Contenzioso Tributario 2025 E Codice Della Crisi D’impresa

Hai un’impresa in difficoltà e stai affrontando accertamenti fiscali, cartelle esattoriali o cause con l’Agenzia delle Entrate? Ti stai chiedendo come gestire il contenzioso tributario se la tua azienda è già in crisi o in una procedura di risanamento?

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in contenzioso tributario, crisi d’impresa e difesa del contribuente – ti spiega in modo chiaro e pratico come si intrecciano i procedimenti fiscali con le regole del Codice della Crisi, quali sono i tuoi diritti, quali sono le azioni da evitare e come difenderti efficacemente anche quando l’azienda non è più in equilibrio.

Scopri come sospendere gli atti del Fisco durante le procedure di composizione negoziata, concordato o liquidazione giudiziale, in quali casi puoi ridurre o transare i debiti tributari, come si gestisce un ricorso pendente in caso di apertura della crisi, quali sono gli effetti della procedura sulle liti fiscali in corso e come evitare responsabilità personali.

Alla fine della guida troverai tutti i contatti per richiedere una consulenza riservata con l’Avvocato Monardo, valutare la tua posizione fiscale e costruire una strategia integrata per difenderti dal Fisco, gestire i debiti e affrontare il contenzioso in modo coordinato con la procedura di crisi d’impresa.

Introduzione

Il contenzioso tributario e la gestione della crisi d’impresa sono ambiti giuridici strettamente intrecciati, fondamentali per la tutela dei diritti sia dell’erario che degli imprenditori. Negli ultimi anni, questi settori hanno subìto importanti riforme e innovazioni normative, culminate nel 2022-2025 in cambiamenti significativi: dalla riforma della giustizia tributaria (avviata con la L. 130/2022) alle modifiche del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (D.Lgs. 14/2019, come novellato dal D.Lgs. 83/2022 in attuazione della direttiva UE 2019/1023). Questa guida avanzata – rivolta ad avvocati, commercialisti, consulenti e imprenditori – offre un panorama completo e aggiornato a maggio 2025 su queste materie, con un linguaggio tecnico-giuridico ma accessibile.

Nelle pagine seguenti verranno esaminati tutti gli aspetti del contenzioso tributario: dall’accertamento fiscale e il contraddittorio endoprocedimentale, ai procedimenti di mediazione tributaria (ora aboliti) e alla proposizione del ricorso; dai gradi di giudizio dinanzi alle Corti di giustizia tributaria (prime cure, appello e Cassazione) alle misure cautelari (sospensiva) e all’esecuzione delle sentenze, senza tralasciare i rimedi alternativi e le soluzioni deflattive, nonché le più recenti pronunce giurisprudenziali di merito e legittimità aggiornate al 2025. Parallelamente, la guida approfondisce tutti gli istituti del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (CCI): dagli assetti organizzativi che ogni impresa deve adottare per prevenire la crisi, alla composizione negoziata introdotta nel 2021 e ora a regime, fino ai tradizionali strumenti di regolazione della crisi (piani di risanamento attestati, accordi di ristrutturazione, concordato preventivo) e alle procedure liquidatorie (liquidazione giudiziale, già “fallimento”, e liquidazione semplificata). Saranno evidenziati i controlli e le segnalazioni obbligatorie dei c.d. “creditori pubblici qualificati” (Agenzia Entrate, INPS, etc.) e le responsabilità che gravano su amministratori e organi di controllo.

Un capitolo ad hoc è dedicato ai profili penal-tributari e alla responsabilità amministrativa degli enti ex D.Lgs. 231/2001 connessi alla crisi d’impresa e alle frodi fiscali. In esso si illustrano i principali reati tributari (dichiarativi, di omesso versamento, di fatturazione inesistente, ecc.), le relative sanzioni penali e misure cautelari (sequestri e confische), nonché l’impatto del D.Lgs. 231/2001: dal 2019, infatti, molte di queste fattispecie fiscali possono comportare anche responsabilità diretta della società (con sanzioni pecuniarie e interdittive) qualora commesse nell’interesse aziendale. Si discuterà inoltre della concomitanza con i reati fallimentari in caso di insolvenza (ad esempio, bancarotta fraudolenta) e di come procedimenti penali e concorsuali possano interagire.

La guida pone un particolare focus sulle PMI (piccole e medie imprese), ossatura del tessuto economico, analizzando come gli strumenti di composizione della crisi possano essere applicati in realtà di dimensioni ridotte e quali accorgimenti pratici adottare nella difesa in contenzioso tributario per imprese meno strutturate. Troverete inoltre tabelle riepilogative – ad esempio sui termini procedurali, sul regime sanzionatorio dei reati tributari e sugli obblighi gestionali – che condensano in forma chiara le informazioni chiave.

Parte I – Il Contenzioso Tributario nel 2025

1. L’accertamento tributario e la formazione della pretesa fiscale

Il punto di partenza di ogni contenzioso tributario è l’accertamento fiscale, ossia l’atto con cui l’Amministrazione finanziaria (Agenzia delle Entrate o altri enti impositori) contesta al contribuente un debito d’imposta non assolto o ulteriori somme dovute. L’avviso di accertamento è un provvedimento motivato con cui il Fisco rettifica la dichiarazione del contribuente o ricostruisce un maggior imponibile, indicando imposte, sanzioni e interessi richiesti. Altri atti impositivi tipici sono: l’avviso di liquidazione (ad es. per imposte di registro o successione), il provvedimento di irrogazione sanzioni, il ruolo e la relativa cartella di pagamento emessa dall’Agente della Riscossione, nonché atti speciali come l’atto di recupero di crediti d’imposta indebitamente fruiti o il diniego di rimborso. Tutti questi atti autonomamente impugnabili possono essere portati davanti al giudice tributario.

Prima dell’emissione dell’atto, la normativa prevede, in taluni casi, un contraddittorio endoprocedimentale (confronto anticipato): l’ufficio fiscale comunica al contribuente rilievi o una bozza di atto e lo invita a fornire chiarimenti o documenti entro un termine. Dal 18 gennaio 2024, con l’entrata in vigore del D.Lgs. 219/2023, questo contraddittorio preventivo è divenuto obbligatorio per tutti gli atti impugnabili, a pena di nullità dell’atto, salvo alcune eccezioni. Il nuovo art. 6-bis dello Statuto del Contribuente (L. 212/2000) stabilisce infatti che ogni avviso di accertamento o altro atto impositivo debba essere preceduto da un invito al contribuente a comparire per fornire osservazioni, tranne che per gli atti individuati da apposito decreto ministeriale come “automatizzati”. In assenza di questo confronto, l’atto finale risulta annullabile. Con un decreto attuativo del MEF (D.M. 24/4/2024) sono stati elencati gli atti esclusi dall’obbligo di contraddittorio informativo, in quanto basati su controlli meramente formali o automatici: ad esempio, le comunicazioni di irregolarità da liquidazione automatizzata delle dichiarazioni (ex art. 36-bis DPR 600/1973), gli avvisi di liquidazione per omesso/tardivo versamento di tributi con calcolo automatico, le cartelle di pagamento derivanti da ruoli, ecc. In sostanza, quando l’atto è il risultato di un riscontro meccanizzato (dati dichiarativi incrociati con banche dati) e non di un vero accertamento valutativo, il contraddittorio preventivo non è richiesto. Viceversa, negli accertamenti sostanziali (ad es. verifica fiscale in loco, accertamenti analitici-induttivi, transfer pricing, ecc.), il diritto al contraddittorio è ormai generale e la sua omissione comporta l’illegittimità dell’atto (salvo che ricorrano specifiche ragioni di urgenza documentate).

Durante la fase istruttoria, il contribuente ha diritto di accedere agli atti (diritto di accesso ai documenti amministrativi) e di conoscere le motivazioni della pretesa. L’avviso di accertamento, infatti, per legge deve essere motivado in modo chiaro e analitico, esponendo i fatti accertati, le norme applicate e le ragioni che hanno condotto alla rettifica. La motivazione “rafforzata” è richiesta in talune ipotesi dalla riforma del 2022: ad esempio, se in appello il giudice intende ribaltare una sentenza di primo grado, deve darne adeguata giustificazione (principio introdotto per garantire stabilità alle decisioni e prevedibilità). Anche gli atti impositivi emanati in violazione del contraddittorio dovranno ora recare l’esplicitazione dei motivi d’urgenza che hanno impedito l’ascolto preventivo del contribuente, altrimenti saranno nulli.

Va segnalato che l’attività di accertamento è soggetta a termini decadenziali (in generale, il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, o settimo in caso di omessa dichiarazione, per le imposte dirette e IVA; termini differenti per altri tributi) e che gli atti emessi oltre tali termini sono nulli. Inoltre, lo Statuto del Contribuente prevede principi garantistici, come il divieto di operazioni di verifica fiscale presso la sede del contribuente oltre 30 giorni lavorativi (salvo proroghe motivate) e il diritto di presentare memorie entro 60 giorni dal rilascio del verbale di chiusura delle operazioni (PVC), periodo nel quale l’ufficio non può emettere l’accertamento. Tali garanzie restano confermate e rinnovate anche alla luce delle modifiche normative più recenti.

2. Strumenti deflattivi del contenzioso: adesione, autotutela e mediazione

Prima di intraprendere il contenzioso vero e proprio, l’ordinamento tributario offre diversi strumenti deflattivi, volti a risolvere la controversia in via amministrativa o pre-contenziosa, riducendo il carico dei tribunali e favorendo soluzioni concordate. Di seguito elenchiamo i principali istituti deflattivi aggiornati al 2025:

  • Autotutela amministrativa: è il potere-dovere dell’Amministrazione finanziaria di annullare o rettificare d’ufficio i propri atti risultati illegittimi o infondati, anche su istanza del contribuente. Il contribuente può presentare in qualsiasi momento un’istanza di autotutela segnalando errori (di persona, calcolo, doppia imposizione, ecc.) o produzioni di documenti non valutati. L’autotutela non sospende i termini di ricorso né quelli di pagamento, ed è discrezionale: l’ufficio non è obbligato a rispondere positivamente, salvo per errori riconosciuti macroscopici. Tuttavia resta uno strumento importante, specie per evitare contenziosi su errori evidenti.
  • Accertamento con adesione: disciplinato dal D.Lgs. 218/1997, consente al contribuente, dopo aver ricevuto un avviso di accertamento (o un PVC), di attivare un contraddittorio con l’ufficio per raggiungere un accordo sull’ammontare delle imposte dovute. Durante il procedimento di adesione si sospendono i termini per il ricorso. Se l’accordo si perfeziona, si formalizza in un atto di adesione con la riduzione delle sanzioni amministrative a 1/3 del minimo. Il contribuente deve versare le somme concordate (imposta + interessi + sanzioni ridotte) entro 20 giorni, potendo chiedere rateazione. L’adesione evita il contenzioso e cristallizza la pretesa in misura concordata. Questo strumento rimane valido e utilizzato: è applicabile sia agli accertamenti “ordinari” sia ai verbali di constatazione (c.d. adesione anticipata), con eccezione per alcuni atti liquidatori automatizzati.
  • Acquiescenza all’accertamento: se il contribuente rinuncia ad impugnare un avviso di accertamento e accetta integralmente la pretesa, può beneficiare di sanzioni ridotte a 1/3 (ai sensi dell’art. 15 D.Lgs. 218/1997). L’acquiescenza si perfeziona col pagamento (anche rateale) entro il termine per ricorrere. In pratica, è uno sconto sanzionatorio in cambio del risparmio di attività contenziosa.
  • Conciliazione giudiziale: qualora il contenzioso sia già iniziato, è possibile comunque una conciliazione in corso di causa. La conciliazione giudiziale può essere fuori udienza (proposta dalle parti e ratificata dal giudice) o in udienza. Se si raggiunge un accordo, si abbatteranno le sanzioni (al 40% del minimo in primo grado, al 50% in secondo grado) e si definirà la lite con un verbale di conciliazione, che ha efficacia di sentenza.
  • Definizioni agevolate delle liti pendenti: il legislatore, a più riprese (1992, 2003, 2011, 2019, 2023…), ha introdotto provvedimenti speciali di condono o tregua fiscale per chiudere in via agevolata le controversie in corso. Da ultimo, la Legge di Bilancio 2023 (L. 197/2022) ha previsto la possibilità di definire le liti tributarie pendenti versando un importo percentuale del valore della controversia (ad esempio, il 90%, 40% o 15% a seconda che il contribuente fosse soccombente o vincente nei vari gradi) in luogo di proseguire il giudizio. Queste definizioni straordinarie, seppur temporanee, sono state strumenti rilevanti di deflazione del contenzioso. Al maggio 2025 tali finestre risultano chiuse, ma vanno segnalate come parte del quadro.
  • Transazione fiscale nei concordati preventivi e accordi: quando l’impresa è in crisi e ricorre a procedure concorsuali (accordo di ristrutturazione o concordato), può proporre il pagamento parziale e/o dilazionato dei debiti tributari e contributivi tramite la cosiddetta transazione fiscale (art. 63 CCI, ex art. 182-ter L.F.). Ciò evita una controversia giudiziaria sul tributo perché l’accordo omologato vincola anche il Fisco, purché soddisfi certe condizioni (in passato era richiesto almeno il pagamento integrale dell’IVA e ritenute, ma la normativa più recente consente anche il trattamento falcidiato di IVA e ritenute se la proposta è comunque migliorativa rispetto alla liquidazione).

Un capitolo a parte merita il reclamo e mediazione tributaria, istituto introdotto nel 2012 per le liti minori. Prima del 2024, per le controversie di valore non eccedente una certa soglia (inizialmente €20.000, poi €50.000) era obbligatorio, prima di accedere al giudice, notificare il ricorso che fungeva anche da istanza di mediazione/reclamo all’ente impositore. Nei 90 giorni successivi, l’ufficio poteva accogliere in autotutela il reclamo, proporre una mediazione riducendo sanzioni al 35% (beneficio di legge) o rigettare; decorso il termine, il ricorso poteva proseguire in Commissione. Tuttavia, dal 2024 questo istituto è stato abolito. Il D.Lgs. 30 dicembre 2023 n. 220 ha infatti abrogato l’art. 17-bis D.Lgs. 546/1992 (disciplina del reclamo-mediazione) con effetto immediato sui nuovi ricorsi. In particolare, l’art. 2 co.1 del D.Lgs. 220/2023 stabilisce l’abrogazione “a decorrere dalla data di entrata in vigore” del decreto, ossia dal 4 gennaio 2024. Dunque per gli atti notificati dal 2024 in poi non vi è più l’obbligo di reclamo/mediation: il contribuente può adire direttamente il giudice tributario entro 60 giorni dall’atto, senza attendere la fase amministrativa di 90 giorni. Questa modifica mira a snellire il procedimento, ritenendo che altri strumenti deflattivi (adesione, conciliazione) siano sufficienti. Attenzione: restano valide le mediazioni instaurate per ricorsi notificati fino al 2023 secondo la previgente disciplina transitoria. In sostanza, dal 2024 il processo tributario torna ad essere immediatamente accessibile anche per le liti di piccolo importo, eliminando un passaggio che aveva dato risultati alterni (pur avendo deflazionato un certo numero di controversie). Gli effetti collaterali dell’abolizione sono: riduzione dei tempi di definizione (niente più attesa dei 90 giorni) ma anche perdita dello sconto sanzionatorio specifico della mediazione.

In sintesi, il contribuente, ricevuto un atto fiscale, valuta in questa fase preliminare se vi siano margini per una soluzione stragiudiziale (autotutela, adesione, conciliazione) o se sia opportuno procedere col ricorso. Spesso, soprattutto per PMI, la convenienza di evitare il processo (con costi e tempi) spinge ad utilizzare questi strumenti: ad esempio, l’accertamento con adesione può ridurre notevolmente le sanzioni e instaurare un dialogo con l’ufficio. D’altro canto, quando l’atto è radicalmente infondato, un ricorso deciso può portare all’annullamento totale, risultato migliore di qualsiasi accordo. La scelta va ponderata caso per caso, anche con assistenza professionale.

3. Il processo tributario: ricorso, giudizi di primo e secondo grado

Quando non è stato possibile (o conveniente) definire la controversia in via amministrativa, il contribuente può adire la giustizia tributaria. Vediamo l’iter del processo tributario e i suoi gradi, tenuto conto delle novità introdotte dalla riforma della giustizia tributaria del 2022-2024.

3.1. Proposizione del ricorso e costituzione in primo grado

Il processo tributario inizia con il ricorso del contribuente contro l’atto impositivo. Il ricorso va notificato entro 60 giorni dalla notifica dell’atto (90 giorni se l’atto è stato notificato all’estero) alla controparte necessaria, che di regola è l’ente che ha emesso l’atto (Agenzia delle Entrate, Agenzia Entrate-Riscossione, Comune, ecc.). Dal 2024 la notifica e il deposito degli atti avvengono esclusivamente per via telematica: è divenuto obbligatorio l’utilizzo del Processo Tributario Telematico (PTT) per tutte le parti e per tutti gli atti. Ciò significa che il ricorso introduttivo deve essere redatto in formato digitale (PDF nativo), firmato digitalmente dal difensore e notificato all’ente impositore tramite PEC. La controparte (ente resistente) dovrà a sua volta costituirsi in giudizio solo in via telematica. Questa digitalizzazione integrale, resa definitiva dal D.Lgs. 220/2023 in vigore dal 2 settembre 2024, garantisce maggiore rapidità, trasparenza e tracciabilità del procedimento, eliminando il cartaceo. È fondamentale, quindi, che tutte le parti mantengano aggiornata la propria PEC: le comunicazioni della Corte di giustizia tributaria (nuova denominazione delle Commissioni) saranno infatti inviate via PEC all’indirizzo comunicato e, in caso di mancato aggiornamento, le notifiche si intenderanno validamente effettuate all’ultimo indirizzo noto.

Una volta notificato il ricorso, il contribuente (ora ricorrente) deve costituirsi in giudizio depositando il ricorso presso la segreteria della Corte di giustizia tributaria di primo grado competente, unitamente ai documenti ed alla prova dell’avvenuta notifica all’ente. Anche il deposito è telematico: tramite il Portale della Giustizia Tributaria, il difensore carica il ricorso e gli allegati nel fascicolo informatico. Con la riforma digitale, è previsto che il giudice utilizzi esclusivamente il fascicolo informatico, non potendo considerare documenti esibiti solo in cartaceo. Ogni documento scansionato deve essere accompagnato da un’attestazione di conformità all’originale, firmata digitalmente dal difensore, ai sensi del nuovo art. 25-bis D.Lgs. 546/1992 introdotto nel 2024. In mancanza di tale attestazione, il documento si considera come non prodotto e non valutabile. Questa novità aumenta la responsabilità del difensore, chiamato a garantire la conformità e la corretta digitalizzazione di ogni atto processuale, pena l’inutilizzabilità della prova.

La competenza del giudice tributario di primo grado è generalmente legata al domicilio fiscale del contribuente o al luogo dove ha sede l’ufficio che ha emesso l’atto. Le Corti di giustizia tributaria di primo grado (già Commissioni Tributarie Provinciali) sono composte da giudici tributari professionali o togati a tempo parziale (in transizione verso un ruolo a tempo pieno previsto dalla riforma). Il processo tributario è collegiale salvo alcune eccezioni: in primo grado decidono normalmente tre giudici, ma la riforma ha introdotto il giudice monocratico per le liti di modesto valore (fino a €3.000, esclusi interessi e sanzioni, come previsto dall’art. 4 co.1-bis D.Lgs. 546/1992 modificato).

Nel ricorso introduttivo, il contribuente deve indicare: l’ente convenuto, l’atto impugnato (allegandone copia), i motivi di ricorso (cioè le censure specifiche all’atto: vizi formali, motivazione insufficiente, errori di diritto o di fatto, ecc.), le conclusioni (cioè ciò che chiede: annullamento totale o parziale dell’atto, vittoria di spese). Deve inoltre quantificare il valore della controversia (di solito l’importo del tributo contestato) ai fini del contributo unificato tributario (CUT) dovuto. La riforma ha mantenuto invariato il sistema del contributo unificato, con importi crescenti per scaglioni di valore della lite (es. €30 per liti fino a €3.000, €60 fino a 26.000, ecc., importi raddoppiati per l’appello).

Va ricordato che, a differenza del processo civile, nel processo tributario non è obbligatoria la costituzione tramite avvocato per le controversie di valore fino a €3.000 (il contribuente può stare in giudizio personalmente, art. 12 co.2 D.Lgs. 546/92). Per valori superiori, è necessaria l’assistenza tecnica di un difensore abilitato (che può essere un avvocato, un commercialista, un consulente del lavoro per materie di contributi, o altri soggetti abilitati ex lege). La procura alle liti può essere conferita in calce al ricorso.

L’ente impositore (ora resistente) deve, a sua volta, depositare il atto di costituzione in giudizio entro 60 giorni dalla notifica del ricorso, allegando l’atto impugnato in originale o copia e eventuali documenti a sostegno, nonché una propria memoria difensiva che replica ai motivi del ricorso. Con la telematizzazione spinta, anche l’ente resistente opera tutto via portale, e anch’esso deve attestare la conformità degli atti prodotti. Nel processo tributario vige il principio dispositivo temperato: le parti apportano le prove documentali; non è ammessa la prova testimoniale orale (vedremo però la novità della testimonianza scritta). Il giudice, pur potendo richiedere informazioni alla PA o ordinare esibizioni, di norma decide in base al materiale probatorio fornito dalle parti.

3.2. Svolgimento del giudizio di primo grado: udienze, istruttoria e decisione

Una volta instaurato il contraddittorio scritto (ricorso e controdeduzioni), la causa viene assegnata a una sezione della Corte tributaria. Le udienze possono essere pubbliche (di discussione) o camerali. La riforma ha introdotto la possibilità generalizzata di udienze a distanza: su richiesta di parte, il giudice tributario può disporre lo svolgimento da remoto tramite collegamento audiovisivo sincrono. Durante la pandemia COVID ciò era stato sperimentato, ora è normativamente stabilizzato per aumentare l’efficienza. L’udienza da remoto garantisce comunque il contraddittorio orale ma senza presenza fisica; tutti gli atti già sono nel fascicolo informatico, per cui il passaggio al telematico è coerente.

Nel merito, il giudice tributario può ammettere (novità 2022) la prova testimoniale in forma scritta. Storicamente, nel processo tributario la testimonianza era vietata, ma la L. 130/2022 ha parzialmente rimosso tale divieto, prevedendo l’“testimonianza scritta” su istanza di parte. In pratica, il testimone redige e sottoscrive una dichiarazione sostitutiva, utilizzando un modulo ministeriale standard, nella quale attesta i fatti di cui ha conoscenza. Tale modulo viene poi trasmesso via PEC al difensore e da questi depositato telematicamente. Questa forma di testimonianza è ammessa però solo in casi tassativi individuati dalla legge (ad esempio, potrebbe riguardare circostanze di fatto relative all’ottemperanza a obblighi documentali, oppure quando la controversia verte su fatti accaduti alla presenza di terzi e non sufficientemente documentabili altrimenti). Il D.Lgs. 220/2023 ha dettagliato la procedura: il testimone deve essere reso edotto delle responsabilità penali in caso di false dichiarazioni; il giudice valuta l’ammissibilità della testimonianza scritta secondo precisi criteri di rilevanza e decisività. Nonostante ciò rappresenti una svolta storica (introducendo per la prima volta la testimonianza nel rito tributario), il legislatore l’ha confinata entro limiti stringenti, per mantenere la prevalenza della prova documentale. La testimonianza scritta, ad ogni modo, facilita l’acquisizione probatoria in quanto evita di dover citare il testimone in presenza, e si integra bene col processo telematico. I difensori dovranno comunque usare questa opportunità con attenzione, preparandola accuratamente, poiché il giudice potrà non ammettere testimonianze generiche o irrilevanti.

In istruttoria, il giudice può anche avvalersi di informazioni provenienti dal processo penale (in caso di reati tributari connessi) ma – ed è principio consolidato – il processo tributario mantiene la sua autonomia rispetto al penale. Significativa a tal proposito è una recente pronuncia della Cassazione (Sez. Trib.), sent. n. 8452 del 31 marzo 2025, la quale ha ribadito che non esiste un principio generale di inutilizzabilità nel processo tributario delle prove acquisite irritualmente, salvo violazioni di diritti fondamentali (come domicilio o libertà personale). In altre parole, diversamente dal processo penale dove vige la regola dell’inutilizzabilità delle prove illecite, nel contenzioso fiscale un elemento probatorio raccolto in modo “irrituale” (ad es. documenti acquisiti senza formalità) resta utilizzabile in mancanza di un espresso divieto normativo. Ciò evidenzia la marcata differenziazione dei due sistemi: la tutela del gettito fiscale consente ai giudici tributari di considerare elementi che magari nel penale sarebbero esclusi, purché non si leda un diritto costituzionale. La Cassazione 8452/2025, riprendendo propri precedenti, sottolinea proprio la necessità di “tenere distinti” i due ambiti (tributario e penale), anche in ossequio alle disposizioni di coordinamento che impongono l’uso delle garanzie penal-procedurali solo ai fini penali, ma non trasferiscono automaticamente quelle garanzie al giudizio tributario.

Dopo l’istruttoria, la causa viene decisa con sentenza. La sentenza di primo grado deve essere motivata e contiene il dispositivo (accoglimento o rigetto del ricorso, eventualmente parziale) e la liquidazione delle spese di lite. La riforma ha inciso anche sul regime delle spese: oggi vige il principio della soccombenza piena (chi perde paga le spese), salvo casi eccezionali di compensazione parziale o totale se vi sono gravi ed eccezionali ragioni espressamente motivate (es. novità della questione o mutamento della giurisprudenza). Una novità pro-contribuente della L. 130/2022 è che, se il ricorso viene accolto integralmente già in primo grado, le spese di giudizio non possono essere compensate per mera equità: il contribuente vittorioso deve ottenere il rimborso delle spese sostenute, a tutela effettiva del diritto di difesa.

