9 mesi il fallimento è chiuso. Molto veloce (il CCII vuole liberare subito i soggetti in questi casi).
  • Responsabilità e costi indiretti:
    • L’imprenditore persona fisica, fallito, perde quel poco di beni che aveva (furgone, scorte). I macchinari erano leasing, tornano alla lessor (che poi li rivende).
    • Egli resta con debiti residui 140k non pagati, ma otterrà l’esdebitazione (se meritevole, e qui pare di sì) alla chiusura immediata. Ciò vuol dire che i creditori non soddisfatti (quasi tutti) non potranno più pretendere nulla da lui, e lui potrà ripartire da zero. Esdebitazione è il beneficio per l’imprenditore onesto.
    • Danno reputazionale: moderato, nel senso che l’impresa era piccola. In paese si saprà, qualche fornitore arrabbiato parlerà male, ma se dovesse, ad esempio, cercare lavoro come dipendente, il fallimento non glielo impedisce. Se volesse riavviare un’attività, dovrà convincere fornitori a dare fiducia nonostante il precedente.
    • I dipendenti ottengono il loro tramite INPS, quindi socialmente tutelati in parte (massimale TFR e 3 mesi).
    • I fornitori e banca incassano zero: costo indiretto per loro alto, ma come detto deducono la perdita fiscalmente (es. la banca dedurrà la perdita su credito procedure concorsuali ex art. 101 TUIR immediatamente).
    • Il fisco perde 15k di IVA etc non riscossi, ma anche qui eventualmente erano sanzioni in parte ridotte.
    • Amministratore e socio coincidono col fallito: da valutare se c’è bancarotta. Nel caso gamma, investimenti sbagliati non sono reato.
      Se non ha tenuto bene contabilità, può incorrere in bancarotta semplice (art. 322 CCII, ex art. 217 L.F.) punita con multa o poco. Può ottenere la non menzione se il danno è modesto. Spesso in casi micro così, la Procura a volte nemmeno procede attivamente se non ci sono profili fraudolenti.
      Comunque, potenziale costo penale minore (bancarotta semplice = reato, ma punito lievemente, e il CCII tende alla depenalizzazione parziale per piccoli).
    • Nessun sindaco o revisore (ditta indiv).
    • Il curatore qui di fatto lavora in perdita (attivo non copre suo compenso): moral hazard per cui i bravi curatori evitano incarichi così perché sanno di non venire pagati (questo è un costo sistemico: i fallimenti minuscoli faticano a trovare curatori motivati). Il Fondo di Garanzia cerca di rimediare versando qualcosa – supponiamo gli diano €2.000 – comunque curatore scontento ma dovere compiuto.
    • Alternative? Con attivo così basso, forse era opportuno evitare il fallimento: se avessero fatto composizione negoziata, non c’era nulla da negoziare con creditori (non li può pagare). Un concordato? Impossibile: attivo 15k su 155k debiti = 10% offerta, sotto soglia minima 20%. Quindi doveva per forza liquidarsi via fallimento o lasciar morire l’attività e attendere i creditori facessero esecuzioni (ma non c’era su cosa eseguire, quindi avrebbe portato a istanza di fallimento comunque di qualche creditore).
    • Dunque la liquidazione giudiziale in questo caso funge da esdebitazione legalizzata, più che da strumento di soddisfacimento creditori.

Sintesi Esempio 3: Una ditta individuale manifatturiera con attivo molto esiguo (€15.000) a fronte di debiti consistenti (€155.000) mostra il caso di procedura incapiente. I costi fissi (compenso curatore, spese minime) assorbono quasi tutto l’attivo – infatti i creditori ordinari non ricevono alcun pagamento. In cifre, i costi diretti sono stimati in €12.000, circa 80% dell’attivo disponibile (percentuale altissima, segno di procedura inefficiente sul piano strettamente economico, ma necessaria ai fini legali). Di tale importo il curatore vedrà solo una parte (il minimo garantito, forse integrato dal Fondo statale), e le spese vive verranno coperte a malapena. I creditori chirografari subiscono la perdita totale dei loro crediti (attenuata solo dall’uso fiscale delle perdite). Il vantaggio della procedura è l’esdebitazione dell’imprenditore: egli, dopo la chiusura rapidissima del fallimento per insufficienza, sarà liberato da tutti i debiti residui. Si tratta quindi di un caso in cui il “costo” del fallimento è sostenuto quasi interamente dai creditori e, in parte, dal sistema (il Fondo di Garanzia che paga il curatore), ma consente di azzerare la posizione debitoria dell’imprenditore e dargli la possibilità di ripartire (il che è uno degli scopi sociali della legge). I costi indiretti includono la chiusura dell’attività artigianale e il relativo impatto locale, nonché il peso emotivo/sociale per l’imprenditore di essere dichiarato fallito (attenuato dalla prospettiva di esdebitazione). Non emergono particolari profili di responsabilità civile o penale a carico del debitore, trattandosi di un fallimento “onesto” dovuto a sfortunati esiti economici: ciò evidenzia come la normativa vigente cerchi di rendere poco oneroso (in termini di sanzioni personali) il fallimento del debitore sfortunato, pur restando molto oneroso (in termini pecuniari) per i suoi creditori.


Queste simulazioni, pur se semplificate, evidenziano alcuni punti importanti:

