Avvocato Per Crisi Di Liquidità Aziendale, Reati Tributari E Sanzioni

La tua azienda è in crisi di liquidità, non riesci a pagare imposte, contributi e fornitori, e ti preoccupano le possibili conseguenze fiscali e penali? Hai paura di ricevere sanzioni, denunce per omesso versamento o segnalazioni all’Agenzia delle Entrate?

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in crisi d’impresa, reati tributari e difesa da sanzioni fiscali – ti spiega in modo chiaro come affrontare una crisi di liquidità aziendale senza rischiare procedimenti penali o danni irreparabili, quali sono le responsabilità degli amministratori e come agire subito per proteggere l’impresa e i suoi rappresentanti legali.

Scopri quali sono i reati più comuni in caso di crisi finanziaria (omesso versamento IVA, ritenute, indebita compensazione), quali soglie fanno scattare il penale, quando puoi evitare la punibilità con il pagamento o un piano di rientro, e come utilizzare gli strumenti previsti dal Codice della Crisi per regolarizzare la situazione e fermare sanzioni e procedimenti.

Alla fine della guida troverai tutti i contatti per richiedere una consulenza riservata con l’Avvocato Monardo, analizzare lo stato della tua azienda e costruire una strategia legale completa per uscire dalla crisi, evitare responsabilità personali e mettere in sicurezza l’impresa con soluzioni efficaci e protette dalla legge.

Introduzione

La crisi di liquidità aziendale e i reati tributari rappresentano due facce spesso collegate nelle difficoltà delle imprese. Quando un’azienda attraversa un periodo di tensione finanziaria e non riesce a far fronte ai propri impegni, possono insorgere conseguenze legali significative, in primis sul fronte fiscale e penale. Questa guida avanzata – aggiornata a maggio 2025 – è rivolta a avvocati, consulenti legali d’impresa e imprenditori, per fornire un quadro completo e strutturato su come affrontare professionalmente queste problematiche. L’obiettivo è conciliare un taglio tecnico-giuridico accurato con uno stile divulgativo, per rendere accessibili concetti complessi anche ai non addetti ai lavori.

Nei paragrafi che seguono analizzeremo dapprima la crisi di liquidità in tutte le forme societarie (dalla ditta individuale alle società di persone e di capitali), esaminandone le cause, gli obblighi di legge per l’imprenditore in difficoltà e il ruolo strategico dell’avvocato nella prevenzione e gestione della crisi. Successivamente, ci concentreremo sui principali reati tributari previsti dall’ordinamento italiano (D.Lgs. 74/2000) – come le dichiarazioni fraudolente, l’omessa dichiarazione, l’emissione di fatture false, l’omesso versamento di IVA e ritenute, l’indebita compensazione di crediti d’imposta, l’occultamento di documenti contabili, ecc. – fornendo una analisi completa di ciascuno: condotta, soglie di punibilità, sanzioni penali (reclusive) e amministrative, nonché le eventuali cause di non punibilità introdotte dalle norme più recenti (come le esimenti per crisi di liquidità non imputabile e la tenuità del fatto).

Ampio spazio sarà dedicato ai profili sanzionatori, sia penali che amministrativi, illustrando le pene pecuniarie e interdittive applicabili non solo alle persone fisiche (come gli amministratori o imprenditori responsabili), ma anche alle società stesse (in virtù del D.Lgs. 231/2001 sulla responsabilità amministrativa degli enti, che dal 2019 include taluni reati fiscali). Verranno poi descritte le principali misure di prevenzione e gestione della crisi d’impresa oggi disponibili, introdotte dal nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (D.Lgs. 14/2019 e successive modifiche): dagli indicatori precoci di crisi e gli obblighi organizzativi interni, alla procedura di composizione negoziata della crisi, fino agli strumenti di regolazione giudiziale come il concordato preventivo (includendo il recente concordato semplificato) e gli accordi di ristrutturazione dei debiti. Si parlerà anche di pianificazione fiscale preventiva lecita, ossia come una consulenza tempestiva possa aiutare l’imprenditore ad evitare violazioni tributarie adottando soluzioni legittime.

Per concretezza, la guida includerà simulazioni pratiche con dati numerici: ad esempio, verrà mostrato come un flusso di cassa negativo possa condurre all’accumulo di debiti fiscali, illustrando l’impatto di interessi e sanzioni e come certi interventi (come un piano di rateazione o il pagamento parziale entro soglie) possano evitare conseguenze penali. Sono inoltre previste Domande e Risposte (FAQ) per chiarire i dubbi più comuni di imprenditori e professionisti su questi temi. Infine, saranno fornite tabelle riepilogative utili per una consultazione rapida: una tabella dei reati tributari con relative pene e soglie, un calendario delle scadenze fiscali e delle soglie oltre le quali scatta l’illecito penale, e una tabella riassuntiva delle procedure di gestione della crisi applicabili a seconda del tipo di impresa.

Nota: Tutte le informazioni normative e giurisprudenziali sono aggiornate al 2025. Le fonti – leggi, decreti, sentenze e circolari – sono indicate puntualmente con riferimenti bibliografici, e al termine della guida è presente una sezione che elenca tutte le fonti e riferimenti utilizzati per l’elaborazione.

Crisi di liquidità aziendale: cause, obblighi e strumenti di gestione

Cause della crisi di liquidità

Una crisi di liquidità si verifica quando un’azienda non dispone di denaro sufficiente (cassa o disponibilità finanziarie) per far fronte regolarmente ai propri obblighi di pagamento. Questo squilibrio finanziario può colpire qualunque forma giuridica – dalla ditta individuale alla società di persone o società di capitali – e riconosce cause molteplici, spesso concomitanti:

  • Cause economico-gestionali interne: cattiva gestione finanziaria, crescita eccessivamente rapida non sostenuta da capitali adeguati, overtrading, margini di profitto insufficienti, costi fissi troppo elevati o investimenti sbagliati. Ad esempio, un’impresa commerciale che accumula scorte invendute o offre pagamenti dilazionati troppo lunghi ai clienti potrebbe ritrovarsi senza liquidità per pagare fornitori e tasse.
  • Cause finanziarie e di credito: difficoltà di accesso al credito bancario o revoca di linee di fido, tassi d’interesse in aumento che aggravano gli oneri finanziari, incapacità di ottenere nuovi capitali o soci finanziatori. Spesso una crisi bancaria o restrizioni creditizie generali (credit crunch) possono mettere in sofferenza anche imprese altrimenti sane.
  • Cause esterne di mercato: calo improvviso del fatturato dovuto a crisi di settore, perdita di clienti chiave, concorrenza aggressiva o innovazioni tecnologiche che rendono obsoleti i prodotti dell’azienda. Eventi eccezionali come pandemie (si pensi al COVID-19), conflitti geopolitici o shock economici possono ridurre drasticamente la domanda o interrompere le catene di fornitura.
  • Mancati incassi da terzi: una delle cause più insidiose di crisi di liquidità è il mancato pagamento da parte dei clienti. Se l’azienda vanta crediti importanti verso clienti insolventi o in ritardo, il flusso di cassa in entrata si riduce. Questo aspetto è cruciale: l’inesigibilità di crediti dovuta all’insolvenza di terzi (es. clienti che falliscono o ritardano i pagamenti) è ora riconosciuta espressamente dalla legge come fattore di crisi non imputabile all’imprenditore. Un caso tipico è il fornitore che ha emesso fatture a un grosso cliente poi fallito: si trova ad aver fatturato (e magari ad aver già conteggiato quell’IVA a debito), ma non ha mai incassato il corrispettivo.
  • Ritardi nei pagamenti da parte della Pubblica Amministrazione: similmente al caso precedente, in Italia è frequente che imprese fornitrici della P.A. subiscano pagamenti differiti di mesi o anni. Un credito certo, liquido ed esigibile verso enti pubblici non pagato nei tempi dovuti può generare una crisi di liquidità per l’impresa appaltatrice, che intanto deve continuare a pagare dipendenti, fornitori e imposte. Anche questo fattore è ora indicato dalla normativa come esimente in caso di omessi versamenti fiscali, se causa diretta della crisi.
  • Altre cause esterne o straordinarie: eventi di forza maggiore come calamità naturali, eventi catastrofici (incendi, alluvioni) che colpiscono stabilimenti o magazzini, oppure provvedimenti legislativi improvvisi (es. abolizione di incentivi, introduzione di dazi, embargo su mercati chiave) possono creare uno stress finanziario immediato. Un esempio è l’azienda il cui stabilimento viene sequestrato o bloccato per motivi ambientali o giudiziari: l’attività si interrompe e la liquidità si prosciuga.

In genere, una crisi di liquidità non si manifesta all’improvviso. Spesso esistono segnali premonitori (i cosiddetti indicatori di crisi) che, se colti per tempo, consentono di correre ai ripari. Tra questi indicatori rientrano: perdite di esercizio ricorrenti che erodono il patrimonio, flussi di cassa prospettici inadeguati a coprire le uscite dei successivi 6-12 mesi, aumento anomalo dei debiti scaduti (verso fornitori, banche o Erario), utilizzo sistematico oltre il consentito delle linee di fido, nonché indicatori quantitativi introdotti dalla normativa come indici di bilancio (ad esempio l’indice di liquidità, l’indice di indebitamento, il Debt Service Coverage Ratio – DSCR) inferiori a certe soglie. Secondo il Codice della crisi d’impresa, la “crisi” è definita proprio come “lo stato del debitore che rende probabile l’insolvenza e si manifesta con l’inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte alle obbligazioni nei successivi dodici mesi”. Un monitoraggio costante di questi parametri aiuta l’imprenditore (e i suoi consulenti) a riconoscere per tempo le tensioni di liquidità e ad attivare le contromisure disponibili.

Obblighi legali del debitore e dell’imprenditore in crisi

La legge italiana impone all’imprenditore una serie di obblighi volti a prevenire e gestire la crisi, soprattutto dopo la riforma introdotta dal Codice della crisi d’impresa (D.Lgs. 14/2019 e correttivi seguenti). Tali obblighi si applicano in misura diversa a seconda della forma giuridica e dimensione dell’impresa, ma esprimono un principio comune: l’imprenditore deve adottare assetti organizzativi adeguati e attivarsi tempestivamente quando la propria azienda mostra segnali di difficoltà finanziaria.

  • Obbligo di assetti organizzativi adeguati (art. 2086 c.c.): ogni imprenditore che operi in forma societaria o collettiva ha il dovere di istituire un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alla dimensione dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi e della perdita di continuità aziendale. Questa norma, introdotta dall’art. 375 del D.Lgs. 14/2019, significa in pratica che l’azienda deve dotarsi di strumenti di controllo di gestione, sistemi di monitoraggio dei flussi di cassa, e procedure interne che consentano di cogliere immediatamente l’emersione di squilibri (per esempio, budget finanziari, reporting periodico, indicatori di allerta). L’amministratore che omette di predisporre tali misure può essere chiamato a rispondere delle conseguenze negative (si pensi all’aggravamento del dissesto) e rischia sanzioni civili e talvolta penali per mala gestio.
  • Dovere di non aggravare il dissesto: una volta che l’impresa si trova in stato di crisi conclamata o insolvenza, l’imprenditore (o gli amministratori, se trattasi di società) non devono aggravare ulteriormente la situazione. Ciò implica, ad esempio, il divieto di compiere operazioni gravemente imprudenti che aumentino l’esposizione debitoria, la dilapidazione dell’attivo residuo, o di favorire alcuni creditori a discapito di altri (pagamenti preferenziali potenzialmente soggetti a revocatoria fallimentare). Nel vecchio regime della Legge Fallimentare, l’omesso tempestivo ricorso a procedure concorsuali poteva integrare la bancarotta semplice per aggravamento del dissesto. Oggi permane il principio che l’imprenditore in crisi non può restare inerte: se la situazione rischia di precipitare, deve attivarsi (es. mediante strumenti di allerta o procedure di composizione negoziata, come vedremo). Inoltre, compiere atti dissipativi o distrarre beni ai danni dei creditori può configurare reati specifici (come la sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, ex art. 11 D.Lgs. 74/2000, in caso di debiti fiscali – reato che tratteremo più avanti – o, in sede fallimentare, la bancarotta fraudolenta patrimoniale ex art. 216 L.F. / art. 322 Codice della crisi).
  • Obbligo di segnalazione e gestione tempestiva (strumenti di allerta): il Codice della crisi d’impresa aveva originariamente previsto un sistema di allerta e segnalazione obbligatoria degli indizi di crisi da parte di organi di controllo interni (sindaci, revisori) e di creditori pubblici qualificati (Agenzia Entrate, INPS, ecc.). Tale sistema è stato in parte rivisto e sostituito dalla composizione negoziata (procedura volontaria). Restano però obblighi di segnalazione interna: ad esempio, l’organo di controllo societario deve avvisare immediatamente gli amministratori quando rileva fondati indizi di crisi, sollecitandoli ad attivarsi (art. 24 D.Lgs. 14/2019). Se gli amministratori trascurano l’allerta, l’organo di controllo può riferire al tribunale per la convocazione d’ufficio dell’impresa in crisi. Anche i creditori pubblici (come l’Agenzia delle Entrate, l’INPS e l’Agente della Riscossione) hanno tuttora obblighi di segnalazione se i debiti tributari/previdenziali superano determinate soglie, al fine di sollecitare l’imprenditore a intervenire (le soglie sono state riviste nel 2022).
  • Obbligo di conservazione delle scritture contabili: qualsiasi imprenditore commerciale è tenuto a tenere i libri contabili in modo regolare (artt. 2214 c.c. e seguenti). In tempi di crisi, può esserci la tentazione di “aggiustare” o occultare le scritture per nascondere il dissesto; ciò è fortemente vietato e integraziona reato (occultamento o distruzione di documenti contabili, art. 10 D.Lgs. 74/2000). L’obbligo qui è quindi di trasparenza e correttezza contabile anche nelle avversità: le scritture devono riflettere la reale situazione. La mancata tenuta di libri può inoltre precludere l’accesso ad alcune procedure di gestione della crisi e comportare responsabilità personali.
  • Dovere di chiedere procedura concorsuale in caso di insolvenza: se lo stato di insolvenza non è più reversibile, l’imprenditore (o gli amministratori della società) hanno il dovere di attivarsi per un procedimento concorsuale (che oggi è la liquidazione giudiziale, ex “fallimento”, o un concordato preventivo liquidatorio). Trascinare un’azienda tecnicamente fallita senza prendere provvedimenti espone gli amministratori a gravi rischi di responsabilità. Il Codice della crisi impone la presentazione tempestiva della domanda di accesso a una procedura di insolvenza, e il ritardo ingiustificato può essere valutato negativamente dal tribunale (con possibili sanzioni civili quali l’inabilitazione all’esercizio di imprese commerciali, oltre alle eventuali fattispecie penali fallimentari se dall’insolvenza prolungata derivano danni ai creditori).