3.3. Le Corti di giustizia tributaria di secondo grado: appello

Il sistema di tutela prevede, dopo il primo grado, un secondo grado di merito: l’appello dinanzi alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado (già Commissione Tributaria Regionale). L’appello tributario è regolato in modo simile all’appello civile, con alcune peculiarità. Può proporre appello sia il contribuente soccombente sia l’ente impositore (es. se la sentenza di CTP ha annullato l’atto). Il termine per impugnare la sentenza di primo grado è 60 giorni dalla notifica della stessa, oppure sei mesi (180 giorni) dalla pubblicazione se non notificata.

L’atto di appello va notificato alla controparte e poi depositato telematicamente. Importante: la riforma 2022 ha introdotto un principio di chiarezza e sinteticità degli atti processuali, richiamando i difensori a redigere ricorsi e appelli in maniera chiara e non prolissa. Ciò risponde all’obiettivo di rendere più efficiente la valutazione delle cause e segue la scia di analoghe previsioni nel processo civile (v. D.M. 46/2023 sulle dimensioni degli atti). In altre parole, anche negli atti di appello tributario ci si attende un linguaggio giuridico conciso e focalizzato sui motivi, evitando lunghe digressioni. Non sono ancora previsti stringenti limiti di carattere sanzionatorio (come l’inammissibilità per atti prolissi), ma la linea è tracciata: scrivere in modo sintetico e chiaro è ormai un obbligo deontologico e professionale per gli operatori tributari.

In appello non possono essere introdotti nuovi motivi di ricorso rispetto a quelli del primo grado, pena inammissibilità (principio del tantum devolutum quantum appellatum). Tuttavia, era tradizionalmente ammessa la produzione di nuovi documenti anche in appello, data la natura del processo tributario (non totalmente assimilato al civile). La riforma, per armonizzare il rito, ha parzialmente ristretto questa facoltà: oggi nuovi documenti in appello sono ammissibili solo se non si potevano produrre prima per causa non imputabile alla parte o se sono conseguenza di documenti prodotti dall’altra parte dopo il primo grado. Rimane fermo che non sono ammessi nuovi motivi e, in linea di massima, nemmeno nuove eccezioni non sollevate prima, a meno che rilevabili d’ufficio (es. questioni di diritto inderogabili).

L’appello va motivato confutando specificamente i punti della sentenza di primo grado che si ritengono errati. La controparte può a sua volta proporre appello incidentale (entro 60 giorni dalla notifica dell’appello principale) se anch’essa aveva motivi di doglianza in primo grado rimasti assorbiti o non esaminati.

La trattazione in secondo grado ricalca quella di primo grado: costituzione telematica, eventuale udienza pubblica o da remoto, e decisione collegiale. La differenza più rilevante è che in appello in linea generale non è ammessa nuova attività istruttoria: il giudice di secondo grado decide sugli atti e le prove già acquisite. In passato, la CTR poteva disporre consulenze tecniche o altra istruttoria, ma era raro. Con la riforma, si è voluto rendere il giudizio di appello un riesame “a critica vincolata”, sebbene non manchi il potere del giudice di ordinare integrazioni probatorie in casi eccezionali per garantire la completezza del giudizio.

Una novità introdotta dalla L. 130/2022 è la figura del “giudice relatore” diverso dal presidente che propone una soluzione conciliativa” in appello. In pratica, per deflazionare il contenzioso anche nel secondo grado, il legislatore incoraggia l’accordo transattivo anche in appello: il giudice relatore, studiata la causa, può prospettare alle parti un possibile accordo conciliativo (ad esempio suggerendo di rinunciare a parte delle pretese). Se le parti accettano, si stende verbale di conciliazione anche in appello (con sanzioni al 50% del minimo). Se il tentativo fallisce, la causa prosegue. Questo istituto è coerente con la finalità di ridurre l’arretrato e chiudere le liti in modo consensuale quando possibile.

La sentenza di appello sostituisce quella di primo grado ed è provvisoriamente esecutiva. Un tempo, le decisioni delle Commissioni tributarie non erano esecutive se non dopo il passaggio in giudicato, ma dal 2016 le sentenze tributarie sono esecutive già dal deposito. Ciò significa che se il contribuente vince, l’ente impositore deve rimborsare quanto eventualmente incassato in eccedenza (o sospendere la riscossione residua); se invece l’ente vince (ossia l’avviso è confermato), può procedere a riscuotere le somme dovute.

3.4. Il giudizio di legittimità in Cassazione

Dopo l’appello, l’ultimo grado previsto è il ricorso per Cassazione davanti alla Corte di Cassazione – Sezione Tributaria (o Sezioni Unite in ipotesi particolari). La Cassazione non è un terzo grado di merito, bensì un giudizio di legittimità: può essere adita solo per motivi inerenti violazioni di legge o vizi di motivazione (questi ultimi ora molto limitati dall’art. 360 c.p.c. riformulato). In ambito tributario, tipici motivi di ricorso per Cassazione sono: violazione o falsa applicazione di norme di diritto tributario (es. errata interpretazione di una legge d’imposta), nullità della sentenza per vizi procedurali, difetto assoluto di motivazione o motivazione apparente, omesso esame di fatti decisivi.

Il termine per ricorrere in Cassazione è 60 giorni dalla notifica della sentenza di appello (se non notificata, 6 mesi dalla pubblicazione). Anche in Cassazione dal 2022 è obbligatorio il deposito telematico (il PTT ha coinvolto pure la Cassazione). Il ricorso per Cassazione deve essere sottoscritto, a pena di inammissibilità, da un avvocato cassazionista iscritto nell’albo speciale (quindi in questa fase non bastano i difensori abilitati del merito, serve l’abilitazione specifica).

La Corte di Cassazione esamina il ricorso e può decidere se accoglierlo o rigettarlo. Se lo accoglie, normalmente cassa la sentenza impugnata e rinvia ad altra Corte di giustizia tributaria di secondo grado (in diversa composizione) per un nuovo esame nel merito conformemente ai principi di diritto enunciati. Solo in rari casi la Cassazione decide nel merito (quando non sono necessari ulteriori accertamenti di fatto). Se rigetta il ricorso, la sentenza di appello diventa definitiva.

La riforma del processo tributario ha introdotto anche meccanismi acceleratori in Cassazione. Ad esempio, dal 2023 sono previsti filtri di inammissibilità più stringenti: ricorsi manifestamente infondati o inammissibili possono essere dichiarati tali in camera di consiglio senza attesa. Inoltre, la L. 130/2022 ha previsto la possibilità di una definizione agevolata dei giudizi pendenti in Cassazione al 15 luglio 2022 (misura una tantum, con pagamento del 5% del valore in caso di soccombenza erariale nei primi gradi): questo per ridurre il carico di ricorsi pendenti.

Un aspetto peculiare è che la Cassazione tributaria può avvalersi della Sezione filtro (Sez. VI-5) per le questioni semplici, oppure può demandare alle Sezioni Unite questioni di massima di particolare importanza o per risolvere contrasti giurisprudenziali. Negli ultimi anni, le Sezioni Unite hanno dirimito importanti principi (ad es., in passato: su abuso del diritto prima della norma generale del 2015, sulla prescrizione delle sanzioni, ecc.). Fino al 2025 non risultano interventi rivoluzionari delle SS.UU. in materia tributaria post-riforma, indice che la nuova normativa è ancora in fase di rodaggio interpretativo principalmente presso le sezioni ordinarie.

Va ricordato che, come in civile, la proposizione del ricorso per Cassazione non sospende di diritto l’esecutorietà della sentenza impugnata. Quindi, ad esempio, se il contribuente ha perso in appello e ricorre in Cassazione, l’Amministrazione può comunque procedere a riscuotere (salvo eventuale sospensione). È però possibile chiedere alla Corte di appello che ha emesso la sentenza (entro il termine per ricorrere) la sospensione dell’esecutività in caso di gravissimo e irreparabile danno. Questa è una misura cautelare eccezionale.

Con la sentenza della Cassazione (o l’ordinanza, se emessa in camera di consiglio), il giudizio tributario giunge a termine. Se vi è rinvio, si avrà un giudizio di rinvio davanti al giudice di merito che dovrà uniformarsi alle indicazioni di legittimità.

In prospettiva, grazie alle riforme del 2022-24, ci si attende un processo tributario più rapido e uniforme: la digitalizzazione completa, l’eliminazione di passaggi intermedi (come il reclamo), il potenziamento del contraddittorio preventivo e la professionalizzazione dei giudici dovrebbero condurre a decisioni più tempestive e di qualità, auspicabilmente riducendo la mole di ricorsi per Cassazione e quindi i tempi di definizione finale.

4. Sospensive ed esecutorietà: tutela cautelare ed esecuzione forzata

Tutela cautelare nel processo tributario: Il contribuente che propone ricorso contro un atto impositivo spesso si trova di fronte alla necessità di sospendere temporaneamente la riscossione coattiva delle somme richieste, in attesa della decisione di merito. A tal fine esiste l’istanza di sospensione dell’atto impugnato (art. 47 D.Lgs. 546/92). I requisiti per ottenere la sospensiva sono: fumus boni iuris (motivi di ricorso non manifestamente infondati) e periculum in mora (rischio di danno grave e irreparabile per il contribuente in caso di esecuzione dell’atto). Ad esempio, il pericolo può consistere nella prospettata aggressione del patrimonio aziendale o nella crisi di liquidità che deriverebbe dal pagamento immediato.

La riforma della giustizia tributaria ha velocizzato enormemente i tempi di trattazione di queste istanze: se prima l’udienza di sospensione poteva essere fissata anche entro 180 giorni, adesso deve essere fissata entro 30 giorni dal deposito dell’istanza, con comunicazione alle parti almeno 5 giorni prima. Il giudice, con ordinanza motivata, concede o nega la sospensione. Se concede la sospensione, l’efficacia esecutiva dell’atto viene bloccata fino alla decisione di merito. Se la nega, l’ente potrà procedere alla riscossione (fermo restando che, se poi il contribuente vincerà, avrà diritto al rimborso).

Questa accelerazione dei tempi (da 180 a 30 giorni per la trattazione) è volta a garantire una tutela cautelare tempestiva. Un danno grave infatti non può attendere molti mesi: è stato riconosciuto il principio che la sospensiva va esaminata subito, come in altri ambiti del diritto (civile/amministrativo). In effetti, oggi molte Corti fissano l’udienza di sospensiva addirittura entro poche settimane. L’ordinanza sulla sospensiva è autonomamente impugnabile in appello (entro 30 giorni) se negativa.

Esecutività delle sentenze: le sentenze tributarie, come accennato, sono provvisoriamente esecutive. In particolare: la sentenza di primo grado che accoglie il ricorso (annullando l’atto) è immediatamente esecutiva a favore del contribuente, che può chiederne l’ottemperanza (ad esempio ottenere lo sgravio del ruolo o il rimborso di somme eventualmente già pagate). Viceversa, la sentenza di primo grado sfavorevole al contribuente consente all’ente di riscuotere una parte del tributo, ma non tutto subito: la legge prevede che, dopo la sentenza di CTP che dà ragione all’ente, questi possa riscuotere fino al 50% delle imposte accertate (oltre interessi) dedotto quanto eventualmente già versato in pendenza di giudizio. Dopo la sentenza di secondo grado sfavorevole al contribuente, l’ente può riscuotere il restante 50% (quindi, di fatto, l’intero importo). Questo meccanismo (introdotto dal DL 193/2016) ha sostituito la previgente regola del 1/3 – 2/3. Oggi dunque, in pendenza di appello, il contribuente non è tenuto a pagare più di metà della pretesa complessiva. In ogni caso, se poi la Cassazione dovesse ribaltare tutto a favore del contribuente, l’Amministrazione dovrà restituire quanto incassato indebitamente, con interessi.

Per contro, se il contribuente risulta vincitore in giudizio, può attivare la procedura di ottemperanza per costringere l’Amministrazione a dare esecuzione alla sentenza (ad es. rimborso di imposte). L’ottemperanza si chiede alla stessa Corte tributaria che ha emesso la sentenza passata in giudicato (o provvisoriamente esecutiva, se l’ente non appella): il giudice nomina un commissario ad acta e ingiunge l’adempimento. La Legge 130/2022 ha previsto che, se l’ente non paga entro 90 giorni dal passaggio in giudicato, scattano in automatico gli interessi per ritardato pagamento maggiorati.

Esecuzione forzata tributaria: è opportuno ricordare che la riscossione delle somme iscritte a ruolo (cartelle) o degli avvisi di accertamento esecutivi può portare ad azioni esecutive tipiche: fermo amministrativo di beni mobili registrati, ipoteca su immobili, pignoramenti presso terzi o su beni. Durante il contenzioso, se è stata ottenuta la sospensiva, queste azioni sono inibite. Se invece non c’è sospensione, l’Agente della riscossione può iniziare le procedure una volta decorsi i termini di rito (60 giorni dalla notifica della cartella senza pagamento danno luogo a esecuzione).

La riforma non ha cambiato le norme dell’esecuzione forzata tributaria, che restano quelle del DPR 602/1973, ma la maggiore celerità nella fissazione delle sospensive protegge meglio il contribuente da esecuzioni ingiuste. Inoltre, sono state introdotte (con provvedimenti paralleli, es. DL 119/2018 e L. 197/2022) varie possibilità di rottamazione delle cartelle e stralcio di mini-debiti, che indirettamente influenzano la fase esecutiva. Ad esempio, nel 2023 con la “Definizione agevolata 2023” (c.d. rottamazione-quater) molte cartelle fino al 2017 sono state sospese in attesa di definizione con pagamento ridotto di sanzioni e interessi.

In definitiva, il sistema processuale tributario riformato offre ora un quadro più garantista sul piano procedurale (contraddittorio anticipato, tempi rapidi per le cautelari, prova per testi scritta) e più stringente sul piano delle formalità (depositi telematici con attestazione di conformità, atti chiari e sintetici). L’equilibrio tra esigenze dell’Erario e diritti del contribuente rimane in continua evoluzione, ma gli strumenti di tutela – se ben utilizzati – consentono una difesa efficace anche nei confronti dell’Amministrazione finanziaria più organizzata.

5. Principi processuali innovativi: onere della prova e gestione delle prove

La riforma del 2022 ha inciso su alcuni principi cardine del processo tributario, in particolare sul riparto dell’onere della prova e sull’ammissione di nuovi mezzi probatori, come già in parte anticipato.

5.1. L’onere della prova “rafforzato” a carico del Fisco

Con la L. 130/2022 è stato introdotto nel D.Lgs. 546/1992 l’art. 7 comma 5-bis, che per la prima volta codifica espressamente l’onere probatorio nel processo tributario. La norma stabilisce che “l’Amministrazione prova in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato” e che il giudice deve fondare la decisione sui soli elementi emersi in giudizio, annullando l’atto se la prova risulta insufficiente o contraddittoria. Questo principio per certi versi recepisce l’orientamento giurisprudenziale consolidato: spetta all’ente impositore dimostrare i fatti costitutivi della pretesa tributaria (ad esempio, la maggiore materia imponibile, l’esistenza di operazioni inesistenti, il superamento di soglie per un omesso versamento penalmente rilevante, etc.), mentre grava sul contribuente l’eventuale onere di provare fatti che contrastano le allegazioni del Fisco (es. esimenti, cause di non tassabilità, ecc.). La novità è che ora tale criterio è espresso nella legge processuale: il che dà maggiore certezza alle parti su “chi deve provare cosa”. Inoltre, la norma impone al giudice di annullare l’atto se la prova fornita dall’ente risulta insufficiente o contraddittoria – in sostanza sancisce che il dubbio interpretativo o fattuale va risolto a favore del contribuente, se il quadro probatorio dell’ente non regge.

È importante sottolineare che l’art. 7 co.5-bis “salvaguarda le presunzioni legali” previste a favore dell’Amministrazione. Ciò significa che se una legge sostanziale prevede una presunzione (es. i prelevamenti non giustificati sui conti di un imprenditore sono considerati ricavi occulti), tale presunzione opera anche nel processo e di fatto sposta sul contribuente l’onere della prova contraria. Dunque, il principio generale non altera le specifiche disposizioni sostanziali in tema di prova. Infatti, la giurisprudenza successiva (cfr. Cass. Sez. V n. 20816/2024) ha chiarito che l’art. 7 comma 5-bis non deroga ai criteri generali di riparto dell’onere probatorio già vigenti, ma li ribadisce e rafforza in senso garantista. In quella sentenza, la Cassazione ha qualificato la nuova norma come di natura processuale sostanziale, applicabile ai giudizi iniziati dopo la sua entrata in vigore (settembre 2022), e ha ritenuto che non modifica le regole preesistenti: il Fisco deve provare i fatti costitutivi dell’obbligo d’imposta, il contribuente i fatti estintivi, modificativi o impeditivi (compresi gli elementi a proprio favore, ad esempio i costi deducibili non riconosciuti dal Fisco).

Questo “onere della prova rafforzato” serve comunque da monito all’Amministrazione: non è più ammesso l’atteggiamento (talora visto in passato) di emanare atti impositivi basati su semplici rilievi indiziari generici confidando che il contribuente non impugnerà; se si va in giudizio, l’ufficio deve avere evidenze solide, altrimenti l’atto soccomberà. Per il contribuente, la norma offre uno strumento ulteriore di difesa: può eccepire formalmente che l’ente non ha assolto al proprio onere probatorio. Per esempio, se l’accertamento si fonda su presunzioni semplici non gravi o su calcoli astratti, il ricorrente potrà invocare l’art. 7 co.5-bis per chiedere l’annullamento dell’atto per difetto di prova.

5.2. Ammissione della prova testimoniale (scritta) e altri mezzi di prova

Come già descritto, la L. 130/2022 ha innovato la materia dell’istruttoria introducendo la possibilità della prova testimoniale in forma scritta. Questa rappresenta un temperamento dello storico divieto di testimonianza nel processo tributario (divieto che mirava a evitare facili collusioni e difficoltà di gestione). Adesso, però, con le dovute cautele, anche le dichiarazioni testimoniali trovano spazio. In pratica, il difensore che voglia avvalersi di un testimone deve chiederne l’ammissibilità al giudice, indicando i fatti su cui il teste deporrà. Se ammesso, il testimone dovrà compilare e firmare la dichiarazione sostitutiva (consapevole delle sanzioni penali in caso di falsità) sul modulo predisposto dal MEF. Questo modulo, inviato via PEC, entra nel fascicolo telematico. La controparte può contestare il contenuto con memorie, ma non interrogare direttamente il testimone (non essendoci audizione orale).

Accanto alla testimonianza, restano centrali gli altri mezzi di prova: documenti, scritture contabili, perizie stragiudiziali, ecc. Il giudice tributario ha facoltà, come da art. 7 D.Lgs. 546, di disporre consulenza tecnica d’ufficio (CTU) in casi complessi (ad esempio per ricostruire contabilità particolarmente intricate, per valutare la congruità di un valore di mercato, ecc.). Tale potere è invariato. Può pure ordinare alle parti l’esibizione di documenti o richiedere informazioni ad altre pubbliche amministrazioni (ad esempio chiedere all’Agenzia delle Dogane una relazione su un certo fatto, oppure acquisire atti da un fascicolo penale correlato). Tuttavia, l’uso di questi poteri officiosi in passato era raro; con la professionalizzazione dei giudici potrebbe aumentare, sebbene la riforma punti a far sì che siano le parti stesse a introdurre tutti gli elementi necessari.

Un altro istituto rilevante è l’interpello incidentale alla Corte di Giustizia UE: qualora la controversia tributaria presenti questioni di interpretazione di norme unionali (IVA, dazi, aiuti di Stato in materia fiscale, ecc.), il giudice tributario – essendo giudice nazionale – può o deve (se ultimo grado) sospendere e rinviare la questione pregiudiziale alla CGUE. Ciò non è cambiato: già diversi contenziosi IVA italiani sono stati decisi dopo pronunce pregiudiziali della CGUE (famosi i casi sul pro-rata IVA detraibile, sul regime dell’imponibile, ecc.).

Infine, un principio innovativo voluto dalla riforma è la valorizzazione del contraddittorio procedimentale come elemento di legittimità sostanziale: come visto, se l’atto è stato emesso senza contraddittorio dove obbligatorio, il giudice deve annullarlo. Pertanto, la prova del rispetto del contraddittorio (ad esempio la comunicazione di fine verifica, l’invito a comparire, le memorie presentate dal contribuente e la loro valutazione) diventa parte del materiale probatorio che il giudice esaminerà. In giudizio, il contribuente potrà eccepire l’eventuale vizio e l’ente dovrà provare di averlo convocato e di aver considerato le sue deduzioni.

6. Rimedi alternativi e procedure speciali nel contenzioso tributario

Oltre al processo ordinario, esistono nel contenzioso tributario alcuni rimedi e procedure alternative che è utile conoscere:

  • Autotutela e sgravio in corso di giudizio: L’Amministrazione finanziaria, anche dopo l’instaurazione del ricorso, può rendersi conto di avere torto (ad esempio alla luce di nuovi documenti) e annullare in autotutela l’atto impugnato, o comunque rideterminare la pretesa. In tal caso l’ente comunica l’annullamento (totale o parziale) al contribuente e al giudice, e il processo si estingue (per sopravvenuta carenza di interesse o cessazione della materia del contendere). La prassi dell’“adesione in corso di causa” è stata incoraggiata anche dalla riforma: se l’ufficio riconosce fondate le ragioni del ricorrente, è tenuto a non insistere nel contenzioso.
  • Conciliazione giudiziale: Già descritta, va ricordato che può avvenire anche in appello (con sanzioni ridotte al 50%). La conciliazione può essere proposta dal giudice (specie ora con la figura del relatore in appello) oppure dalle parti. Se ad esempio in primo grado si scopre che c’è margine per un accordo (magari su questioni quantitative), le parti possono stendere un verbale di conciliazione e il giudice lo recepisce con decreto. Ciò chiude la lite con efficacia di sentenza.
  • Giudizio di ottemperanza: se l’ente non dà seguito a una sentenza passata in giudicato favorevole al contribuente, questi può avviare il giudizio di ottemperanza davanti alla Corte tributaria che ha emesso la sentenza da ottemperare. È un procedimento speciale, a carattere amministrativo, in cui il giudice può nominare un commissario ad acta che esegua materialmente la sentenza (ad esempio, predisponendo il rimborso al contribuente). La riforma non ha modificato questa procedura, se non riducendo il termine di inazione che la giustifica (90 giorni dall’ingiunzione di pagamento).
  • Procedura per querela di falso: in sede tributaria i documenti hanno piena efficacia probatoria fino a querela di falso. Se una delle parti sostiene che un documento (es. una fattura, un atto pubblico) è falso, non può farlo accertare dal giudice tributario, ma deve proporre una querela di falso dinanzi al giudice civile competente. Il processo tributario può essere sospeso in attesa dell’esito. Questo rimane uno strumento poco frequente ma importante in situazioni estreme.
  • Sospensione ex art. 39 D.Lgs. 546/92 per pregiudizialità amministrativa: se la decisione della causa dipende dall’esito di un altro procedimento (ad es. un ricorso amministrativo pendente su un atto presupposto), il giudice può sospendere il processo in attesa della definizione di quell’altro. Questa sospensione però ha natura discrezionale e raramente è utilizzata, anche perché la tendenza è verso la concentrazione delle tutele.
  • Recupero di aiuti di Stato: un caso particolare di contenzioso tributario riguarda la riscossione di tributi considerati aiuti di Stato illegittimi da recuperare. Il D.L. 193/2016 ha previsto che tali atti di recupero non siano soggetti a mediazione e abbiano corsie preferenziali. Pochi casi pratici, ma vanno menzionati per completezza.

In conclusione della Parte I, possiamo affermare che il contenzioso tributario nel 2025 si presenta come un sistema più moderno, telematico e orientato alla deflazione delle liti mediante dialogo preventivo e strumenti conciliativi, ma al contempo pronto a garantire un giudizio equo e rigoroso quando necessario. Il professionista deve padroneggiare non solo le norme sostanziali d’imposta, ma anche queste regole procedurali per poter scegliere la strategia difensiva migliore: a volte un accordo conviene, altre volte è doveroso arrivare a sentenza. E, grazie alle riforme, oggi il contribuente ha qualche arma in più (come la testimonianza o il richiamo all’onere probatorio del Fisco) per far valere le proprie ragioni di fronte al giudice tributario.


Parte II – Il Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (aggiornato al 2025)

7. Ambito di applicazione e principi generali del Codice della Crisi

Il Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (CCI), emanato con D.Lgs. 12 gennaio 2019 n. 14, rappresenta la riforma organica della disciplina fallimentare italiana. Dopo varie proroghe, il Codice è entrato pienamente in vigore dal 15 luglio 2022, arricchito e modificato dal D.Lgs. 17 giugno 2022 n. 83 (attuativo della direttiva UE 2019/1023, c.d. direttiva Insolvency) e da altri interventi minori successivi. Al 2025, il quadro normativo della crisi d’impresa risulta notevolmente innovato rispetto alla vecchia legge fallimentare (R.D. 267/42).

Ambito soggettivo: Il CCI si applica agli imprenditori “commerciali” e alle società (di persone o capitali), nonché – per le procedure da sovraindebitamento – ai soggetti non fallibili (imprenditori minori, professionisti, consumatori, start-up innovative). Restano escluse le grandi imprese soggette ad amministrazione straordinaria (disciplinate dalla legge Marzano / Prodi-bis) e alcuni enti pubblici. L’obiettivo dichiarato del Codice è duplice: prevenire l’insolvenza attraverso l’emersione tempestiva della crisi e, quando l’insolvenza è conclamata, regolarla in modo efficace favorendo ove possibile la continuità aziendale oppure procedendo a una liquidazione ordinata.