  • I costi fissi (curatore e spese di base) rendono antieconomici i fallimenti con attivo minimo: in Esempio 3, oltre il 70% dell’attivo è finito in spese. Questo spiega perché si cerca di evitare la procedura formale per i casi micro (preferendo composizioni stragiudiziali o chiusure anticipate ex art. 234 CCII).
  • La presenza di beni immobili o attivi consistenti (Esempio 2) migliora l’outcome per i creditori e riduce il peso percentuale dei costi. Infatti, in Beta S.n.c. i costi erano ~13% dell’attivo, molto inferiori al 28% del caso Alfa S.r.l. e al 80% del caso Gamma. Economie di scala: un certo costo fisso c’è comunque, ma più attivo c’è da distribuire, più i costi si “diluiscono”.
  • Gli imprenditori individuali e soci illimitati scontano il fallimento con il loro patrimonio personale, ma ottengono in cambio l’esdebitazione (beneficio non disponibile a società di capitali, che però proteggono i patrimoni dei soci a monte). La scelta tra rischiare il proprio patrimonio (ditta individuale, società persone) vs limitare la responsabilità (S.r.l.) incide su chi “paga” il costo finale: nel primo caso l’imprenditore stesso rischia di più (ma poi viene liberato dai debiti), nel secondo i creditori sopportano di più la perdita (ma i soci mantengono i loro beni personali intatti, salvo malgoverno).
  • I tempi di chiusura variano: procedure incapienti si chiudono in meno di 1 anno; procedure ordinarie con qualche attivo impiegano circa 2 anni; casi molto complessi (non simulati qui) con tanti beni e cause possono arrivare a 5-6 anni (difficilmente oltre, per i nuovi limiti del CCII).
  • Le azioni di responsabilità e le implicazioni penali non erano fattori chiave in questi esempi specifici (nessun amministratore di società di capitali in colpa grave simulato), ma vanno sempre considerati nel mondo reale: se uno qualsiasi dei casi avesse incluso condotte dolose (es. Alfa S.r.l. con amministratore che distrae cassa prima del fallimento, Beta S.n.c. con soci che continuano a lavorare sapendo di essere insolventi e facendo altri debiti), allora parte del “costo” si sarebbe trasferito su di loro via risarcimenti o sanzioni penali.

Passiamo ora alla sezione finale di Domande e Risposte frequenti (FAQ), per chiarire dubbi operativi e strategici che i professionisti spesso si pongono riguardo ai costi della liquidazione giudiziale e procedure affini.

Domande Frequenti (FAQ)

Di seguito sono riportate alcune domande comuni in materia di costi delle procedure concorsuali e le relative risposte, con un taglio pratico e strategico.