Riassumendo, la legge richiede all’imprenditore un comportamento proattivo e leale nella gestione della crisi: predisporre strumenti per intercettarla subito, non aggravare la situazione una volta innescata, e cercare soluzioni (negoziali o giudiziarie) per regolare i debiti. L’inosservanza di questi obblighi può comportare, oltre al peggioramento del dissesto, responsabilità personali per l’imprenditore o gli organi sociali, quali: azioni di responsabilità per mala gestione da parte di creditori o curatori, applicazione di misure interdittive (come l’inabilitazione all’attività d’impresa), o nei casi più gravi imputazioni penali (si pensi ai reati di bancarotta, o – sul versante fiscale – ai reati tributari connessi a comportamenti illeciti nel tentativo di evitare il pagamento di imposte). Ad esempio, distrarre beni dell’azienda per sottrarli ai creditori fiscali può integrare il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 11), punito con la reclusione e sanzioni pecuniarie significative.

Il ruolo dell’avvocato nella prevenzione e nella gestione della crisi

In uno scenario di crisi aziendale, il ruolo di un avvocato esperto di diritto fallimentare e tributario diventa cruciale sia in fase preventiva che nella gestione attiva della crisi stessa. Gli avvocati d’impresa con competenze specifiche possono affiancare l’imprenditore in molteplici modi:

  • Consulenza preventiva e di compliance: un avvocato può aiutare l’azienda a predisporre quel sistema di monitoraggio e controllo che la legge oggi impone. Ciò include la redazione o revisione di procedure interne per la segnalazione di indizi di crisi, la verifica dell’adeguatezza degli assetti societari e contrattuali, e la formazione degli amministratori sui nuovi obblighi. Inoltre, l’avvocato collabora con i consulenti contabili nel calcolo e nell’interpretazione degli indicatori di crisi predisposti dal CNDCEC (Consiglio dei Dottori Commercialisti) e recepiti dal legislatore, così da individuare con anticipo eventuali squilibri.
  • Pianificazione legale e fiscale: se l’azienda attraversa tensioni di liquidità temporanee, l’avvocato può suggerire mosse strategiche per evitare di incorrere in violazioni di legge. Ad esempio, può consigliare di prioritizzare determinati pagamenti obbligatori (stipendi, ritenute fiscali, IVA) per non incappare in reati tributari, magari ricorrendo a strumenti di rateizzazione fiscale (previsti dal D.Lgs. 462/1997 e altre normative) per diluire il debito tributario senza incorrere nel reato di omesso versamento. Allo stesso tempo, l’avvocato può studiare operazioni di risanamento aziendale (trasformazioni societarie, aumenti di capitale, cessioni di asset non strategici) da realizzare in sicurezza giuridica, evitando atti suscettibili di revocatoria o contestazioni di abuso del diritto. La pianificazione tributaria preventiva lecita è un aspetto fondamentale: sfruttare regimi agevolati, incentivi fiscali o rinegoziare scadenze con l’Erario (ad esempio richiedendo una dilazione in presenza di temporanea difficoltà) può ridurre il rischio che la crisi di liquidità sfoci in un illecito penale tributario.
  • Negoziazione con creditori e composizione stragiudiziale: l’avvocato d’affari è spesso il regista delle trattative con i principali creditori quando l’azienda vuole evitare di ricorrere ai tribunali. Egli può predisporre piani di ristrutturazione del debito da sottoporre ai creditori, condurre trattative per concordare moratorie sui pagamenti (ad esempio accordi standstill con le banche) e redigere accordi transattivi. Dal 2021, con l’introduzione della composizione negoziata della crisi, l’avvocato assiste l’imprenditore nell’accesso a questa procedura volontaria, curando la presentazione dell’istanza alla piattaforma telematica, interfacciandosi con l’esperto nominato e negoziando le possibili soluzioni (che possono culminare in accordi con i creditori o altre soluzioni concordatarie). Il ruolo negoziale dell’avvocato è essenziale per guadagnare tempo e proteggere l’azienda da azioni esecutive: ad esempio, può presentare in tribunale una richiesta di misure protettive (stay of proceedings) per sospendere temporaneamente azioni cautelari o esecutive dei creditori durante le trattative.
  • Assistenza nelle procedure concorsuali: se la crisi non può essere risolta informalmente, l’avvocato guida l’imprenditore nella scelta e nell’espletamento della procedura concorsuale più adatta. Questo include la preparazione della domanda di concordato preventivo (in continuità o liquidatorio) con il relativo piano e proposta, oppure dell’istanza di liquidazione giudiziale (ex fallimento) laddove inevitabile, curando tutta la documentazione richiesta (dalla relazione sulla situazione patrimoniale all’elenco dei creditori, etc.). L’avvocato rappresenta l’impresa nelle udienze davanti al tribunale fallimentare, negozia con il commissario giudiziale o curatore per massimizzare la soddisfazione dei creditori ed evitare contestazioni. Importante: in caso di concordato preventivo, il legale valuta attentamente anche gli aspetti fiscali (ad esempio la richiesta di transazione fiscale per il trattamento dei debiti tributari e contributivi all’interno del concordato) e quelli penali: la presentazione di una domanda di concordato può, in taluni casi, evitare l’insorgere di nuovi reati (si pensi all’omesso versamento IVA che scatta se non paghi entro certe scadenze: se la procedura concorsuale interviene, i termini impositivi potrebbero essere considerati diversamente).
  • Tutela legale e difesa penale: se la crisi ha già prodotto strascichi penali (ad esempio una denuncia per un reato tributario, o un’inchiesta per bancarotta preferenziale), l’avvocato penalista d’impresa assume la difesa dell’imprenditore. In questo scenario, il legale dovrà dimostrare – dati contabili e normativi alla mano – le cause del comportamento contestato. Ad esempio, nel caso di un’omessa dichiarazione dei redditi, potrà evidenziare che l’imprenditore era impossibilitato a farvi fronte per cause di forza maggiore o che ha successivamente ravveduto la violazione pagando il dovuto (circostanza che, come vedremo, può escludere la punibilità ai sensi dell’art. 13 D.Lgs. 74/2000). Ancora, nei procedimenti per omesso versamento IVA o ritenute, l’avvocato oggi ha un importante strumento difensivo in più: se può provare che l’omissione dipende da una crisi di liquidità non imputabile al cliente – ad esempio dovuta all’insolvenza di un debitore di quest’ultimo – potrà invocare la nuova causa di non punibilità introdotta nel 2024 (art. 13 comma 3-bis). La difesa penale in questi casi diventa molto tecnica, richiedendo competenze interdisciplinari di diritto penale e fallimentare/tributario per articolare strategie come richieste di patteggiamento con attenuanti, sospensione del procedimento per consentire il pagamento del debito tributario (strumento anch’esso potenziato dalla riforma del 2023-2024) o dimostrazioni peritali sulla situazione economica dell’azienda al fine di escludere il dolo.

In sintesi, l’avvocato funge sia da consulente strategico che da difensore dell’imprenditore: anticipa i problemi e suggerisce vie d’uscita prima che diventino ingestibili, e allo stesso tempo assicura che nella gestione della crisi siano rispettate le norme (limitando la responsabilità personale) e che l’imprenditore possa accedere a tutte le tutele di legge disponibili (come esimenti penali, esdebitazioni, ecc.). La collaborazione tra imprenditore, avvocato, commercialista e altri advisor è fondamentale per affrontare una crisi d’impresa con un approccio olistico, minimizzando danni economici e legali.

Strumenti giuridici di composizione della crisi (D.Lgs. 14/2019 e succ. mod.)

La legislazione italiana, specialmente con l’entrata in vigore del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (CCI, D.Lgs. 14/2019, in vigore dal 15 luglio 2022), mette a disposizione una serie di strumenti di regolazione della crisi che l’imprenditore (assistito dai suoi professionisti) può attivare. Tali strumenti si dividono in due macro-categorie:

  • Procedure stragiudiziali o ibride (negoziali): volte a gestire la crisi evitando se possibile l’insolvenza conclamata e l’apertura di procedure giudiziarie “tradizionali”. Vi rientrano l’innovativa composizione negoziata della crisi, nonché gli accordi di ristrutturazione dei debiti e i piani attestati di risanamento (che, pur essendo di natura privata, godono di alcune tutele di legge).
  • Procedure concorsuali giudiziali: attivate sotto il controllo del tribunale, come il concordato preventivo (e la variante introdotta di concordato “semplificato”) e la liquidazione giudiziale (il nuovo nome del fallimento). Sono procedure più invasive, ma spesso necessarie se la crisi è avanzata.

Analizziamo i principali strumenti oggi disponibili, con riferimento a quali tipi di imprese possono accedervi e in quali circostanze:

1. Composizione negoziata della crisi: introdotta con il D.L. 118/2021 (convertito con L. 147/2021) e ora stabilizzata nel Codice della crisi, è una procedura volontaria e riservata attivabile da qualsiasi imprenditore commerciale o agricolo (di qualunque dimensione) che si trovi in condizioni di squilibrio economico-finanziario. A differenza dell’originario sistema di allerta obbligatoria (soppresso prima di entrare in vigore), qui è l’imprenditore che chiede aiuto nominando un esperto indipendente. In pratica, si presenta un’istanza tramite una piattaforma telematica gestita dalle Camere di Commercio; un’apposita commissione nomina un esperto (di norma un professionista iscritto in un elenco specifico) che affiancherà l’imprenditore nel tentativo di negoziare con i creditori una soluzione stragiudiziale. La composizione negoziata dura generalmente 3 + 3 mesi, durante i quali l’impresa può chiedere al tribunale delle misure protettive (come il divieto per i creditori di iniziare o proseguire azioni esecutive o cautelari). L’esperto convoca i creditori principali e cerca un accordo che può assumere varie forme: accordi stragiudiziali bilaterali, un accordo di ristrutturazione dei debiti (se si raggiunge l’adesione di creditori rappresentanti almeno il 60% dei crediti) o anche la preparazione di un piano di concordato preventivo. La legge ha recentemente ampliato le possibilità negoziali: ad esempio, nel corso della composizione negoziata è ora possibile concludere una transazione fiscale con l’Agenzia delle Entrate per ridurre/rateizzare i debiti tributari, senza dover passare per forza dal concordato preventivo. La composizione negoziata è uno strumento flessibile: non è una procedura concorsuale, l’imprenditore rimane in possesso dell’azienda (debtor in possession), ma beneficia di un periodo di pace dai creditori e di una regia indipendente. È confidenziale (salvo si chiedano le misure protettive, che sono pubblicate al R.I.) e, in caso di esito positivo, permette di evitare il “marchio” di una procedura concorsuale pubblica. Qualora però la negoziazione non abbia successo, l’imprenditore potrà comunque passare a una delle soluzioni giudiziali (concordato o liquidazione). Importante: la normativa incentiva l’utilizzo tempestivo di questo strumento prevedendo, come vedremo, benefici penali in caso di successiva procedura; inoltre, la semplice pendenza di una composizione negoziata può essere valutata per escludere il dolo nei reati di omesso versamento (lo “stato di crisi” del debitore è ora un indice per la tenuità del fatto).

2. Concordato preventivo: è la tradizionale procedura concorsuale giudiziale che consente all’impresa in crisi o insolvenza di proporre ai creditori un piano per evitare la liquidazione fallimentare. Può accedervi qualunque imprenditore commerciale assoggettabile a fallimento (oggi liquidazione giudiziale), quindi generalmente imprese medio-grandi che superano le soglie dell’art. 2 CCI (ricavi oltre €200.000, attivo patrimoniale oltre €300.000, debiti oltre €500.000 circa – parametri che definiscono l’“impresa minore”). Il concordato può essere in continuità aziendale (se prevede la prosecuzione dell’attività, pure attraverso cessione dell’azienda a terzi) oppure liquidatorio (se si limita a liquidare il patrimonio). La presentazione di una domanda di concordato in bianco (con riserva) o con piano allegato comporta l’apertura della procedura e la protezione dai creditori (automatic stay), similmente alle misure protettive della composizione negoziata ma in un quadro formale. Nel concordato, a differenza della composizione negoziata, è necessario il voto dei creditori: il piano è approvato se votato favorevolmente dalle maggioranze di legge (maggioranza di crediti in ogni classe, e 2/3 del totale se classi multiple). Il tribunale poi omologa il concordato, rendendolo vincolante per tutti i creditori anteriori. Il concordato preventivo è stato oggetto di varie modifiche nel 2022 per recepire la Direttiva UE 2019/1023: ora sono possibili concordati “misti” (continuità parziale e liquidazione parziale), cram-down sui creditori dissenzienti (anche sulle classi dissenzienti, purché certe condizioni siano rispettate), e nuove tipologie come il concordato semplificato di cui sotto. Il concordato preventivo offre benefici penali indiretti: l’omologazione del concordato può estinguere i reati fallimentari minori e in generale consente all’imprenditore di evitare la dichiarazione di fallimento (con tutte le conseguenze anche penali che quest’ultima porta per eventuali pregresse malversazioni). Tuttavia, ai fini dei reati tributari, la pendenza di un concordato non estingue di per sé l’obbligo di versare imposte dichiarate: se un contribuente in concordato omologato non paga IVA o ritenute, tecnicamente il reato di omesso versamento potrebbe ancora sussistere fino a pochi mesi fa. Con la riforma 2023-2024, tuttavia, è stato chiarito che il pagamento dilazionato anche nell’ambito di procedure concorsuali è una causa che impedisce sequestri/confische e sospende la punibilità finché il debitore è in regola con il piano di pagamento concordato. In pratica, l’esecuzione del concordato con regolare pagamento delle percentuali ai creditori, Fisco compreso, mette al riparo da sanzioni penali.

3. Concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio: si tratta di una novità introdotta nel 2021 e confermata nel Codice della crisi. È uno strumento eccezionale utilizzabile solo se la composizione negoziata di cui al punto 1 fallisce per mancato accordo. In tal caso, l’imprenditore, entro 60 giorni dalla comunicazione di esito negativo delle trattative, può proporre al tribunale un concordato “semplificato” che prevede esclusivamente la liquidazione dei beni dell’impresa e la distribuzione del ricavato ai creditori, senza il voto di questi ultimi. Il tribunale valuta la proposta, sente i creditori in camera di consiglio, ma può omologarla anche senza il loro consenso formale, se ritiene che il piano soddisfi al meglio gli interessi dei creditori rispetto all’alternativa liquidatoria pura. Il concordato semplificato è quindi una scorciatoia, pensata per evitare che dopo una composizione negoziata andata male l’unica opzione sia il fallimento: l’imprenditore onesto che ha tentato la negoziazione può ancora salvare il salvabile proponendo al giudice una distribuzione controllata dell’attivo. Chiaramente, questo strumento non permette la continuazione dell’azienda (si liquida tutto), ma consente ad esempio di vendere l’azienda in blocco o rami di essa prima della liquidazione, massimizzando il valore. Per gli aspetti penali, vale quanto detto sul concordato: la pendenza di un concordato semplificato dovrebbe proteggere da nuove iniziative dei creditori e, se omologato e adempiuto, realizzare il pagamento (seppur parziale) dei debiti fiscali riducendo l’esposizione per reati tributari. Da notare che la Cassazione ha escluso la possibilità di un concordato semplificato in continuità – è ammesso solo liquidatorio – dunque se si vuole salvare l’azienda come attività occorre ripiegare sul concordato preventivo tradizionale.

4. Accordi di ristrutturazione dei debiti (ADR): sono accordi giuridicamente vincolanti tra l’imprenditore e una parte qualificata dei suoi creditori, che ottengono efficacia esecutiva mediante l’omologazione da parte del tribunale. L’art. 57 CCI (ex art. 182-bis L.F.) prevede che l’imprenditore in crisi possa stipulare un accordo con creditori rappresentanti almeno il 60% dei crediti, che – se idoneo ad assicurare l’integrale pagamento dei creditori estranei nei 120 giorni dalle scadenze – viene omologato dal tribunale. Rispetto al concordato, l’ADR non coinvolge tutti i creditori (solo quelli che aderiscono sono vincolati, gli altri sono pagati per intero) e non c’è voto formale: è sufficiente raccogliere le adesioni necessarie e la verifica giudiziale è più snella. Il vantaggio è la riservatezza e rapidità: l’accordo può restare riservato, e l’omologa in genere è più veloce di un concordato. Nel 2022 sono stati introdotti alcuni tipi speciali di ADR, recependo la direttiva europea: ad esempio l’accordo di ristrutturazione agevolato, con soglia di adesione ridotta al 30% (ma senza protezione automatica per i creditori estranei) e l’accordo ad efficacia estesa a determinate classi di creditori finanziari o fornitori essenziali, anche se non tutti consenzienti. Inoltre, è ora ammesso l’accordo di ristrutturazione con intervento del tribunale (“cram-down” sui non aderenti) per alcuni creditori dissenzienti se soddisfatti in misura non inferiore rispetto a scenari alternativi. Questi tecnicismi vanno oltre lo scopo immediato, ma vale sapere che il panorama degli ADR è stato reso più flessibile. Un accordo di ristrutturazione può includere al suo interno una componente di transazione fiscale e contributiva (art. 63 CCI, ex art. 182-ter L.F.) per la parte di debiti verso Erario ed enti previdenziali: ciò consente, previo parere della Agenzia delle Entrate o dell’INPS, di stralciare parzialmente o dilazionare tali debiti, soluzione spesso indispensabile perché lo Stato è di frequente il maggior creditore delle imprese in crisi. Sul piano penale, l’omologazione di un ADR che preveda il pagamento, anche parziale concordato, dei debiti tributari potrebbe attivare la causa di non punibilità per avvenuto pagamento prima della sentenza (a maggior ragione dopo le novità del 2023, che estendono fino all’appello la possibilità di estinguere i reati pagando). Inoltre, finché un accordo in corso di omologa sospende le azioni esecutive, l’imprenditore può evitare ulteriori inadempienze fiscali e dunque prevenire nuovi reati tributari.

5. Piani attestati di risanamento (art. 56 CCI, ex art. 67 L.F.): sono piani di risanamento predisposti dall’imprenditore e asseverati da un professionista indipendente, che però restano accordi privati senza omologazione giudiziale. In pratica l’impresa elabora un piano finanziario per superare la crisi, un professionista ne attesta la fattibilità e veridicità dei dati, e l’impresa conclude accordi bilaterali con i creditori sulla base di quel piano (ad esempio rinegoziazione scadenze, remissioni parziali). Il vantaggio principale del piano attestato, se eseguito, è l’esenzione da revocatoria fallimentare: i pagamenti e le operazioni compiute in attuazione di un piano attestato non possono essere revocati in un successivo fallimento, a patto che il piano sia idoneo a risanare l’impresa. Ciò incentiva i creditori a collaborare, sapendo che i pagamenti ricevuti sono “blindati”. È uno strumento adatto a crisi reversibili e non troppo estese, dove pochi creditori chiave partecipano. Dal punto di vista dell’imprenditore, il piano attestato richiede comunque trasparenza e un check professionale. Non c’è coinvolgimento del tribunale se non ex post (in caso di contestazioni di fraude), e non c’è protezione dalle azioni individuali dei creditori durante la negoziazione (a differenza di ADR o concordato). Tuttavia, l’imprenditore può combinare questo strumento con la composizione negoziata: ad esempio, usare la cornice protettiva della negoziazione per definire accordi che poi confluiscono in un piano attestato. Riguardo ai profili penali, anche qui il beneficio è indiretto: un piano attestato concluso con successo significa che l’azienda è risanata, i debiti (fiscali compresi) sono stati onorati o ripianati, e dunque eventuali reati di omesso versamento possono essere scongiurati (grazie al pagamento integrale entro i termini previsti dalla legge per la non punibilità, ad esempio).

6. Liquidazione giudiziale (ex fallimento) e liquidazione controllata: quando la prosecuzione dell’attività non è possibile e non si riesce a trovare accordo con i creditori, resta l’ultima ratio della liquidazione concorsuale. La liquidazione giudiziale (disciplinata dal Titolo V CCI) corrisponde all’antico fallimento: il tribunale, accertato lo stato di insolvenza su ricorso del debitore o di un creditore, apre la procedura nominando un curatore che gestisce l’impresa (spesso interrompendone l’attività) e liquida l’attivo per distribuire il ricavato ai creditori secondo le regole del concorso. Le imprese di piccole dimensioni, non soggette a fallimento, se insolventi possono essere assoggettate alla liquidazione controllata (procedura prevista per il sovraindebitamento, applicabile a consumatori, piccoli imprenditori sotto soglia, imprenditori agricoli, start-up innovative, etc.). In entrambi i casi, di per sé la liquidazione ha l’effetto di cristallizzare la situazione debitoria e spesso comporta la cessazione dell’azienda come attività economica (salvo esercizio provvisorio autorizzato in casi eccezionali). Dal punto di vista dell’imprenditore, la dichiarazione di liquidazione giudiziale apre il campo a possibili responsabilità penali fallimentari (bancarotta fraudolenta o semplice) se sono riscontrate irregolarità nella gestione precedente. Questi reati esulano dalla presente trattazione in dettaglio, ma è importante segnalare che una corretta gestione della fase di crisi prima del fallimento può evitare o attenuare il rischio di imputazioni per bancarotta. Ad esempio, aver tempestivamente avviato una composizione negoziata o tentato un concordato, pur non riuscito, può dimostrare l’assenza di dolo nell’aggravamento del dissesto. Inoltre, l’imprenditore individuale o i soci illimitatamente responsabili, al termine della liquidazione, possono chiedere l’esdebitazione (liberazione dai debiti residui), beneficio che è concesso se hanno collaborato lealmente e non vi sono condotte fraudolente. Dunque anche in liquidazione, comportamenti virtuosi e collaborazione possono avere ricadute favorevoli (in primis evitare sanzioni penali o ottenere la remissione dei debiti).

Misure protettive e incentivi penali: La recente normativa ha introdotto incentivi significativi per l’imprenditore che attiva per tempo uno di questi strumenti di gestione della crisi. Ad esempio, il D.Lgs. 14/2019 (art. 25) prevedeva l’esclusione o attenuazione di talune pene di bancarotta se prima del fallimento era stata presentata domanda di concordato poi non ammesso per motivi non imputabili al debitore. Ma ancor più rilevante per il nostro contesto: la riforma dei reati tributari del 2023-2024 ha inserito tra gli indici per valutare la particolare tenuità di un omesso versamento anche “lo stato di crisi del debitore, come definito dall’art. 2, c.1, lett. a) del Codice della crisi”. Ciò significa che se un reato fiscale (ad esempio non aver versato l’IVA) è commesso mentre l’impresa versa in conclamata crisi (crisi non transitoria, flussi insufficienti), il giudice deve tenere in speciale considerazione questo fatto nel valutare se il caso è di lieve entità e meritevole di non punibilità per tenuità. Inoltre, il nuovo art. 13 comma 3-ter D.Lgs. 74/2000 richiede espressamente di considerare come fattore la circostanza che il debito tributario sia in fase di estinzione mediante una procedura di rateazione o concorsuale. In parole semplici: se l’imprenditore sta pagando il Fisco attraverso un piano concordato (anche in concordato preventivo o in un accordo omologato) e il residuo debito è calante, ciò pesa a suo favore per evitare la condanna (in aggiunta agli effetti di non punibilità per pagamento integrale, di cui diremo). Queste innovazioni segnalano come diritto della crisi d’impresa e diritto penale tributario siano oggi strettamente interconnessi: la legge incoraggia l’imprenditore in difficoltà a utilizzare gli strumenti di composizione della crisi, offrendo in cambio uno scudo o un trattamento di favore sul piano sanzionatorio. Nel prossimo capitolo, esaminando i reati tributari in dettaglio, vedremo come queste misure si traducono in cause di non punibilità o attenuanti specifiche.

Reati tributari: tipologie, soglie e sanzioni

Gli illeciti penali in materia fiscale (i cosiddetti reati tributari) sono disciplinati principalmente dal D.Lgs. 10 marzo 2000 n. 74, che contiene la “Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto”. Questa normativa è stata più volte modificata negli anni (da ultimo in maniera sostanziale con il D.Lgs. 158/2015 e con la riforma attuata col D.Lgs. 75/2020 e D.Lgs. 87/2024) per adeguare la risposta punitiva all’evoluzione dei fenomeni evasivi e ai vincoli europei. In generale, i reati tributari colpiscono i comportamenti fraudolenti o gravemente evasivi del contribuente, distinguendosi in varie fattispecie a seconda della condotta: reati dichiarativi (frode o infedele dichiarazione, omessa dichiarazione), reati di emissione/uso di documenti falsi, reati di occultamento di contabilità e reati omissivi di versamento di imposte dovute. Analizzeremo ciascuna categoria.

Va premesso che non ogni evasione fiscale integra reato: la maggior parte delle violazioni fiscali sono punite in via amministrativa con sanzioni pecuniarie (multe) dall’Agenzia delle Entrate. Diventa penale solo l’evasione più grave, delineata da precise soglie di punibilità (importi evasi o occultati oltre determinati limiti) oppure caratterizzata da condotte fraudolente (es. utilizzo di false fatture). Di seguito presentiamo i principali reati tributari, con riferimento all’articolo di legge, una descrizione della condotta, le soglie di rilevanza penale e le sanzioni previste, evidenziando anche eventuali aggravanti, attenuanti e novità normative in vigore al 2025.