Principi generali: Il CCI introduce espressamente principi come il dovere di tempestiva rilevazione della crisi e di adozione di misure idonee al suo superamento, posti a carico dell’imprenditore e degli organi sociali. Altro principio è la massimizzazione del valore dell’impresa in crisi nell’interesse di creditori, lavoratori e del sistema economico (evitando, ove ragionevole, la dispersione di patrimonio che una liquidazione comporterebbe). Vengono unificati sotto il concetto di “strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza” tutti i possibili percorsi – negoziali o giudiziali – volti a risolvere lo stato di crisi o insolvenza, siano essi di natura conservativa (risanamento/continuità) o liquidatoria. Si supera così la tradizionale contrapposizione tra “procedure concorsuali minori” e “fallimento”: ogni strumento è parte di un unico sistema modulare.

Un elemento di novità apportato dal D.Lgs. 83/2022 è la soppressione degli OCRI (Organismi di Composizione della Crisi) previsti nel testo originario del 2019. In origine, il Codice avrebbe istituito presso le Camere di Commercio degli organismi deputati a ricevere le segnalazioni d’allerta e assistere l’imprenditore nella composizione assistita della crisi. Tale meccanismo di “allerta precoce” non è mai entrato in vigore (sospeso e poi abrogato), sostituito da strumenti più flessibili come la composizione negoziata (introdotta nel 2021). La filosofia di fondo resta però la medesima: favorire l’emersione anticipata della crisi per evitare che degeneri in insolvenza conclamata.

Il Codice dedica ampio spazio alla tutela dei creditori ma anche alla salvaguardia dei livelli occupazionali e alla responsabilità sociale dell’impresa: concetti di matrice europea che permeano gli istituti di regolazione della crisi (ad esempio, nelle procedure in continuità aziendale, la conservazione dei posti di lavoro è considerata nell’omologazione).

Crisi vs insolvenza: Viene definito stato di crisi il momento dell’impresa caratterizzato da “difficoltà economico-finanziaria che rendono probabile l’insolvenza” (una situazione di squilibrio reversibile se intercettata per tempo). L’insolvenza invece, riprendendo la definizione classica, è lo stato del debitore che non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni (incapacità persistente di far fronte ai debiti). Il Codice perlopiù utilizza il termine “liquidazione giudiziale” per indicare la procedura concorsuale conseguente all’insolvenza, in sostituzione del termine “fallimento”, segnando anche linguisticamente un approccio meno stigmatizzante. Tuttavia, la sostanza rimane: la liquidazione giudiziale è l’extrema ratio in caso di insolvenza irreversibile.

In sintesi, la Parte I del Codice (artt. 1-374 CCI) disciplina le procedure di allerta e composizione (in gran parte innovate), gli strumenti negoziali e le procedure concorsuali; la Parte II (artt. 375-391) attiene alle procedure di insolvenza per le crisi da sovraindebitamento (consumatori e piccole imprese non fallibili); la Parte III raccoglie disposizioni penali (reati concorsuali) e la Parte IV norme finali e di coordinamento.

Passiamo ora ad esaminare, in modo sistematico, tutti i principali istituti del Codice aggiornato al 2025.

8. Assetti organizzativi e doveri degli amministratori per la “prevenzione” della crisi

Uno dei cardini del nuovo quadro normativo è l’enfasi sugli assetti organizzativi adeguati e sui doveri di monitoraggio in capo agli amministratori. Già dal 16 marzo 2019, con la riforma del Codice Civile (art. 2086 c.c., comma 2), è stato imposto all’imprenditore che opera in forma societaria o collettiva di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e dimensioni dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi e della continuità aziendale. Il Codice della Crisi ha rafforzato questo obbligo, precisando che gli assetti devono consentire di rilevare tempestivamente segnali di squilibrio ed intervenire.

Cosa significa in concreto? Per le società, il CdA (o l’amministratore unico) deve dotare l’azienda di strumenti come: un sistema di contabilità analitica e di tesoreria per monitorare costantemente flussi di cassa e margini, meccanismi di segnalazione interna qualora certi indici di allerta superino soglie critiche (es: indici di liquidità, indice di sostenibilità degli oneri finanziari, ecc.), piani finanziari prospettici per almeno 12 mesi (forward looking), ecc. Un assetto adeguato implica anche avere competenze manageriali e consulenziali (per esempio nominare un CFO o un consulente esterno per la crisi se mancano competenze interne).

Il Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti ha elaborato specifici indici di allerta (previsti dall’art. 13 CCI, poi resi non obbligatori ma indicativi) quali: patrimonio netto negativo, DSCR (Debt Service Coverage Ratio) inferiore a 1, oneri finanziari eccessivi rispetto al fatturato, ecc. Sebbene l’obbligo legale di adottare tali indici sia stato attenuato, essi restano segnali d’allarme importanti. Il D.Lgs. 83/2022 ha infatti specificato che nell’assetto l’imprenditore deve indicare i segnali di allarme da considerare indice di possibile crisi. Dunque, formalmente, l’organo amministrativo deve conoscere quali indicatori tenere d’occhio (es: ripetute esposizioni debitorie verso fisco o fornitori, tendenza a tensioni di liquidità, ecc.) e attivarsi al loro manifestarsi.

Gli organi di controllo societari (sindaci, revisore) hanno ora un ruolo cruciale: essi infatti devono vigilare sull’adeguatezza degli assetti e sull’operato degli amministratori. Se ravvisano segnali di crisi ignorati dagli amministratori, hanno l’obbligo di segnalarli al board formalmente (early warning interno). Inoltre, devono verificare che la società mantenga il capitale minimo e, se la continuità aziendale è a rischio, lo segnalano nella relazione di revisione.

Importante novità, già introdotta dal Codice ma attuata via modifiche al Codice Civile nel 2019, è l’abbassamento delle soglie per la nomina obbligatoria dell’organo di controllo/revisore nelle s.r.l.. Dopo alcuni aggiustamenti normativi, attualmente la s.r.l. ha l’obbligo di nominare un sindaco unico (o collegio sindacale) o un revisore se supera per due esercizi consecutivi uno dei seguenti parametri: totale attivo stato patrimoniale > €4 milioni; ricavi > €4 milioni; dipendenti medi > 20. (Tali soglie erano state temporaneamente abbassate a 2 milioni e 10 dipendenti dal D.Lgs. 14/2019, ma poi riportate ai valori attuali dal D.L. 32/2019 convertito). Ciò significa che molte PMI di medie dimensioni sono tenute ad avere un controllore: questo consente di intercettare crisi nei primi sintomi. Per le micro-imprese (sotto tutte le soglie) invece non vi è organo di controllo obbligatorio: in tali casi il legislatore fa affidamento sul senso di responsabilità degli amministratori e sull’eventuale ruolo attivo di creditori qualificati (come vedremo, Agenzia Entrate e INPS inviano alert anche alle imprese sottosoglia, benché con minor incidenza).

Gli amministratori hanno un dovere preciso: se l’impresa mostra segnali di crisi o perde il capitale sociale minimo, essi devono prontamente attivarsi. Le opzioni da attivare sono: rimediare tramite operazioni sul capitale (ricapitalizzazione, riduzione e contestuale aumento, ecc.), oppure avviare uno degli strumenti di regolazione previsti (composizione negoziata, accordo di ristrutturazione, concordato preventivo) per evitare l’aggravarsi del dissesto. Il ritardo colpevole nell’attivarsi può determinare responsabilità sia civilistiche (verso società, soci e creditori) che concorsuali (bancarotta per aggravamento del dissesto). Su questo tema, il Codice ha inciso sull’art. 2486 c.c.: in caso di prosecuzione dell’attività in presenza di causa di scioglimento (tipicamente capitale azzerato), gli amministratori rispondono verso la società per le perdite aumentate. E con la riforma, è divenuto più agevole per i creditori sociali far valere il danno da tardiva emersione della crisi: la curatela in liquidazione giudiziale, ad esempio, potrà agire contro gli ex amministratori che non hanno chiesto il concordato o la liquidazione in tempi utili, quando la prospettiva di soddisfacimento sarebbe stata migliore.

In definitiva, il Codice ha voluto culturalmente responsabilizzare gli amministratori: non più gestioni disinvolte fino al collasso e poi “fallimento”, ma una gestione proattiva della difficoltà. Questo è un cambio di paradigma importante specialmente per le PMI a gestione familiare, dove spesso manca un controllo formale: gli imprenditori sono ora chiamati a professionalizzarsi e dotarsi di strumenti di controllo di gestione.

9. Segnalazioni d’allerta dei creditori pubblici qualificati e composizione negoziata della crisi

Il disegno originario del Codice prevedeva un sistema di allerta in cui determinati creditori pubblici (Agenzia Entrate, INPS, Agente Riscossione) e gli stessi organi di controllo interni avrebbero dovuto segnalare precocemente lo stato di crisi ad un OCRI, innescando un percorso di composizione assistita. Come detto, quella versione è stata accantonata. Al suo posto è stata introdotta (dal D.L. 118/2021 convertito) la composizione negoziata per la soluzione della crisi d’impresa, in vigore dal 15 novembre 2021 e confluita poi nel Codice (Titolo II, Capo I-bis).

La composizione negoziata (C.N.) è una procedura volontaria e stragiudiziale, attivabile dall’imprenditore commerciale o agricolo in situazione di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che rende probabile la crisi o insolvenza, ma ancora reversibile. L’imprenditore accede tramite una piattaforma telematica nazionale (gestita dalle Camere di Commercio) inserendo dati aziendali, bilanci, situazione debitoria e un piano di risanamento ipotetico. Un algoritmo verifica alcuni indicatori e restituisce un esito sulla ragionevole perseguibilità del risanamento. Indipendentemente da ciò, l’imprenditore può presentare istanza di composizione negoziata: un’apposita Commissione nominerà un Esperto indipendente (spesso un commercialista o esperto di crisi, scelto da un elenco).

L’Esperto avrà il compito di studiare la situazione aziendale e facilitare le trattative tra l’imprenditore e i suoi creditori. Si avvia così una fase confidenziale in cui l’impresa, assistita dall’Esperto, negozia con i creditori possibili soluzioni (piani di rientro, nuovi finanziamenti, conversione di crediti in capitale, cessione di rami d’azienda, etc.). Tutto questo fuori dalle aule di tribunale, per una durata iniziale di 3 mesi prorogabile fino a 6 (o 12 in certi casi complessi).

La composizione negoziata è dunque simile a una “mediazione aziendale” dove però c’è un professionista terzo a guidare. I creditori sono invitati dall’impresa a sedersi al tavolo (virtuale o fisico) e discutere. L’Esperto redige regolari relazioni sull’andamento delle trattative.

Durante questa procedura, l’imprenditore resta alla guida dell’azienda e continua la gestione ordinaria. Per straordinaria amministrazione occorre l’assenso dell’Esperto (es. vendita di beni importanti). Non c’è spossessamento né dichiarazione formale di procedura concorsuale.

Tuttavia, per proteggere l’impresa durante le trattative, il Codice prevede che essa possa richiedere al Tribunale misure protettive: presentando l’istanza di composizione negoziata, l’imprenditore può chiedere la sospensione delle azioni esecutive individuali (cioè bloccare i pignoramenti dei creditori) per la durata delle negoziazioni. Il Tribunale, verificati i presupposti, emette un decreto che impone ai creditori di non iniziare o proseguire azioni esecutive o cautelari e di non acquisire titoli di prelazione (ipoteche) senza autorizzazione. Questa protezione (moratoria) può coprire tutti i creditori o solo alcuni, a scelta dell’imprenditore, e di regola dura 4 mesi rinnovabili fino a 12. È un paracadute simile al “automatic stay” del Chapter 11 USA, ma su base volontaria e flessibile.

La fase di composizione negoziata può avere esiti diversi. Le principali opzioni al termine sono:

  • Risanamento “in bonis”: le trattative vanno a buon fine e l’impresa raggiunge accordi stragiudiziali con tutti o la maggior parte dei creditori, tali da riequilibrare la situazione (es: allungamento dei debiti bancari, nuova finanza dagli soci, taglio di alcuni costi, ecc.). In tal caso l’impresa esce dalla procedura senza passare dal tribunale. L’Esperto chiude con una relazione finale positiva. Questo esito è l’ideale: l’azienda si salva senza macchia concorsuale. I dati ad oggi mostrano che circa 1 caso su 5 trova soluzioni positive, una percentuale non altissima ma incoraggiante.
  • Convenzione di moratoria o accordo parziale: il Codice consente di formalizzare, con efficacia giuridica, i risultati delle trattative in alcuni strumenti ad hoc. Ad esempio, se una maggioranza qualificata di creditori finanziari aderisce, si può stipulare una convenzione di moratoria opponibile alle banche dissenzienti; oppure se tutti i creditori raggiungono un accordo, lo si perfeziona privatamente (restando un contratto). Questi accordi possono essere omologati su richiesta delle parti per maggiore efficacia esecutiva.
  • Transazione fiscale e contributiva: nell’ambito delle trattative, l’impresa può proporre all’Agenzia Entrate e agli enti previdenziali una falcidia o dilazione dei loro crediti. Se questi enti aderiscono, l’accordo avrà efficacia anche su tali crediti (anche qui con possibile omologa per rinforzare).
  • Accesso a una procedura concorsuale: se la composizione negoziata non sfocia in un risanamento diretto, l’impresa può decidere comunque di imboccare una procedura formale. Qui le possibilità includono: presentare domanda di concordato preventivo (anche in versione semplificata, v. oltre), proporre un accordo di ristrutturazione dei debiti da omologare (magari avendo già raccolto adesioni durante la negoziazione), o ancora richiedere la liquidazione giudiziale se si è constatata l’insolvenza irrefutabile. La procedura negoziata funge così da “anticamera”: l’Esperto nella relazione finale attesterà, ad esempio, che la continuità non è possibile ma che i creditori sarebbero soddisfatti meglio da un concordato liquidatorio che non da una liquidazione pura; ciò potrà agevolare l’ammissione a concordato.
  • Concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio: questa è una procedura speciale introdotta in origine dal D.L. 118/2021 come opzione di uscita dalla composizione negoziata in caso di fallimento delle trattative. Se l’Esperto dichiara che le trattative non hanno avuto successo e non è possibile trovare soluzioni, l’imprenditore – entro 60 giorni dalla relazione finale – può richiedere al Tribunale l’omologazione di un concordato liquidatorio “semplificato”, anche senza il voto dei creditori (non è prevista l’adunanza). In pratica l’imprenditore propone di liquidare tutti i beni sotto controllo del tribunale, con un piano di riparto ai creditori, e il tribunale omologa se ritiene che i creditori ricevano almeno quanto otterrebbero dalla liquidazione giudiziale. Questo strumento è definito “semplificato” perché salta la fase di voto, accelerando i tempi, ma d’altro canto i creditori possono opporsi. Il concordato semplificato è innovativo perché consente all’imprenditore onesto che ha tentato la negoziazione senza successo di evitare il “marchio” del fallimento e chiudere comunque con una procedura concorsuale. Occorre notare che tale istituto, inizialmente a regime transitorio, è stato stabilizzato dalle modifiche del 2022.

Parallelamente alla composizione negoziata, il Codice ha mantenuto l’idea delle segnalazioni dei creditori pubblici qualificati. Infatti, dal luglio 2022 (poi operativo dal 2023) Agenzia Entrate, INPS e Agenzia della Riscossione hanno l’obbligo di inviare una comunicazione di allerta all’impresa (e all’organo di controllo) quando le esposizioni debitorie superano certe soglie normativamente previste. Ad esempio: l’INPS se rileva un debito contributivo superiore a €30.000 (imprese con dipendenti) o €15.000 (senza dipendenti) e più del 30% di contributi non versati in un anno, deve inviare una lettera all’azienda segnalando il debito e invitandola a attivarsi. L’Agenzia delle Entrate ha soglie (art. 25-novies CCI) come IVA non versata oltre €5.000 se il volume affari < €1 mln, o oltre €20.000 se > €1 mln, ecc., nonché ritenute non versate oltre €5.000. L’Agenzia della Riscossione segnala se il debito a ruolo supera €100.000 per imprese sopra soglia, €50.000 per sottosoglia, persistente per oltre 90 giorni.

Queste lettere di segnalazione (già partite dal 2023, compreso INAIL da giugno 2023) hanno lo scopo di “scuotere” l’imprenditore: una volta ricevute, l’impresa ha 90 giorni per regolarizzare il debito o almeno chiedere la rateazione; altrimenti, se non reagisce, ciò potrebbe avere conseguenze (ad esempio, nella successiva valutazione di eventuale colpa grave degli amministratori in caso di insolvenza). Non c’è più l’obbligo di segnalare a un organo esterno (OCRI) come nella vecchia idea, ma il meccanismo incentiva l’imprenditore stesso a rivolgersi alla composizione negoziata. In effetti, le lettere di compliance contengono spesso l’invito a valutare l’accesso alla piattaforma di composizione negoziata.

I dati fino a maggio 2025 indicano che la composizione negoziata è uno strumento in crescita: a fine 2023 risultavano presentate quasi 600 istanze (contro solo 39 nel 2021, anno di avvio), e il trend è accelerato nel 2024 (1450 imprese hanno avuto accesso entro metà maggio 2024). Questo mostra che la cultura dell’allerta sta prendendo piede, con un aumento di circa il 53% nel primo semestre 2024 rispetto al 2023. In particolare molte PMI stanno sperimentando questo percorso per evitare l’insolvenza conclamata. L’identikit medio dell’impresa che accede è spesso una PMI con problemi di liquidità e debiti fiscali, che cerca respiro senza immediatamente dover dichiarare fallimento. Circa il 6% delle imprese in C.N. sono sottosoglia (piccolissime) e solo il 9% appartiene a gruppi societari, segno che lo strumento è usato anche dai piccoli, sebbene prevalentemente da aziende strutturate.

In conclusione, la composizione negoziata è oggi il fulcro della gestione precoce della crisi: uno strumento negoziale, volontario e riservato che consente di cercare soluzioni col supporto di un esperto e con la protezione (volendo) del tribunale, ma senza gli effetti stigmatizzanti di una procedura concorsuale formale. È importante per l’imprenditore conoscerla e non aver timore di attivarla: anzi, tardare eccessivamente potrebbe privare l’azienda di chances di salvataggio.

10. Strumenti di regolazione stragiudiziale: piani attestati di risanamento e accordi di ristrutturazione

Accanto alla composizione negoziata (che è un percorso, più che uno strumento giuridico in sé), il Codice disciplina strumenti stragiudiziali già noti ancor prima della riforma, che restano tuttora valide opzioni per le imprese in crisi. Si tratta dei piani di risanamento “attestati” e degli accordi di ristrutturazione dei debiti, ora integrati negli artt. 56-64 e 57-64-bis CCI.

10.1. Piano attestato di risanamento (art. 56 CCI)

Il piano attestato di risanamento è il discendente dell’istituto previsto dall’art. 67 co.3 lett. d) della vecchia Legge Fallimentare. Consiste in un piano predisposto dall’imprenditore in crisi per il riequilibrio della situazione finanziaria dell’impresa, che deve essere attestato da un professionista indipendente riguardo alla sua veridicità e fattibilità. L’elemento chiave è che questo piano, se effettivamente realizzato e attestato, consente di escludere la revocabilità fallimentare (ora revocatoria concorsuale) di eventuali atti, pagamenti o garanzie posti in essere in esecuzione del piano stesso. In sostanza, un creditore che aderisca al piano e riceva pagamenti in esecuzione di esso è protetto dall’azione revocatoria in caso di successivo fallimento (liquidazione giudiziale) dell’impresa.

Il piano attestato non richiede omologazione giudiziale né coinvolge formalmente il tribunale. È un accordo di fatto, contrattuale, tra l’impresa e i suoi principali creditori, basato sul consenso spontaneo. Il vantaggio è la massima riservatezza e flessibilità. Lo svantaggio è che vincola solo chi vi aderisce e che manca di effetti protettivi automatici verso i creditori non aderenti.

La struttura tipica: l’imprenditore elabora con consulenti un piano (a 2-5 anni) che prevede misure per superare la crisi (ristrutturazione del debito, aumento di capitale, dismissione di asset, rinegoziazione di contratti onerosi, ecc.), quantificando la soddisfazione prevista dei creditori e il ritorno all’equilibrio. Un attestatore – iscritto all’albo dei gestori crisi o avente requisiti di indipendenza – esamina il piano e rilascia una relazione di attestazione in cui dichiara che i dati aziendali sono veritieri e che le azioni previste sono realistiche e idonee a risanare l’impresa. Questa attestazione è il perno che dà credibilità al piano.

Il piano viene poi proposto ai creditori (in genere banche o fornitori strategici). Essi, su base volontaria, possono decidere di aderire (ad esempio accordando nuova finanza, rinunciando a parte dei crediti, allungando scadenze, ecc.). Non occorre l’unanimità, ma ovviamente il piano funziona se c’è un consenso di massima dei principali creditori. Spesso i piani attestati si accompagnano a accordi bilaterali con i singoli creditori (moratorie, rinnovi fidi, etc.). Non è raro che l’Agenzia delle Entrate e gli enti pubblici non aderiscano formalmente ma, consci del piano, tollerino dilazioni.

Il beneficio legale del piano attestato è, come detto, l’esenzione da revocatoria: i pagamenti fatti ai creditori in esecuzione del piano attestato non potranno essere successivamente revocati se la società fallisse (purché il piano e l’attestazione abbiano data certa anteriore agli atti contestati). Questo incentiva i creditori a collaborare senza timore di dover restituire in futuro.

Il Codice ha ripreso l’istituto con qualche ritocco: ora l’art. 56 esplicitamente richiede che il piano individui gli strumenti di regolazione eventualmente utilizzati (ad esempio può combinarsi col concordato preventivo, come vedremo) e che l’attestatore possieda determinati requisiti di indipendenza e professionalità. Inoltre è stata aumentata la trasparenza: entro 30 giorni dalla predisposizione, un estratto del piano attestato (senza dati sensibili) va depositato nel registro delle imprese, per garantire pubblicità ai terzi (ciò per evitare piani segreti che possano pregiudicare creditori non informati).

In pratica, il piano attestato di risanamento è idoneo per imprese che abbiano una crisi non troppo grave, con numero limitato di creditori coinvolti e dove si confida che l’esecuzione del piano avvenga senza bisogno di misure concorsuali. È spesso utilizzato per prevenire default finanziari di medio termine, ad esempio ristrutturazione di debiti bancari corporate.

10.2. Accordi di ristrutturazione dei debiti (Artt. 57-60 CCI e varianti)

Gli accordi di ristrutturazione dei debiti (ARD) sono invece un ibrido tra il piano privatistico e la procedura concorsuale giudiziale. Introdotti nel 2005 e modificati più volte (DL 35/2005, DL 78/2010, DL 83/2015 e da ultimo dal Codice e D.Lgs. 83/2022), gli ARD prevedono che l’imprenditore in crisi può concludere un accordo con una parte significativa dei creditori e poi chiederne l’omologazione al Tribunale, il quale estende alcuni effetti anche ai creditori estranei.

Esistono diverse tipologie di ARD, aggiornate al 2025:

  • Accordi di ristrutturazione “semplici” (art. 60 CCI): l’imprenditore deve raggiungere un accordo con creditori rappresentanti almeno il 60% dei crediti (quorum 60%). L’accordo può prevedere dilazioni, stralci, conversione di crediti in strumenti partecipativi, e in genere qualunque modifica delle obbligazioni. Occorre predisporre un piano industriale e finanziario a supporto, e un’attestazione di un esperto indipendente sulla fattibilità dell’accordo e sulla idoneità ad assicurare l’integrale pagamento dei creditori che non aderiscono nei termini di legge. L’accordo poi è sottoposto all’omologazione del tribunale. Se omologato, vincola solo i creditori aderenti. I creditori non aderenti restano estranei ma devono essere pagati integralmente nei termini di 120 giorni dalla scadenza delle loro pretese (se già scadute) o dall’omologazione (se successive). L’utilità principale dell’omologa è quella di poter ottenere misure protettive (simili a quelle del concordato) durante la fase di adesione e omologazione: l’imprenditore può chiedere la sospensione delle azioni esecutive. Inoltre l’omologa attribuisce titolo esecutivo all’accordo verso i creditori aderenti.
  • Accordi ad efficacia estesa verso banche e intermediari finanziari (art. 61 CCI): introdotti nel 2016 e mantenuti. Se l’accordo raggiunge il 75% delle adesioni di banche e finanziari, può essere esteso anche alle banche dissenzienti appartenenti alla stessa categoria, purché siano state informate e invitate alle trattative e abbiano chance di essere soddisfatte almeno quanto in una liquidazione. Serve il placet dell’Autorità di vigilanza di settore (Banca d’Italia). In pratica, questo consente di superare l’opposizione di qualche istituto di credito minoritario se la stragrande maggioranza (75%) è d’accordo.
  • Accordi agevolati o “semplificati” (art. 61-bis CCI): il D.Lgs. 83/2022 ha inserito questa nuova figura, che riduce il quorum al 30% in presenza di determinate condizioni. Essi permettono di omologare accordi con percentuale inferiore di consensi, a patto che l’accordo preveda l’integrale pagamento (entro 120 giorni) dei creditori estranei. È un’opzione per velocizzare quando l’adesione è molto diffusa tra i principali creditori ma non raggiunge il 60%, sempre garantendo i non aderenti.
  • Accordi su proposta di un creditore o terzo (art. 62 CCI): caso particolare in cui non è l’imprenditore a presentare il piano, ma un creditore qualificato o un terzo, e l’imprenditore aderisce. Pochi utilizzi pratici.
  • Accordi in continuità aziendale agevolati (nuovo art. 64-bis): altra novità post direttiva. Prevedono possibilità di cram-down fiscale: se il Fisco o enti previdenziali rifiutano l’adesione, ma l’accordo è approvato dai creditori richiesti e il tribunale lo ritiene conveniente, può omologarlo anche senza l’adesione del Fisco, crammandone il credito (purché ottenga almeno quanto in liquidazione). Questo è un forte impulso: storicamente la transazione fiscale poteva bloccare il tutto in caso di diniego AE; ora c’è la possibilità di superare il dissenso del Fisco con un giudizio di convenienza del tribunale (c.d. cram down fiscale).