  • Q: Chi paga, in concreto, i costi della liquidazione giudiziale?
    A: I costi della procedura – in primis il compenso del curatore e le spese di giustizia – sono pagati utilizzando l’attivo del fallimento prima di ogni altro creditore (crediti prededucibili in assoluto). Di conseguenza, sono i creditori concorsuali a sopportarne l’onere economico: ogni euro speso in procedura è un euro in meno distribuito a loro. Se l’attivo non basta neppure a coprire i costi, il curatore ottiene solo il minimo e può chiedere una parziale copertura allo Stato, mentre i creditori rimangono insoddisfatti. Il debitore fallito persona fisica non paga nulla di tasca propria durante la procedura (ha già messo il patrimonio a disposizione); l’unico caso in cui l’istante deve anticipare qualcosa è il contributo unificato iniziale (es. creditore che deposita il ricorso paga ~€125) e un eventuale fondo spese cauzionale, poi rimborsato se c’è attivo. In sintesi: la “cassa” per pagare i costi viene dal fallito stesso (sotto forma di attivo liquidato) o, se insufficiente, interviene in parte l’erario; i creditori concorsuali vedono ridursi il loro recupero in proporzione ai costi.
  • Q: Il curatore viene pagato anche se i creditori chirografari non prendono nulla?
    A: Sì. Il curatore è un ausiliario della giustizia e il suo compenso è considerato un costo privilegiato da soddisfare comunque. Anche nelle procedure in cui i creditori chirografari non ricevono alcun dividendo, il curatore viene liquidato (almeno in misura minima) attingendo all’attivo. Se l’attivo è così basso da non coprire il compenso intero, il tribunale in genere liquida quello disponibile e per l’eventuale differenza il curatore può accedere al Fondo statale. Ad esempio, se un fallimento realizza solo €5.000 e le regole di calcolo darebbero €8.000 di compenso, il giudice potrebbe liquidare €5.000 al curatore, che è prededucibile. In pratica, i creditori restano a secco e lo Stato non integra molto (a meno di specifiche condizioni di legge). È una regola dura ma necessaria: senza la certezza di essere pagato, nessuno accetterebbe l’incarico di curatore nei casi poveri. La Corte di Cassazione ha rimarcato che il compenso del curatore è un costo necessario e va soddisfatto prima di ogni riparto. Solo nei casi di attivo totalmente inesistente, il curatore prende un compenso ridotto forfettario a carico dell’erario, come visto.
  • Q: Quali sono i principali incentivi a utilizzare concordati o composizione negoziata anziché fallimento, in termini di costi?
    A: Gli incentivi sono soprattutto indiretti. In termini di costi procedurali diretti, anzi, il concordato preventivo può sembrare più oneroso (devi pagare attestatore, commissario, ecc.). Tuttavia: (1) Nel concordato si preserva maggior valore dell’azienda (avviamento, continuità) per distribuirlo ai creditori, quindi il “costo occulto” di dispersione del patrimonio è minore. (2) L’imprenditore evita il marchio di fallito e le relative restrizioni: ad esempio in concordato non subisce spossessamento totale ma solo limitazioni, e soprattutto se rispetta il piano resta alla guida. (3) I tempi in concordato sono più brevi e certi per i creditori (evitano anni di attesa incerta). (4) Con la composizione negoziata, i costi diretti sono bassissimi (il compenso dell’esperto è modesto) e c’è riservatezza; se porta a un accordo stragiudiziale, tutti risparmiano i costi di una procedura formale. In altre parole, concordati e negoziazione riducono i costi indiretti (maggior valore ai creditori, meno tempo perso, meno danni collaterali) a fronte magari di qualche spesa in più all’inizio. Per i creditori, partecipare a una composizione negoziata o votare un concordato può significare incassare di più (o prima) che nel fallimento – questo è il vero incentivo. Inoltre, il CCII prevede misure di favore: ad es. nel concordato in continuità niente soglia 20% ai chirografari (possono prendere anche meno se giustificato da mantenimento azienda), e nella composizione negoziata il fisco è incentivato da riduzione sanzioni e interessi. Dunque, in termini di convenienza economica complessiva, spesso la via concordataria/negoziale è preferibile perché “costa” meno al sistema nel suo insieme.
  • Q: Un creditore che chiede il fallimento del debitore quali spese deve affrontare e può recuperarle?
    A: Le spese immediate per un creditore istante sono relativamente basse: il contributo unificato fisso di €98 (più marca €27), eventualmente un deposito cauzionale se richiesto dal tribunale (es. €500), e le spese legali del proprio avvocato per predisporre l’istanza. Se il fallimento viene dichiarato, il creditore istante ha diritto a ripetere in prededuzione l’anticipo cauzionale dal primo attivo disponibile. In pratica, verrà rimborsato dal curatore del deposito iniziale come credito prededucibile (perché spesa di giustizia). Anche il contributo unificato teoricamente è recuperabile come spesa di giustizia, ma essendo modesto spesso non viene neppure chiesto. Le spese legali dell’istante invece restano a suo carico (non esiste un principio di caricare sul fallimento le parcelle degli avvocati dei creditori istanti, a meno che il tribunale le liquidi ex art. 147 L.F. come spese preferibili, cosa insolita). Se però più creditori avevano presentato istanza separatamente, ciascuno sopporta le proprie spese; di solito solo chi arriva per primo incappa nel deposito cauzionale. In sintesi: chiedere il fallimento è poco costoso (poche centinaia di euro più l’avvocato) e se c’è attivo quelle anticipazioni vengono restituite. Se invece l’azienda è un guscio vuoto e non c’è neppure attivo per rimborsare il deposito, quel creditore rischia di perdere il suo anticipo (oltre a non recuperare il credito principale). Vale la pena considerare questo: alcuni creditori quando sospettano che il fallimento sarà incapiente preferiscono non attivarsi, proprio per non spendere soldi ulteriormente.
  • Q: Come viene calcolato in concreto il compenso del curatore?
    A: Viene applicato il DM 21/06/2021 (che ha modificato il DM 2016) con scaglioni percentuali sull’attivo realizzato più il passivo esaminato. In pratica si somma l’ammontare che il curatore ha incassato liquidando beni e recuperi (attivo) e l’ammontare dei debiti ammessi allo stato passivo (o accertati comunque, il passivo). Su questa somma si applicano percentuali decrescenti per fasce: ad esempio 12% sui primi €15.000, 9% da 15k a 75k, 6% da 75k a 150k, 3% da 150k a 300k, 1% oltre i 300k, etc. fino a circa 0.5-1% sopra soglie milionarie. Il risultato può essere poi aumentato o diminuito fino al 40% dal tribunale, considerando la complessità e l’opera del curatore. Inoltre c’è un minimo di €800 garantito e, in senso opposto, se l’attivo è insufficientissimo, si può dare solo il minimo e far intervenire il Fondo statale per un importo forfettario modesto. Ad ogni modo, il calcolo finale lo fa il Tribunale con decreto di liquidazione del compenso a fine procedura (o acconti in corso). Per dare un’idea: in un fallimento con attivo+passivo = €1.000.000, il compenso base del curatore potrebbe aggirarsi sui €25-30.000; se attivo+passivo = €10.000.000, le percentuali decrescenti porterebbero a qualcosa come €80-100.000. Sono cifre che il Ministero ha calibrato per retribuire adeguatamente il curatore in proporzione all’impegno e all’utilità generata (notare che l’aver accertato un grande passivo aumenta il compenso, riconoscendo che anche esaminare 500 domande di credito è lavoro, non solo incassare attivo). Nella Tabella 3 sopra abbiamo riportato qualche scaglione esemplificativo: 12% sui primi 15k, 9% fino a 75k, ~1% oltre 50 milioni.