Reati dichiarativi: frodi fiscali e dichiarazione infedele

1. Dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti (art. 2 D.Lgs. 74/2000): è forse il reato tributario più noto, quello delle “false fatturazioni”. Si configura quando un contribuente, al fine di evadere le imposte sui redditi o l’IVA, inserisce in una dichiarazione fiscale elementi passivi fittizi avvalendosi di fatture o altri documenti che attestano operazioni inesistenti. In pratica, l’azienda registra costi mai sostenuti (o gonfiati) utilizzando fatture false, per abbattere l’utile e pagare meno imposte, oppure per creare crediti IVA finti da compensare. Soglie: Dopo la riforma del 2015, qualunque importo di false fatture comporta il reato, ma ne è stata introdotta una forma attenuata per casi di minore entità. In dettaglio, l’art. 2 prevede: se l’importo degli elementi passivi fittizi è pari o superiore a €100.000 (per periodo d’imposta), la pena base è la reclusione da 4 a 8 anni; se invece l’importo è inferiore a €100.000, si applica la reclusione da 1 anno e 6 mesi fino a 6 anni. Quest’ultima ipotesi è l’art. 2 comma 2-bis, introdotto nel 2019, che ha abbassato la gravità per le frodi di piccola dimensione (prima la soglia era espressa in vecchie lire, circa €154.000). Sanzioni: la reclusione è dunque medio-alta, e trattandosi di delitto non è prevista oblazione. Sono inoltre previste pene accessorie alla condanna, come l’interdizione dai pubblici uffici (per 1-3 anni, se l’importo supera €154.937, ossia le vecchie 300 milioni di lire) e l’interdizione dagli uffici direttivi di società per 6 mesi-3 anni. Dal lato delle persone giuridiche, questo reato rientra tra quelli che possono far sorgere la responsabilità amministrativa dell’ente ex D.Lgs. 231/2001, art. 25-quinquiesdecies: per l’uso di false fatture (art. 2 comma 1) la società può essere sanzionata fino a 500 quote di multa (che in valore possono arrivare a circa €775.000), oltre a sanzioni interdittive come divieto di contrattare con la P.A., ecc.. Note difensive: trattandosi di reato a dolo specifico (fine di evadere), la presenza di fatture oggettivamente false è di solito prova forte del dolo. Non vi sono soglie di imposta evasa – il fulcro è l’utilizzo di documenti falsi. La causa di non punibilità per pagamento integrale del debito tributario (art. 13) non si applica a questo reato (vale solo per alcuni reati omissivi, v. oltre). È invece possibile in alcuni casi il riconoscimento della particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis c.p., se l’importo fraudolento è molto basso e la condotta occasionale – sebbene la Cassazione sia tradizionalmente restia ad applicarla nelle frodi serie. Una circostanza attenuante specifica (art. 13-bis) è prevista se, prima del dibattimento, il contribuente ravvede le false fatture presentando dichiarazione integrativa e pagando tutto il dovuto (scenario raro, ma possibile): in tal caso la pena è ridotta fino a 1/3 e non si applicano le pene accessorie.

2. Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici (art. 3 D.Lgs. 74/2000): è la “frode fiscale generica”, che punisce chi, con mezzi fraudolenti non consistenti in fatture false, indica in dichiarazione elementi attivi/passivi falsi, ottenendo un’evasione di imposta rilevante. Esempi: l’uso di artifici contabili complessi, operazioni simulate diverse dalle fatture (ad es., gonfiare rimanenze, creare crediti d’imposta fittizi con documentazione alterata), o la falsificazione di scritture contabili per ingannare il Fisco durante verifiche. Soglie: il reato si concretizza se l’evasione d’imposta ottenuta supera €30.000 per singola imposta (annua) e contemporaneamente gli elementi attivi sottratti all’imposizione o quelli passivi fittizi superano il 5% del totale dichiarato (o comunque €1,5 milioni). Quindi è necessaria una certa materialità del vantaggio fiscale e incidenza sui dati di bilancio. Pena: reclusione da 3 a 8 anni (pena aumentata nel 2019 – prima era max 6 anni). Non esistono forme attenuate qui, se non l’applicazione eventuale dell’attenuante di lieve entità o del ravvedimento operoso (art. 13-bis) come per l’art. 2. Le pene accessorie sono analoghe al caso precedente (interdizioni e pubblicazione sentenza) in caso di condanna. Questo reato è incluso tra quelli presupposto della responsabilità 231 della società: l’ente rischia fino a 500 quote di multa. Difesa: spesso la distinzione tra art. 2 e art. 3 è che qui non ci sono fatture per operazioni inesistenti. È un reato di pericolo, richiede l’uso di artifici idonei a ostacolare l’accertamento. La soglia quantitativa (≥ €30.000 imposta evasa) evita di punire penalmente frodi minori. Anche per art. 3 non vale la non punibilità per pagamento; la tenuità è raramente invocabile essendoci di mezzo condotte fraudolente. Dopo la riforma 2024, come per l’art. 2, resta estraneo alle nuove cause di non punibilità da “crisi di liquidità”, che riguardano solo gli omessi versamenti. Tuttavia, se la frode viene scoperta e il contribuente paga tutto e collabora prima che inizi un controllo formale, potrebbe beneficiare della causa di non punibilità dell’art. 13 comma 2 (ravvedimento operoso qualificato), sempre che la condotta consista nella presentazione di una dichiarazione integrativa veritiera e pagamento integrale prima di avere formale conoscenza di attività di verifica.

3. Dichiarazione infedele (art. 4 D.Lgs. 74/2000): è un reato di minore gravità rispetto alla frode, che si realizza quando l’imprenditore (o legale rappresentante) indica dati falsi nella dichiarazione annuale dei redditi o IVA (ad es. omette di dichiarare ricavi o sovrastima deduzioni) senza usare mezzi fraudolenti. In sostanza è la dichiarazione “aggiustata” in modo infedele ma senza fatture false né altri artifici. Soglie: per non punire ogni piccola evasione, l’art. 4 richiede due condizioni cumulative: (a) l’imposta evasa deve superare €100.000 (sommando, per i redditi, IRPEF/IRES e relative addizionali, per l’IVA solo l’IVA); e (b) la somma degli importi sottratti a tassazione (attivi non dichiarati) o degli importi fittizi dichiarati (es. costi indebiti) sia superiore al 10% del totale degli elementi dichiarati, o comunque superiore a €2 milioni. Ad esempio, se un’azienda non dichiara ricavi per €500.000 su €5 milioni di fatturato (10%), con imposta evasa di €140.000, ricade nel reato. Ma se omette €50.000 su €1 milione (5%) con imposta di €14.000, non è punibile penalmente (resta sanzione amministrativa). Pena: reclusione da 2 a 4 anni e 6 mesi (pena aumentata nel 2019 da max 3 anni a max 4 anni e 6 mesi per allinearsi a richieste UE). Le sanzioni accessorie scattano solo a condanna definitiva e sono più lievi rispetto alle frodi. Non vi è responsabilità 231 diretta per l’art. 4 salvo il caso particolare di frodi IVA transfrontaliere > €10 milioni, introdotto nel 2020: l’art. 25-quinquiesdecies comma 1-bis include l’art. 4 se commesso in sistemi fraudolenti transfrontalieri con danno ≥ €10 milioni, come reato presupposto per l’ente (ciò recepisce la direttiva UE PIF sulla tutela degli interessi finanziari UE). In tal caso, la società rischia fino a 300 quote di sanzione pecuniaria. Difesa e cause di non punibilità: l’infedele dichiarazione è un reato a dolo generico (volontà di evadere, ma senza necessità di inganno sofisticato). Se l’imprenditore si accorge dell’infedeltà e corregge spontaneamente la dichiarazione pagando il dovuto, può fruire del ravvedimento operoso: l’art. 13 comma 2 esclude la punibilità se il contribuente presenta dichiarazione integrativa e salda tutto (imposte, interessi, sanzioni amministrative) entro il termine di presentazione della dichiarazione per l’anno successivo, a condizione che ciò avvenga prima di avere formale notizia di verifiche o accertamenti. In pratica, se entro l’anno seguente uno rettifica e paga, niente reato. Inoltre, la Cassazione ha di recente affermato che la causa di esclusione per particolare tenuità del fatto (art. 131-bis c.p.) può applicarsi anche alle dichiarazioni infedeli di non modesta entità: nella sentenza n. 4145/2025, la Corte ha ritenuto che non va esclusa a priori la tenuità per art. 4 anche se gli importi evasi “non sono irrisori”. In quel caso, il successivo pagamento del dovuto è stato considerato solo un indice di tenuità e non causa estintiva autonoma (perché era intervenuto tardi, fuori dai termini dell’art. 13). Quindi pagando dopo l’accertamento, il reato formalmente rimane ma si può sperare in una non punibilità per tenuità se la condotta è isolata e il danno poco significativo in rapporto all’impresa.

4. Omessa dichiarazione (art. 5 D.Lgs. 74/2000): consiste nel non presentare affatto la dichiarazione annuale dei redditi o IVA entro i termini previsti, al fine di evadere le imposte. È un reato omissivo proprio: tipicamente viene contestato all’imprenditore o legale rappresentante che, pur avendo conseguito redditi o operato con IVA, non trasmette la dichiarazione dovuta (ad esempio, salto totale del modello Redditi o 770 o dichiarazione annuale IVA). Soglie: anche qui vi è una soglia di tolleranza: l’omissione costituisce reato solo se l’imposta evasa (IRPEF/IRES o IVA) supera €50.000 per ciascun periodo d’imposta. Quindi se un contribuente omette la dichiarazione ma avrebbe dovuto pagare €30.000, non è punibile penalmente (resta una pesante sanzione amministrativa del 120-240% dell’imposta dovuta). Sopra €50.000, scatta il penale. Pena: reclusione da 2 a 5 anni (pena aumentata nel 2019, prima era max 4 anni). Non vi è bisogno di alcuna condotta fraudolenta: basta il dolo generico di non dichiarare per non pagare. Sono esclusi dall’art. 5 i casi in cui la dichiarazione, pur presentata, è nulla (ad esempio perché non sottoscritta): quelli non integrano reato, secondo un orientamento giurisprudenziale, ma la normativa stessa equipara la mancata presentazione alla presentazione tardiva oltre 90 giorni (che è considerata omessa). Responsabilità della società: l’omessa dichiarazione rientra anch’essa nel catalogo 231 solo se commessa in ambito frode IVA comunitaria > €10 milioni (art. 25-quinquiesdecies co.1-bis): in tal caso la società è punibile con max 400 quote. Cause di non punibilità: l’art. 13 comma 2 equipara l’omessa dichiarazione alla dichiarazione infedele ai fini del ravvedimento: se il contribuente presenta la dichiarazione omessa entro il termine di quella dell’anno successivo e paga integralmente imposte, sanzioni e interessi, prima di essere formalmente verificato, allora non è punibile. Questo consente un “rinsavimento” entro l’anno seguente (in pratica si ha tempo fino al 30 novembre dell’anno successivo per presentare il modello omesso e saldare, sfruttando il ravvedimento operoso). Oltre tale termine, il reato si perfeziona e il mero pagamento tardivo non evita la punibilità – ma potrà essere valutato come attenuante comune o ai fini della tenuità. Non esistono soglie sull’importo attivo omesso (a differenza dell’infedele), conta solo l’imposta evasa > €50.000. Pertanto un’azienda che omette di dichiarare un anno intero di ricavi commette un reato se l’imposta dovuta eccede la soglia, con difficoltà difensive maggiori (perché l’omissione integrale è di per sé indice forte di dolo). Tuttavia, per questo reato, come per altri delitti tributari, è oggi possibile beneficiare della sospensione del procedimento penale se il debito è in fase di rateizzazione: la riforma ha esteso anche all’omessa dichiarazione la regola per cui, se prima del dibattimento l’autore si è attivato per pagare con rate concordate e sta rispettando le rate, il giudice può sospendere il processo fino a un anno, dandogli tempo di finire di pagare. Se poi paga tutto, si applicheranno le attenuanti del caso e forse l’esclusione della pena (potenzialmente in caso di patteggiamento entro 2 anni, v. note su art. 12-bis e 13-bis più avanti).

Emissione di fatture o documenti per operazioni inesistenti (art. 8 D.Lgs. 74/2000)

Questo reato è il “complementare” dell’art. 2 e colpisce il fornitore di fatture false. In Italia esisteva (e purtroppo esiste) il fenomeno delle cartiere: società o prestanome che emettono fatture fittizie per consentire ad altri di evadere. L’art. 8 punisce chiunque emette o rilascia fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, al fine di permettere a terzi di evadere le imposte sui redditi o l’IVA. Quindi sanziona il “venditore di fatture false”. Soglie: originariamente esisteva una soglia, ma oggi praticamente qualsiasi importo può integrare il reato, analogamente all’art. 2. Anche qui vi è una distinzione: se l’importo non veritiero indicato nelle fatture emesse supera €100.000 per periodo d’imposta, la pena base è reclusione da 4 a 8 anni; se è inferiore a €100.000, si applica la reclusione da 1 anno e 6 mesi a 6 anni (comma 2-bis introdotto nel 2019, parallelo a quello dell’art. 2). Pena e sanzioni: come visto, pene in tutto simili all’utilizzatore di false fatture. Questo reato comporta l’ovvia applicazione delle pene accessorie del caso: interdizione dai pubblici uffici 1-3 anni (se oltre soglia di rilevante gravità), interdizione da cariche societarie 6 mesi-3 anni, ecc. Dal punto di vista 231, anche l’art. 8 è inserito: la società (o ente) che emette fatture false rischia sanzione fino a 500 quote (per l’emissione oltre soglia) o 400 quote (se sotto soglia, v. art. 8 comma 2-bis). Inoltre, l’art. 8 è menzionato tra i reati che comportano interdizione dai pubblici uffici per il condannato (vedi art. 12, punto 6). Caratteristiche e difesa: il reato di emissione è spesso più facile da provare rispetto all’utilizzo, perché la fattura falsa “parla da sé”. Non serve nemmeno che il Fisco subisca un danno, basta l’atto di emettere documento falso con intento fraudolento. Non esiste una causa di non punibilità per ravvedimento qui, perché una volta emessa la fattura il reato è consumato. Tuttavia, l’ordinamento talvolta premia chi collabora: ad esempio, se l’emittente aiuta a ricostruire la filiera delle false fatture, può sperare in circostanze attenuanti generiche o nel patteggiamento con diminuente per collaborazione. In ogni caso, l’emissione di fatture false è considerata molto grave (anche perché facilita le frodi altrui), tant’è che col Decreto Fiscale 2019 le pene sono state inasprite (prima erano 1½-6 anni, poi equiparate all’art. 2) e il reato è divenuto ostativo ad alcuni benefici penitenziari in certe soglie. Fortunatamente, la prassi di emettere fatture fittizie è stata contrastata con misure preventive (split payment, fattura elettronica) che ne hanno ridotto l’incidenza, ma resta un reato cardine.