In generale, gli accordi di ristrutturazione rappresentano un strumento flessibile per imprese che non hanno un numero di creditori troppo ampio (tipicamente banche, obbligazionisti, principali fornitori) e vogliono evitare la complessità del concordato preventivo. Non richiedono il coinvolgimento di tutti i creditori (basta il 60% in base al credito) e non c’è voto, ma solo adesioni contrattuali. Tuttavia, per i creditori estranei è obbligatorio assicurare il pagamento integrale. Questo spesso impedisce di usare gli ARD se l’impresa non è in grado di pagare i piccoli creditori per intero – in quei casi si preferirà il concordato che consente trattamento falcidiato anche ai chirografari minoritari.

Di rilievo: come per i piani attestati, anche per gli ARD è necessaria una attestazione di un esperto circa l’idoneità dell’accordo a sistemare la situazione finanziaria e garantire i pagamenti dovuti ai non aderenti. Il professionista attestatore in questi casi ha una responsabilità elevata (anche penale in caso di false attestazioni).

La procedura di omologazione dell’accordo è simile a quella del concordato: si deposita la domanda di omologa con documentazione (piano, accordi firmati, attestazione) e il Tribunale (sentito il PM) omologa valutando legalità e meritevolezza. I creditori estranei possono fare opposizione se ritengono l’accordo pregiudizievole per loro. Se tutto è in ordine, l’accordo viene dichiarato omologato e da quel momento produce i suoi effetti vincolanti.

Negli ultimi anni (2020-2024) c’è stata una forte spinta all’utilizzo degli ARD in chiave di prevenzione: la direttiva europea li incoraggia, e l’Italia ha risposto con il citato cram-down fiscale e con la riduzione di quorum in casi particolari. Esistono anche ARD “per indebitamento finanziario” al 75% dedicati alle banche, come detto. E addirittura ARD “ad efficacia estesa ai creditori estranei” se approvati dall’85% di tutti i crediti (allora valgono quasi come un concordato per tutti, salvo alcuni che possono essere crammati). Insomma, c’è un ventaglio di possibilità calibrate sul livello di adesione che l’impresa riesce a ottenere.

11. Strumenti giudiziali in continuità: il Concordato Preventivo

Il concordato preventivo è la procedura concorsuale regolata giudizialmente che consente all’imprenditore in crisi o insolvente di evitare la liquidazione giudiziale presentando un piano per soddisfare i creditori, sotto il controllo del tribunale e con l’approvazione degli stessi creditori. È l’equivalente del “chapter 11” statunitense in chiave italiana. Il Codice della Crisi ha rivisitato l’istituto nei dettagli, ma la struttura di base resta: il debitore propone un piano, questo viene votato dai creditori e omologato dal tribunale se approvato.

Si distinguono due grandi categorie di concordato: in continuità aziendale e liquidatorio. La distinzione è cruciale perché normative e requisiti differiscono.

11.1. Concordato in continuità aziendale diretta e indiretta (Artt. 84-88 CCI)

Un concordato è in continuità aziendale quando il piano prevede che l’attività d’impresa prosegua, totaliter o in parte, sia pur in un quadro ristrutturato. La continuità può essere diretta (l’azienda resta in mano al debitore che la conduce nel concordato) oppure indiretta (l’azienda viene trasferita ad un soggetto terzo – ad esempio ceduta o conferita – che la prosegue, mentre il debitore realizza valore dalla cessione per pagare i creditori). Un tipico esempio di continuità indiretta è la vendita dell’azienda a un investitore, con contestuale accollo di parte dei debiti o immissione di denaro per pagarli.

Requisiti e vantaggi della continuità: Il Codice richiede che la continuità sia funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori. Cioè, si deve dimostrare che, mantenendo in vita l’impresa, i creditori otterranno una soddisfazione maggiore rispetto alla liquidazione pura dei beni. Questo di solito avviene perché l’azienda è going concern e produce flussi di cassa con cui pagare i creditori, oppure perché venduta in blocco vale più che smembrata.

Nel concordato in continuità, per legge non è previsto un soddisfacimento minimo percentuale ai chirografari (diversamente dal liquidatorio, come vedremo). Teoricamente, i creditori chirografari potrebbero ricevere anche meno del 20% se c’è continuità, purché il piano sia attestato come migliore dell’alternativa liquidatoria. Ciò perché il legislatore valorizza il mantenimento dei posti di lavoro e del patrimonio produttivo.

Un’altra particolarità: l’impresa in continuità può, previa autorizzazione del tribunale, contrarre finanza interinale prededucibile (cioè nuovi finanziamenti garantiti da rimborso prioritario) per condurre l’attività durante la procedura; può pure pagare fornitori strategici o continuare contratti essenziali, al fine di non interrompere l’operatività.

Procedura di ammissione e approvazione: La domanda di concordato può essere “con riserva” (ex art. 44 CCI, vecchio concordato in bianco) o completa di piano sin dall’inizio. Nel caso “in bianco”, il debitore deposita ricorso manifestando la volontà di accedere al concordato e chiedendo un termine (fino a 120 + 60 gg) per presentare il piano dettagliato. Ciò serve a ottenere subito le protezioni (stop ai creditori) mentre si finalizza il piano e si negozia con eventuali investitori. Quando il piano e la proposta sono presentati, il tribunale verifica la completezza della documentazione e ammette la procedura, nominando un Commissario Giudiziale (supervisore).

Il piano di concordato deve essere corredato da una relazione di un attestatore indipendente che ne certifichi la veridicità dei dati e la fattibilità (economica e giuridica). Nel caso di continuità, l’attestatore deve anche attestare che la continuità conviene ai creditori più della liquidazione.

Una volta ammesso, il commissario informa i creditori e predispone una relazione. I creditori sono suddivisi in classi secondo posizione giuridica ed interessi omogenei (classi obbligatorie se ci sono creditori con cause di prelazione differenziate, e per i chirografari spesso opportuno classificarli per tipologia). I creditori votano sulla proposta concordataria in adunanza o per mezzi telematici. Serve il voto favorevole della maggioranza dei crediti ammessi al voto (maggioranza semplice >50%). Se classi, serve maggioranza in ogni classe o, in difetto, applicare il cram-down giudiziale in presenza di alcune condizioni (tutela del dissenso).

Una volta approvato dai creditori, il tribunale fissa udienza di omologazione. In tale sede, eventuali creditori dissenzienti possono opporsi, ma il tribunale può omologare se ritiene il concordato conforme a legge e le opposizioni infondate. Con l’omologa, il concordato preventivo diviene vincolante per tutti i creditori anteriori (anche dissenzienti) e l’impresa esce dalla procedura per eseguire il piano sotto vigilanza del commissario (che diventa liquidatore per le parti liquidatorie). Se il piano prevede la prosecuzione dell’attività, l’organo amministrativo resta in carica (salvo casi di continuità indiretta dove l’azienda passa ad altri).

Tutela dei lavoratori: Nel concordato in continuità, il Codice richiede espressamente di indicare l’impatto sui lavoratori e eventuali piani di ristrutturazione aziendale. Ad esempio, se sono previsti esuberi o cassa integrazione, deve essere segnalato e coordinato con le procedure lavoristiche (accordi sindacali, ecc.). La prosecuzione dei contratti di lavoro è la regola, salvo diversa previsione del piano.

Esempio tipico di concordato in continuità diretta: un’azienda manifatturiera sovraindebitata propone di continuare la produzione, ottenendo una moratoria sui debiti e pagando i creditori in percentuale con i ricavi futuri per 5 anni, magari supportata da un nuovo socio finanziatore. I creditori accettano una riduzione dei crediti confidando che l’azienda resti viva e generi cassa per pagarli parzialmente. I dipendenti mantengono il posto. Il concordato omologato permette all’azienda di rigenerarsi liberandosi da parte del debito.

Concordato in continuità indiretta: ad esempio, un’impresa di costruzioni insolvente trova un investitore disposto a rilevare i cantieri in corso e l’avviamento. Il piano di concordato prevede la cessione dell’azienda all’investitore, il quale paga un corrispettivo che va a formare l’attivo concordatario da distribuire ai creditori. L’attività prosegue sotto la guida del nuovo soggetto, salvando i cantieri e i lavoratori (continuità indiretta, perché il debitore originario non continua ma trasferisce). I creditori vengono soddisfatti in parte col ricavato della cessione. Questo è un caso comune in settori come sanità privata (dove nuovi operatori subentrano) o servizi pubblici (dove la concessione passa a un nuovo soggetto).

Il Codice consente, inoltre, un concordato misto: parte continuità e parte liquidazione di asset non essenziali. Ciò è frequente: ad es., l’azienda resta attiva ma vende immobili non funzionali per fare cassa.

Da sottolineare che il D.Lgs. 83/2022 ha eliminato ogni dubbio: anche nel concordato in continuità è possibile la falcidia dei crediti privilegiati (es. ipotecari) qualora la garanzia risulti capiente solo in parte (il che era pacifico) e – novità – anche falcidiare IVA e ritenute se il concordato è in continuità. Questo è un cambiamento importante: storicamente IVA e ritenute erano intoccabili (crediti privilegiati ex art. 2752 c.c. di natura fiscale). Ora, recependo la direttiva UE, nel concordato l’IVA può essere trattata al pari degli altri crediti privilegiati, purché non in liquidazione pura. Ovviamente, resta l’attestazione di convenienza e il voto dei creditori privilegiati interessati.

11.2. Concordato liquidatorio e requisiti (Artt. 89-90 CCI)

Il concordato liquidatorio è quello in cui non vi è prosecuzione dell’attività, ma semplicemente si liquida il patrimonio dell’impresa in maniera ordinata e si distribuisce il ricavato ai creditori secondo un piano. È simile al fallimento in termini di esito (l’impresa viene spenta), ma differisce perché è proposto dal debitore e consente magari di offrire ai creditori qualcosa in più (ad es. contributi di terzi, risorse aggiuntive) per ottenere l’accordo ed evitare alcune conseguenze negative del fallimento (stigma, possibili azioni di responsabilità più ampie, ecc.).

Il Codice ha però introdotto un stringente requisito: il concordato liquidatorio puro è ammesso solo se assicura il pagamento di almeno il 20% dell’ammontare dei crediti chirografari. Questa soglia di fattibilità vuole evitare concordati liquidatori che paghino poco o nulla ai chirografari (fenomeno avvenuto in passato). Se il piano non arriva al 20%, il debitore non può accedere al concordato e finirà in liquidazione giudiziale. Fanno eccezione i casi in cui un concordato liquidatorio propone la liquidazione dell’intero patrimonio con l’apporto di risorse esterne significative che aumentano la soddisfazione dei creditori: in tal caso il tribunale potrebbe ammetterlo anche se il 20% non è raggiunto solo con l’attivo puro (ma includendo l’apporto sì). Ad esempio, se i soci mettono soldi freschi.

Nel concordato liquidatorio, di regola l’impresa cessa l’attività (salvo esercizio provvisorio per massimizzare la vendita). Il debitore propone la vendita dei beni (anche qui può esserci una pre-individuazione di un acquirente per l’azienda intera: si chiamava “concordato con assuntore”) e la distribuzione pro-quota ai creditori.

I creditori votano e la procedura di omologa è la stessa. Va notato che i creditori privilegiati, se integralmente soddisfatti, non votano; se falcidiati (cosa possibile per alcuni privilegi, come ipoteche se incapienti), allora votano come classe.

Obblighi specifici nel liquidatorio: Oltre al 20%, c’è l’obbligo di destinare tutto il patrimonio non indispensabile al soddisfacimento dei creditori. Non si può tenere fuori asset. L’eventuale esdebitazione (che libera il debitore persona fisica dai debiti residui) è concessa solo se è soddisfatta la percentuale minima. Nel liquidatorio non c’è prededuzione di nuova finanza se non strettamente funzionale e autorizzata (meno spazio che in continuità).

La prassi del concordato liquidatorio è calata nel tempo, perché la legge ha stretto i freni e perché i tribunali guardano con sospetto concordati “tombali” proposti solo per evitare il fallimento. Spesso, dove non c’è prospettiva di recupero, si preferisce ormai la liquidazione giudiziale diretta o il concordato semplificato dopo composizione negoziata.

Adempimenti post-omologa: Sia nel concordato in continuità che in quello liquidatorio, una volta omologato, si apre la fase di esecuzione del piano sotto il controllo del commissario (che nel liquidatorio di solito diventa liquidatore giudiziale). Se il debitore esegue regolarmente, la procedura si chiude con decreto di avvenuta esecuzione e fine di ogni vincolo. Se invece il debitore inadempie, i creditori possono chiedere la risoluzione del concordato e a quel punto usualmente segue il fallimento.

Per le PMI, il concordato è uno strumento importante ma da maneggiare con cura: comporta costi (spese di giustizia, compensi degli organi) e una certa complessità. Ecco perché la normativa incoraggia, per le piccole imprese, percorsi più agili come la composizione negoziata o gli accordi extragiudiziali, riservando il concordato soprattutto a casi in cui c’è un piano industriale serio o un patrimonio consistente da gestire in modo unitario.

12. La liquidazione giudiziale (ex fallimento) e le altre procedure liquidatorie

Nonostante tutti gli sforzi per prevenire e gestire la crisi, rimane la possibilità che un’impresa si riveli insolvente senza rimedi possibili: in tal caso, la soluzione legale è la liquidazione giudiziale, procedura che ha preso il posto del “fallimento” con modifiche di nome e alcune sostanziali.

Presupposti: L’apertura della liquidazione giudiziale richiede l’accertamento giudiziale dello stato di insolvenza dell’imprenditore commerciale. Possono richiederla: il debitore stesso (che “si dichiara fallito” in proprio, istanza di auto-fallimento), i creditori (anche uno solo), il PM. Il tribunale, accertata l’insolvenza, dichiara con sentenza l’apertura della liquidazione giudiziale. Restano escluse le imprese sotto le soglie di fallibilità (art. 2 CCI: patrimonio < €300k, ricavi < €200k, debiti < €500k) e l’imprenditore agricolo (non soggetto a fallimento), che invece accedono alle procedure di sovraindebitamento.

Effetti della sentenza di liquidazione: determinano il decocto: l’imprenditore è spossessato dei suoi beni (che passano a una massa attiva concorsuale) e perde la gestione dell’impresa. Vengono nominati dal Tribunale: un Giudice Delegato alla procedura, e soprattutto un Curatore (nuova denominazione: curatore resta curatore) che amministra il patrimonio e lo liquida sotto la supervisione del Comitato dei Creditori (organo consultivo composto da 3 creditori maggiori). La sentenza, come il vecchio fallimento, sospende le azioni esecutive individuali, fissa la data di insolvenza (periodo sospetto per revocatorie), e produce altri effetti: scioglimento dei contratti pendenti o proseguimento a scelta del curatore, blocco delle maturazioni di interessi chirografari, cessazione dell’attività d’impresa salvo esercizio provvisorio autorizzato.

La procedura si svolge poi con: redazione dell’inventario, stato passivo (i creditori insinuano i crediti, il GD li verifica e forma lo stato delle ammissioni/esclusioni), liquidazione dell’attivo (vendite di beni tramite procedure competitive telematiche, cessione aziende etc.), riparto del ricavato ai creditori secondo prelazioni e cause. Molti di questi passaggi sono analoghi alla L. Fallimentare, ma il CCI ha portato migliorie, ad es.: vendite anche prima dell’esecutività dello stato passivo se beni deperibili; piattaforme telematiche per aste; possibilità di chiudere la procedura anche con contenziosi pendenti trasferendo ai creditori i diritti litigiosi (patto di distribuzione).

Durata massima: il Codice impone di chiudere la liquidazione giudiziale entro 3 anni (prorogabili di 2) dalla sentenza, per evitare procedure ultradecennali. Questo obbliga curatori e giudici a essere più rapidi.

Revocatorie concorsuali: Il curatore può far valere azioni revocatorie per atti pregiudizievoli compiuti dal debitore prima del fallimento (es. pagamenti a creditori avvenuti a ridosso dell’insolvenza, vendite sotto costo, ipoteche tardive). Il Codice conferma i termini (sei mesi prima per pagamenti preferenziali normali, 1 anno per atti anomali, 2 anni per atti a titolo gratuito, etc.) e ha introdotto una novità: non sono revocabili i pagamenti eseguiti entro 12 mesi antecedenti l’apertura se avvenuti nell’ambito o in funzione di una trattativa di composizione negoziata poi sfociata in successo. Ciò per proteggere chi ha negoziato in buona fede (norma simile a quella dei piani attestati e ARD, anzi più ampia).

Chiusura e esdebitazione: Una volta completate le operazioni, la liquidazione giudiziale si chiude con decreto del tribunale (o può chiudersi anticipatamente per insufficienza dell’attivo, con eventuale esonero del curatore se i costi eccedono attivo). La persona fisica fallita può chiedere l’esdebitazione: ovvero, essere liberata dai debiti residui non soddisfatti, a condizione di aver cooperato e non aver sottratto attivo, e che la procedura abbia almeno distribuito qualcosa (anche minimo) ai creditori. L’esdebitazione è concessa con provvedimento che di fatto dà al fallito onesto la possibilità di ripartire senza strascichi (fresh start). In alcune situazioni, il debitore persona fisica nullatenente può ottenere l’esdebitazione anche senza soddisfare i creditori (esdebitazione di incapiente), ma solo una volta nella vita e se ha tenuto condotta meritevole.

Liquidazione controllata del sovraindebitato: Va menzionato che per i soggetti non fallibili (piccolissimi imprenditori, professionisti, consumatori), il Codice prevede la liquidazione controllata presso il Tribunale, che è assimilabile a un fallimento semplificato per quel debitore, su sua istanza o di creditori. Questo però esula dal focus su imprese (riguarda micro imprese e persone fisiche).

Liquidazione coatta amministrativa: Il Codice disciplina anche la LCA (procedura liquidatoria per enti particolari come banche, assicurazioni, cooperative). Rimane speciale e perlopiù invariata, con rimandi alle leggi di settore.

Amministrazione straordinaria delle grandi imprese insolventi: Non è nel Codice (disciplinata dal D.Lgs. 270/99 e DL 347/2003), ma da citare: imprese con oltre 200 dipendenti possono accedere a procedura di A.S. finalizzata alla conservazione dei complessi aziendali mediante programmi di ristrutturazione o cessione. È connotata dall’intervento del MiSE e figure commissariali. Questa resta parallela e non toccata dal Codice.

In sintesi, la liquidazione giudiziale è simile al “vecchio” fallimento, con un approccio più moderno: terminologia meno infamante (non si parla di “fallito” ma di “debitore in liquidazione giudiziale”), più obblighi di speditezza e trasparenza, e inserita nel continuum di procedure del Codice. Resta uno strumento a tutela dei creditori quando non vi è altra speranza di risanamento: permette di raccogliere l’attivo e distribuirlo secondo le priorità di legge, con equal treatment e controllo giurisdizionale.

13. Profili di diritto penale della crisi: reati concorsuali

Accenniamo brevemente che il Codice ha raccolto anche le fattispecie di reato tipiche di bancarotta e altri illeciti concorsuali, già presenti nel R.D. 267/42. In particolare:

  • Bancarotta fraudolenta (documentale, patrimoniale, preferenziale) e bancarotta semplice: restano i reati più gravi del fallimento (ora liquidazione giudiziale) a carico di amministratori, liquidatori, direttori generali etc., punendo la distrazione o occultamento di beni, l’esposizione di passività inesistenti, la tenuta irregolare di libri al fine di frodare i creditori, i pagamenti preferenziali ad alcuni creditori a scapito di altri in prossimità del fallimento, e così via. Le pene restano severe (fino a 6-10 anni per la fraudolenta, 2 anni per la semplice), con aumenti se coinvolti gruppi o danni rilevanti.
  • Ricorso abusivo al concordato: ci sono sanzioni per chi con dolo presenta un piano concordatario con informazioni false o occulta parte dell’attivo per ottenere l’omologazione (questo era il reato di falso in attestazioni e in documenti di concordato).
  • Omessa dichiarazione di insolvenza: è previsto come bancarotta semplice l’aver aggravato il dissesto per inerzia o per aver ritardato la richiesta di procedure.

Questi reati penali intrecciano il contenzioso tributario quando, ad esempio, la bancarotta fraudolenta documentale può includere la sottrazione dei libri per occultare anche debiti fiscali, o la preferenza di un creditore può includere pagamenti all’Erario fatti in frode ad altri.

Il CCI intende soprattutto prevenire tali situazioni incentivando gli amministratori a seguire il percorso legale di crisi. Ma se ciò non avviene e si scade nella frode, scatta il penale.


Parte III – Profili Penal-Tributari e Responsabilità 231 nelle crisi d’impresa

14. I reati tributari rilevanti nelle situazioni di crisi d’impresa

Le imprese in difficoltà finanziaria spesso incorrono, o sono tentate di incorrere, in violazioni tributarie che integrano reati penali. Il D.Lgs. 74/2000, come modificato più volte (da ultimo dal DL 124/2019), elenca i principali reati tributari relativi alle imposte dirette e IVA, alcuni dei quali frequenti in contesti di crisi quando l’impresa cerca di reperire liquidità o ridurre il carico fiscale con mezzi illeciti. Ecco una panoramica dei principali reati tributari:

  • Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 2 D.Lgs. 74/2000): consiste nell’indicare in dichiarazione elementi passivi fittizi avvalendosi di fatture false (emesse da terzi compiacenti o società cartiere). È tipico delle frodi IVA (c.d. frode carosello). La pena è reclusione 4 a 8 anni. Spesso le imprese in crisi vi ricorrono per abbattere l’IVA a debito o creare costi fittizi e ridurre il reddito tassabile.
  • Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art. 3): qui non vi sono fatture false, ma altri artifici, ad esempio contabilizzazioni simulate, uso di documenti falsi diversi da fatture, o altri artifizi idonei a ingannare l’amministrazione finanziaria. Pena: 3 a 8 anni. Meno frequente dell’art. 2.
  • Dichiarazione infedele (art. 4): il caso meno grave di dichiarazione fraudolenta: si dichiara un imponibile inferiore o un credito superiore al reale, senza artifici, ma superando determinate soglie di evasione (euro 100k imposta evasa e 2M base imponibile sottratta, se non modificato). È punita con reclusione da 2 a 4 anni e 6 mesi. In contesti di crisi, l’imprenditore potrebbe non dichiarare ricavi o sovrastimare costi reali senza arrivare a creare falsi documenti (ad esempio, omettendo qualche ricavo sperando di recuperare gettito).
  • Omessa dichiarazione (art. 5): non presentare proprio la dichiarazione annuale dovuta, con imposta evasa oltre soglia (attualmente €50.000 IVA o €50.000 imposte dirette). Pena: 2 a 5 anni. In crisi di liquidità, talvolta l’impresa non versa l’IVA e nemmeno presenta la dichiarazione IVA per ritardare il controllo: ciò integra questo reato.
  • Emissione di fatture per operazioni inesistenti (art. 8): speculare all’art. 2 ma lato emittente. Chi emette o pone a disposizione fatture false, consentendo ad altri di evadere, commette reato con pena 4 a 8 anni (o 1.5-6 anni se importi modesti). Succede che imprese in crisi creino società cartiere per vendere fatture false e generare flussi finanziari illeciti.
  • Occultamento o distruzione di documenti contabili (art. 10): tipico reato concorsuale/tributario. Se l’imprenditore sottrae o distrugge libri e scritture contabili al fine di non consentire la ricostruzione del reddito o volume d’affari, è punito con reclusione 3 a 7 anni. Spesso emerge in sede di fallimento (bancarotta documentale). Un imprenditore disperato potrebbe far “sparire” le sue scritture per nascondere evasione fiscale. Questo reato si collega strettamente alla bancarotta fraudolenta documentale (possono concorrere).
  • Omesso versamento di ritenute dovute o certificate (art. 10-bis): quando un datore di lavoro non versa all’Erario, entro il termine, le ritenute fiscali operate ai dipendenti o ai collaboratori, per importi superiori a €150.000 annui. In periodi di crisi, molti imprenditori sospendono i versamenti delle ritenute (che sono denaro trattenuto dalle buste paga) per pagare altre spese: se superano soglia, commettono reato punito con reclusione fino a 3 anni.
  • Omesso versamento IVA (art. 10-ter): omettere il versamento dell’IVA dovuta in base alla dichiarazione annuale, oltre soglia di €250.000. In crisi di liquidità, l’IVA è spesso “fonte di finanziamento” improprio per l’impresa: si incassa dai clienti ma non la si versa. Se a fine anno il debito IVA supera un quarto di milione e non viene versato entro la scadenza (tipicamente 27 dicembre per saldo IVA annuale), scatta la fattispecie penale, punita con reclusione fino a 6 anni.
  • Indebita compensazione di crediti non spettanti o inesistenti (art. 10-quater): utilizzare in compensazione crediti fiscali non spettanti (reato se oltre €50k annui, punito fino a 5 anni) o addirittura crediti inesistenti (oltre €50k, punito 1.5-6 anni). In crisi, alcune aziende per non versare contributi o IVA dichiarano falsi crediti e li compensano nel modello F24: questa condotta è punita severamente, specie se crediti totalmente fittizi.
  • Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 11): l’imprenditore che, al fine di non pagare imposte dovute (anche a seguito di accertamenti), compie atti fraudolenti sui propri beni per renderli inefficaci alla riscossione (ad es. simula vendite, costituisce fondi patrimoniali, svuota i conti) è punito con reclusione da 6 mesi a 4 anni (se importo sottratto > €50k). Questo reato è frequente quando l’azienda prevede il default e sposta attivi a parenti o società estere per far perdere tracce al Fisco. È anche detto “frodi patrimoniali”.