  • Q: Se il fallimento ha pochissimo attivo, è obbligatorio comunque aprirlo e sostenere i costi?
    A: Dipende. La legge prevede una soglia di non fallibilità per le imprese minori (art. 2 L.F. e ora art. 1 CCII): se il debito scaduto è sotto certi limiti (€30.000, e parametri di attivo e ricavi modesti), il tribunale rigetta l’istanza perché il debitore è “non fallibile”. Questo per evitare di aprire procedure costose su micro-realtà. Se invece la soglia è superata e la dichiarazione di insolvenza c’è, il fallimento si apre. Tuttavia, il CCII consente di chiuderlo rapidamente quando appare inutile: l’art. 234 CCII dice che se in qualsiasi momento risulta che non c’è attivo sufficiente a soddisfare neppure le spese di procedura, il tribunale può chiudere anticipatamente la liquidazione giudiziale. Inoltre, l’art. 209 CCII permette di evitare la fase di accertamento del passivo se non ci sono prospettive di riparto. In pratica: si può aprire un fallimento anche con attivo zero (specie per consentire l’esdebitazione al debitore), ma il curatore e il GD lo terranno aperto il minimo indispensabile, giusto il tempo di constatare formalmente l’assenza di attivo, di compiere eventualmente azioni elementari (tipo recuperare documenti, fare qualche tentativo di incasso), e poi chiuderlo. In questi casi i costi vengono ridotti al minimo: il curatore spesso rinuncia a parte del suo onorario (prende il minimo) e lo Stato si fa carico di qualche spesa. Quindi non è obbligatorio “portare avanti” un fallimento inutile per anni. L’esperienza recente mostra che molti fallimenti vengono chiusi in 6-12 mesi per insufficienza quando si vede che non c’è trippa per gatti. Quindi, riassumendo: , si può aprire un fallimento povero (se rientra nei criteri di legge), ma no, non lo si trascina: si chiude presto, limitando i costi al minimo necessario per le formalità.
  • Q: I creditori possono evitare che i costi del curatore e altre spese riducano il loro ricavo, ad esempio accordandosi privatamente?
    A: Se il fallimento è già aperto, i creditori non hanno potere di modificare la priorità di legge: per legge le spese di giustizia vengono prima (par condicio creditorum) e non si possono “tagliare” se non in sede di reclamo sul decreto di liquidazione dei compensi (difficile, a meno di errori). L’unica via è evitare la procedura concorsuale: se i creditori riescono a trovare un accordo con il debitore prima di andare in fallimento, allora i costi concorsuali non maturano affatto. È quello che succede in un accordo stragiudiziale: i creditori magari accettano un pagamento parziale a saldo e stralcio, ma senza coinvolgere tribunale e curatore, quindi 100% di quanto pagato va a loro (meno i costi del professionista che ha aiutato a negoziare, che comunque sono inferiori ai costi concorsuali di solito). Un altro esempio: se in sede di composizione negoziata il debitore trova un investitore che rileva l’azienda pagando qualcosa ai creditori, si chiude fuori dal tribunale e non c’è curatore da pagare. Invece, una volta dichiarato il fallimento, i creditori non possono rinunciare ai servizi del curatore né evitarne i costi. Non è consentito, ad esempio, che i creditori dicano: “non nominare il curatore, ci pensiamo noi a liquidare i beni” – la legge non lo permette, perché la procedura è di interesse pubblico. I creditori potrebbero però proporre al GD una transazione fallimentare (il cosiddetto concordato fallimentare ex art. 240 L.F., ora art. 234 CCII) offrendo essi di pagare certe somme in cambio della chiusura anticipata, e in quell’accordo potrebbero prevedere di far fronte anche alle spese di procedura. Ma anche in tal caso, il curatore va remunerato. Quindi, l’unico modo genuino per non “scontare” i costi concorsuali è risolvere la crisi con strumenti alternativi al fallimento (concordato preventivo, accordo di ristrutturazione omologato, esdebitazione del sovraindebitato) dove comunque qualche costo c’è ma, come discusso, il valore recuperabile spesso è maggiore.
  • Q: I soci e gli amministratori devono pagare personalmente i debiti se la società fallisce?
    A: Dipende dal tipo di società e dalle circostanze:
    • Soci di società di capitali (S.r.l., S.p.A.) di norma no: la società ha personalità giuridica e i soci hanno responsabilità limitata al capitale sottoscritto. Quindi, i creditori sociali rimangono tali nel fallimento della società e non possono aggredire il patrimonio personale dei soci, che non sono dichiarati falliti. Ci sono però delle eccezioni: se i soci avevano prestato garanzie personali (fideiussioni) allora rispondono come garanti al di fuori del fallimento; oppure se i soci hanno compiuto atti di mala gestio o commistione patrimoniale (es. hanno svuotato la società a proprio favore), il curatore può avviare azioni di responsabilità o revocatorie contro di loro e di fatto chiamarli a rispondere (ma sempre come conseguenza di un illecito specifico, non per il semplice fatto di essere soci). In casi estremi, il tribunale può estendere il fallimento a soci occulti o di fatto (ma riguarda chi agiva come imprenditore di fatto, non il socio investitore passivo).
    • Soci di società di persone (S.n.c., S.a.s.) illimitatamente responsabili : essi sono per legge co-obbligati solidali nei debiti sociali e vengono dichiarati falliti unitamente alla società. Il loro patrimonio personale è coinvolto nella procedura; se questo patrimonio ha attivo, verrà usato per pagare i creditori sociali. I soci accomandanti (con responsabilità limitata) di S.a.s. invece non falliscono, a meno che abbiano ingerito direzione (perdendo beneficio).
    • Amministratori (che non siano soci): non sono obbligati per i debiti sociali in sé. Però possono essere chiamati a pagare danni se con la loro condotta illecita hanno aggravato il dissesto. È l’azione di responsabilità della curatela ex art. 146 L.F. (ora artt. 255-256 CCII): se vinta, i manager devono risarcire con patrimonio personale e i soldi vanno ai creditori. Quindi, indirettamente, gli amministratori possono finire per pagare molti debiti (nei limiti del danno provocato). Ad esempio, se la società ha 1 milione di debiti e l’amministratore per negligenza ha fatto perdere ai creditori 200k di valore, potrebbe dover versare 200k al fallimento. Questo non significa pagare tutti i debiti, ma una parte sì. Se poi l’amministratore ha patrimonio incapiente, i creditori recupereranno parzialmente dal suo patrimonio (e il resto rimane insoddisfatto).