Occultamento o distruzione di documenti contabili (art. 10 D.Lgs. 74/2000)

Questo reato punisce l’imprenditore o amministratore che occulta (nasconde) o distrugge in tutto o in parte le scritture contabili o i documenti di cui è obbligatoria la conservazione, allo scopo di evadere le imposte (ossia per non consentire la ricostruzione dei redditi o del volume d’affari). In sostanza, è il comportamento di chi “fa sparire” la contabilità per non far scoprire il maltolto. Soglie: non sono previsti limiti di importo – il reato consiste nella condotta materiale. È però necessario il dolo specifico di evadere o di occultare proprie violazioni. Esempi: un’azienda, sapendo di aver fatto nero, getta i registri e le fatture vere; oppure li altera in modo irrecuperabile; oppure li nasconde durante un controllo e finge che siano andati persi. Pena: reclusione da 3 a 7 anni (aumentata nel 2015 da max 5 a max 7 per gravità). Applicazione: spesso questo reato viene contestato insieme ad un reato dichiarativo (es. infedele) o di omesso versamento, se l’indagato cerca di ostacolare le verifiche. Anche se l’azienda è inattiva, la sparizione delle scritture è reato se vi erano obblighi di tenerle. Sanzioni accessorie: in caso di condanna, art. 12 D.Lgs 74 prevede interdizioni simili (uffici direttivi, ecc.); inoltre l’art. 25-quinquiesdecies 231 include l’art. 10 come reato presupposto, con sanzione fino a 400 quote per l’ente. Difesa: l’occultamento va inteso come comportamento volontario: se uno perde la contabilità per calamità (incendio involontario, alluvione) non è punibile; deve esserci uno stratagemma per impedire al fisco di fare i controlli. Dunque, la linea difensiva può puntare a dimostrare la mancanza del dolo specifico (“non ho conservato per negligenza, non per frodare”) – ma è difficile, perché la legge presume l’intento quando la documentazione sparisce senza giusta causa. Non esiste ravvedimento: se a distanza di tempo “ricompaiono” le carte prima nascoste, ciò potrebbe semmai configurare tentativo di attenuare il danno (ma il reato se concluso non si estingue). Tuttavia, se la documentazione viene recuperata e l’imposta evasa viene determinata e pagata, l’autore può sperare in un trattamento sanzionatorio più mite (attenuanti generiche).

È importante per l’imprenditore sapere che l’obbligo di conservazione delle fatture, libri e registri è di almeno 10 anni, e che la digitalizzazione non esime da responsabilità: cancellare file o sostenere falsamente di aver subito un hackeraggio per giustificare la mancanza di dati contabili rientra comunque nel concetto di occultamento. Sul lato pratico, questo reato viene anche contestato prima di un accertamento fiscale: se durante una verifica la Guardia di Finanza chiede libri e registri e il contribuente dice “non li ho”, scatta il penale (oltre alle sanzioni amministrative per irregolare tenuta).

Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 11 D.Lgs. 74/2000)

L’art. 11 sanziona chiunque, al fine di sottrarsi al pagamento di imposte dovute o di interessi/sanzioni, compie atti fraudolenti sui propri beni per precludere l’aggressione del Fisco. In pratica è la reazione indebita di chi, avendo un debito tributario già accertato o comunque dovuto, spoglia il proprio patrimonio per risultare nullatenente e non pagare. Esempi tipici: un imprenditore con cartelle esattoriali per 500.000 € che simula la vendita di beni a terzi compiacenti (magari parenti) o li intesta a società di comodo, oppure crea un trust fittizio, o preleva liquidità e la occulta all’estero. Oppure ancora, distrugge beni prima del pignoramento. Soglie: il reato scatta se l’ammontare delle imposte (o sanzioni, interessi) che si cerca di non pagare supera €50.000. Quindi, se uno ha un debito fiscale modesto e regala l’auto ai figli per non farla pignorare, non commette reato (resta un illecito civile). Ma se il debito è rilevante, sì. Condotta fraudolenta: dev’essere simulatoria o fraudolenta, non basta vendere beni realmente per fare cassa. Ci vuole l’elemento di inganno: per esempio, simulare un’insolvenza (alienazioni a prezzo vile a un prestanome, oppure creare artificiosamente un passivo fittizio). Anche formare un’ipoteca volontaria esagerata su un proprio immobile a favore di un amico, per ostacolare il Fisco, è condotta fraudolenta. Pena: reclusione da 6 mesi a 4 anni, che sale da 1 a 6 anni se l’importo sottratto supera €100.000 (aggravante introdotta nel 2015). Sotto il profilo 231, l’art. 11 è incluso: la società che attua simili frodi (ad es., un’azienda che trasferisce rami a una newco per non pagare un debito IVA) rischia fino a 400 quote di sanzione pecuniaria. Difesa: si tratta di reato spesso accertato a posteriori, quando il Fisco prova che il debitore ha impoverito il patrimonio in malafede. Strategicamente, per l’imprenditore indebitato è sconsigliatissimo fare “sparire” beni dopo avvisi di accertamento o cartelle: non solo è perseguibile, ma eventuali atti sono revocabili. Se si è indotti a vendere un immobile per pagare debiti urgenti, bisogna farlo a valore di mercato e preferibilmente usare il ricavato per pagare anche il Fisco, altrimenti l’operazione può sembrare elusiva. Per la difesa in giudizio, si punterà a dimostrare l’assenza di finalità fraudolenta (es. la vendita era vera e serviva a pagare fornitori e salari, non a nascondere ricchezza; oppure il bene ceduto era gravato da pegno della banca, quindi l’Erario comunque non avrebbe ricavato niente). Non esistono cause di non punibilità specifiche: questo reato non beneficia della scusante “crisi di liquidità” perché riguarda comportamenti consapevoli successivi. Caso mai, se poi l’imprenditore paga il debito fiscale (magari tramite una rottamazione dei ruoli o transazione fiscale) prima della sentenza, potrà invocare l’attenuante del pagamento integrale (art. 13-bis) per ridurre la pena, ma non l’estinzione del reato (che si ha solo per i reati dichiarativi e di omesso versamento in certe condizioni).

Reati di omesso versamento di imposte (10-bis, 10-ter, 10-quater)

Passiamo ora ai reati omissivi in senso stretto, cioè quelli che puniscono la mancata esecuzione di pagamenti dovuti all’Erario. Si tratta di delitti introdotti nel 2000 (con soglie allora più basse, poi alzate) per reprimere il fenomeno di chi, pur avendo dichiarato le imposte o comunque dovendole, non le versa nei termini appropriandosi di fatto di denaro destinato allo Stato. Sono reati particolarmente legati alle situazioni di crisi di liquidità: spesso l’imprenditore, in difficoltà di cassa, si trova a dover scegliere se pagare gli stipendi e fornitori oppure pagare l’IVA o le ritenute; talvolta sceglie la prima opzione, rimandando (illecitamente) le imposte. La legge prevede soglie di tolleranza e soprattutto consente di evitare la punibilità se si paga entro certi termini, come vedremo. Nel 2023-2024, questi reati sono stati al centro di una riforma epocale, con l’introduzione di una causa di non punibilità per crisi di liquidità incolpevole e altre modifiche che favoriscono chi cerca di rimediare pagando anche in ritardo. Analizziamo i singoli:

Omesso versamento di ritenute dovute o certificate (art. 10-bis): Riguarda le ritenute fiscali operate dal sostituto d’imposta (tipicamente le ritenute IRPEF sui salari dei dipendenti o compensi dei collaboratori). Il datore di lavoro trattiene dalle buste paga le imposte dei lavoratori per versarle al Fisco. Se non versa entro il termine (in genere il 16 del mese successivo) ed entro l’anno successivo ancora non ha versato, allora se l’importo non versato supera €150.000 annui scatta il reato. Soglia: €150.000 di ritenute non versate per ciascun periodo d’imposta. Ad esempio, se nel 2024 un’azienda trattiene €200k di IRPEF ai dipendenti ma ne versa solo €40k, restando in debito di €160k oltre il 16 gennaio 2025, commette reato per €160k (eccedente soglia). Se fosse stata in debito di €140k, niente reato. Attenzione: la soglia si riferisce alle ritenute certificate, cioè risultanti dalle certificazioni che il datore rilascia (CU). Quindi, se uno non ha neppure certificato, formalmente art. 10-bis non si applicherebbe ma potrebbe configurarsi altro (ad esempio indebita compensazione se ha compensato tali debiti, o addirittura appropriazione indebita). Pena: in origine era fino a 3 anni, oggi – dopo inasprimenti – è da 6 mesi a 2 anni di reclusione. Pene accessorie in caso di condanna non sono automatiche data la pena edittale bassa (il minimo è sotto 2 anni, quindi astrattamente si può applicare la causa di non punibilità per tenuità se importo poco sopra soglia e condotta non abituale, grazie alle nuove linee guida che impongono di valutare “lo scostamento dalla soglia” e se il debito residuo è piccolo, ecc.). Novità 2024: Finora il riferimento era al mancato versamento entro il termine di presentazione della dichiarazione annuale (modello 770 dell’anno dopo). La riforma (D.Lgs. 87/2024) ha specificato meglio che il termine ultimo è il 31 dicembre dell’anno successivo a quello di riferimento, e soprattutto ha aggiunto che non è punibile chi ha in corso una rateizzazione del debito ex art. 3-bis D.Lgs. 462/97 (rateizzazione automatica di cartelle) e la rispetta. In pratica, se l’azienda, accortasi di non aver pagato ritenute per 200k entro il 2024, chiede e ottiene entro l’anno seguente un piano di rateazione col fisco e sta pagando le rate, non commette reato finché è in regola coi pagamenti. Solo se decade dal piano e ancora deve più di €50k, allora il reato si perfezzerà (la norma dice: in caso di decadenza, si punisce se il debito residuo supera €50k). Questa è una grossa novità favorevole al contribuente: prima bastava non pagare entro la scadenza e la denuncia partiva; ora c’è margine per attivarsi e dilazionare. Inoltre è stata introdotta la già citata esimente per crisi di liquidità: se l’omesso versamento dipende da cause non imputabili insorte dopo aver trattenuto le ritenute (es. l’azienda ha versato stipendi e trattenuto IRPEF ma poi ha subito un tracollo prima di versare al fisco), l’art. 13 comma 3-bis ora esclude la punibilità. Questa causa richiede che ci sia una crisi non transitoria di liquidità, dovuta a insolvenza di clienti, mancati pagamenti della P.A. o impossibilità di reperire liquidità in altro modo. In altre parole, se il datore può dimostrare che il mancato versamento non è colpa sua ma di eventi esterni (es. il suo unico committente è fallito lasciandolo senza fondi), allora non sarà punito penalmente. Su ciò torneremo a breve, perché identico discorso vale per l’IVA.

Omesso versamento IVA (art. 10-ter): è il gemello del 10-bis, riferito all’IVA dovuta annualmente. Se un soggetto ha presentato la liquidazione/ dichiarazione IVA e non versa l’IVA risultante dovuta entro il termine previsto (oggi, entro il 16 marzo dell’anno successivo, o a rate fino a novembre), per un ammontare > €250.000 (soglia fino al 2019) poi ridotta a €150.000 per periodo d’imposta, commette reato. Nota: nel 2015 la soglia era 250k, ma il D.L. 124/2019 l’ha abbassata a 150k per inasprire il contrasto. Quindi attualmente soglia €150.000 annui. Pena: reclusione da 6 mesi a 2 anni (come 10-bis). Anche qui la riforma 2024 ha chiarito che il termine ultimo per ravvedersi è il 31 dicembre dell’anno successivo alla dichiarazione. Dunque, se entro l’anno successivo paghi e scendi sotto soglia, niente reato. Inoltre valgono esattamente le stesse novità del 10-bis: non è punibile chi ha ottenuto e sta rispettando una rateazione del debito IVA secondo le norme (pena punibilità solo se decade e ancora deve > €75.000); e soprattutto, è stata introdotta la non punibilità se “il fatto dipende da cause non imputabili all’autore sopravvenute all’incasso dell’IVA”. Questa formulazione vuol dire: se l’imprenditore ha emesso fatture, addebitando IVA ai clienti, ma dopo averla incassata è accaduto qualcosa di imprevedibile che gli ha impedito di versarla, non è colpevole. Oppure, interpretando in combinato con un’altra modifica, addirittura non è considerato reato il mancato versamento dell’IVA non incassata affatto. In parallelo infatti si è modificato l’art. 10-ter stesso prevedendo che rileva penalmente solo l’omesso versamento dell’IVA “dovuta in base alla dichiarazione ed effettivamente incassata”. Questa è una svolta: storicamente, l’IVA è dovuta allo Stato anche se il cliente non paga la fattura (salvo procedure di variazione IVA in casi di insolvenza conclamata). Molti imprenditori finivano imputati perché non riuscivano a pagare un’IVA su fatture non incassate. Ora, con la riforma, pare che: se puoi provare che l’IVA dichiarata non l’hai mai incassata dal cliente (perché insolvente), non c’è reato, perché manca l’elemento oggettivo (non era “IVA effettivamente incassata”). E se l’hai incassata ma poi, prima di versarla, sei stato travolto da una crisi non colpa tua, c’è l’esimente di cui sopra (crisi di liquidità incolpevole). Implicazioni pratiche: la Cassazione, anche prima della norma, aveva iniziato a prendere atto di situazioni estreme in cui l’omesso versamento poteva non avere dolo (es. mancato incasso da P.A.). Adesso c’è base legale chiara. Ad esempio, Cass. n. 41238/2024 ha assolto un imprenditore che non aveva versato IVA perché il suo committente (il caso ILVA) non lo aveva pagato: riconoscendo l’esimente in base al nuovo comma 3-bis dell’art. 13 introdotto nel 2024. Questo è un “game-changer” per gli avvocati: in difesa di imputati 10-ter si potrà far valere documentalmente che il mancato versamento era dovuto a mancate entrate non imputabili a scelte imprudenti, ma a insolvenze altrui. Naturalmente l’onere della prova di queste circostanze spetta alla difesa, e non copre le normali difficoltà d’impresa (Cassazione ha escluso l’esimente se la crisi è dovuta a generici problemi di mercato o errori imprenditoriali prevedibili). Servono eventi oggettivi straordinari (fallimento cliente, crisi settoriale improvvisa, COVID, PA che non paga, ecc.). Sul fronte 231, come per gli altri reati omissivi, l’art. 10-ter di per sé non era incluso – salvo che, come per art. 5, nel caso di frodi IVA sopra 10 mln cross-border ora c’è responsabilità 231 (che ricomprende 10-ter >10mln in sistemi fraudolenti transnazionali, rarissimo scenario).