In situazioni di crisi d’impresa, dunque, i reati tipicamente riscontrati sono: omessi versamenti di IVA e ritenute (perché si privilegia pagare fornitori o stipendi e non il Fisco), emissione di fatture false (magari per ottenere liquidità tramite crediti IVA finti), occultamento di documenti (alla vigilia del fallimento), e talora dichiarazioni fraudolente se l’azienda falsifica bilanci e dichiarazioni per nascondere voragini. L’inasprimento sanzionatorio del 2019 (ad esempio l’aumento delle pene per dichiarazioni fraudolente e omessi versamenti, e soglie ridotte in passato) ha reso più frequentemente applicabili misure cautelari personali (arresti) e patrimoniali.

Va ricordato che alcuni reati tributari sono punibili solo se superano soglie di punibilità: sotto quelle soglie restano illeciti amministrativi (sanzioni pecuniarie). Ciò è rilevante: in fase di contenzioso tributario, il pagamento del debito tributario prima del dibattimento penale può estinguere alcune fattispecie (art. 13 D.Lgs. 74/2000 prevede causa di non punibilità per taluni reati se il contribuente regolarizza integralmente il debito tributario, comprensivo di sanzioni e interessi, entro i termini di legge, ad esempio dichiarazione fraudolenta e infedele se pagato prima dell’apertura del dibattimento).

15. Misure cautelari reali: sequestro e confisca in materia tributaria

Laddove vi siano procedimenti penali per reati tributari, scattano spesso misure di sequestro preventivo finalizzate alla confisca dei proventi dell’evasione. Difatti, la legge (art. 12-bis D.Lgs. 74/2000) prevede obbligatoriamente la confisca “per equivalente” del profitto del reato tributario in caso di condanna, ossia lo Stato confischerà beni del condannato per un valore corrispondente all’imposta evasa. Per assicurare ciò, già in fase di indagine il PM chiede al GIP il sequestro preventivo dei beni sino a concorrenza dell’importo contestato.

Questo ha implicazioni serie per l’impresa: durante la crisi potrebbe trovarsi con conti correnti e immobili sequestrati per reati fiscali, aggravando la difficoltà. Ad esempio, se l’azienda non versa 1 milione di IVA, verrà avviata indagine e probabilmente un sequestro di liquidità o macchinari fino a 1 milione, congelandoli. Ciò può paralizzare l’attività. Tuttavia, la legge dà qualche tutela: non si possono sequestrare beni indispensabili all’attività d’impresa se c’è sproporzione tra danno recato e esigenza cautelare (valuta il giudice).

Inoltre, in caso di concordato preventivo o fallimento, la presenza di un sequestro penale sui beni sociali crea conflitto con la massa concorsuale. Chi prevale? La giurisprudenza ha delineato che il sequestro/confisca per reati tributari (essendo confisca obbligatoria) ha natura di sanzione e non cede automaticamente al fallimento: quindi lo Stato potrebbe sottrarre quei beni alla massa. Tuttavia, vi sono state aperture: alcune pronunce hanno stabilito che se i beni sono già parte di una procedura concorsuale avviata, la confisca può essere postergata per consentire la soddisfazione dei creditori. È un terreno di conflitto tra Erario-creditore penale e altri creditori. Una soluzione è che l’Erario partecipi al concorso con riserva per quell’importo e se a fine procedura i crediti sono insoddisfatti, allora proceda a confisca di eventuali residui.

Nei casi di reati tributari societari, è importante sapere che il pagamento del debito prima della sentenza definitiva evita la confisca: se l’imposta evasa viene integralmente versata (anche tardivamente) il profitto del reato si annulla, dunque il sequestro andrebbe revocato. Spesso, imprese in crisi cercano di negoziare con la Procura patteggiamenti impegnandosi a pagare il fisco (magari grazie a contributi di soci terzi) per liberare i beni.

Non va dimenticato che esistono misure cautelari amministrative parallele: l’Agenzia Entrate-Riscossione può iscrivere ipoteca e fermo sui beni del debitore anche prima di sentenza se i ruoli sono scaduti; può chiedere al giudice tributario misure cautelari (art. 22 D.Lgs. 472/97) se il credito d’imposta è fondato su atto non definitivo ma c’è pericolo per la riscossione (es. l’azienda sta dissipando asset). In scenario di crisi, quindi, l’impresa può subire restrizioni da più fronti: sequestro penale e misure cautelari fiscali. Ciò rende vitale intervenire presto.

16. La responsabilità amministrativa “231” delle società per reati tributari

Una delle evoluzioni normative più rilevanti degli ultimi anni è stata l’estensione del D.Lgs. 231/2001 (responsabilità amministrativa degli enti per reati commessi nel loro interesse da apicali o subordinati) anche ai reati tributari. Fino al 2019 tali reati erano esclusi dal catalogo 231, ma con la L. 157/2019 e successivi decreti (D.Lgs. 75/2020 attuativo direttiva PIF, e D.Lgs. 156/2022) sono stati inseriti. In particolare, l’art. 25-quinquiesdecies del D.Lgs. 231/2001 ora annovera come reati-presupposto:

  • Le dichiarazioni fraudolente (artt. 2 e 3 D.Lgs. 74/2000),
  • L’emissione di fatture false (art. 8),
  • L’occultamento di documenti contabili (art. 10),
  • La sottrazione fraudolenta al pagamento d’imposte (art. 11),

già dal 2019. Successivamente, con l’attuazione della direttiva europea sulla protezione degli interessi finanziari UE (direttiva PIF), sono stati aggiunti anche:

  • Dichiarazione infedele (art. 4),
  • Omessa dichiarazione (art. 5),
  • Indebita compensazione (art. 10-quater),

ma limitatamente ai casi di frode IVA transfrontaliera sopra 10 milioni di euro. Infatti, il D.Lgs. 75/2020 ha introdotto un comma 1-bis all’art. 25-quinquiesdecies che circoscrive la responsabilità 231 per questi reati “minori” solo se commessi nell’ambito di sistemi fraudolenti transfrontalieri al fine di evadere l’IVA per almeno 10 milioni.

Riassumendo, ad oggi tutti i delitti tributari più gravi (fraudolenti) sono rilevanti ai fini 231, e pure quelli dichiarativi base lo sono in scenario cross-border di grande entità. Ciò significa che se, ad esempio, l’amministratore di una società commette frodi IVA usando fatture false per ridurre il carico fiscale in favore dell’azienda, non solo l’amministratore risponde penalmente, ma anche la società può essere sanzionata ai sensi del D.Lgs. 231/2001 per aver tratto vantaggio dal reato.

Le sanzioni per l’ente possono essere molto severe: sanzione pecuniaria in quote (fino a milioni di euro a seconda della gravità) e sanzioni interdittive (divieto di contrattare con PA, esclusione da finanziamenti, interdizione dall’esercizio dell’attività, fino al commissariamento). In caso di frodi fiscali sistematiche, si può arrivare anche a misure di interdizione temporanea dell’attività.

Ciò è altamente rilevante nelle situazioni di crisi d’impresa perché: a volte, per “salvare la baracca”, i vertici societari possono decidere azioni illegali (evasioni, false fatturazioni). Ora però, se scoperti, coleranno a picco sia i manager sia la società stessa, la quale rischia sanzioni che potrebbero darle il colpo di grazia. Ad esempio, un’azienda in crisi che già arranca, se condannata ex 231 a pagare un milione di multa e a subire il blocco delle attività per qualche mese, è destinata a fallire.

Dunque per le imprese, implementare un Modello di organizzazione, gestione e controllo 231 che includa presìdi anti-evasione fiscale è divenuto cruciale. Solo dimostrando di avere adottato ed efficacemente attuato un Modello 231 idoneo a prevenire reati fiscali, la società può sottrarsi alla responsabilità (o attenuarla) nel caso un proprio dirigente commetta frodi tributarie. Un tale modello dovrebbe prevedere procedure interne di controllo delle fatture attive e passive, segregazione di funzioni nell’area amministrativa, monitoraggio delle liquidazioni IVA e dei versamenti, meccanismi di whistleblowing per segnalare pratiche illecite, formazione al personale sulle norme tributarie e codice etico che stigmatizza l’evasione.

Nelle PMI, spesso prive di sofisticati compliance program, questa è una sfida: molte ignorano di essere esposte sul fronte 231 per i reati fiscali. Ma se consideriamo casi concreti: una piccola srl il cui amministratore usa fatture false per non pagare l’IVA di un anno – se scoperto, oltre al penale per lui, la srl potrebbe vedersi confiscare utili e subire sanzioni 231. In una crisi d’impresa, questo scenario è realistico e aggraverebbe in modo irreversibile la crisi.

In correlazione, i reati fallimentari come la bancarotta non sono tuttora inclusi nel catalogo 231 (tranne indirettamente per alcuni reati societari di false comunicazioni). Ma i reati tributari sì. Quindi una crisi d’impresa gestita male può generare un “doppio binario” di responsabilità: personale per amministratori (reati tributari e bancarotta) e societaria ex 231 per i soli reati tributari.

Va segnalato anche il legame con la direttiva PIF e la cooperazione europea: l’Italia ha dovuto includere in 231 le frodi IVA oltre 10 milioni perché considerate lesive del bilancio UE. Ciò riflette la tendenza internazionale di tolleranza zero verso grandi evasori.

In conclusione, per mitigare i rischi:

  • Le imprese dovrebbero dotarsi di protocolli di controllo fiscale robusti e includerli nel Modello 231.
  • In caso di crisi, valutare attentamente con i consulenti l’impatto di eventuali decisioni di non pagamento di imposte: potrebbe convenire cercare soluzioni legali (dilazioni, accordi con fisco) piuttosto che rischiare condotte penalmente rilevanti.
  • Se un reato fiscale viene contestato, attivarsi per pagare il dovuto (magari tramite concordato o accordo in estremis) prima del processo, così da evitare la condanna e di riflesso la sanzione 231 (poiché se il reato non viene punito per causa di non punibilità, decade anche l’illecito 231).

17. Intersezioni tra procedure concorsuali e procedimenti penali

Infine, è utile trattare brevemente di come si intersecano le vicende concorsuali e i procedimenti penali (tributari e fallimentari):

  • Coordinamento liquidazione giudiziale – processo penale: Quando un imprenditore viene dichiarato insolvente, è prassi che il Tribunale fallimentare invii copia della sentenza al PM affinché valuti l’apertura di indagini penali (ex art. 336 CCI). Quindi dal fallimento partono spesso inchieste per bancarotta e talvolta emergono reati tributari sottostanti (false fatture, omessi versamenti). Il curatore concorre con il PM fornendo documentazione. Ecco perché molti reati tributari diventano evidenti “dopo” il fallimento, con la scoperta delle scritture e la relazione del curatore. Viceversa, a volte è l’indagine penale fiscale a portare alla luce l’insolvenza e dunque a provocare il fallimento (specie con maxi sequestri come visto).
  • Concordato preventivo e rapporti col penale: L’ammissione al concordato non blocca l’azione penale per reati tributari commessi prima. Tuttavia, un concordato può essere un contenitore dentro cui definire anche le pendenze fiscali (via transazione fiscale) e, se i debiti fiscali vengono pagati anche parzialmente secondo piano, ciò può influire sul giudice penale nella valutazione del dolo o nella quantificazione del profitto confiscabile. Non c’è una disciplina diretta, ma ad esempio un imprenditore che patteggia per reato fiscale può invocare come attenuante l’essersi attivato in concordato per soddisfare i crediti tributari.
  • 231 e concordato/fallimento: Se una società è imputata ex 231 per reati fiscali e parallelamente è in crisi, occorre gestire la cosa con attenzione. Un concordato preventivo può includere la previsione del pagamento delle sanzioni 231 (che sono crediti prededucibili dello Stato) o l’adozione di un modello organizzativo come condizione esimente. Se invece la società viene liquidata o cessata, il procedimento 231 generalmente si estingue (perché non c’è più soggetto su cui far gravare la sanzione, salvo confisca di eventuali patrimoni residui). Infatti, in caso di fallimento, la giurisprudenza prevalente ritiene che la procedura 231 possa proseguire solo per la confisca, ma non per sanzioni pecuniarie (non avrebbe senso punire un ente defunto). Ciò non di meno, finché c’è attività occorre difendersi.
  • Sequestro penale vs. esercizio provvisorio: Immaginiamo un’azienda in concordato con continuità che ha i conti sequestrati penalmente: per poter continuare l’attività, il tribunale concorsuale e quello penale devono coordinarsi. Spesso si riesce ad ottenere dal giudice penale il dissequestro parziale o la concessione in uso dei beni sotto sequestro al fine di non pregiudicare la continuità (tutela indiretta dei creditori stessi). Similmente, se in fallimento c’è esercizio provvisorio (per vendere l’azienda come going concern), un sequestro penale dei macchinari va gestito bilanciando interessi: tribunale e PM possono accordarsi per posticipare la confisca a dopo la cessione d’azienda in esercizio provvisorio, incamerando il ricavato in vece della confisca.
  • Crisi e reati finanziari connessi: Non solo reati tributari e fallimentari, ma in situazioni pre-fallimentari si manifestano talora reati societari (false comunicazioni sociali per occultare perdite) o reati finanziari (ostacolo a vigilanza se società vigilata, etc.). Questi, se commessi nell’interesse della società, possono anch’essi attivare la 231. Ad esempio, false comunicazioni sociali per coprire le perdite e ottenere credito in banca, possono danneggiare creditori e configurare reato 2621 c.c. Oggi anche questo reato è incluso in 231 (art. 25-ter). Quindi un’aggravante compliance.

Conclusione Parte III: La crisi d’impresa è un terreno minato dove l’imprenditore e i suoi consulenti devono muoversi con estrema cautela: ogni scelta di “guadagnare tempo” non pagando il Fisco o manovrando sul patrimonio può avere risvolti penali pesanti. È preferibile agire in trasparenza, utilizzare gli strumenti legali di negoziazione con il Fisco (rateazioni, transazione fiscale nel concordato) o in ultima istanza accettare la liquidazione piuttosto che incorrere in condotte illecite. Al contempo, dotare l’azienda di un sistema di controlli interno (anche ispirato al modello 231) può prevenire o individuare tempestivamente eventuali frodi fiscali isolate compiute da dipendenti infedeli (es. un direttore finanziario che crea fondi neri). In un’epoca di co-penalizzazione delle imprese, la cultura della legalità fiscale dev’essere parte integrante della gestione d’impresa, non solo un adempimento esterno.


Parte IV – Focus PMI: applicazioni pratiche e difesa delle piccole-medie imprese

Le PMI (Piccole e Medie Imprese) vivono le problematiche sopra descritte con alcune peculiarità. Spesso hanno struttura organizzativa semplificata, forte commistione tra proprietà e gestione (imprenditore–amministratore coincide), minor accesso al credito e consulenza specialistica. Ciò rende le PMI più vulnerabili alla crisi e talvolta meno pronte a gestirla con strumenti sofisticati. In questa sezione esamineremo come le PMI possono concretamente usare gli strumenti di regolazione della crisi e come difendersi efficacemente nel contenzioso tributario, con attenzione alle risorse limitate di cui dispongono.

18. Adeguati assetti e obblighi nelle PMI: proporzionalità e prassi

Le PMI, pur essendo destinatarie come tutte le società dell’obbligo di assetti organizzativi adeguati (art. 2086 c.c.), lo declinano con proporzionalità. Una micro-impresa non avrà un complesso sistema di controllo di gestione, ma comunque l’amministratore deve dotarsi di strumenti minimi: ad es., usare software di contabilità aggiornati, predisporre un budget annuale di tesoreria, monitorare il flusso entrate/uscite mensile, incaricare il proprio commercialista di segnalare eventuali indici anomali (come patrimonio netto in erosione o debiti fiscali non pagati). Una buona prassi per PMI è farsi assistere periodicamente da un consulente esterno (es. un revisore) per un “check-up” dei conti: ciò supplisce in parte alla mancanza di un CFO interno.

Se la PMI è una s.r.l. che supera le soglie e ha nominato un revisore o collegio sindacale, l’organo di controllo dovrebbe interagire strettamente con l’amministrazione: per esempio, richiedere trimestralmente situazione economico-finanziaria e indici di allerta. La collaborazione proattiva spesso manca per diffidenza o trascuratezza; eppure, la segnalazione tempestiva di un sindaco su, poniamo, un DSCR sotto 1 o un ritardo nei pagamenti fiscali può spronare l’imprenditore a reagire prima che sia tardi.

Un punto critico per PMI è la separazione tra patrimonio aziendale e personale. Spesso l’imprenditore utilizza conti aziendali per spese personali o viceversa, generando confusione contabile che esplode in caso di crisi. Tenere distinti i conti, non prelevare cassa aziendale se non per utili formalmente deliberati, evitare di intestare beni aziendali a sé o familiari senza valide ragioni: queste accortezze evitano in futuro contestazioni di distrazioni patrimoniali o aggiramenti di creditori.

19. Scelte strategiche per la PMI in crisi: quale strumento utilizzare?

Quando una PMI entra in crisi (ad esempio perché perde un cliente importante, subisce un calo di fatturato o un aumento dei costi delle materie prime), l’imprenditore si trova davanti a un ventaglio di opzioni. Quale scegliere?

Composizione negoziata: È indicata se la crisi è reversibile e l’imprenditore è determinato a salvare la continuità. Per PMI, accedere alla piattaforma è relativamente semplice (ci si iscrive con SPID) e gratuito. Il vantaggio è avere un esperto neutrale che aiuta nelle trattative: ciò è prezioso perché i creditori tendono a fidarsi più di un terzo che delle promesse del debitore da solo. Inoltre la PMI può ottenere protezione temporanea dai creditori senza la pubblicità negativa di un concordato. Se la PMI ha prospettive di recupero (ad esempio con un rifinanziamento leggero, o spalmando debiti su più anni), la C.N. è uno strumento flessibile e confidenziale. Attenzione però: la PMI deve dotarsi di piani e documenti per convincere l’esperto. È consigliabile farsi affiancare da un commercialista esperto in crisi per preparare un mini-piano di risanamento da sottoporre all’esperto e ai creditori.

Accordo di ristrutturazione (ARD): Una PMI con pochi creditori principali (tipicamente un pool di banche e il Fisco) potrebbe puntare a un ARD se riesce a farsi accordare uno sconto del debito o una moratoria. Tuttavia, raggiungere 60% di consensi può essere arduo se i creditori sono molti piccoli fornitori. ARD è più adatto a PMI “bancocentriche” (es. un’azienda edile con mutui ipotecari) perché con poche banche si negozia e poi si impone il piano anche a eventuali banche minoritarie dissenzienti tramite efficacia estesa. Richiede costi per l’attestazione e l’omologa, ma meno di un concordato e con minore pubblicità.

Concordato preventivo in continuità: Una PMI può tentarlo se ha un nucleo di attività sano e qualche “zavorra” da sistemare. Ad esempio, un’azienda con troppo debito potrebbe proporre un concordato in continuità offrendo ai chirografari una percentuale bassa ma comunque superiore a ciò che avrebbero dalla liquidazione. Pro: consente di falcidiare anche debiti fiscali (cosa che ARD non fa se non paga 100%). Contro: è procedura complessa e costosa (servono legali, attestatore, costi procedurali), la PMI deve reggere la fase di 6-12 mesi di procedura e affrontare l’udienza con i creditori e l’incertezza del voto. Molte PMI temono che, una volta saputo in giro del concordato, fornitori e clienti perdano fiducia, aggravando la crisi. In effetti il concordato è pubblico e finisce sul registro imprese. Quindi va valutato con cautela. Spesso, per PMI, si prova prima la strada extra-giudiziale (C.N. o piani accordati informalmente) e si tiene il concordato come piano B se quelle falliscono.

Liquidazione giudiziale (fallimento) con esercizio provvisorio o cessione azienda: Se le speranze di risanamento sono nulle ma l’azienda ha comunque valore in attività, una PMI può concordare col tribunale una soluzione: ad esempio, prenotare la cessione dell’azienda a un concorrente interessato subito dopo la dichiarazione di fallimento. Così i dipendenti transitano all’acquirente e l’attività prosegue, mentre la vecchia società fallisce e i creditori prendono il ricavato della cessione. È un’alternativa al concordato più rapida e gestita dal curatore. Ha lo stigma del fallimento, ma a volte per una piccola società di persona l’onore del nome è meno rilevante che salvare la sostanza (si pensi a ditte familiari). Inoltre, la liquidazione giudiziale permette l’esdebitazione dell’imprenditore in tempi relativamente brevi (3 anni), dando un’opportunità di ripartenza pulita.

Sovraindebitamento e composizione della crisi da sovraindebitato: se la PMI è sotto soglia e quindi non “fallibile”, può accedere alle procedure di composizione della crisi previste dalla L. 3/2012 come modificata dal CCI: ad esempio il concordato minore (simile a un concordato ma semplificato e per piccoli debiti) oppure la liquidazione controllata persona fisica con esdebitazione. Questo è un tema specialistico, ma in sostanza, le micro-imprese individuali e i piccoli imprenditori possono usufruire di queste procedure davanti all’OCC (Organismo Composizione Crisi) e poi al tribunale, per proporre piani di rientro parziali o liquidare il poco patrimonio ottenendo l’esdebitazione. Spesso il problema è che costano (serve nominare un gestore OCC, spese che per un piccolo magari sono gravose) e i creditori a volte non aderiscono. Tuttavia, con le recenti riforme, il concordato minore può essere omologato anche senza voto se rispetta certe condizioni.

Supporti pubblici per le PMI in crisi: Oltre agli strumenti legali, esistono aiuti: ad esempio, Fondo di Garanzia PMI che copre finanziamenti di ristrutturazione, misure post-Covid (moratorie sui prestiti), ecc. Le PMI dovrebbero consultare la locale Camera di Commercio o associazioni di categoria per verificare se esistono programmi di sostegno o consulenza gratuiti (molte Camere hanno sportelli “Crisi d’impresa” in collaborazione con Ordini professionali, proprio per informare sulle nuove norme).

20. Gestione del contenzioso tributario nelle PMI: come difendersi efficacemente

Le PMI possono trovarsi a fronteggiare accertamenti fiscali significativi, magari proprio mentre sono in crisi di liquidità. Spesso, per inesperienza o timore dei costi legali, rinunciano a difendersi e subiscono l’atto, aggravando la crisi (perché un debito fiscale definitivo poi diventa cartella, con aggi di riscossione). È importante invece che anche la PMI adotti una strategia attiva di difesa tributaria. Alcuni suggerimenti:

  • Valutare la mediazione/reclamo (fino al 2023) o l’adesione: se l’importo è contenuto e l’ufficio mostra apertura, tentare la definizione amministrativa può far risparmiare tempo e sanzioni. Ad esempio, con l’accertamento con adesione la PMI riduce la sanzione e può rateizzare in 8 rate trimestrali, ottenendo ossigeno. Occorre presentarsi al contraddittorio con documenti e magari con il commercialista di fiducia per trattare.
  • Chiedere la sospensione nei casi gravi: se la PMI impugna un atto e rischia il pignoramento di un conto essenziale, deve subito chiedere la sospensiva al giudice tributario, facendo presente il periculum (ad es. “il prelievo di €50.000 dal conto aziendale impedirà di pagare i dipendenti e causerà la cessazione dell’attività”). Con i nuovi termini a 30 giorni, la tutela è rapida e può preservare l’operatività in attesa della sentenza.
  • Valutare definizioni agevolate: se il contenzioso è lungo e oneroso, e se normative di tregua fiscale (come quella del 2023) lo consentono, definire pagando una percentuale può convenire. Le PMI spesso beneficiano di queste misure (chiusura liti pendenti pagando 10-20% se hanno vinto nei gradi precedenti, ecc.). Tenersi informati via consulenti su eventuali “pace fiscali” è utile.
  • Utilizzare il ravvedimento operoso e il pagamento del dovuto nelle soglie penali: se la PMI si accorge di aver commesso un illecito (es. non ha versato IVA ma ha la possibilità tardiva di pagare), farlo prima che scatti la soglia penale o prima che parta la verifica è fondamentale. Il ravvedimento operoso, anche se tardivo, riduce sanzioni amministrative e soprattutto, se integrale, esclude il reato. Investire risorse per pagare il Fisco può sembrare doloroso per la cassa, ma evita guai peggiori.
  • Assistenza tecnica calibrata: una PMI talvolta esita a incaricare un avvocato tributarista per contenere costi. Tuttavia, su certe questioni complesse (transfer pricing, operazioni straordinarie contestate) è bene investire in una difesa qualificata: un esito favorevole in CTP può risparmiare importi ingenti. Molti professionisti offrono soluzioni flessibili (parcelle anche a esito raggiunto, ecc.). Non va sottovalutato il contenzioso per risparmiare poche migliaia di euro di onorario, rischiando di pagarne decine di migliaia al Fisco ingiustamente.
  • Digitalizzazione e facilità di accesso: la telematizzazione consente ormai alla PMI anche di seguire il processo online (il commercialista può depositare atti via PEC). Questo riduce i costi vivi (meno trasferte, ecc.). Sfruttare la possibilità di partecipare a udienze da remoto può essere utile per PMI distanti dalla sede delle Corti.

In definitiva, la PMI deve vedere il rapporto con il Fisco non in modo passivo/subordinato, ma come un ambito in cui far valere le proprie ragioni con gli strumenti legali disponibili. Spesso, specialmente in passato, piccoli imprenditori accettavano supinamente cartelle e accertamenti per sfiducia o timore reverenziale. Oggi la mentalità sta cambiando, complice anche una giurisprudenza più attenta ai diritti del contribuente e procedure più eque (onere prova al Fisco, contraddittorio obbligatorio, ecc.).