      In definitiva: i soci di S.r.l./S.p.A. di solito non pagano nulla di persona, salvo abbiano colpe specifiche; i soci di S.n.c./S.a.s. pagano con tutto quello che hanno (spesso anche l’abitazione, a meno che non sia impignorabile come prima casa per debiti fiscali sotto soglia o simili – ma in fallimento anche quella può essere venduta), i gestori (amministratori) possono essere chiamati a rispondere per importi anche ingenti se hanno amministrato male (colpa grave o dolo), con l’unico limite che va provato il nesso tra condotta e danno.
  • Q: È vero che con il nuovo Codice della Crisi un fallito può subito “ripulirsi” dai debiti?
    A: Sì, è una novità importante. Il CCII introduce l’esdebitazione di diritto immediata per il fallito persona fisica meritevole (art. 278 CCII): una volta chiuso il fallimento per riparto finale o insufficienza attivo, il debitore ottiene l’esdebitazione automaticamente entro pochi mesi, salvo opposizione di creditori per dolo (meritevolezza). In precedenza, doveva aspettare 5 anni dalla chiusura e fare istanza (art. 142 L.F.). Adesso il tempo si è ridotto drasticamente: terminata la procedura, il debitore onesto è liberato da tutti i debiti residui non soddisfatti nella procedura (tranne alcune eccezioni: debiti alimentari, da risarcimento danni da illecito extracontrattuale e obblighi di mantenimento, che restano). Questo significa che un ex fallito può tornare ad agire nell’economia subito dopo la chiusura: può aprire una nuova impresa, ottenere finanziamenti (compatibilmente con la sua reputazione), etc., senza quei vecchi macigni. Attenzione: l’esdebitazione riguarda solo le persone fisiche (imprenditori individuali, soci illimitatamente responsabili). Le società, una volta liquidate, si estinguono e i debiti insoddisfatti muoiono con loro – quindi in un certo senso non serve un’esdebitazione formale per le società. Dunque sì, oggi il “costo” del fallimento per l’imprenditore onesto in termini di vita futura è minore: in pochi anni (o addirittura subito) può scrollarsi i debiti. Di contro, per i creditori ciò significa che dopo la procedura non potranno più inseguire il debitore sui residui (cosa che comunque era difficile anche prima perché, se li avesse avuti, sarebbero emersi nel fallimento). Da notare: se emergono comportamenti fraudolenti o il debitore non collabora, può essergli negata l’esdebitazione (quindi rimarrebbe teoricamente perseguibile per 5 anni). In pratica, l’esdebitazione immediata è un forte incentivo alla cooperazione e un meccanismo di “seconda chance” per chi ha fallito senza colpa grave.
  • Q: Quanto dura e quanto costa mediamente un fallimento in Italia?
    A: Le statistiche pre-riforma indicavano durate medie attorno a 5-7 anni e costi (intesi come percentuale dell’attivo assorbita da spese) spesso sopra il 20-30%. Con le nuove norme, l’obiettivo è scendere a durate di 2-3 anni massimoe rendere più incisivi i curatori nel chiudere presto, anche a costo di svendere beni pur di rientrare nel limite legale di 5 anni. Probabilmente siamo in transizione: i fallimenti aperti oggi forse si chiuderanno in 3-4 anni. Sul fronte costi, uno studio OCSE di qualche anno fa mostrava che in Italia il costo delle procedure concorsuali (compensi e spese) era attorno al 10-15% del valore dell’attivo, in linea con la media UE. Ovviamente varia molto a seconda della dimensione: piccole procedure costano percentualmente di più (perché c’è un minimo di costi incomprimibile), grandi procedure costano meno percentualmente. Ad esempio, un fallimento con attivo 100k potrebbe vedere 15k di costi (15%), mentre uno con attivo 100 milioni magari 5 milioni di costi (5%). Mediamente, i curatori in Italia riescono a distribuire ai creditori circa 40-50% dell’attivo lordo: il resto va in spese prededotte e inefficienze. Con il CCII, si spera di ridurre i costi improduttivi (es. tagliando la durata, meno spese di gestione; incentivando vendite celeri con portali telematici, prezzi migliori). Dati empirici recenti li attendiamo nei prossimi anni, ma l’ordine di grandezza di un fallimento medio: durata ~3 anni, dividendo ai chirografi 5-10% (perché privileg iano gran parte), costo procedura 10-20% dell’attivo. Un concordato medio: durata 1-2 anni esecuzione, dividendo chirografi 20-30%, costo procedura 5-10% dell’attivo (commissario, attestatore). Insomma, statistiche variano, ma la riforma punta a migliorare efficienza e infatti impone ad esempio il tetto di 5 anni e maggiore controllo sui rinvii. Già nel 2024-25 vedremo i primi risultati: procedure chiuse più rapidamente.
  • Q: Cosa succede se durante il fallimento si scopre che il curatore ha speso troppo o lavorato male?
    A: Il giudice delegato e il Comitato dei creditori vigilano sull’operato del curatore costantemente. Se il curatore spende troppo senza necessità (erodendo ingiustificatamente l’attivo) o commette errori gravi, il GD può adottare vari provvedimenti: può revocare l’incarico al curatore sostituendolo (art. 125 CCII) se perde fiducia nella sua gestione, può negargli il compenso pieno in sede di liquidazione finale (il tribunale potrebbe ridurre il compenso dal massimo teorico, magari applicando la riduzione -40% se ravvisa inefficienze), e nei casi peggiori può trasmettere gli atti al PM per valutare eventuali responsabilità (ad es. se c’è sospetto di condotte dolose o conflitti d’interesse). I creditori stessi possono sollecitare il Comitato e il GD se vedono anomalie: per esempio, se un creditore nota che il curatore vuole fare una causa inutile che costerà più del beneficio, può segnalarlo al Comitato perché neghi l’autorizzazione. In caso di danno effettivo, il curatore può essere oggetto di azione di responsabilità (il creditore danneggiato chiede risarcimento). Ci sono stati casi in cui curatori negligenti sono stati condannati a risarcire creditori (ad es. per aver lasciato decadere ipoteche, ecc.). Quindi, il curatore ha un forte incentivo a tenere i costi sotto controllo e agire diligentemente: oltre all’etica professionale, è consapevole che la sua retribuzione è valutata dal giudice (che può decurtarla) e che un errore grave può costargli caro (rimozione, azione di rivalsa). Anche a livello di Albo dei gestori crisi, il curatore rischia sanzioni disciplinari se opera male. Dunque esiste un meccanismo di controllo. Dal punto di vista dei creditori, se sospettano spese eccessive, la cosa migliore è interagire con il Comitato dei creditori (che ha potere di parere su molte spese) e, se necessario, con un reclamo al giudice delegato.
  • Q: In caso di fallimento di una società, chi paga i debiti fiscali e contributivi?