Indebita compensazione di crediti d’imposta (art. 10-quater): introdotto nel 2011 e corretto nel 2015 e 2022, punisce chi compensa indebitamente crediti non spettanti o inesistenti in F24, per importi elevati. La compensazione è quel meccanismo che consente ai contribuenti di pagare debiti fiscali utilizzando crediti fiscali vantati (es. un credito IVA, un bonus fiscale, ecc.). L’abuso avviene quando si compensano crediti a cui non si ha diritto o addirittura inventati. L’art. 10-quater distingue oggi due ipotesi: compensazione di crediti “non spettanti” (cioè crediti esistenti ma che il contribuente non poteva usare, o usati oltre il limite) e compensazione di crediti “inesistenti” (del tutto fittizi o fraudolenti). Questa distinzione è stata chiarita dalla riforma D.Lgs. 87/2024, che ha anche fornito le definizioni normative di non spettante vs inesistente. In breve: sono inesistenti i crediti che mancano dei requisiti oggettivi/soggettivi previsti dalla norma o fondati su documenti falsi e artifici; sono non spettanti i crediti reali ma utilizzati in violazione di modalità o limiti di importo, oppure fondati su presupposti non rientranti nella norma pur avendo requisiti di base. Esempio di non spettante: ho un credito d’imposta valido ma posso usarne massimo 100k, ne compenso 150k (quindi 50k non spettanti). Esempio di inesistente: mi invento un credito R&S mai maturato, o utilizzo un credito su un’operazione fittizia con fatture false. Soglie: qui la soglia è fissa: se compensi crediti non spettanti oltre €50.000 annui, commetti reato (comma 1). Se compensi crediti inesistenti oltre €50.000, è fattispecie più grave (comma 2). Pene: per crediti non spettanti, reclusione da 6 mesi a 2 anni; per crediti inesistenti, da 1 anno e 6 mesi a 6 anni (tripla di prima). La riforma 2024 ha mantenuto soglie e pene, ma ha radicalmente ridisegnato l’impianto: ora c’è chiarezza su come qualificare il credito contestato e soprattutto è stata aggiunta una causa di non punibilità specifica per la compensazione di crediti non spettanti quando vi è obiettiva incertezza sulla spettanza del credito. Questo è stato pensato per situazioni in cui la normativa sul credito è complessa e il contribuente potrebbe averlo interpretato erroneamente senza dolo. Ad esempio, i famosi crediti d’imposta R&S: se l’azienda compensa un credito che l’Agenzia poi contesta come non spettante, ma la questione era di interpretazione tecnica, ora l’art. 10-quater comma 2-bis esclude la punibilità se “anche per la natura tecnica delle valutazioni, sussistono condizioni di obiettiva incertezza” sui requisiti del credito. Questa esimente è limitata ai crediti non spettanti (non copre i casi fraudolenti di crediti inesistenti), ed equipara in pratica quell’errore di diritto scusabile già previsto come scusa generale (art. 15 D.Lgs. 74/2000) ma lo rende più esplicito. Sul fronte 231, l’indebita compensazione è stata inserita nel 2022 tra i reati presupposto solo se commessa in frodi IVA transfrontaliere > €10 mln (art. 25-quinquiesdecies co.1-bis). Dunque in casi normali l’ente non risponde (ma spesso in compensazioni indebite l’ente è beneficiario di tasse non pagate, quindi subisce altre conseguenze come riscossioni coattive, ma non penali). Difesa: prima della riforma, chi compensava crediti inesistenti spesso veniva assimilato a chi emette fatture false (in effetti spesso i crediti inesistenti derivano da fatture false, e possono concorrere art. 2 e 10-quater). Ora almeno c’è un alveo per chi era in buona fede su crediti dubbi: la difesa dovrà documentare pareri, circolari, complessità normativa che possano avere indotto l’errore. Per i crediti inesistenti, la difesa è dura, trattandosi di atti fraudolenti spesso: se però l’imprenditore vittima di un consulente spregiudicato compensa crediti fasulli senza averne reale consapevolezza, si può puntare sull’assenza di dolo (non facile, ma non impossibile in contesti di delega totale al consulente). Cause estintive: se il contribuente si accorge dell’errore e ripaga l’indebito, c’è spazio per applicare la causa di non punibilità del pagamento integrale prima del dibattimento (ex art. 13, comma 1) anche all’indebita compensazione di crediti non spettanti. Infatti l’art. 13 c.1 copre i delitti di cui all’art. 10-bis, 10-ter e 10-quater c.1 (non spettanti) se i debiti sono estinti prima del dibattimento. Per i crediti inesistenti (10-quater c.2) invece no, quelli restano esclusi dalla non punibilità per pagamento (logico, sono truffe gravi). Ciò riflette la maggior severità contro le frodi. Dunque, chi ha indebitamente compensato un credito “borderline” può salvarsi pagando tutto spontaneamente (o magari tramite ravvedimento, interessi e sanzioni) prima che inizi il processo – questo estinguerà il reato ex lege. Se paga dopo, varrà come attenuante ma non come esimente.

Profili sanzionatori: pene, sanzioni pecuniarie e interdittive, cause di non punibilità

Dopo aver passato in rassegna le singole fattispecie di reato tributario, è opportuno riassumere il quadro sanzionatorio e le particolarità relative alle pene accessorie, alle sanzioni amministrative e alle cause di non punibilità introdotte dal legislatore per premiare i comportamenti riparatori o le situazioni meritevoli.

Pene principali (detentive e pecuniarie): tutti i reati tributari di cui abbiamo parlato sono delitti (non contravvenzioni), puniti con la reclusione. Non sono previste multe penali (fatta salva la responsabilità degli enti), quindi la condanna comporta teoricamente il carcere per l’individuo, in un range che va da minimi di 6 mesi (per i reati omissivi più lievi) a massimi di 8 anni (per le frodi più gravi). Di fatto, in caso di condanna, il giudice commina una pena detentiva che, se contenuta entro certi limiti, può essere sospesa condizionalmente (se il soggetto è incensurato e la pena inflitta ≤ 2 anni, solitamente) o può essere convertita in misure alternative (affidamento in prova, detenzione domiciliare, ecc. secondo le regole generali). Dal 2019 alcune fattispecie – in particolare la dichiarazione fraudolenta e l’emissione di false fatture – sono state escluse dall’applicazione della sospensione condizionale quando superano certi limiti: l’art. 12 D.Lgs. 74/2000 prevede che se l’evasione supera il 30% del volume d’affari e 3 milioni di €, la pena non può essere sospesa. Questo per i reati da 2 a 10. Quindi i grandi evasori non beneficiano di condizionale automatica. Non sono invece previste pene pecuniarie “criminali” (multe) a carico dell’individuo nel D.Lgs. 74/2000; tuttavia, occorre ricordare che parallelemente all’azione penale vi sono sempre le sanzioni amministrative tributarie: ad esempio, per un’omessa fatturazione, anche senza reato, c’è un’ammenda del 90-180% dell’imposta evasa; per l’omesso versamento sanzione 30% di ogni importo non versato; per l’uso di fatture false, sanzione amministrativa dal 135% al 270% dell’imposta relativa all’evaso, ecc. Tali sanzioni tributarie vengono irrogate dall’Agenzia Entrate in via amministrativa e non si cancellano neppure se interviene condanna penale (in Italia vige un contestato doppio binario sanzionatorio). Solo in rari casi di bis in idem europeo il contribuente può eccepire che è stato già punito amministrativamente in modo definitivo, ma la giurisprudenza italiana tende a consentire il doppio livello (amministrativo e penale) purché la somma delle sanzioni rimanga in un range di proporzionalità.

Sanzioni pecuniarie e interdittive per le società (D.Lgs. 231/2001): come evidenziato, dal 2019 alcune società ed enti possono essere chiamati a rispondere in sede amministrativa per i reati tributari commessi nel loro interesse da amministratori o dipendenti. L’art. 25-quinquiesdecies del D.Lgs. 231/2001 prevede pesanti sanzioni pecuniarie: ad esempio, per una frode fiscale ex art. 2 o 3, fino a 500 “quote” di sanzione, dove il valore di una quota varia in base alle condizioni economiche dell’ente (fino a circa €1.500 ciascuna). Ciò significa multe anche di centinaia di migliaia di euro per la società, indipendentemente dalle sanzioni già dovute come contribuente. Inoltre, nei casi più gravi, si applicano all’ente le sanzioni interdittive previste dall’art. 9, co.2 D.Lgs. 231: che includono ad esempio il divieto di contrattare con la Pubblica Amministrazione, l’esclusione da agevolazioni e finanziamenti pubblici, il divieto di pubblicizzare beni o servizi, e perfino la sospensione o revoca di licenze e autorizzazioni. Tali misure interdittive possono durare mesi o anni (fino a 2 anni generalmente) e possono incidere gravemente sull’operatività aziendale. Va segnalato che la responsabilità 231 per reati tributari non copre tutti i reati: ad esempio non include l’infedele dichiarazione o l’omesso versamento standard, salvo contesti di frode UE. Riguarda principalmente le frodi “dolose” (artt. 2,3,8,10,11 sempre; art. 4,5,10-quater solo in casi di frodi IVA transfrontaliere). Ciò non toglie che, in uno scenario di crisi, se i dirigenti di una società usano false fatture o occultano contabilità, il colpo per la società potrebbe essere doppio: da un lato la crisi finanziaria, dall’altro sanzioni 231 che possono comprendere il commissariamento giudiziale dell’ente in casi estremi (invece della interdizione, il giudice può nominare un commissario che gestisca l’azienda durante il periodo di interdizione, se ritiene di preservare i posti di lavoro).

Pene accessorie per le persone fisiche: l’art. 12 del D.Lgs. 74/2000 elenca una serie di conseguenze che accompagnano automaticamente (ipso iure) la condanna per un delitto tributario, anche alla prima condanna, e che sono tarate in base alla gravità. In sintesi, il condannato per reati tributari subisce:

  • Interdizione dagli uffici direttivi di imprese o persone giuridiche (cioè non può fare l’amministratore, direttore generale, sindaco, ecc.) per minimo 6 mesi fino a massimo 3 anni.
  • Incapacità di contrattare con la Pubblica Amministrazione (niente appalti o forniture pubbliche) per 1 a 3 anni.
  • Interdizione dalle funzioni di rappresentanza e assistenza in materia tributaria (non può fare da consulente fiscale o rappresentante davanti al Fisco) per 1 a 5 anni.
  • Interdizione perpetua dalle commissioni tributarie (se per caso era giudice tributario, ne esce per sempre).
  • Pubblicazione della sentenza su un quotidiano, a spese del condannato (questo è particolarmente infamante e funge da deterrente).
  • Interdizione dai pubblici uffici per 1-3 anni, ma solo se condannato per dichiarazione fraudolenta (art. 2 o 3) o emissione di fatture false oltre certe soglie. (Soglia indicata nelle norme previgenti come 300 milioni di lire = ~€154.937, quindi in pratica se l’evasione è seria).
  • Divieto di sospensione condizionale della pena in taluni casi già menzionati (evasione >30% volume affari e >€3M).

Queste pene accessorie scattano di diritto con la condanna, ma il giudice deve fissarne la durata entro i range indicati in sentenza. Nota: Se l’imputato patteggia e la pena patteggiata è ≤ 2 anni, le pene accessorie non si applicano affatto (per espressa previsione del 2020). Questa è una ragione per cui molti imputati puntano al patteggiamento ridotto: evitare di incorrere in interdizioni che potrebbero ad es. impedirgli di continuare ad amministrare la loro azienda.