21. Il ruolo dei professionisti e delle reti di supporto per le PMI

Nelle situazioni di crisi e contenzioso, i professionisti qualificati (avvocati, commercialisti, consulenti del lavoro) sono alleati imprescindibili delle PMI. In particolare:

  • Il commercialista dell’azienda spesso è il primo a rilevare segnali di crisi (un bilancio con perdite rilevanti, un cash flow negativo) e il primo a cui l’imprenditore si rivolge se arriva un avviso bonario o un’accertamento. È importante che questi professionisti siano formati sulle novità (Codice Crisi, riforma processo tributario) così da consigliare per tempo di attivare, ad esempio, la composizione negoziata o di fare opposizione a quell’accertamento infondato. Gli Ordini professionali stanno offrendo corsi su questi temi proprio per creare la cultura della prevenzione.
  • L’avvocato specializzato in crisi può aiutare a impostare le strategie di più alto livello (es. predisporre un concordato, o negoziare con le banche un accordo di ristrutturazione). Le PMI dovrebbero perdere la ritrosia a contattare un legale esperto di fallimentare: farlo tempestivamente (ai primi segni di insolvenza) può salvare l’impresa. Troppo spesso l’avvocato fallimentare viene chiamato quando ormai l’unica opzione è il fallimento: se fosse stato coinvolto prima, avrebbe potuto magari orchestrare un concordato con assuntore o trovare un acquirente.
  • Le associazioni di categoria (come Confartigianato, Confcommercio, Confindustria locale) spesso dispongono di servizi di consulenza per associati in difficoltà. Ad esempio, alcuni hanno sportelli che aiutano a predisporre piani di risanamento o segnalano esperti per la negoziazione assistita. Una PMI isolata può trovare sostegno in queste reti, riducendo anche i costi.
  • Le Camere di Commercio ora gestiscono la piattaforma di composizione negoziata, e alcune hanno creato elenchi di esperti con competenze multisettoriali (giuridiche, aziendali). Una PMI agricola potrebbe trovarsi assegnato un esperto con competenza nel settore agrifood, il che è un valore aggiunto per comprendere il business e trovare soluzioni ad hoc (ad es., l’esperto sa suggerire di rivolgersi ad ISMEA per garanzie sui debiti agrari, ecc.).
  • Crisi e risanamento come team effort: la PMI deve mettere a nudo i suoi problemi con trasparenza davanti ai consulenti e magari coinvolgere i partner contrattuali (clienti, fornitori chiave). Capita che un importante cliente, saputa la difficoltà del suo fornitore PMI, gli anticipi pagamenti o entri nel capitale per salvarlo (questo è un “market solution” preferibile a una causa in tribunale se c’è fiducia). I professionisti possono facilitare questi dialoghi.
  • Costi vs benefici: Si noti che molte procedure (composizione negoziata, accordi) sono meno costose di un fallimento prolungato dove i creditori recuperano poco e l’imprenditore perde tutto. Quindi va fatto capire all’imprenditore che investire qualcosa in una buona consulenza ora può evitare di dissipare molto di più dopo. Per esempio, nominare un attestatore per un accordo di ristrutturazione costa alcune migliaia di euro, ma se quell’accordo evita il fallimento e consente di mantenere la proprietà dell’impresa, è ampiamente giustificato.

In somma, le PMI non sono sole: il legislatore ha predisposto strumenti e la comunità professionale si sta attrezzando per aiutarle. Sta al singolo imprenditore saper riconoscere i segnali d’allarme e chiedere aiuto tempestivamente, superando l’orgoglio o la vergogna che spesso frenano – perché oggi la crisi non è più vista come una colpa, ma come un evento fisiologico in un mercato mutevole, da affrontare con managerialità e trasparenza. Come recita il nuovo Codice, l’obiettivo è “la rilevazione tempestiva della crisi e l’adozione di idonee misure”: nelle PMI ciò si traduce in consapevolezza, formazione e affiancamento professionale per trasformare le difficoltà in un percorso, se possibile, di risanamento.


Tabelle riepilogative

Tabella 1: Procedura del processo tributario – atti, termini e organi principali

FaseDescrizioneTermini chiaveOrgani competenti
Accertamento fiscaleEmissione atto impositivo (avviso accertamento, cartella, ecc.) con contraddittorio preventivo (se dovuto).Termine notifica entro fine 5° anno (dich. presentata) o 7° (omessa). Contraddittorio: almeno 60 gg per memorie (art. 12 Statuto).Ufficio AE/ente impositore; (Pre-contenzioso: invito a comparire, PVC, ecc.)
Ricorso in 1° gradoNotifica ricorso all’ente entro 60 gg dall’atto (sospeso se reclamo/mediazione, ora aboliti dal 2024). Deposito telematico ricorso e documenti (PEC + piattaforma PTT).60 gg per notifica ricorso (120 se estero). 30 gg termine ridotto per atti cautelari.Corte Giustizia Trib. 1° grado (ex CTP); Giudice monocratico se valore < €3.000.
Costituzione e controdeduzioniL’ente deposita controdeduzioni e atto di resistenza. Formazione fascicolo telematico.60 gg dalla notifica del ricorso per costituzione dell’ente.Ente impositore resistente (AE, Comune, etc.); Segreteria Corte tributaria.
Istanza di sospensioneRichiesta di sospendere la riscossione dell’atto impugnato in caso di danno grave. Decisione in camera di consiglio.Presentazione con ricorso (o separata). Udienza da fissare entro 30 gg.Presidente se d’urgenza (inaudita altera parte) o Collegio se in camera di consiglio; Ordinanza motivata impugnabile in appello cautelare.
Udienza di trattazioneDiscussione orale (facoltativa se parti ne fanno richiesta; se no, deciso su atti). Può svolgersi da remoto.Comunicazione 30 gg prima (udienza pubblica) o 10 gg (camera consiglio).Collegio giudicante (3 giudici tributari); Incontri da remoto possibili su istanza.
Sentenza di 1° gradoDecisione motivata che accoglie o respinge il ricorso (totale/parziale). Titolo esecutivo provvisorio.30 gg per deposito motivazione (termine ordinatorio). Pubblicazione = notifica alle parti via PEC.Collegio + relatore redattore; Notifica a cura della Segreteria telematica.
Appello (2° grado)Ricorso in appello notificato alla controparte e depositato. Nuovo giudizio sul merito con eventuale nuova istruttoria limitata.60 gg da notifica sentenza 1° gr. (6 mesi da deposito se non notificata). Termini costituzione: 60 gg per appellato inc.Corte Giustizia Trib. 2° grado (ex CTR). Collegio di 3 giudici professionali.
Udienza di appello e sentenzaSimile al primo grado, ma senza nuove domande. Possibile appello incidentale entro 60 gg da principale. Decisione con sentenza che conferma/riforma.Tempi analoghi al primo grado (fissazione e trattazione). Motivazione rafforzata se riforma in peius il decisum.Collegio d’appello; Possibilità di proposta conciliativa da giudice relatore.
Ricorso per CassazioneRicorso per soli motivi di legittimità (errori di diritto). Presentato da difensore cassazionista in Cassazione.60 gg da notifica sentenza appello (6 mesi da deposito se manca). Sospensione esecuzione solo su istanza specifica.Corte di Cassazione – Sez. V tributaria (o SS.UU. per princ. diritto). Decisione in forma di sentenza/ordinanza.
Decisione CassazioneSe accoglie: cassazione sentenza appello con rinvio (o raramente decide nel merito). Se rigetta: sentenza appello diviene definitiva (giudicato).Corte di Cassazione; Se rinvia: nuovo giudizio presso Corte appello in diversa composizione.
Esecutività e pagamentoSentenza 1° grado favorevole al Fisco: riscossione 50% tributi + interessi; Sentenza appello favorevole Fisco: riscossione 100% residuo. Sentenza favorevole contribuente: rimborso eventuali pagamenti effettuati.60 gg dalla notifica per pagamenti volontari; Termini specifici per rimborsi (90 gg dall’istanza dopo giudicato).Agenzia Entrate Riscossione per esecuzione forzata; Giudice dell’ottemperanza (Corte 1° gr) in caso di inadempienza su sentenza definitiva.

Note: Il processo è interamente telematico dal 2023-24: notifiche via PEC obbligatorie; depositi atti solo via SIGIT; attestazione di conformità a carico difensore. Prova testimoniale ammessa in forma scritta con modulo standard. Onere della prova: in giudizio grava sull’Amministrazione dimostrare i fatti costitutivi della pretesa. Contraddittorio endoprocedimentale obbligatorio pena nullità per atti dal 2024 (eccetto atti automatizzati). Reclamo-mediazione obbligatoria abolita dal 2024. Sentenze immediatamente esecutive; spese di lite regolate per soccombenza. Cassazione decidente su diritto: non rivede fatti, salva omissioni gravi di motivazione.

Tabella 2: Principali reati tributari e relative sanzioni penali (D.Lgs. 74/2000)

Reato (D.Lgs. 74/2000)Condotta tipicaSoglie di punibilitàPena prevista
Dichiarazione fraudolenta uso fatture false (art. 2)Indicazione in dichiarazione di elementi passivi fittizi avvalendosi di fatture o documenti per operazioni inesistenti.Imposta evasa > €100.000 e fatture false > € false per operazioni > €fatturato fittizio (no soglia dedicata).Reclusione 4 a 8 anni.
Dichiarazione fraudolenta altri artifici (art. 3)Indicazione di elementi attivi inferiori o passivi fittizi mediante artifizi diversi dalle fatture (es: contabilizzazioni simulate, documenti falsi diversi da fatture).Imposta evasa > €30.000 e elementi sottratti > 5% attivo stato patr. o > €1.5 mln.Reclusione 3 a 8 anni.
Dichiarazione infedele (art. 4)Indicazione di redditi inferiore al reale o imposta inferiore, senza frode (errori/gravi omissioni).Imposta evasa > €100.000 e elementi sottratti > 10% del reddito dichiarato o > €2 mln.Reclusione 2 a 4 anni e 6 mesi.
Omessa dichiarazione (art. 5)Non presentazione della dichiarazione obbligatoria (IVA o imposte dirette) entro 90 gg dal termine.Imposta evasa > €50.000 (per ciascun tributo).Reclusione 2 a 5 anni.
Emissione di fatture false (art. 8)Emissione o rilascio di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (chi “vende” fatture).Nessuna soglia minima (reato di pericolo presunto).Reclusione 4 a 8 anni (fino a 2 anni se importi < €100k).
Occultamento/distruzione di scritture contabili (art. 10)Occultare o distruggere, in tutto o in parte, le scritture contabili obbligatorie, in modo da non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume d’affari.Nessuna soglia (reato di pericolo).Reclusione 3 a 7 anni.
Omesso versamento di ritenute certificate (art. 10-bis)Omesso versamento entro il termine previsto per il modello 770, delle ritenute risultanti dalle certificazioni consegnate ai sostituiti.Importo omesso > €150.000 (annuo).Reclusione 6 mesi a 2 anni.
Omesso versamento IVA (art. 10-ter)Omesso versamento dell’IVA dovuta in base alla dichiarazione annuale, entro il termine per il versamento acconto (27 dic. anno succ.).IVA non versata > €250.000 (annuo).Reclusione 6 mesi a 3 anni.
Indebita compensazione (art. 10-quater)Utilizzo in compensazione di crediti d’imposta non spettanti o inesistenti per pagare debiti fiscali.Crediti non spettanti > €50.000 (annuo) – punito come art. 10-bis.Crediti inesistenti > €50.000 – punito più gravemente.Non spettanti: Reclusione fino a 2 anni. Inesistenti: Reclusione 1 a 6 anni.
Sottrazione fraudolenta al pagamento imposte (art. 11)Compiere atti simulati o fraudolenti (alienazioni fittizie, altri artifici) sui propri beni al fine di evitare il pagamento di imposte o sanzioni amministrative tributarie.Imposte/sanzioni evadende > €50.000.Reclusione 6 mesi a 4 anni.

Note: L’art. 25-quinquiesdecies D.Lgs. 231/2001 include come reati-presupposto 231: art. 2, 3, 8, 10, 11 D.Lgs. 74/2000 (tutti senza soglia qualitativa). Inoltre art. 4, 5, 10-quater solo se commessi nell’ambito di frodi IVA transfrontaliere > €10 milioni. – Molti reati prevedono confisca obbligatoria del profitto (art. 12-bis) corrispondente all’imposta evasa; in caso di incapienza, confisca per equivalente su altri beni del condannato. – È prevista la non punibilità per taluni reati (art. 13) se il contribuente, prima del dibattimento, salda integralmente imposta, interessi e sanzioni (es. per art. 10-bis, 10-ter). – I reati dichiarativi (art. 2,3,4,5) e di emissione ricomprendono anche l’IVA e le imposte sui redditi; soglie cumulative per periodo d’imposta. – Pene aumentate di 1/3 se reato commesso nell’ambito di associazione per delinquere ex art. 416 c.p. – Dal DL 124/2019 talune pene sono state innalzate (es. art. 2 e 8 da max 6 a 8 anni), rendendo possibili misure cautelari personali (custodia) per questi delitti.

Tabella 3: Strumenti di regolazione della crisi d’impresa – caratteristiche essenziali

StrumentoTipoIniziativaObiettivoVincolo creditoriAutorità coinvolta
Composizione negoziata (CNC)Procedura volontaria stragiudiziale (con possibili interventi giud.)Debitore (imprenditore iscritto CCIAA, anche agricolo).Risanare l’impresa tramite accordi con creditori facilitati da Esperto indipendente.Nessun vincolo unilaterale: accordi volontari. Possibile omologa di specifici accordi/moratorie su richiesta.Esperto nominato da Commissione CCIAA; Tribunale solo per misure protettive e autorizzazioni (es. finanziamenti prededotti).
Piano attestato di risanamentoStragiudiziale puro (ex art. 56 CCI)Debitore (impresa di qualsiasi dimensione).Ripristinare equilibrio finanziario con piano di risanamento asseverato da esperto.Solo creditori che aderiscono contrattualmente. Nessuna omologazione.Nessuna autorità (solo registro imprese per pubblicità). Attestatore indipendente (professionista).
Accordo di ristrutturazione dei debiti (ARD)Stragiudiziale con omologazione giud.Debitore propone e negozia con creditori (richiede soglia adesioni).Ristrutturare debiti con adesione maggioranze e ottenere efficacia legale (standstill e cram down parziale).Vincola creditori aderenti (min. 60%). Creditori non aderenti: vanno pagati integralmente entro 120gg. Varianti: estensione a banche dissenzienti (75% art. 61), accordo agevolato 30% (micro imprese), cram down fiscale su crediti erariali dissenzienti.Tribunale (omologa accordo su richiesta). Attestatore indipendente su fattibilità e pagamento integrale estranei.
Concordato preventivo in continuitàProcedura concorsuale giudizialeDebitore (azienda in crisi/insolvente, anche su domanda “in bianco”).Risanare l’impresa e soddisfare creditori mantenendo attività (direttamente o vendendola a terzi).Vincola tutti i creditori anteriori all’omologa (anche dissenzienti), secondo piano. Approvazione per classi (>50% crediti votanti; poss. cram-down classi dissenzienti).Tribunale (ammissione, omologa); Commissario giudiziale nominato; Adunanza creditori (voto). Attestatore indipendente (piano veritiero e fattibile).
Concordato preventivo liquidatorioProcedura concorsuale giudizialeDebitore insolvente.Liquidare il patrimonio sotto controllo giudiziale evitando la liquidazione giudiziale.Vincola tutti i creditori secondo percentuali previste. Richiede per legge soddisfacimento >=20% chirografari. Voto creditori analogo al concordato continuità.Tribunale, Commissario, voto creditori, come sopra. Liquidatore giudiziale per esecuzione.
Concordato semplificato (post-CNC)Procedura concorsuale speciale (DL 118/2021, art. 25-sexies CCI)Debitore dopo fallimento della composizione negoziata (relazione esperto negativa).Liquidare patrimonio in modo rapido senza voto dei creditori (stante impossibilità soluzioni).Non c’è voto creditori: proposta soggetta solo a omologa tribunale; creditori possono opporsi. Soddisfacimento non inferiore a liquidazione fallimentare.Tribunale (omologa valutativa di merito). Nomina di un ausiliario/curatore per liquidazione beni.
Liquidazione giudiziale (ex fallimento)Procedura concorsuale giudiziale liquidatoriaCreditori, debitore o PM chiedono; Tribunale dichiara insolvenza con sentenza.Liquidare tutto il patrimonio e distribuire pro-quota ai creditori secondo prelazioni; chiudere impresa.Vincola tutti i creditori anteriori (divieto azioni individuali). Crediti soddisfatti secondo graduatorie legali (privilegi, pignoratizi, chirografari).Tribunale (sentenza nomina Curatore e Giudice Delegato). Curatore gestisce e liquida; Comitato creditori supervisiona. Stato passivo formato dal GD.
Liquidazione coatta amm.va (LCA)Procedura liquidatoria amm.va (settori specifici)Autorità amministrativa (es. MISE, Banca d’Italia) dispone per enti regolati (banche, assicurazioni, cooperative).Liquidare ente tutelando interessi pubblici (es. depositanti).Come liquidazione giudiziale, ma con regole di settore. Creditori concorsuali vincolati.Autorità nomina Commissario Liquidatore e Comitato sorveglianza. Vigilanza del Ministero competente. Giudice delegato per eventuali contenziosi su crediti.
Composizione crisi da sovraindebitamento (es. concordato minore)Procedura concorsuale minore (Trib. + OCC)Debitore non fallibile (consumatore, piccola impresa sottosoglia).Ristrutturare debiti o liquidare patrimonio del sovraindebitato garantendo esdebitazione.Concordato minore: vincola creditori se omologato (richiede 60% adesione o convenienza rispetto liquidazione). Liquidazione controllata: vincola tutti come fallimento minore.OCC (Organismo Composizione Crisi) elabora piano con debitore; Tribunale omologa accordo o apre liquidazione. Gestore nominato per esecuzione.

Legenda: Continuità diretta = debitore prosegue attività; indiretta = attività ceduta a terzo che prosegue. – OCC = organismo di composizione crisi (istituito presso Ordini o Camere Commercio). – Misure protettive = sospensione azioni esecutive e cautelari, possibili in CNC (su richiesta), concordato e ARD (automatiche dal deposito ricorso). – Transazione fiscale = trattativa su debiti tributari e contributivi nell’ambito di concordato o ARD (nel concordato può essere anche “imposta” se creditori approvano piano e giudice omologa cram-down). – Tutti gli strumenti (eccetto liquidazione giudiziale/LCA) richiedono una attestazione professionale (veridicità e fattibilità piano), a tutela dei creditori. – 231: eventuali reati tributari commessi durante l’uso strumentale di procedure possono far incorrere in responsabilità 231 (es. falso in attestazione di concordato; o utilizzo strumentale di concordato per frodare creditori, punito anche penalmente ex art. 236 L.F.).

Tabella 4: Obblighi gestionali e di governance nelle s.r.l./s.p.a. ai fini di prevenzione crisi

Obbligo/DovereRiferimentoDescrizione e SogliaConseguenze in caso di violazione
Adeguati assetti organizzativiArt. 2086 c.c. co.2; Art. 3 CCIL’organo amministrativo deve istituire assetto amministrativo-contabile adeguato a natura e dimensioni, funzionale a rilevare crisi.Responsabilità verso la società e creditori ex art. 2486, 2476 c.c. se da carente assetto deriva aggravamento insolvenza. Possibile azione di responsabilità promossa dal curatore o dai creditori in caso di fallimento.
Obbligo di convocare soci per perdita rilevanteArtt. 2446-2447 c.c. (spa); 2482-bis/ter c.c. (srl)Se perdita > 1/3 capitale o riduce capitale sotto minimo legale: amministratori devono convocare assemblea senza indugio e proporre provvedimenti (riduzione capitale e aumento, trasformazione, ecc.).Responsabilità per omessa tempestiva reazione: – Se non convocano: azionabili per danni. – Se continuano attività con patrimonio < min: rispondono dei nuovi debiti contratti (art. 2486 c.c.). In fallimento, configurabile bancarotta semplice (per non aver chiesto c.p.o fallimento).
Segnalazione organo di controlloArt. 14 CCI (abrogato, ora dovere generico art. 2403 c.c.)Sindaci/Revisore dovevano segnalare immediatamente agli amministratori eventuale fondato indizio di crisi (es. indici allerta superati), invitandoli ad attivarsi (allerta interna).Più che sanzioni, implicazioni di responsabilità solidale: sindaci possono rispondere con amm.ri se omessi controlli ex art. 2407 c.c. In sede di procedimento concorsuale, possibili azioni di responsabilità.
Nomina organo di controllo (srl)Art. 2477 c.c., come modif. da DL 32/2019Obbligo nominare sindaco unico/collegio o revisore se s.r.l. supera per 2 esercizi consecutivi almeno uno: – Attivo stato patr. > €4 mln; – Ricavi vendite > €4 mln; – Dipendenti medi > 20.Se l’assemblea non nomina l’organo dovuto, provvede tribunale su richiesta di qualsiasi interessato. In mancanza di controllo, maggiore difficoltà di rilevare tempestivo crisi => potenziale responsabilità amm.ri.
Segnalazione creditori pubbliciArt. 25-novies CCIAE, INPS, Ag. Riscossione (e dal 2023 INAIL) devono inviare all’impresa e organo controllo segnalazione entro 60 gg dal verificarsi di: – Debiti fiscali scaduti significativi (IVA > soglie scalari da €5k a €20k, ritenute > €5k, ecc.); – Debiti contributivi > €30k (15k se senza dip.) e > 30% contrib. annui; – Cartelle esattoriali > €100k (50k se sottosoglia) scadute > 90 gg senza pagamento o rateazione.Se entro 90 gg impresa non regolarizza o non attiva composizione negoziata, ciò può costituire elemento valutato negativamente in procedure successive (es. colpa grave per azione responsabilità, attenuante mancata). La segnalazione in sé non comporta sanzione diretta, ma suona come allerta formale.
Divieto di pagamenti preferenziali (in crisi)Principio generale e doveri ex art. 2486 c.c.Da quando emerge causa scioglimento (es. patrimonio <1/2 capitale) o insolvenza prospettica, amm.ri devono gestire conservativamente: vietato soddisfare alcuni creditori a scapito di altri (salvo pagamenti correnti in bonus).Pagamenti preferenziali poi non onorati in fallimento = azione revocatoria fallimentare (entro 6 mesi se conoscenza stato insolvenza). Possibile bancarotta preferenziale (penale) se fatti in malafede prima del fallimento. Responsabilità civile amm.ri per danno ai creditori non pagati.
Dovere di richiesta tempestiva concordato o liquidazioneArt. 24 CCI (domanda di accesso agli strumenti) Art. 2486 c.c. (gestione limitata a conservazione patrimonio)Se crisi non risolvibile internamente, amm.ri dovrebbero attivare in tempi brevi uno strumento di regolazione (CNC, concordato, accordi) o, se insolvenza irreversibile, chiedere liquidazione giudiziale per evitare aggravio del passivo.In caso di ritardo colpevole: – Azione di responsabilità per “aggravamento del dissesto” (danno = differenza creditori insoddisfatti se procedure attivate tardi vs scenario attivazione tempestiva). – In penale, bancarotta semplice per tardiva richiesta fallimento (art. 217 L.F.).

Note: La disciplina degli indici di allerta elaborati dal CNDCEC (DSCR < 1, indice oneri finanziari > reddito, ecc.) non è più obbligatoria, ma le imprese dovrebbero monitorare parametri come: continui rinnovi fidi a breve, utilizzo costante massimo di scoperti, ritardo pagamento imposte e fornitori, ecc., quali campanelli di crisi. – L’adeguatezza degli assetti varia: per PMI può essere sufficiente un report mensile su cassa e ordini, per grande impresa serve un sistema avanzato di controllo di gestione. – Gli amministratori di s.r.l. e spa rispondono verso i creditori ex art. 2394 c.c. se con atti di mala gestio hanno leso garanzia patrimoniale; il CCI rafforza questa possibilità in caso di violazione obblighi di conservazione del patrimonio sociale in prossimità di insolvenza. – L’organo di controllo interno funge anche da segnalatore attivo: benché l’art. 14 CCI (che prevedeva allerta interna) sia stato di fatto accantonato, permane un dovere deontologico dei sindaci di spingere l’azienda a reagire ai sintomi di crisi (attraverso relazioni al CDA, assemblea o autorità se necessario). – La sovrapposizione tra obblighi civilistici e possibili addebiti penali significa che violare i doveri di gestione prudente espone non solo a cause risarcitorie ma anche a potenziali incriminazioni (es. bancarotta per dissipazione se vendono beni sottoprezzo per procrastinare fine). – In ultima analisi: la governance della crisi deve essere attiva, documentata (verbali CDA che prendono atto e deliberano misure), e rivolta a tutela dell’integrità aziendale a beneficio paritetico di tutti i creditori (par condicio). Qualsiasi favoritismo o inerzia può ritorcersi contro gli amministratori stessi.


Domande frequenti (Q&A) su contenzioso tributario e crisi d’impresa

D.1: Quali sono i termini per presentare un ricorso tributario contro un avviso di accertamento?
R: Il contribuente ha 60 giorni dalla notifica dell’atto per proporre ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria (ex Commissione Tributaria). Il ricorso va notificato all’ente impositore e poi depositato telematicamente. Se il 60° giorno cade di sabato, domenica o festivo, slitta al primo giorno lavorativo successivo. (Eccezione: per atti soggetti a reclamo-mediazione fino al 2023, la notifica del ricorso valeva come istanza di mediazione; dal 2024 la mediazione è abolita, quindi il termine è sempre 60 giorni).