    A: I debiti fiscali e contributivi (verso Agenzia Entrate, Agenzia Entrate-Riscossione, INPS, etc.) vengono trattati come crediti concorsuali: di solito sono crediti privilegiati (il Fisco ha privilegio generale sui beni mobili per IVA e ritenute, l’INPS privilegio per contributi, etc.). Pertanto, essi verranno pagati dal curatore solo se c’è attivo sufficiente dopo aver coperto le spese. Se c’è attivo, il fisco e gli enti previdenziali partecipano ai riparti e possono incassare in parte. Se invece l’attivo basta appena per i costi o per i creditori con priorità più alta (es. dipendenti), i debiti fiscali rimangono insoddisfatti (il che succede frequentemente). In tal caso, con la chiusura del fallimento, la società viene estinta e il debito fiscale “muore” con essa; se è un imprenditore individuale, ottiene esdebitazione che copre anche i tributi (tranne eventuali sanzioni per frodi) e quindi il Fisco non può più esigere. Dunque spesso lo Stato non recupera interamente i suoi crediti nelle insolvenze (anzi, incassa percentuali basse). Per ovviare in parte a ciò, il legislatore ha concesso al fisco qualche privilegio in più (ad es. privilegio anche sull’IVA e sull’IRPEF ora) e strumenti di partecipazione attiva (transazione fiscale). Infatti, nelle soluzioni concordatarie, il fisco a volte accetta stralci (ad es. rinuncia a sanzioni e interessi) nella speranza di ottenere almeno qualcosa. Durante il fallimento, inoltre, alcuni debiti fiscali maturati durante la procedura (es. IVA sulle vendite fallimentari, imposta di registro sulle aggiudicazioni) diventano spese prededucibili e quindi pagati per intero dal curatore. Ma questi sono costi “fisiologici” della procedura. In soldoni: se l’attivo c’è, il Fisco viene pagato almeno in parte secondo il grado di privilegio; se l’attivo non c’è, il Fisco (come gli altri) rimane a mani vuote e deve mandare a perdita quei crediti. I soci di capitali non ne rispondono, gli amministratori potrebbero risponderne penalmente se evasioni, ma non civilmente. Caso particolare: se il debitore fallito è un sostituto d’imposta (non ha versato ritenute) e ottiene esdebitazione, l’esdebitazione non cancella le sanzioni penali eventualmente connesse (es. reato di omesso versamento se supera soglie). Però dal lato civile, anche quel debito tributario è incluso nell’esdebitazione (salvo che il giudice gliela neghi per frode).
  • Q: In un fallimento, i creditori privilegiati (es. banca ipotecaria) devono contribuire alle spese?
    A: Sì, in parte. Il principio della prededuzione assoluta delle spese di giustizia implica che le spese di procedura si soddisfano prima di ogni altro credito, anche privilegiato o ipotecario. In pratica, i costi generali (compenso curatore, spese legali, ecc.) vengono prelevati dall’attivo prima di distribuire ai creditori privilegiati. Tuttavia, c’è un temperamento: se un bene è gravato da garanzia, la regola delle “spese in prededuzione” vale comunque, ma alcune spese specifiche relative alla conservazione e vendita di quel bene sono addebitate preferibilmente sul ricavato di quel bene (c.d. principio della sussistenza della garanzia al netto delle spese di realizzo). Ad esempio, se c’è un immobile ipotecato venduto a 100 e la banca ipotecaria ha credito 100, ma per vendere l’immobile il curatore ha speso 5 in perizia e 3 in tasse, la banca incasserà 92, non 100; quei 8 sono andati a spese prededucibili connesse al bene. In più, la banca partecipa anche alle spese generali proporzionalmente: formalmente non c’è un meccanismo di contributo diretto, ma di fatto se l’attivo generale viene eroso da spese, ciò riduce anche la parte di attivo destinata ai creditori garantiti qualora il ricavato del loro bene non copra anche le spese generali. Va detto però che esiste una differenza concettuale tra spese specifiche (di regola sottratte al ricavato del bene su cui insiste la garanzia) e spese generali: su queste ultime c’è stato dibattito se i creditori ipotecari debbano contribuire. La giurisprudenza prevalente dice di , nel senso che il curatore trattiene dal riparto ipotecario una quota delle spese generali (ad es. una percentuale del compenso) in quanto spese necessarie anche al soddisfacimento del creditore ipotecario. Qualche tribunale invece ha escluso che il compenso del curatore gravi sui creditori ipotecari affermando che andrebbe caricato sullo Stato se l’attivo libero è insufficiente (tesi respinta dalla Corte Costituzionale 174/2006). Ad oggi, la prassi è: il compenso del curatore e le spese di giustizia primeggiano su tutti, e quindi anche il creditore ipotecario deve “sopportarle” nel senso che riceverà il ricavato del bene al netto della sua quota di spese. In termini semplici, se manca attivo non gravato, le spese si prendono anche dal ricavato di beni ipotecati (questo riduce il soddisfo del garantito). Quindi tutti i creditori concorsuali, in proporzione, contribuiscono al pagamento dei costi. Alcune eccezioni tecniche esistono (es. il creditore pignoratizio su pegno potrebbe sostenere che certe spese non competono alla sua garanzia), ma sono dettagli.
  • Q: Conviene agire contro gli amministratori/sindaci per farli contribuire ai costi e ai debiti?
    A: Dal punto di vista del curatore (e quindi dei creditori), sì se ci sono elementi solidi e patrimonio aggredibile. Le azioni di responsabilità verso amministratori e sindaci sono spesso l’unica via per recuperare qualcosa in fallimenti con deficit pesanti causati da gestioni scorrette. Se gli amministratori hanno beni personali o assicurazioni D&O, una causa ben fondata può portare incassi significativi. Questo di fatto sposta il costo del dissesto su chi l’ha provocato. Tuttavia, occorre valutare caso per caso: queste cause sono esse stesse costose e lunghe, quindi il curatore deve stimare costi/benefici. Ad esempio, se la società era di piccole dimensioni e gli amministratori sono nullatenenti, agire contro di loro peggiora solo i costi prededucibili (perché l’azione legale si mangia risorse) senza vantaggi. In casi di società più grandi con polizze assicurative per gli amministratori (RC manager), spesso conviene: si può trovare un accordo transattivo con l’assicurazione che versa un certo importo in cambio di rinuncia a causa, e quei soldi vanno ai creditori. Dunque, “conviene” se aumenta il ricavato netto. Ai creditori individuali non è data facoltà di agire per conto proprio durante la procedura (l’azione spetta al curatore), salvo che il curatore rinunci ingiustificatamente, nel qual caso dopo la chiusura del fallimento i creditori sociali possono agire ex art. 2394 c.c. autonomamente (ma raro). Quindi è il curatore che decide. Possiamo dire: in fallimenti medio-grandi, le azioni contro gli organi sociali sono abbastanza comuni e spesso fruttano (anche tramite transazioni). In fallimenti piccoli, raramente conviene a causa di costo/tempi. Dal lato degli amministratori, se sanno di avere colpe, a volte offrono spontaneamente un contributo al passivo (es. rinunciano a crediti loro o mettono soldi) in sede di concordato fallimentare per evitare la causa. Questo è un meccanismo deflattivo utile. In conclusione: conviene se la cassa potenziale recuperabile supera significativamente le spese legali e il rischio di causa. È un calcolo che il curatore fa col mandato di tutelare i creditori.