Cause di non punibilità e attenuanti: il D.Lgs. 74/2000, art. 13 e 13-bis, prevede alcuni meccanismi premiali molto importanti:

  • Non punibilità per integrale pagamento del debito tributario: come già anticipato, l’art. 13 (commi 1 e 2) stabilisce che se il contribuente estingue completamente il suo debito tributario (imposta evasa + sanzioni amministrative + interessi) prima dell’apertura del dibattimento, il reato non è punibile per i delitti di omesso versamento (10-bis, 10-ter, e indebito utilizzo di crediti non spettanti 10-quater c.1), nonché per i delitti dichiarativi (2,3,4,5) se il pagamento avviene mediante ravvedimento operoso o presentazione tardiva entro l’anno. Questa norma incoraggia il contribuente a ravvedersi e pagare spontaneamente. Ad esempio: un imprenditore che non ha versato IVA per 200k nel 2023, se entro la data di inizio del dibattimento penale paga tutti i 200k + interessi e le sanzioni amministrative, non verrà punito (il reato è estinto). Spesso ciò avviene tramite rateazione: e infatti la riforma 2021-2022 ha previsto che se il debito è in corso di rateizzazione prima del dibattimento, il giudice sospende il processo fino a 1 anno + proroga 1 anno per dare tempo di pagare, e se tutto viene pagato, scatta l’attenuante o non punibilità. Ora col D.L. 34/2023 e D.Lgs. 87/2024 si è esteso addirittura fino alla sentenza di appello il termine per completare i pagamenti ed evitare la condanna. Quindi c’è una forte apertura: pagare, anche tardi, conviene perché salva dalla galera.
  • Attenuante speciale del pagamento tardivo (art. 13-bis): se il pagamento integrale avviene dopo l’apertura del dibattimento ma prima della sentenza di primo grado, non c’è non punibilità piena, ma vi è un’attenuante ad effetto speciale: la pena è ridotta fino alla metà e non si applicano le pene accessorie. Anche la mera rateizzazione in corso con versamento di almeno il 30% del dovuto comporta un’attenuante (riduzione fino a un terzo). Inoltre l’art. 13-bis prevede un’aggravante di metà pena per chi si avvale di frodi organizzate da professionisti (es. chi paga per farsi architettare uno schema elusivo fraudolento) – ma questo è dettaglio.
  • Particolare tenuità del fatto (art. 131-bis c.p.): se l’evasione è di poco superiore alla soglia e la condotta è occasionale, il giudice può dichiarare non punibile il fatto per tenuità. La riforma 2024 ha imposto di considerare in particolare: quanto si supera la soglia (di poco o di molto), se il contribuente ha comunque pagato in parte (es. tramite rate), quanto residua di debito, e se l’impresa è in stato di crisi ai sensi del Codice della crisi. Quindi, un’azienda in crisi che abbia omesso 160k di IVA (soglia superata di 10k), che ha già poi pagato 120k restando 40k, potrebbe legittimamente ottenere il proscioglimento per tenuità del fatto, integrando tutti questi indici favorevoli.
  • Esimenti per forza maggiore / caso fortuito: al di là delle previsioni specifiche, restano applicabili i principi generali. Un imprenditore potrebbe non essere punibile se prova che il fatto è dovuto a forza maggiore, cioè un evento irresistibile. Per i reati omissivi tributari tradizionalmente la giurisprudenza era severa: la generica crisi di liquidità non era considerata forza maggiore, se era frutto del rischio d’impresa. Ma situazioni come un congelamento improvviso dei conti o normative emergenziali a volte sono state valutate come cause di non imputabilità. Ora comunque c’è la codificazione della “crisi non imputabile” per IVA e ritenute, che in pratica incanala questi casi.

Ricapitolando in ottica imprenditore/avvocato: se l’azienda o il suo titolare cadono nel mirino per un reato tributario:

  • La prima linea di difesa è verificare se è possibile attivare la non punibilità pagando il dovuto. In molti casi (omessi versamenti, infedele se ravvedibile, indebita compensazione non fraudolenta) pagando tutto si risolve il penale. Questo può voler dire trovare fondi in extremis, magari vendendo asset o con finanza esterna, ma se c’è la prospettiva di evitare una condanna, spesso si percorre.
  • Se non si riesce a pagare tutto, cercare almeno di ridurre il debito sotto soglia prima della scadenza rilevante. Ad esempio, per l’IVA, effettuare versamenti parziali per far scendere l’omissione sotto 150k entro fine anno può salvare dal reato. Questa è una strategia di damage control che il consulente fiscale può orchestrare: “paghiamo almeno X per non farci denunciare”.
  • Sfruttare le rateizzazioni: come visto, oggi avere un piano di rate e onorarlo è quasi uno scudo penale temporaneo. Quindi se arriva una crisi e non si è pagato l’IVA, immediatamente chiedere un piano in Agenzia Entrate-Riscossione può evitare la denuncia. L’avvocato deve coordinarsi col commercialista su questo.
  • Valutare se ricorrono i presupposti della crisi di liquidità incolpevole: in situazioni di insolvenze a catena, documentare bene i mancati incassi, eventuali decreti ingiuntivi verso debitori insolventi, bilanci in perdita ecc., da usare sia per convincere eventualmente il PM a chiedere l’archiviazione sia, in giudizio, per ottenere l’assoluzione ex art. 13 co.3-bis.
  • Considerare il patteggiamento: nei reati gravi dove non c’è via di uscita (es. frodi con false fatture scoperte) spesso la scelta migliore è patteggiare la pena con riduzione di un terzo. Ciò permette di stare magari sotto i 2 anni (quindi niente carcere effettivo, e come visto niente pene accessorie in caso di <2 anni patteggiato) e chiudere il procedimento relativamente in fretta. Il patteggiamento nei reati tributari è consentito, previa estinzione del debito tributario o impegno a pagarlo alle condizioni di legge (questo era un vincolo, ma col 2023 anche chi non ha pagato può patteggiare, però con limitazione: niente pena sospesa se non paghi).
  • Attenzione ai tempi di prescrizione: i reati tributari hanno prescizione lunga (in genere 6 anni base, estesa a 7 ½ con atti interruttivi, aumentata per pene oltre 6 anni ecc.), e le sospensioni per pandemia e per richieste di rinvio a volte hanno allungato, però non sono eterni. Ad esempio, un omesso versamento 2017 si prescrive nel 2024 circa. Quindi valutare se conviene far passare tempo (specie se si è in regola con versamenti successivi e non si vuole la non punibilità attiva) può essere un’altra tattica difensiva.

Concludendo questa sezione, appare chiaro che l’ordinamento oggi cerca un equilibrio: punire severamente le condotte fraudolente e dolose, ma anche dare opportunità a chi è incappato in violazioni per difficoltà finanziarie di rimediare senza subire sanzioni penali. L’avvocato deve conoscere a fondo questi meccanismi per consigliare al meglio l’imprenditore: talvolta la soluzione è predisporre un piano di risanamento che includa il pagamento delle imposte arretrate, magari beneficiando di definizioni agevolate (rottamazioni, transazioni) – questo può non solo evitare il fallimento dell’impresa, ma anche “ripulire” la posizione penale degli amministratori.

Simulazioni pratiche di crisi di liquidità e impatto fiscale

Per comprendere concretamente le dinamiche illustrate, proponiamo alcune simulazioni numeriche semplificate. Questi esempi servono a mostrare come una crisi di cassa possa riflettersi sui debiti fiscali e sulle sanzioni, nonché come l’uso degli strumenti di cui abbiamo parlato possa cambiare gli esiti per l’imprenditore.

Caso 1: Crisi di liquidità da insoluto cliente e omesso versamento IVA

Scenario: La Alfa S.r.l. opera nel settore metalmeccanico. Nel 2024 realizza forniture per €1.000.000 + IVA al 22% ad un unico grosso cliente. Emette quindi fatture per €1.220.000 (di cui €220.000 IVA). Deve versare quell’IVA allo Stato (scadenza ordinaria: 16 marzo 2025). Tuttavia, il cliente – la Beta S.p.A. – entra in crisi e paga solo metà delle fatture (€610.000) e poi fallisce. Alfa S.r.l. ha dunque incassato solo €500.000 + €110.000 di IVA; rimane con crediti verso Beta per €500.000 + €110.000 IVA non incassata. Alfa nel frattempo ha sostenuto costi (materie prime, stipendi, ecc.) per €800.000 e li ha pagati, consumando la liquidità ricevuta. A marzo 2025, Alfa S.r.l. si trova con cassa esaurita e con un debito IVA da versare di €220.000. Non avendo fondi (l’unico cliente doveva darle gli altri soldi), Alfa omette il versamento IVA.

  • Senza strumenti e senza difesa: L’omissione di €220.000 supera la soglia di €150.000, dunque a luglio 2025 scatta la denuncia penale ex art. 10-ter. L’amministratore viene indagato. Formalmente, l’IVA risultava dovuta da dichiarazione annuale. Se non intervenissero nuove norme, l’uomo rischierebbe fino a 2 anni di reclusione. E in più Alfa S.r.l. riceverebbe una cartella di Equitalia per i €220.000 + sanzione 30% (€66.000) + interessi.
  • Applicazione dell’esimente da crisi (novità 2024): L’avvocato di Alfa prepara la difesa dimostrando che il fatto dipende da cause non imputabili sopravvenute all’incasso dell’IVA. Alfa infatti non ha potuto incassare €110.000 di IVA dal cliente fallito. Inoltre mostra che Alfa ha tentato tutte le azioni (insinuazione al passivo di Beta, ricerca di finanziamenti) senza successo e che la sua crisi di liquidità è reale e non transitoria (banche che chiudono affidamenti, flussi di cassa prospettici negativi). In base al nuovo art. 13 co.3-bis, il PM chiede l’archiviazione oppure il giudice assolve l’imputato perché il fatto non è punibile. Risultato: amministratore non condannato, anche se il debito IVA resta da pagare in sede fallimentare Beta (magari Alfa recupererà briciole dal fallimento).
  • Soluzione preventiva: Se già nel 2024 Alfa S.r.l. si fosse accorta del pericolo, avrebbe potuto attivare una composizione negoziata. L’esperto nominato avrebbe magari aiutato a trovare un accordo con l’Agenzia delle Entrate: Alfa avrebbe potuto proporre una transazione fiscale per pagare magari il 50% dell’IVA in 5 anni. Durante la composizione negoziata, Alfa avrebbe ottenuto misure protettive per evitare che l’Agenzia iscrivesse ipoteche o bloccasse i conti. Se l’accordo fosse riuscito, Alfa avrebbe evitato il reato perché, entro l’omologa dell’accordo (diciamo fine 2025), avrebbe comunque un piano per pagare quel debito . Anche senza accordo, la pendenza di trattative e la dimostrata insolvenza del cliente le avrebbe permesso di beneficiare dell’esimente.

Conclusione per Caso 1: Senza le riforme, l’amministratore di Alfa sarebbe stato condannato per omesso versamento, aggravando la disgrazia di aver perso il cliente. Con le nuove norme, situazioni come questa (molto comuni) potranno essere trattate con maggior equità, distinguendo la frode dal vero dissesto. Ciò non toglie che Alfa comunque dovrà versare l’IVA (lo Stato non la condona, semplicemente sposta la vicenda sul piano civilistico).

Caso 2: Simulazione di piano di rateazione e soglie penali

Scenario: La Gamma S.n.c. (società di persone) nel 2023 subisce un calo di vendite e accumula debiti tributari: a fine anno risulta che ha versato solo in parte le ritenute sui dipendenti e nulla dell’IVA. In particolare:

  • Debito ritenute 2023 (certificato) non versate: €180.000.
  • Debito IVA 2023 non versata: €200.000.
    Quindi per ciascuno supera la soglia di €150k. A gennaio 2024, prima che scattino denunce, Gamma S.n.c. chiede all’Agente della Riscossione una rateizzazione su €380.000 (il totale). Le viene concesso un piano in 72 rate mensili (6 anni) di circa €5.500 al mese. Gamma inizia a pagare.
  • Effetti penali: Poiché c’è un piano attivo ex art. 3-bis D.Lgs. 462/97, la punibilità dei reati 10-bis e 10-ter è sospesa/esclusa. Finché Gamma paga le rate regolarmente, né il PM né la GdF procederanno con l’azione penale. Dopo 2 anni, Gamma ha pagato €132.000 riducendo il debito a €248.000, ma entra in crisi peggiore e decade dalla rateazione (manca alcune rate). A questo punto cosa accade? La nuova norma dice: se decade, si guarda l’importo residuo non pagato. Residuo ritenute = €90.000; residuo IVA = €158.000. – Per le ritenute: residuo 90k è < soglia 150k e anche < soglia ridotta 50k prevista in caso di decadenza? No, attenzione: la norma fissa 50k per 10-bis residuo. Qui 90k > 50k, quindi l’amministratore è punibile per omesso versamento ritenute, ma con importo considerato 90k (che supera soglia base di 150k? No, 90k <150k, quindi in teoria il reato 10-bis non sussisterebbe affatto perché sotto soglia generale – c’è ambiguità normativa, probabilmente intendono che se decadi ed era sopra soglia, ma intanto ora sotto, forse non puniscono; tuttavia letteralmente: punito se >50k, qui 90k >50k, quindi reato). Per l’IVA: residuo 158k, soglia ridotta post decadenza è 75k, quindi essendo 158k > 75k, scatta punibilità per omesso versamento IVA.
    • Tuttavia, anche in tal caso, l’imprenditore potrebbe argomentare: “Ho comunque versato una parte cospicua (132k su 380k) e ora la mia impresa è in stato di crisi conclamato”. Secondo l’art. 13 co.3-ter (indicatori tenuità) il giudice deve tener conto del debito residuo e dello stato di crisi. Quindi potrebbe applicare la particolare tenuità e non punire l’amministratore, specie per il 10-bis (90k residuo, prima soglia 150k, scostamento modesto).
  • Confronto con vecchio regime: Prima, Gamma con 180k ritenute e 200k IVA omessi sarebbe stata denunciata nel 2024 e i due soci rischiavano ciascuno fino a 2 anni + 2 anni, probabilmente poi unificati in 3 anni cumulo. Anche pagando in ritardo non avrebbero evitato la condanna (se non completando il pagamento prima del dibattimento). La rateazione all’epoca sospendeva solo la prescrizione un po’, ma non l’azione. Ora invece la strategia di attivare un piano si rivela vincente: i soci hanno guadagnato tempo (nessun procedimento per almeno 2 anni finché pagavano) e ridotto le somme, migliorando la posizione penale.
  • Cosa succede se invece Gamma avesse onorato tutte le rate fino a estinguere il debito entro 2029? Semplice: nessun reato, perché art. 13 c.1 condizione soddisfatta (pagato tutto prima di sentenza) e di fatto neppure c’è stata notizia di reato perché misure protettive… Quindi soci puliti e azienda salva (forse).