D.2: L’impugnazione di un atto fiscale sospende l’obbligo di pagarlo?
R: No, il ricorso in sé non sospende la riscossione. Tuttavia, il contribuente può chiedere al giudice tributario la sospensione cautelare dell’atto (c.d. sospensiva) se dall’esecuzione deriverebbe un danno grave e irreparabile. Il giudice decide sull’istanza di sospensione entro ~30 giorni. In attesa, l’Agenzia Riscossione può procedere a iscrivere a ruolo dopo 30 giorni dalla notifica dell’atto e notificare cartella/scadenza di pagamento, ma solitamente attende i 60 gg per ricorrere. Se viene concessa la sospensiva, la riscossione è bloccata fino alla pronuncia di merito. Va notato che alcune cartelle/avvisi hanno sospensione amministrativa automatica se si aderisce (es. accertamento esecutivo sospeso 90gg per adesione).

D.3: Nel processo tributario posso portare nuovi documenti in appello che non avevo prodotto in primo grado?
R: In generale, , la produzione di nuovi documenti è ancora ammessa in appello tributario (a differenza del processo civile, più rigido), ma con alcuni limiti. La riforma 2022 ha previsto che sono inammissibili i nuovi documenti in appello se il contribuente avrebbe potuto produrli prima (principio di leale collaborazione). Tuttavia, la giurisprudenza consente nuovi documenti qualora siano emersi dopo o per controbattere argomenti della controparte in appello. Rimane invece vietato introdurre nuovi motivi di ricorso o nuove domande: l’appello deve riguardare questioni già trattate in primo grado. Quindi nuovi documenti probatori sì (salvo abuso), nuove eccezioni no (salvo rilevabili d’ufficio, es: nullità insanabili).

D.4: È vero che nel processo tributario non sono ammessi testimoni?
R: Storicamente sì, ma la riforma del 2022 ha introdotto una novità: la testimonianza scritta. Non vi sarà il testimone in udienza, però si può far sottoscrivere ad un testimone un’apposita dichiarazione sostitutiva in cui attesta determinati fatti. Questo documento, se ammesso dal giudice, viene acquisito come prova. Rimane comunque preclusa la testimonianza orale classica. Inoltre il giudice può valutare liberamente la dichiarazione scritta e ne ammette l’utilizzo solo se ritiene che soddisfi i criteri di legge (riguardi circostanze non documentabili altrimenti, etc.). Dunque, pur con questo temperamento, il processo tributario resta prevalentemente documentale.

D.5: In caso di esito vittorioso in giudizio tributario, avrò il rimborso delle spese legali sostenute?
R: Il giudice tributario decide sulle spese secondo il principio di soccombenza: chi perde dovrebbe rimborsare le spese di lite dell’altra parte. La riforma 2022 ha ristretto le ipotesi di compensazione: oggi le spese possono essere compensate solo in caso di soccombenza reciproca o novità della questione, altrimenti vanno poste a carico del soccombente. Quindi se il contribuente vince totalmente, di regola l’Agenzia è condannata a pagargli le spese (determinate secondo parametri forensi). Attenzione: se il contribuente non nomina un difensore e sta in giudizio da solo (possibile per liti < €3.000), non avendo spese legali non vi è da rifondergli nulla (possono esserci solo spese vive, tipo contributo unificato). La condanna alle spese copre parcella avvocato, contributo unificato, eventuali perizie di parte.

D.6: In sede di verifica fiscale, ho diritto ad assistere e presentare osservazioni?
R: Sì. Lo Statuto del Contribuente (L.212/2000) prevede che durante accessi, ispezioni e verifiche presso la sede del contribuente, questi ha diritto di essere informato e assistito da un professionista. Dopo la conclusione delle operazioni, i verificatori redigono un PVC (processo verbale di constatazione): da quel momento, il contribuente ha 60 giorni per presentare osservazioni e richieste all’ufficio. L’Ufficio non può emettere avviso di accertamento prima di scaduti i 60 giorni (salvo urgenza). Inoltre con la riforma 2023 (D.Lgs. 219/2023) il contraddittorio preventivo è diventato obbligatorio: prima di emettere un accertamento, l’Agenzia Entrate deve notificare un avviso di pre-contenzioso (invito a comparire) e discuterne con il contribuente, a pena di nullità dell’accertamento, tranne per atti automatizzati (es. liquidazioni 36-bis, cartelle). Quindi sì, esiste un diritto al contraddittorio sia in fase di verifica sul campo, sia in fase pre-accertamento.

D.7: Quando un’impresa è considerata legalmente “in crisi” secondo il Codice della Crisi?
R: Il Codice definisce “stato di crisi” una situazione di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza, e “insolvenza” lo stato di non poter adempiere regolarmente alle obbligazioni (concetto tradizionale). Non c’è una soglia numerica fissa: si guarda a indicatori come continui ritardi nei pagamenti, perdite rilevanti, flussi di cassa negativi prospettici (ad esempio DSCR < 1 a 6 mesi indica probabile crisi). In pratica, l’impresa è in crisi quando ha squilibri che, se non corretti, la porteranno a insolvenza. Il Codice suggerisce di considerare: indici di bilancio, sostenibilità debito, eventuali segnalazioni di creditori pubblici. Legalmente, l’impresa “in crisi” rileva in particolare come presupposto per la composizione negoziata (si parla di “condizioni di squilibrio” che rendono probabile l’insolvenza) e per le procedure minori. Finché c’è solo crisi (non insolvenza conclamata) l’impresa può accedere a strumenti di risanamento; se è già insolvente, va verso liquidazione o concordato.

D.8: Che differenza c’è tra crisi e insolvenza ai fini pratici?
R: Crisi è una situazione di tensione finanziaria ancora reversibile: l’impresa magari paga con ritardo, deve ristrutturare il debito, ma può essere salvata. Insolvenza è lo stadio finale: l’impresa non riesce più a pagare sistematicamente debiti alla scadenza, il patrimonio è insufficiente, la continuità è compromessa. Ai fini pratici: se c’è solo crisi, l’impresa può accedere a composizione negoziata, accordi, concordato preventivo in continuità. Se c’è insolvenza, l’impresa può comunque accedere a concordato (anche liquidatorio) o accordi, ma spesso la soluzione sarà la liquidazione giudiziale. In altre parole, il confine incide sugli strumenti disponibili: insolvenza implica che ogni ipotesi di risanamento deve passare attraverso procedure concorsuali o la cessazione dell’attività. Inoltre, insolvenza conclamata espone già gli amministratori a possibili istanze di fallimento e responsabilità per aggravamento se indugiano.

D.9: È obbligatorio per un imprenditore presentare il concordato se capisce di essere insolvente?
R: Non c’è un obbligo giuridico di presentare domanda di concordato (salvo per alcune categorie, come imprese pubblico-servizio in certi casi). Tuttavia, gli amministratori hanno il dovere di evitare pregiudizi ai creditori in caso di insolvenza: se l’azienda è insolvente e non ci sono prospettive di risanamento, devono attivarsi per regolarla, preferibilmente chiedendo essi stessi una procedura (concordato o liquidazione). Non farlo e continuare ad operare aggravando il passivo può comportare responsabilità per i danni e implicazioni penali (bancarotta semplice). In sintesi: non c’è un obbligo esplicito, ma c’è un forte dovere di attivazione. Difatti l’art. 2486 c.c. prescrive che, dal momento in cui viene meno il capitale sociale o altra causa di scioglimento, gli amministratori devono gestire solo conservativamente il patrimonio. Se sussiste insolvenza, il comportamento diligente è segnalare ai creditori o all’autorità questa condizione (via istanza di fallimento in proprio, ad esempio).

D.10: Quali vantaggi ha la composizione negoziata della crisi rispetto al concordato preventivo?
R: La composizione negoziata (CNC) è uno strumento informale e riservato: l’impresa mantiene piena gestione, non c’è pubblicità iniziale (l’accesso è riservato, salvo misure protettive che vengono pubblicate ma comunque con minor stigma rispetto al concordato). Ha costi minori (l’Esperto è pagato secondo tariffe moderate, niente spese di giustizia se non per eventuali decreti). Non richiede percentuali minime di soddisfo ai creditori: è flessibile, dipende dall’esito delle trattative. Consente di testare il risanamento: se fallisce, l’impresa può comunque ripiegare su concordato o altre soluzioni dopo, avendo perso poco tempo. Il concordato preventivo invece è una procedura formale: comporta spossessamento parziale (deve passare tutto per il commissario), è di dominio pubblico (fornitori e clienti lo verranno a sapere), richiede per il liquidatorio di offrire almeno 20% ai chirografari, e segue tempi e regole rigide (voto maggioranze, omologa). In sintesi: la CNC è negoziazione volontaria e confidenziale, il concordato è ristrutturazione coattiva e giudiziale. Dunque conviene tentare la CNC quando c’è ragionevole possibilità di accordarsi con i creditori: si mantiene più controllo e reputazione. Il concordato è il passo successivo se serve imporre la soluzione ai dissenzienti o se la trattativa libera fallisce.

D.11: Un accordo di ristrutturazione dei debiti (art. 57 CCI) può prevedere anche il taglio dei debiti fiscali?
R: Sì, ma solo tramite la cosiddetta transazione fiscale. Negli accordi di ristrutturazione, il debitore può includere l’Agenzia delle Entrate e gli enti previdenziali tra i creditori aderenti proponendo loro il pagamento parziale/dilazionato dei rispettivi crediti (imposte, IVA, contributi). Se tali enti aderiscono formalmente all’accordo, allora i loro crediti vengono falcidiati come dagli accordi. Se non aderiscono, però, l’accordo tradizionale non li vincola: i debiti fiscali restano da pagare per intero entro 120 giorni dall’omologa. Tuttavia, con la riforma 2022 c’è una novità: negli accordi di ristrutturazione in continuità aziendale, se l’Erario rifiuta irragionevolmente, il debitore può chiedere al tribunale di omologare l’accordo lo stesso (cram down fiscale), a condizione che il trattamento proposto al Fisco non sia inferiore a quello ottenibile in liquidazione e che abbiano aderito creditori pari ad almeno il 30% dei debiti complessivi. Quindi oggi l’ostacolo del Fisco è superabile in certi casi. Dunque, se il Fisco è collaborativo, l’accordo include un taglio concordato (es: sanzioni e interessi stralciati, parte imposta falcidiata). Se non lo è, il giudice può comunque includerlo forzosamente nell’omologa se le condizioni di legge sono soddisfatte (questo è il cram-down di cui sopra, introdotto dal D.Lgs. 83/2022).

D.12: Durante un concordato preventivo, l’imprenditore può continuare a gestire l’impresa?
R: In linea di massima, , soprattutto se si tratta di un concordato in continuità. L’imprenditore rimane “custode” e gestore dei beni, sotto la vigilanza del Commissario Giudiziale e del giudice delegato. Può compiere atti di ordinaria amministrazione. Per gli atti straordinari (ad es. cedere un immobile, contrarre un finanziamento), deve ottenere autorizzazione del tribunale. Nel concordato liquidatorio puro, invece, solitamente con l’omologa viene nominato un liquidatore giudiziale che prende in mano la liquidazione dei beni. Ma fino all’omologa, anche nel liquidatorio l’impresa resta in mano agli amministratori (sebbene operi poco e nulla, perché in attesa di dismissione). Quindi l’impresa nel corso della procedura continua ad operare, specialmente se c’è continuità aziendale: ad esempio, può proseguire contratti pendenti, effettuare vendite, comprare materie prime – tutte operazioni consentite per preservare il valore aziendale, con la supervisione del Commissario. Questo è un elemento distintivo rispetto al fallimento, dove subito la gestione passa al curatore. Il concordato è debtor-in-possession (debitore in possesso dei beni) con oversight esterno.

D.13: Che succede se l’impresa non rispetta il piano di concordato omologato?
R: Se il debitore inadempie agli obblighi del concordato, i creditori possono chiedere al tribunale la risoluzione del concordato. Ad esempio, il piano prevedeva pagamento del 30% ai chirografari in 2 rate e l’impresa non paga. A richiesta (anche di un solo creditore), il tribunale accerta l’inadempimento grave e pronuncia la risoluzione. La risoluzione fa venir meno gli effetti esdebitativi del concordato: i creditori tornano liberi di agire per l’intero credito originario detratto quanto eventualmente ricevuto. Di norma, subito dopo la risoluzione il tribunale dichiara la liquidazione giudiziale (fallimento) dell’impresa, su istanza di un creditore o d’ufficio entro l’anno dall’omologa. Dunque, l’impresa che non rispetta il concordato finisce quasi sempre fallita, con l’aggravante di aver perso tempo e (talora) aver ridotto l’attivo nel tentativo fallito. Inoltre, gli amministratori potrebbero subire azione di responsabilità per avere condotto un concordato che non erano in grado di sostenere.

D.14: In caso di fallimento (liquidazione giudiziale), l’imprenditore persona fisica resta obbligato per gli eventuali debiti residui?
R: C’è la possibilità di liberarsene tramite il meccanismo dell’esdebitazione. Dopo la chiusura del fallimento (liquidazione giudiziale), il debitore persona fisica può chiedere al tribunale di essere esdebitato, cioè di cancellare i debiti concorsuali rimasti insoddisfatti. L’esdebitazione viene concessa se il fallito ha collaborato con le autorità, non ha commesso gravi irregolarità o reati, e se dal fallimento i creditori hanno ottenuto almeno un soddisfacimento parziale (anche minimo). Una volta esdebitato, l’imprenditore è libero dai debiti pregressi e può ripartire (fresh start). Se invece il fallito ha tenuto comportamenti fraudolenti, l’esdebitazione può essere negata. Dal 2020 esiste anche l’esdebitazione “del debitore incapiente” immediata in alcuni casi per chi non ha nulla da liquidare, ma nel contesto di impresa tale figura è rara (più per consumatori). Quindi, sì, l’imprenditore fallito onesto può ottenere l’esdebitazione – tipicamente decorso 3 anni dalla chiusura del fallimento, ora con il Codice i termini sono stati unificati e ridotti (si può chiedere subito dopo la chiusura se soddisfatti i criteri). Ciò non copre comunque eventuali debiti personali estranei alla procedura e non copre sanzioni penali.

D.15: Quali reati rischia un amministratore che in crisi paga solo alcuni creditori e lascia altri insoluti?
R: Se poi l’impresa fallisce, quell’amministratore potrebbe essere accusato di bancarotta preferenziale (art. 216 L.F.): aver favorito alcuni creditori a detrimento di altri in situazione di insolvenza costituisce reato penale (punito fino a 2 anni, o fino a 6 se con dolo di frode). Anche senza fallimento, certi pagamenti selettivi potrebbero configurare profilo di responsabilità civile. Inoltre, se i pagamenti preferenziali riguardano il Fisco (pagare solo l’Erario e non altri, oppure viceversa), è comunque bancarotta preferenziale se c’è fallimento. Insomma, in prossimità dell’insolvenza, l’amministratore dovrebbe evitare di scegliere arbitrariamente chi pagare: o paga in misura proporzionale o secondo criteri di funzionalità (ad es. paga fornitori indispensabili per evitare danno maggiore – questo in genere è scriminato perché mira a evitare aggravamento). Se paga scientemente un amico o una società collegata lasciando gli altri a bocca asciutta, è preferenza punibile. Nota: pagare i dipendenti per stipendio corrente di solito non è considerato preferenza punibile, perché c’è giurisprudenza che lo ritiene adempimento di un obbligo di legge di natura particolare (e anche in sede concorsuale i salari hanno privilegio). In sintesi, i pagamenti di prassi e per continuità operativa sono tollerati; quelli “discrezionali” dettati magari da pressioni o interessi personali no.

D.16: I reati tributari possono comportare la responsabilità amministrativa 231 della società?
R: Sì. Dal 2019 in poi diversi reati tributari sono stati inseriti nel catalogo del D.Lgs. 231/2001. Ad esempio: dichiarazione fraudolenta (art. 2 e 3), emissione fatture false (art. 8), occultamento scritture (art. 10), sottrazione fraudolenta al pagamento imposte (art. 11) sono presupposto della responsabilità 231. Ciò significa che, se tali reati sono commessi nell’interesse o vantaggio della società da parte di un suo dirigente/apicale o dipendente, la società stessa può essere sanzionata con multe salate e misure interdittive. Anche dichiarazione infedele, omessa dichiarazione e indebita compensazione lo sono, ma solo se riguardano frodi IVA transfrontaliere sopra 10 milioni. Quindi, in pratica, una società che attua sistematiche frodi fiscali rischia doppia sanzione: penale per gli amministratori e amministrativa per l’ente. Per evitare ciò, le società dovrebbero adottare modelli di organizzazione e controllo idonei a prevenire reati fiscali (inclusi protocolli di controllo sulle fatture e sui versamenti). Se c’è un modello 231 adeguato e il reato è frutto di elusione fraudolenta dello stesso da parte del soggetto, l’ente può evitare la condanna. Quindi la prevenzione è possibile ma deve essere predisposta in anticipo.

D.17: Cosa succede ai contratti in corso (affitto, leasing, forniture) se l’azienda entra in concordato o fallimento?
R: Nel concordato: il debitore può chiedere l’autorizzazione al tribunale a sciogliersi da taluni contratti in corso se ciò è funzionale al piano (art. 95 CCI). Ad esempio, può sciogliere un contratto di leasing gravoso: il lessor avrà indennizzo danno come credito chirografario. I contratti essenziali alla continuità invece proseguono regolarmente, ma i crediti sorti durante la procedura sono prededucibili (vanno pagati per primi). Nel fallimento (liquidazione giudiziale): i contratti pendenti non ancora eseguiti (o non completamente) dal fallito possono essere sciolti dal curatore, con approvazione del comitato creditori e salvo indennizzo al contraente (che diventa credito concorsuale). Oppure il curatore può subentrare nel contratto (ad esempio, continuare un contratto di appalto in corso se c’è esercizio provvisorio). I contratti di lavoro si sospendono per 60 giorni e poi il curatore decide se sciogliere o proseguire. In sostanza, entrambe le procedure offrono strumenti per “liberarsi” dei contratti onerosi e mantenere invece quelli vantaggiosi, sotto controllo giudiziale. Per forniture continuative: in concordato, grazie alle misure protettive, i fornitori non possono interrompere forniture essenziali unilateralmente (pena risoluzione autorità giudiziaria). In fallimento, l’attività cessa salvo esercizio provvisorio, e in tale caso il giudice delegato può ordinare la continuazione di forniture di pubblica utilità.

D.18: Un socio può perdere l’azienda a causa di reati fiscali commessi dalla direzione?
R: Indirettamente può accadere. Se l’azienda (società) viene condannata ex D.Lgs. 231/2001 per reati tributari, il giudice può applicare misure interdittive come il commissariamento dell’ente o persino, nei casi più gravi, la confisca dell’intero patrimonio sociale. Ad esempio, per frodi fiscali massive e ripetute, si potrebbe arrivare a interdizione dall’attività (la società non può operare per un certo periodo – di fatto ne perde il controllo). In casi estremi di ente creato per illeciti, si può giungere alla continuazione del commissariamento o all’applicazione della sanzione della chiusura dell’attività. Nella normalità, comunque, il rischio principale è economico: la società paga multe elevate e vede confiscati beni equivalenti al profitto dell’evasione (che può essere ingente). Ciò impoverisce l’azienda e quindi i soci perdono valore. Quindi sì, un socio può “perdere” la propria azienda se questa viene prosciugata da sanzioni e confische per reati fiscali. Questo evidenzia l’importanza per i soci di vigilare sulla compliance fiscale della governance: i soci (specialmente se di maggioranza) dovrebbero pretendere modelli 231 e condotte legali, perché altrimenti pagheranno loro in ultima analisi.

D.19: Una PMI in forte crisi di liquidità, che non riesce a pagare IVA e contributi, cosa dovrebbe fare per non incorrere in reati?
R: Prima di tutto, se ancora possibile, dovrebbe comunicare con il Fisco: chiedere una rateazione all’Agenzia Entrate-Riscossione sulle cartelle esistenti (la legge consente dilazioni fino a 6 anni, estensibili 10 in casi gravi, senza dover dare garanzie per debiti fino a €120k). Se la crisi è temporanea, il ravvedimento e le rateazioni possono evitare la soglia penale (ad esempio, dilazionando l’IVA scaduta, si evita di avere quell’importo ancora dovuto a fine anno, dunque niente art. 10-ter). Se invece è sistemica e non può pagare proprio, meglio non occultare: presentare comunque le dichiarazioni (così evita il reato di omessa dichiarazione) e cercare soluzioni concorsuali. In un concordato, per esempio, il mancato pagamento IVA non genera reato se la procedura va a buon fine perché poi la soddisfazione parziale del debito IVA avverrà secondo quanto omologato. Durante la composizione negoziata, l’imprenditore può ottenere la non punibilità temporanea: l’art. 13 D.Lgs.74 prevede che se paghi (anche tardivamente prima del dibattimento) non sei punibile, e in CNC potresti, con l’accordo di transazione fiscale, impegnarti a pagare parzialmente l’IVA e ciò potrebbe esentarti (anche se formalmente art. 10-ter richiede pagamento integrale). In sostanza: agire alla luce del sole, coinvolgere i creditori qualificati nelle trattative, e usare gli strumenti come concordato preventivo. Se proprio non paga IVA, almeno deve dichiararla: l’omissione di versamento è reato solo a soglia superata e a decorrere dalla scadenza (di solito 27 dicembre). Quindi se capisce di non poterla pagare, potrebbe considerare di ridurre l’attività (per non accumulare altra IVA) o cedere l’azienda. Non c’è bacchetta magica: se i soldi non ci sono, l’unica è prevenire condotte che aggravano la posizione (non crei false fatture per generare crediti fittizi – peggiorerebbe le cose con reati ancora più seri). Meglio affrontare il debito fiscale apertamente in una procedura che tentare di sfuggirgli illegalmente.

D.20: Che differenza c’è tra la bancarotta fraudolenta e i reati tributari? Possono concorrere?
R: Sono figure diverse: la bancarotta fraudolenta punisce la distruzione/occultamento di beni o scritture, o l’alienazione sotto costo, o il pagamento preferenziale effettuati in pregiudizio dei creditori (in vista o dopo il fallimento). I reati tributari puniscono la frode o l’evasione in pregiudizio dell’Erario. In una crisi d’impresa spesso i comportamenti illeciti realizzati generano concorso di reati. Esempio: l’amministratore che occulta le scritture contabili commette bancarotta fraudolenta documentale e reato fiscale di occultamento scritture (art. 10 D.Lgs.74/00) – i giudici possono ritenere che concorrono e applicare la pena più grave aumentata. Oppure, chi distrae denaro sociale su un conto estero commette bancarotta patrimoniale, e se quell’atto era volto anche a non pagare il fisco, commette sottrazione fraudolenta a pagamento imposte (art.11). In sede processuale spesso le condotte vengono contestate in entrambi gli ambiti, ma bisogna stare attenti al ne bis in idem: se le fattispecie coprono lo stesso disvalore potrebbero sovrapporsi. Di regola però la giurisprudenza italiana li considera tutelare beni giuridici diversi (massa creditoria vs fisco) e ammette il cumulo. Quindi un amministratore può collezionare condanne parallele: ad es. 4 anni per bancarotta fraudolenta e 3 anni per frode fiscale, da scontare (entro il cumulo giuridico con eventuale aumento). Dunque, in fase di crisi mal gestita c’è il rischio di un “carico penale” multiplo. Ciò detto, l’ordinamento cerca di evitare doppia sanzione per stessa condotta con stessa lesione: se es. la bancarotta preferenziale consuma già il fatto di aver pagato Erario preferendo lui, forse non puniranno anche l’art.11 (ma non è chiarissimo, prudenza vuole evitare entrambe…). Insomma: bancarotta colpisce l’illecito verso i creditori in generale, i reati fiscali l’illecito verso l’Erario; possono coesistere.


Simulazioni pratiche

Per illustrare come tutti questi istituti e regole si applicano nella realtà, presentiamo alcune casi pratici simulati con protagonisti immaginari, ma ispirati a situazioni tipiche. Ogni simulazione mostra le decisioni da prendere, gli strumenti attivabili e gli esiti possibili.

Simulazione A: Contenzioso Tributario – Caso “Azienda Alfa S.r.l.”

Scenario: Alfa S.r.l. è una PMI commerciale di Firenze. Nel 2023 riceve un avviso di accertamento dall’Agenzia delle Entrate che contesta, per l’anno d’imposta 2020, ricavi non dichiarati per €200.000, sulla base di indagini bancarie e di un ricarico medio di settore. L’atto comporta maggior IRES, IRAP e IVA per €80.000, più sanzioni del 100% (€80.000) e interessi. Totale richiesto ~€160.000.

Alfa S.r.l. vive un momento di difficoltà (calo vendite nel 2022), ma è ancora solvibile. L’amministratore, sig. Rossi, non condivide le pretese: sostiene che i movimenti bancari considerati come ricavi in nero erano in realtà finanziamenti soci e restituzioni di anticipi, e che il margine usato dal Fisco è sovrastimato. Che fare?

Azione 1 – Contraddittorio e adesione: Innanzitutto, l’avviso è preceduto (come da nuova norma) da un invito a comparire. Alfa partecipa al contraddittorio: porta documenti che provano alcuni finanziamenti soci (contabili) e spiega che il ricarico effettivo nel 2020 era calato per svendite fine stagione. L’Agenzia ascolta ma non recede: propone semmai di definire con abbattimento sanzioni a 1/3 (come da accertamento con adesione), ma su una base imponibile ridotta del 10%. Ciò implicherebbe pagare imposte per €72.000 + sanzioni 1/3 (€24.000) = €96.000 più interessi. Alfa valuta: €96k è ancora troppo, e soprattutto liquidi non ne ha. Decide di non aderire all’accertamento con adesione.