Conclusioni

In questa guida abbiamo esaminato in dettaglio quanto costa la liquidazione giudiziale, scomponendo i vari tipi di costi diretti (contributi, compensi, spese) e riflettendo sui costi indiretti e comparati con altre procedure di crisi d’impresa. Ne emerge un quadro in cui la liquidazione giudiziale è uno strumento costoso in termini di perdita di valore economico, al punto che la riforma del Codice della Crisi mira a privilegiarne l’utilizzo solo come extrema ratio, incentivando soluzioni meno dissipative (concordati in continuità, accordi negoziati).

Per gli avvocati e gli imprenditori interessati, è fondamentale considerare:

  • La struttura prioritaria dei costi nella liquidazione giudiziale (tutto viene pagato prima ai costi, poi ai creditori in base ai privilegi).
  • L’impatto sulle diverse figure: l’imprenditore fallito ora può risollevarsi più in fretta grazie all’esdebitazione, mentre amministratori e sindaci negligenti possono trovarsi a pagare di persona i danni.
  • Il confronto economico con procedure come il concordato preventivo e la composizione negoziata, che spesso offrono un migliore trade-off tra costi e benefici collettivi, pur richiedendo investimenti professionali iniziali.
  • Le strategie per mitigare i costi: dalla cooperazione col curatore (evitando contenziosi inutili) all’eventuale ricorso a procedure alternative se del caso, fino alla possibilità di concordati fallimentari (dove un terzo o lo stesso debitore offre una somma per chiudere prima la procedura, riducendo costi futuri).

In definitiva, la liquidazione giudiziale ha un costo elevato soprattutto quando l’impresa avrebbe ancora valore come attività in funzionamento: in tali casi, i costi indiretti di avviamento perso e reputazione superano di gran lunga i pur rilevanti costi legali e amministrativi. Viceversa, quando un’impresa è già “spenta” e priva di prospettive, la liquidazione giudiziale rappresenta più che altro un costo per i creditori, ma un beneficio per il debitore onesto (che si libera dei debiti residui e può ripartire senza l’oppressione del passato). Bilanciare questi interessi è lo scopo ultimo della normativa attuale: far sì che il costo del fallimento, inevitabile in certe situazioni, sia distribuito equamente e rimanga sostenibile, e offrire nel contempo vie meno costose e distruttive per risolvere la crisi quando possibile.

Fonti Normative e Giurisprudenziali Citati

Normativa:

  1. D.Lgs. 12 gennaio 2019 n. 14 – Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (CCII), introdotto dal decreto attuativo della Legge Delega 155/2017, in vigore dal 15 luglio 2022 con successive modifiche. Disposizioni citate: art. 2 (definizione insolvenza), art. 40 (soggetti legittimati istanza fallimento), art. 43 (sospensione procedura fall. in caso di domanda concordato), art. 87 (trattamento crediti tributari in concordato), art. 88 (mancanza adesione Erario accordi), art. 112 (convenienza concordato liquidatorio) – come modificato dal correttivo 2024, art. 120 (revocatorie concordato), art. 208 e 209 (esclusione accertamento passivo in fallimenti incapienti), art. 213 (programma di liquidazione, termine 5 anni), art. 213 comma 5 come mod. D.Lgs. 83/2022 (limite 5 anni proroghe vendite), art. 223-234 (concordato nella liquidazione giudiziale e chiusura anticipata per insufficienza attivo), art. 234 (chiusura anticipata insufficienza), art. 256 (azione responsabilità organi sociali), art. 278 (esdebitazione del debitore fallito: automatica salvo opposizione).
  2. Regio Decreto 16 marzo 1942 n. 267 – Vecchia Legge Fallimentare, per riferimenti storici: art. 146 (azione di responsabilità verso amministratori e sindaci), art. 147 (fallimento soci illimitatamente responsabili), art. 217 (bancarotta semplice), art. 216 (bancarotta fraudolenta), art. 142 e 143 (esdebitazione previgente), art. 38 (autorizzazione a procedere contro curatore).
  3. D.L. 24 agosto 2021 n. 118 conv. L. 147/2021 – Introduzione composizione negoziata e concordato semplificato. Disposizioni citate confluite nel CCII: art. 16 (compenso esperto negoziatore), art. 17 (durata 180 giorni incarico esperto, proroga altre 180 giorni), art. 18-19 (misure protettive), art. 25-ter (prededuzione compenso esperto), art. 25-sexies (concordato semplificato). Norme citate relative al concordato semplificato: D.L. 118/2021 art. 2 (presupposti concordato semplificato confluiti in art. 18 CCII), evidenziando caratteristiche – niente voto creditori, niente commissario (ausiliario invece), niente soglia 20%.
  4. Codice Civile – Norme sulle responsabilità d’impresa: art. 2086 comma 2 c.c. (obbligo assetti adeguati e rilevazione crisi – implicito riferimento), art. 2392 c.c. (responsabilità amministratori verso società), art. 2393 (azione sociale responsabilità), art. 2394 (azione dei creditori sociali), art. 2394-bis c.c. (legittimazione curatore a azioni di responsabilità), art. 2407 c.c. (responsabilità sindaci), art. 2476 c.c. (responsabilità amministratori S.r.l. verso soci/terzi), art. 2495 c.c. (cancellazione società e debiti residui).
  5. Testo Unico Spese di Giustizia – DPR 30 maggio 2002 n. 115: art. 146 TUSG (anticipazione spese di giustizia a carico Erario). Riferimenti: discorso su anticipazione compenso curatore e violazione art. 3 Cost. in Corte Cost. n. 174/2006.
  6. Decreto Ministeriale 3 novembre 2016 n. 226 (parametri compensi procedure) modificato da Decreto Interministeriale 21 giugno 2021 – Determinazione compensi curatori, commissari e organi procedure concorsuali. Citato: scaglioni compenso curatore, maggiorazioni ±40%, minimo €800, es. 12% primi 15k, 9% fino a 75k, ~1% oltre 50 mln, compenso commissario giudiziale ridotto (30% in meno). (Fonti: D.M. 21/06/2021 pubblicato su MISE e MEF, v. [26] e [27]).

Giurisprudenza:

  1. Corte Costituzionale, sentenza 28 aprile 2006 n. 174. Ha dichiarato infondata la questione di legittimità sull’anticipazione da parte dell’erario del compenso del curatore in mancanza di attivo, affermando che la regola resta che se non c’è attivo il curatore viene pagato nei limiti dell’attivo e non illimitatamente dallo Stato. (Rif. art. 146 TUSG, art. 3 Costituzione)
  2. Cassazione Civile, Sez. Un., 9 maggio 2011 n. 10143. Principio: il compenso del curatore rientra tra le spese prededucibili che vanno soddisfatte con precedenza assoluta, analogamente agli altri ausiliari di giustizia, e può essere anticipato dall’erario solo nei limiti previsti (con successiva rifusione se attivo sopravviene). (Conferma natura prededucibile “poziore” del compenso curatore)
  3. Cassazione Civile, Sez. I, 22 settembre 2011 n. 19399. Ha statuito che le attività tipiche del curatore (es. recupero crediti) se svolte da altri professionisti nominati in procedura vanno comunque retribuite in prededuzione, ma soprattutto richiama il dibattito sulla collocazione del compenso del curatore rispetto ai creditori privilegiati: alcune tesi lo equiparavano a credito ex art. 2751-bis n.2 c.c., altre (preferite) lo consideravano spesa di giustizia con soddisfazione prioritaria. (In pratica, il compenso curatore si paga fuori riparto, prima dei privilegiati ipotecari).
  4. Cassazione Civile, Sez. I, 19 novembre 2018 n. 29747. Chiarisce che il curatore ha il dovere d’ufficio di attivarsi per recuperare le spese prenotate a debito ex art. 144 TUSG (istanza di liquidazione al giudice) e che la sua inerzia può fondare responsabilità. Precisamente: l’istanza ex art. 144 TUSG (anticipazione spese erario) non è facoltà ma dovere, e se il curatore non vi ottempera, può incorrere in responsabilità. (Questo ribadisce la diligenza richiesta al curatore anche nel gestire le spese di giustizia).
  5. Cassazione Civile, Sez. I, 30 novembre 2020 n. 27310. Pronuncia in tema di gratuito patrocinio nel fallimento: ha affermato che la valutazione di non manifesta infondatezza dell’azione del curatore (per ammettere il patrocinio a spese Stato) è fatta dal GD e vincola il giudice poi adito, il quale non può revocare l’ammissione al gratuito patrocinio ex art. 136 TUSG. (Ciò tutela il curatore: se GD l’ha ammesso a patrocinio, il giudice del caso controdebitori non può negarglielo successivamente).
  6. Cassazione Civile, Sez. I, 17 ottobre 2016 n. 17197. (citata in dottrina) Ribadisce la natura contrattuale dell’azione sociale di responsabilità e cumulo con azione dei creditori esercitata dal curatore ex art. 146 L.F.. (Conferma che l’azione curatore è unitaria ma comprende due titoli di responsabilità).
  7. Cassazione Civile, Sez. Un., 23 gennaio 2017 n. 9100. (non citata esplicitamente sopra, ma rilevante) Ha stabilito che i creditori sociali possono esercitare azione ex art. 2394 c.c. anche durante il fallimento se il curatore non agisce, in via eccezionale, se c’è inerzia ingiustificata. E ha delineato i confini tra azione curatore e residuale dei singoli. (Serve a capire legittimazione, citato in dottrina come risolto da SU 2017).
  8. Cassazione Civile, Sez. I, 31 luglio 2023 n. 23200. Ha affermato la responsabilità dei sindaci per omessa vigilanza, ritenendo sufficiente a configurarla l’inosservanza dei doveri di controllo, senza necessità di un comportamento attivo doloso: i sindaci che non rilevano e segnalano per tempo irregolarità e perdite rispondono del aggravamento del dissesto. (Caso di sindaci che non hanno impedito atti dannosi; la Cassazione sottolinea che le loro dimissioni tardive non li esimono, v. n. 3922/2024 infra).
  9. Cassazione Civile, Sez. I, 13 febbraio 2024 n. 3922. Sentenza che si pronuncia sulla responsabilità dei sindaci per omesso controllo: evidenzia che le dimissioni dei sindaci presentate a ridosso del fallimento sono sintomatiche di una condotta colposa pregressa (non aver vigilato prima), e non esimono da responsabilità. (Conferma un orientamento severo: anche se il sindaco si dimette per dissociarsi, se l’inerzia c’è stata, ne risponde comunque per il periodo di carica).
  10. Cassazione Civile, Sez. I, 26 aprile 2024 n. 11324. Ha accolto il ricorso del curatore contro il rigetto di un’azione di responsabilità verso amministratori, sancendo che spetta al curatore provare il nesso causale tra mala gestio e dissesto, ma in presenza di macroscopiche violazioni (es. mancata tenuta scritture, indebite percezioni) i giudici di merito non possono respingere la domanda senza adeguata motivazione. (Indica che la Cassazione sta spingendo per un’applicazione rigorosa delle responsabilità di amministratori).
  11. Cassazione Civile, Sez. III, 1° dicembre 2023 n. 33546. (Menziodata nel centro studi: riguarda legittimazione suppletiva del fallito in caso di inerzia curatore) Conferma che, laddove il curatore non agisca su rapporti patrimoniali del fallimento, in casi eccezionali il fallito (riacquisendo il bene per abbandono) può agire direttamente. (Non molto rilevante se non per notare che il fallito può, ad es., agire sui suoi crediti se curatore non lo fa e il bene esce da massa).
  12. Cassazione Civile, Sez. I, 17 ottobre 2022 n. 30383. Ordinanza sui presupposti dell’azione di responsabilità contro i sindaci e onere della prova ex art. 2407 c.c.. Ribadisce che l’assenza di una adeguata contabilità semplifica la prova del nesso per il curatore (presunzioni di maggior danno) e che ai sindaci può imputarsi il ritardo nel rilevare cause scioglimento. (Linea dura sul ruolo dei sindaci nel prevenire la crisi).
  13. Cassazione Civile, Sez. I, 5 gennaio 2022 n. 198. (non citata supra, ma pertinente) – Conferma che il curatore deve provare danno e nesso per azione responsabilità, ma se contabilità mancante, scatta presunzione ex art. 2486 c.c. (danno presunto pari differenza patrimonio netto tra data presunta insolvenza e fallimento). Cita concetto di quantum debeatur in assenza conti. (In sintesi, danno da prosecuzione abusiva va quantificato in base all’aggravamento del passivo).
  14. Cassazione Civile, Sez. I, 25 marzo 2024 n. 7957. (citata in centro studi) – Ha riguardato pagamenti con assegni poi insoluti e la posizione della banca; di rilievo secondario qui, se non per procedure di riparto (potere del GD di “purga” ipoteche, Cass. SU 7337/2024 – potere del GD di far efficaci vendite libere da iscrizioni, etc.).

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