Azione 2 – Ricorso e sospensiva: Alfa S.r.l., con il suo commercialista, presenta ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria di 1° grado Toscana entro 60 gg. Nel ricorso contesta punto per punto: erronea ricostruzione bancaria (finanziamenti soci non considerati), applicazione di presunzioni di ricarico non correlate alla sua realtà, violazione art.7 co.5-bis D.Lgs.546 perché l’Ufficio non ha fornito prove dirette di maggiori vendite. Chiede annullamento totale, in subordine parziale. Con il ricorso, chiede anche la sospensione dell’atto: motiva che, dovendo eventualmente pagare €160k, l’azienda finirebbe la liquidità e non potrebbe pagare fornitori e 5 dipendenti (danno grave).

Il tribunale fissa udienza di sospensiva entro 30 giorni. In udienza (tramite Teams da remoto), il difensore ribadisce il pericolo: mostra che Alfa ha c/c con €50k e fidi saturi, se costretta a pagare fallirebbe. L’Avvocatura dello Stato resiste, ma il collegio concede la sospensione dell’atto sino alla sentenza di merito, riconoscendo il fumus (motivi non pretestuosi) e il periculum (rischio chiusura attività).

Azione 3 – Giudizio di merito 1° grado: Nel frattempo, l’Agenzia iscrive comunque a ruolo il 50% delle imposte (ma esecuzione sospesa dall’ordinanza). Dopo alcuni mesi, c’è trattazione nel merito. Alfa S.r.l. produce nuovi documenti in giudizio: copie di assegni dei soci e contratti di finanziamento che prima non aveva reperito. L’Agenzia contesta tardività, ma il giudice li ammette (non erano disponibili prima ragionevolmente). In udienza pubblica (cui partecipano sia difensore Alfa sia funzionario AE), la discussione verte sull’onere della prova: il difensore richiama la nuova norma che l’Amministrazione deve provare le violazioni e sostiene che qui il Fisco si è basato su presunzioni semplici e non ha provato vendite in nero specifiche. L’AE insiste sul fatto che i versamenti bancari non giustificati sono prova presuntiva valida e chiede almeno rigetto parziale.

Esito 1° grado: La Corte emette sentenza accogliendo il ricorso in larga parte: riconosce che i finanziamenti soci per €120k sono documentati e non dovevano considerarsi ricavi, riduce quindi la pretesa. Per il restante, ritiene però l’azienda non abbia provato l’origine di ulteriori €80k di movimenti e trova ragionevole un recupero su quello, ma sanzioni dimezzate per concorso colposo (visto che Alfa aveva tenuto contabilità confusa). In sostanza: imposte ridotte a ~€32k, sanzioni €9k. Spese di lite: Alfa ha vinto per 75%, AE 25%, il giudice le compensa parzialmente e condanna AE a rifondere 75% delle spese legali di Alfa (€1.500 su €2.000). Alfa è moderatamente soddisfatta: deve pagare ~€41k anziché 160k.

L’Agenzia potrebbe appello, ma valuterà se conviene (per €41k spesso si ferma). Nel frattempo Alfa, grazie alla riduzione, può valutare definizione agevolata se legislativamente prevista, o comunque trova un accordo di rateazione per i €41k (essendo ora sentenza esecutiva in suo favore, se AE appella dovrà chiedere sospensione).

Osservazioni: In questo caso Alfa S.r.l. con una difesa attiva ha ottenuto un abbattimento notevole. Ha sfruttato: contraddittorio endoprocedimentale (anche se senza successo totale), sospensiva (fondamentale per non pagare subito), nuove norme sul contraddittorio e onere della prova (che hanno reso il giudice più ricettivo alle sue ragioni). Inoltre, avendo prodotto documenti anche in ritardo, ha beneficiato della elasticità del rito tributario. Se Alfa non avesse reagito, avrebbe dovuto pagare 1/3 entro 60gg (condizione sospensiva), poi il resto e probabilmente sarebbe saltata. Questo mostra l’importanza del contenzioso per PMI.

Simulazione B: Crisi d’impresa – Caso “Beta S.p.A.”

Scenario: Beta S.p.A. è un’azienda manifatturiera (100 dipendenti, fatturato €15 mln) nel settore tessile. Negli ultimi 2 anni ha accumulato perdite per calo ordini e costi energia, erodendo il patrimonio netto (divenuto negativo per €1 mln). Debiti totali €12 mln, di cui €5 mln verso banche (mutui e fidi), €3 mln fornitori, €2 mln Erario (IVA non versata e ritenute), €1 mln INPS, €1 mln altri. La cassa è quasi zero, i fidi saturi. Beta è insolvente di fatto: non paga fornitori da 4 mesi, ha rate mutuo scadute, e il magazzino è pieno di invenduto. Tuttavia, Beta ha un marchio e know-how ancora appetibili; un competitor (Gamma S.r.l.) sarebbe interessato a rilevare l’azienda (macchinari e brand) se libera dai debiti.

Opzione 1 – Composizione negoziata: I consulenti propongono a Beta di tentare la CNC, anche se l’insolvenza è già avanzata, perché magari un accordo con le banche e un nuovo investitore possono evitare il fallimento. Beta accede alla piattaforma, nomina esperto. Chiede misure protettive dal tribunale per evitare pignoramenti (già un fornitore ha notificato decreto ingiuntivo). Ottiene dal giudice sospensione di azioni per 4 mesi. L’Esperto convoca banche e principali fornitori: propone che Gamma S.r.l. entri rilevando ramo d’azienda (asset e dipendenti) per €5 mln; con quei €5 mln pagare in prededuzione i debiti verso Erario e INPS (€3 mln) e dare un 20% ai chirografari (fornitori, banche per la parte scoperta). Le banche (garantite da ipoteche su capannone) recupererebbero il capannone venduto a Gamma compreso in quell’offerta, le loro ipoteche assorbono gran parte. Le banche non aderenti: alcune accettano di buona voglia perché meglio di fallimento, una banca dissenziente minoritaria viene convinta con l’argomento che altrimenti facciamo concordato. I fornitori (prenderanno 20% in 1 anno) si persuadono perché in fallimento stimano 5%. L’Agenzia delle Entrate invece non aderisce: dice di voler almeno 50% su IVA. Trattativa in stallo.

Possibile esito CNC: L’Esperto conclude che c’è soluzione idonea se si supera nodo Erario: suggerisce a Beta di formalizzare un accordo di ristrutturazione con i creditori privati e chiedere al tribunale l’omologa con cram-down fiscale. Beta S.p.A. esce dalla CNC e deposita un accordo ex art. 61 CCI: aderenti 70% crediti (Gamma con acquisto, banche, fornitori), chiede estensione ai restanti e al Fisco (che ha 15% crediti). Il tribunale, constatato che il Fisco in questo scenario prenderebbe 0 in fallimento e 20% con accordo, impone il cram-down: omologa l’accordo nonostante il diniego AE. Così l’operazione va in porto: Gamma paga €5 mln, Beta soddisfa in percentuale i creditori come da accordo, e poi Beta verrà liquidata ma senza debiti residui. I dipendenti conservano il posto trasferiti a Gamma per continuità.

Opzione 2 – Concordato preventivo: In alternativa, Beta avrebbe potuto sin da subito presentare un concordato preventivo con continuità indiretta: cessione dell’azienda a Gamma come attuatore, e ricavato distribuito. Il piano concordatario avrebbe offerto ad esempio: pagamento 100% creditori privilegiati (banche in parte su ipoteche, Erario solo privilegio parziale), ai chirografari (fornitori, eventuali parti di banche chirog.) un 20%. Poiché concordato in continuità, nessuna soglia minima 20% vincolante (quella è per liquidatorio). Beta deposita domanda di concordato in bianco per bloccare azioni, poi presenta piano con attestazione. I creditori votano: le banche (classe privilegiata) sicuramente favorevoli perché prendono ipoteca, l’Erario (classe privilegio speciale) chiede modifica: in concordato non può falcidiare IVA se non in continuità, qui essendo continuità indiretta può anche falcidiare IVA (nuovo codice lo consente). Comunque Erario e INPS votano contro (spesso succede). I fornitori chirografari votano a favore sperando nel 20%. Si raggiunge maggioranza per classi: fornitori sì, banche sì, Erario no. Il tribunale tuttavia può cramdown di classe sul Fisco se ritiene la proposta a Fisco equa rispetto a alternativa di liquidazione. Quindi omologa. Beta esce dalla procedura con l’azienda ceduta a Gamma e creditori pagati come da piano. Beta poi verrà verosimilmente dissolta post-concordato. Questo scenario è simile all’accordo, solo più lungo e costoso, ma con la forza coercitiva del voto.

Opzione 3 – Fallimento con esercizio provvisorio: Se Beta non avesse attivato nulla, probabilmente i creditori avrebbero presentato istanza di fallimento (liquidazione giudiziale). Il tribunale avrebbe dichiarato la liquidazione. A quel punto, vedendo che c’era un potenziale acquirente Gamma, il curatore avrebbe potuto chiedere l’esercizio provvisorio e organizzare una cessione competitiva dell’azienda. Gamma (o altri, se interessati) avrebbero fatto offerte. Diciamo che Gamma si aggiudica l’azienda per €4 mln (nel frattempo alcuni clienti persi, valore sceso). Il curatore paga creditori privilegiati (banche) col ricavato e un piccolo riparto ai chirografari (5%). Dipendenti passano a Gamma ex art. 105 L.F. Il fallimento poi chiude. I soci azzerati. – Rispetto al concordato/accordo, qui i creditori chirografari hanno ottenuto meno (5% vs 20%), l’Erario incassa poco (solo quota privilegiata per ritenute su TFR etc.), l’azienda salvata sì ma a un prezzo minore (urgenza del fallimento, incertezza). Beta è finita fallita (stigma per amministratori, possibili azioni di responsabilità e bancarotta indagini). Questo esito è peggiore per Beta e i creditori non garantiti.

Commento: La scelta ottimale era concordare prima del fallimento con i creditori. Beta attivando CNC e poi un accordo/concordato ha gestito la crisi con meno danni collaterali: no revocatorie, gli amministratori evitano accuse di bancarotta perché hanno seguito la legge, i creditori prendono di più. Anche Gamma preferisce acquisire in concordato o accordo che da un fallimento (più rapido e meno rischi su contratti). L’unico “scontento” può essere il Fisco se tagliato, ma grazie al cram-down anche quell’ostacolo si supera legalmente.

Simulazione C: Profili penali – Caso “Gamma S.r.l.”

Scenario: Gamma S.r.l. è una società edile (appalti privati) con 10 dipendenti. Per far fronte a difficoltà di cassa nel 2021, l’amministratore unico, sig. Bianchi, ha emesso fatture per operazioni inesistenti tramite una società cartiera compiacente, per €300.000, ottenendo crediti IVA fittizi con cui ha compensato debiti IVA reali. Inoltre non ha versato €100.000 di IVA per il 2021 (soglia penale >250k quindi questo è sotto soglia, reato omesso versamento IVA non scatta, ma reato di dichiarazione fraudolenta sì per via delle fatture false). Nel 2022 la situazione precipita: Gamma S.r.l. sospende lavori, non paga più stipendi e fornitori, e matura debiti fiscali alti. A fine 2022 Bianchi capisce che l’azienda è insolvente e dissolve la società: sparisce, porta via alcuni macchinari vendendoli a nero e non deposita bilancio 2022. I creditori presentano istanza di fallimento.

Sviluppo procedura concorsuale: Nel 2023 Gamma viene dichiarata fallita (liquidazione giudiziale). Il curatore rileva gravi irregolarità: mancano registri IVA e libri contabili (Bianchi li ha occultati), ci sono movimenti finanziari sospetti verso conti personali. Il passivo fallimentare è €1,5 mln. Il curatore segnala al PM.

Procedimento penale: Il PM avvia inchiesta per vari reati:

  • Bancarotta fraudolenta patrimoniale: Bianchi ha distratto beni (macchinari venduti sottobanco, circa €100k) e svuotato cassa.
  • Bancarotta fraudolenta documentale: ha occultato/distrutto le scritture (libri scomparsi).
  • Emissione di fatture false (art.8 D.Lgs.74/00): per i €300k fatture emesse dalla cartiera.
  • Dichiarazione fraudolenta (art.2): Gamma ha usato quelle fatture nella dichiarazione 2021 per evadere ~€66k IVA.
  • Possibile Sottrazione fraudolenta al pagamento imposte (art.11): la vendita nascosta di macchinari potrebbe configurare anche questo se finalizzata a non pagare il Fisco.
  • Omesso versamento ritenute: emergono €60k di ritenute dipendenti non versate su 2022 (sopra soglia €150k? qui no, 60k <150k, quindi non reato).

Bianchi viene arrestato (custodia cautelare) perché i reati appaiono gravi e c’è pericolo di fuga. La società Gamma è fallita (quindi in liquidazione giudiziale). Il profitto dei reati tributari (risparmio d’imposta ~€66k) è soggetto a sequestro per equivalente: il GIP dispone sequestro dei beni personali di Bianchi fino a €66k.

Responsabilità 231: Intanto, essendo i reati fiscali 2019 e segg. nel catalogo 231, anche Gamma S.r.l. (ancorché fallita) viene imputata come ente. Tuttavia, poiché c’è fallimento in corso, la sanzione pecuniaria sarebbe di fatto concorso nel passivo. Più efficacemente, il PM punta alla confisca di beni societari: ha già fatto sequestrare un immobile intestato a Gamma. Dopo la sentenza, quell’immobile sarà confiscato allo Stato, prevalendo sui creditori? Discussione: formalmente confisca ex art.12-bis è obbligatoria anche se c’è fallimento, ma giurisprudenza tutela concorso: probabilmente quell’immobile andrà venduto e il ricavato in parte andrà ai creditori del fallimento e in parte allo Stato a titolo di confisca (questioni complicate che il curatore e PM negozieranno). In ogni caso, Gamma S.r.l. come ente potrà essere sanzionata con multa, ma essendo in fallimento, la multa concorsuale sarà chirografa (di scarsa esazione). Più rilevante la confisca diretta dei proventi.

Esito penale: Bianchi patteggia 4 anni di reclusione complessivi per bancarotta fraudolenta (pena base 6 anni ridotta) e reati tributari (concorso, pena concorrente). 4 anni con sospensione condizionale negata (troppo alta pena). La società Gamma viene condannata ex 231 a una sanzione pecuniaria di, poniamo, 400 quote (€250 per quota = €100k) – in realtà incamerata in minima parte perché fallimento ha asset insufficienti. Viene disposta la confisca definitiva del capannone sociale (valore €200k), su cui c’era ipoteca banca: conflitto da risolvere, ma ipotesi: Stato versa alla banca ipotecaria fino a capienza ipoteca e confisca il bene netto residuo.

Considerazioni: Gamma S.r.l. è un caso di “worst practice”: l’amministratore ha commesso reati tributari per tamponare la crisi, poi è fuggito. Il risultato: azienda fallita, lui carcerato, soci (era unico socio lui stesso) azzerati, fornitori prendono quasi nulla, Stato persegue penalmente e confisca. Un modello 231 non c’era; se ci fosse stato, forse Bianchi avrebbe avuto freni interni. Se invece di frodare avesse cercato aiuto (es. concordato), magari l’epilogo sarebbe stato meno tragico: alcuni reati (falso fatture) non sarebbero stati commessi e i dipendenti forse salvati in un affitto d’azienda. Si nota anche come i reati fallimentari e tributari concorrano: qui Bianchi paga per entrambi (nessun ne bis in idem essendo diverse fattispecie). Per la società, la sanzione 231 in realtà è quasi simbolica vista la decozione, però il curatore ha un ulteriore contenzioso. In pratica, l’unica speranza per Bianchi è l’esdebitazione personale post-fallimento (ma se condannato per bancarotta fraudolenta, potrebbe essergli negata per condotta fraudolenta).

Apprendimento: La prevenzione e la correttezza pagano. Un amministratore in crisi deve evitare la tentazione di “uscire dalle regole” (fatture false, vendite occulte): sono soluzioni effimere che poi portano a situazioni penali irreversibili. Meglio affrontare la crisi legalmente, anche se ciò significa perdere l’azienda, piuttosto che finire con condanne e interdizioni.

Simulazione D: Modello 231 e crisi – Caso “Delta S.p.A.”

Scenario: Delta S.p.A. è una medio-grande azienda alimentare. Nel 2024 il suo CFO, sotto pressione per far quadrare i bilanci, commette reati tributari: manipola le giacenze per dichiarare meno reddito (dichiarazione infedele) e compensa indebita di crediti inesistenti (€200k) per ridurre IVA da versare. La società ha però un Modello 231 attivo con un OdV (Organismo di Vigilanza). L’OdV riceve una segnalazione anonima che nel reparto contabilità fiscale c’è qualcosa di anomalo. Avvia un audit interno e scopre le compensazioni fittizie prima che la Guardia di Finanza se ne accorga. Segnala al CDA.

Intervento ex ante: Il CDA, resosi conto delle irregolarità, rimuove il CFO e immediatamente provvede a sanare: effettua ravvedimento operoso per l’IVA compensata indebitamente, versando i €200k più interessi e sanzioni. Corregge la dichiarazione dei redditi integrativa prima di controlli, pagando imposte dovute. Poi potenzia i controlli interni (doppia firma su modelli F24).

Esito: Quando l’Agenzia farà un controllo, rileverà magari tardività ma tutto pagato – quindi nessun reato: ravvedimento prima di inizio verifiche esclude punibilità (art.13 D.Lgs.74). Delta S.p.A. evita quindi di essere imputata 231. Il CFO è stato licenziato e potrebbe tuttavia essere denunciato per appropriazione indebita di fondi (se c’erano elementi) ma non per reati tributari (perché nessun danno erariale residuo).

Variante: Se la segnalazione arrivava tardi e la GdF avesse fatto PVC su indebite compensazioni, Delta poteva comunque evitare la condanna pagando prima del dibattimento. Certo avrebbe già l’onta del processo, ma niente sanzione finale. Il Modello 231 ha funzionato come allerta interna: l’ente ha potuto reagire e dimostrare di avere un sistema di controllo – questo la esonera da responsabilità 231 (il reato c’è stato tentato dal CFO, ma l’ente prova che l’OdV ha vigilato efficacemente e appena scoperto ha rimediato). Dunque niente sanzione.

Implicazione: In crisi, le aziende possono essere tentate di tagliare costi di compliance. Delta mostra che investire in compliance salva da guai peggiori. Un Modello 231 ben implementato può far emergere condotte illecite di singoli prima che diventino sistemiche.

Focus PMI su 231: Molte PMI non adottano modelli 231 perché non obbligatorio. Ma se operano in settori a rischio (edilizia, commercio, dove frodi IVA sono possibili) dovrebbero valutarlo. Ci sono modelli semplificati per PMI. Anche una semplice procedura interna su emissione fatture e doppio controllo su dichiarazioni IVA riduce rischi di errori voluti. E se malgrado ciò un reato avviene, la PMI può provare di aver fatto il possibile ed evitare la sanzione societaria, che potrebbe essere fatale.

Conclusione delle simulazioni: Ogni caso evidenzia come le regole apprese si declinano concretamente: l’azienda Alfa con il contenzioso attivo salva liquidità; Beta con gli strumenti concorsuali evita il disastro sociale e ottimizza soddisfazione; Gamma ignorando norme precipita in illegalità e punizione; Delta con la compliance evita incriminazioni. Nella vita reale le situazioni sono complesse, ma una gestione informata e tempestiva fa la differenza tra un esito recuperativo e uno distruttivo.


Fonti normative e giurisprudenziali (aggiornate a maggio 2025)

  • Normativa tributaria (contenzioso): D.Lgs. 31 dicembre 1992 n. 546 (Disposizioni sul processo tributario) – come modificato dalla L. 130/2022 e dai D.Lgs. 119/2023, 120/2023 (ribattezzato D.Lgs. 219/2023 e 220/2023 nei testi consolidati). – Legge 31 agosto 2022 n. 130 (riforma giustizia tributaria); D.Lgs. 30 dicembre 2023 n. 219 (contraddittorio obbligatorio, Statuto contrib. art.6-bis); D.Lgs. 30 dic. 2023 n. 220 (processo tributario telematico e prova testimoniale). – Decreto MEF 24/04/2024 attuativo art.6-bis L.212/2000 (atti esclusi da contraddittorio). – D.Lgs. 24 settembre 2015 n. 156 (precedente riforma, per riferimenti storici). – Statuto del Contribuente: Legge 27 luglio 2000 n. 212, artt. 10, 12, 17, ecc. – Norme su reclamo-mediazione (art.17-bis D.Lgs.546/92) abrogate dal 2024. – Codice di procedura civile (richiamato per aspetti residuali, es. spese, cassazione).
  • Normativa sostanziale tributaria: D.P.R. 600/1973 (accertamento imposte dirette); D.P.R. 633/1972 (IVA); D.L. 78/2010 art. 22 (contrasto evasione); D.Lgs. 471/1997 (sanzioni amm.ve tributarie). Circolari AE in materia di onere prova e contraddittorio (es. Circ. 17/2023 su contraddittorio obbligatorio). – Definizioni agevolate 2023: L. 197/2022 (Bilancio 2023, artt. da 206 in poi) per rottamazione cartelle e definizione liti pendenti.
  • Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza: D.Lgs. 12 gennaio 2019 n. 14, come modificato dal D.L. 118/2021 conv. L. 147/2021 e dal D.Lgs. 17 giugno 2022 n. 83 (attuazione direttiva UE 2019/1023), nonché dal D.Lgs. 16 novembre 2022 n. 173 (correttivo minore). – Principali articoli citati: artt. 2 (definizioni di crisi e insolvenza), 3 (adeguati assetti), 13 (indici allerta), 25-sexies (concordato semplificato), 56 (piano attestato), 57-64 (accordi ristrutturazione, compresi art.61 cram-down banche, 61-bis accordi agevolati 30%, 63 transazione fiscale nei concordati/accordi), 84-88 (concordato continuità), 89-90 (concordato liquidatorio, soglia 20%), 94-102 (procedura concordato), 120-142 (liquidazione giudiziale, effetti, organi), 152-154 (esdebitazione). – Codice Civile: artt. 2086 c.c. (obbligo assetti), 2477 c.c. (organo controllo srl), 2486 c.c. (doveri amministratori in caso scioglimento) e 2485-2487 (cause scioglimento e liquidazione). – Legge 3/2012 (sovraindebitamento) confluita in parte nel CCI (artt. 65-83 concordato minore, 268-277 liquidazione controllata). – D.M. 28 settembre 2021 (parametri composizione negoziata). – Protocollo di Unioncamere e Linee guida sulla composizione negoziata (CNDCEC, 2022). – Allerta creditori pubblici: art. 25-novies CCI (come mod. da D.Lgs. 83/2022) e D.M. attuativi MEF.
  • Diritto penale tributario: D.Lgs. 10 marzo 2000 n. 74 e successive modifiche (DL 124/2019 conv. L.157/2019 che ha inasprito pene e introdotto art.25-quinquiesdecies 231; D.Lgs. 75/2020 recepimento direttiva PIF; D.Lgs. 156/2022 modifiche su reati transnazionali IVA). – Codice Penale art. 2621 (false comunicazioni sociali), art. 216, 217, 223 legge fall. (bancarotta fraudolenta, semplice, bancarotta impropria, confluite negli artt. 322-323 CCI). – D.Lgs. 231/2001 e succ. mod.: art. 25-quinquiesdecies (reati tributari presupposto), art. 6 (modello organizzativo esimente).
  • Giurisprudenza rilevante: Cass., Sez. Un. Civ. n.34447/2019 – su applicabilità art. 14 L.F. (ora art. 256 CCI) transazione fiscale nel concordato (principio del cram-down fiscale anticipato dal legislatore poi nel 2022). – Cass., Sez. Un. Civ. n. 8500/2021 – su onere della prova e ammissibilità nuove prove in appello tributario (precede la norma ma coerente: conferma giudizio tributario di merito con facoltà ampie). – Cass., Sez. Trib. n. 20358/2020 – sul principio di autonomia tra processo penale e tributario: prove irrituali non inutilizzabili ex se nel tributario (ribadito da Cass. 8452/2025). – Cass., Sez. Trib. n. 8452/2025 – vedi sopra, utilizzabilità prove acquisite contra legem nel trib., salvo violazioni diritti fondamentali. – Cass., Sez. V, n.20816/2024 – interpretazione art.7 co.5-bis D.Lgs.546 (onere prova invariato ma “rafforzato” e applicazione solo ai giudizi successivi a 16/9/22). – Cass., SS.UU. Pen. n. 27/2008 – (datata ma basilare) su concordato preventivo: esclusione di punibilità per alcuni reati fallimentari? (no, ma ora c’è nuova disciplina). – Corte Costituzionale n.18/2023 – su confisca e reati tributari: ha dichiarato legittima confisca per equivalente su reati omesso versamento IVA anche se estinto per pagamento integrale (questione di ne bis in idem con sanzione amm.va). – Giurisprudenza di merito su 231: Trib. Milano, sent. ENI 2020 su responsabilità 231 per false fatture (ha condannato società per condotte di dirigenti, multandola) – oramai decine di casi.
  • Fonti amministrative e di prassi: Relazioni illustrative L.130/2022 (Giustizia Trib.); Relazione Ministeriale D.Lgs.83/2022 (attuazione dir. insolvency) – spiega ratio abolizione OCRI e nuovo approccio. – Circolare Agenzia Entrate n.34/2020 su coordinamento transazione fiscale e concordato (post DL 125/2020). – Linee Guida Confindustria Modello 231 (agg. 2021) – sezione sui reati tributari ex L.157/2019. – Comunicati MEF 2024 sull’abrogazione reclamo-mediazione. – Dati Unioncamere sulle composizioni negoziate (Osservatorio 2024: 1450 istanze al 15/5/24).

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