Morale del Caso 2: Avviare un dialogo col Fisco e pagare almeno a rate è praticamente una “cura” sia finanziaria sia penale. Evidentemente questo richiede che l’azienda abbia comunque prospettive di recupero, altrimenti se fallisce in corsa decadrà. Ma se la crisi è temporanea, la norma premia chi cerca di rimediare.

Caso 3: Concordato preventivo semplificato e reati di bancarotta vs reati tributari

Scenario: La Delta S.p.A. è un’impresa edile che dal 2022 è in forti difficoltà. Nel 2023 omette di versare IVA per €300.000 (a fronte di incassi per 2 milioni). Inoltre da due anni presenta dichiarazioni infedeli (sottostimando ricavi per evitare tasse) per un’evasione stimata di €500.000 totali. Nel 2024 Delta capisce di non poter più andare avanti: ha debiti complessivi di 5 milioni. Attiva la composizione negoziata e blocca i creditori. Purtroppo le trattative falliscono (i creditori non accettano alcuna proposta perché i beni sono pochi). A quel punto, Delta S.p.A. decide di ricorrere al concordato semplificato per liquidazione (ex art. 25-sexies CCI). Presenta quindi al tribunale un piano di liquidazione: cedere i cantieri a un’altra impresa per 2 milioni e distribuire ai creditori quel ricavato (stimando un 40% ai privilegiati e 10% ai chirografari). Il tribunale omologa il concordato semplificato nel 2025 e nomina un liquidatore.

  • Effetti sui reati tributari: La pendenza della composizione negoziata nel 2024 probabilmente ha già differito eventuali denunce per l’omesso versamento IVA 2023 (il Pubblico Ministero magari attende l’esito). Con l’apertura del concordato semplificato e poi l’omologa nel 2025, Delta è in procedura concorsuale. Gli amministratori di Delta, per quanto riguarda i reati tributari pregressi, possono:
    • Per l’omesso versamento IVA di €300k (art. 10-ter, soglia superata di molto): cercare di usare la causa di non punibilità per pagamento. In concordato però i debiti vengono pagati solo in parte: poniamo che su €300k IVA, il piano preveda pagamento del 20% = €60k. Questo non è “integrale pagamento”, dunque art. 13 c.1 non direttamente applicabile a loro. Tuttavia, se la chiusura del concordato (fine liquidazione) avverrà entro qualche anno e l’Erario incasserà i €60k, resta un debito residuo di €240k che verrà annullato dall’esdebitazione ma non pagato. Formalmente il reato sussiste ancora, ma i manager di Delta potranno cercare la clemenza ex particolare tenuità: volendo, il giudice potrebbe dire “hanno pagato parziale, l’azienda era in insolvenza (crisi conclamata), diamo tenuità”.
    • Per le dichiarazioni infedeli degli anni 2021-22 (500k evasi): se Delta presenta nel concordato i bilanci corretti e collabora, potrebbe rientrare nel ravvedimento operoso? Ormai tardi, perché ci sono procedure in corso. Difficile evitare il reato. Però anche qui: l’insolvenza e il concordato completato potrebbero portare i giudici a essere clementi con pene basse o patteggiamenti. Va ricordato che se Delta ha manipolato bilanci, potrà incorrere pure in reati fallimentari (bancarotta fraudolenta per falsi in bilancio o distrazioni se ve ne sono). In tal caso, spesso i reati tributari vengono “assorbiti” nel senso che la bancarotta come reato più grave copre il disvalore anche della frode fiscale (non giuridicamente, ma in sede di pena cumulata).
  • Confronto con fallimento: Se Delta avesse tirato avanti senza strumenti e fosse stata dichiarata fallita nel 2025, gli amministratori avrebbero affrontato: bancarotta (distrattiva se hanno nascosto beni, documentale se non tenuto conti), e comunque i reati tributari (che non si estinguono col fallimento). Avrebbero potuto ottenere qualche sconto di pena forse con la causa di cui all’art. 217-bis L.F. (pagamento di almeno 20% ai chirografari riduce pena per bancarotta semplice), ma nulla sul penale tributario se non avessero pagato. Invece col concordato, hanno almeno evitato l’accusa di bancarotta fraudolenta (perché non c’è fallimento, e se hanno eseguito concordato il 217-bis CCI li protegge dalle contravvenzioni di bancarotta semplice). Restano i reati fiscali, ma avendo intrapreso il concordato, in sede di condanna potrebbero invocare l’attenuante della collaborazione o ravvedimento (hanno comunque portato all’Erario un 20% e messo a disposizione tutto). Questo rientra un po’ nella discrezionalità del giudice.

Osservazione: Le procedure concorsuali non annullano i reati tributari, ma li possono mitigare molto. La giurisprudenza italiana vede di buon occhio l’imprenditore che sceglie il concordato rispetto a chi “lascia fallire” il tutto. Pertanto, all’atto pratico, amministratori che abbiano provocato un dissesto con reati fiscali annessi possono sperare in un trattamento più lieve se hanno provato a regolarizzare la crisi (concordato, pagamento parziale) rispetto a chi è fuggito lasciando debiti.

Domande Frequenti (FAQ) su crisi d’impresa e reati tributari

Domanda: Cosa si intende esattamente per “crisi di liquidità” di un’azienda?
Risposta: Si intende l’incapacità temporanea o prolungata dell’impresa di far fronte ai propri pagamenti, a causa di insufficiente liquidità di cassa o difficoltà ad accedere a nuove risorse finanziarie. In pratica, l’azienda non ha soldi sufficienti per pagare regolarmente fornitori, dipendenti, banche e fisco alle scadenze previste. La crisi di liquidità è spesso il preludio di una crisi più ampia (economica e patrimoniale) se non viene risolta. Segnali tipici sono: ritardi nei pagamenti, uso completo delle linee di credito, richiesta di dilazioni ai fornitori, aumento di debiti scaduti e via dicendo. Il Codice della crisi definisce lo “stato di crisi” come lo stato in cui l’insolvenza è probabile e i flussi di cassa prospettici non bastano per i prossimi 12 mesi.

Domanda: La crisi di liquidità può “giustificare” il mancato pagamento di tasse senza subire conseguenze?
Risposta: Fino a poco tempo fa la risposta generale era no: le difficoltà finanziarie dell’impresa non esoneravano dagli obblighi fiscali e i tribunali penali punivano l’omesso versamento di IVA o ritenute a prescindere dalla crisi (salvo casi di forza maggiore estrema). Dal 2023-2024 però c’è un’importante apertura: se la crisi di liquidità è non imputabile all’imprenditore ed è documentabile (ad es. dovuta a insolvenza di clienti, mancati pagamenti dalla PA, eventi straordinari), la legge prevede ora una causa di non punibilità per i reati di omesso versamento IVA e ritenute. Ciò significa che, in sede penale, l’imprenditore potrà essere esonerato da responsabilità se dimostra che davvero non aveva i fondi per pagare per cause esterne al suo controllo. Attenzione però: questo vale sul piano penale (evita la condanna al carcere), ma non cancella il debito fiscale. L’impresa resta comunque obbligata verso l’Erario e, se non paga, potrà subire riscossione coattiva o misure concorsuali. Inoltre, se la crisi è dovuta a generici problemi gestionali (calo vendite, inefficienze) non è di per sé esimente: dev’essere una crisi grave e documentata, non transitoria e legata a eventi specifici.

Domanda: Quali sono gli strumenti più efficaci per un imprenditore in difficoltà per prevenire il fallimento?
Risposta: Oggi l’ordinamento offre vari strumenti. In prima battuta, se la crisi non è ancora insolvenza conclamata, il più efficace è la Composizione negoziata della crisi, perché è volontaria, rapida e confidenziale: consente di ottenere l’aiuto di un esperto e congelare le azioni dei creditori mentre si cerca un accordo. Se la situazione lo permette, si può concludere un accordo di ristrutturazione (accordo omologato con la maggioranza dei creditori) o presentare un concordato preventivo (piano da sottoporre al voto a tutti i creditori). Per le aziende medio-piccole c’è anche il concordato semplificato dopo composizione negoziata, utile se non c’è tempo o modo di votare un piano. Tutti questi strumenti mirano ad evitare la liquidazione giudiziale (fallimento) permettendo di ristrutturare il debito, magari con stralci parziali. Un’altra opzione per crisi meno gravi è predisporre un piano attestato di risanamento con l’aiuto di professionisti: se credibile, i creditori potrebbero aderire su base volontaria e l’impresa evita procedure formali. In sintesi, l’imprenditore non dovrebbe aspettare il precipitare degli eventi: prima attiva uno strumento, più probabilità ha di salvare il business ed evitare il fallimento.

Domanda: Che differenza c’è tra concordato preventivo e concordato semplificato?
Risposta: Il concordato preventivo è la procedura concorsuale “classica”: l’imprenditore propone ai creditori un piano (di solito con pagamento parziale dei debiti e/o ristrutturazione) che viene votato dai creditori stessi. Serve il raggiungimento di maggioranze per l’approvazione e poi l’omologazione da parte del tribunale. Può essere in continuità (impresa prosegue) o liquidatorio. Invece il concordato semplificato (introdotto nel 2021) è una procedura speciale che non prevede il voto dei creditori: la può utilizzare un imprenditore solo dopo aver tentato senza successo la composizione negoziata. Egli presenta un piano che prevede la liquidazione del patrimonio e la distribuzione del ricavato ai creditori – il tribunale valuta ed eventualmente omologa il piano anche senza consenso dei creditori. È “semplificato” perché salta la fase del voto e alcune formalità, ma è riservato a situazioni di emergenza dove la trattativa è fallita. Inoltre può essere solo liquidatorio (non consente di continuare l’attività, se non vendendola a terzi). In breve: il concordato preventivo è l’opzione ordinaria e partecipativa; il semplificato è l’opzione di ultima istanza, un processo lampo per liquidare sotto controllo del tribunale senza passare dai creditori.

Domanda: Un imprenditore individuale con debiti può accedere alle stesse procedure di una società?
Risposta: In parte sì, in parte no. Un imprenditore individuale commerciale (non piccolo) è soggetto al Codice della crisi come una società: può usare la composizione negoziata, può fare concordato preventivo, ecc., e in caso di insolvenza può subire la liquidazione giudiziale (fallimento personale). Se però è un piccolo imprenditore sotto soglia (art. 2 CCII) oppure un imprenditore non commerciale (es. un professionista, un privato), non è soggetto a fallimento o concordato preventivo. In quel caso si applicano le procedure di “soluzione della crisi da sovraindebitamento” (introdotte dalla L. 3/2012, ora nel Codice della crisi): ad esempio il concordato minore (simile a un concordato ma per piccoli, con percentuali di voto diverse) o la liquidazione controllata del sovraindebitato (paragonabile al fallimento personale). Quindi, un artigiano individuale di piccole dimensioni non fallisce ma può chiedere la liquidazione controllata per liberarsi dai debiti residui (esdebitazione) o proporre un piano di ristrutturazione ai sensi degli artt. 65-73 CCII (prima chiamato piano del consumatore o accordo del debitore). In sintesi: le soluzioni esistono per tutti, ma la procedura specifica dipende dal tipo e dimensione del debitore. Va evidenziato che le società di persone (snc, sas) seguono le regole delle società: se falliscono, falliscono anche i soci illimitatamente responsabili; i soci però poi possono chiedere l’esdebitazione.

Domanda: Quali sono i reati tributari più comuni per cui un imprenditore può essere indagato?
Risposta: Dipende dal comportamento tenuto. Se l’azienda cerca attivamente di evadere creando fatture false o alterando contabilità, i reati in agguato sono la dichiarazione fraudolenta (art. 2 o 3) e l’emissione di fatture false (art. 8) – questi sono considerati i più gravi. Se invece l’azienda, per difficoltà, non versa imposte già dichiarate, i reati tipici sono l’omesso versamento di IVA (art. 10-ter) e omesso versamento di ritenute (art. 10-bis), che sono in realtà tra i più frequenti in assoluto, specie per imprese in crisi (si pensi che ogni anno decine di imprenditori vengono denunciati per non aver pagato IVA). Un altro reato abbastanza comune è l’omessa dichiarazione (art. 5), quando l’impresa salta completamente la dichiarazione dei redditi sperando di passare inosservata (sopra 50k evasi scatta). Nei periodi recenti, sta emergendo anche l’indebita compensazione (art. 10-quater), perché molti cercano di utilizzare in F24 crediti fiscali fasulli (si è visto con bonus edilizi falsi, crediti R&S non spettanti). Infine, per chi nasconde o distrugge conti, c’è l’occultamento di documenti contabili (art. 10). In sintesi: la “top five” è – omesso versamento IVA, omesse ritenute, dichiarazione infedele/fraudolenta, omessa dichiarazione, uso/emissione fatture false.

Domanda: Che rischi corre un imprenditore condannato per un reato tributario? (Oltre all’eventuale carcere)
Risposta: Oltre alla pena detentiva in sé, ci sono diverse conseguenze:

  • Come visto ci sono delle pene accessorie automatiche: per esempio, non potrà amministrare società per un certo periodo (6 mesi a 3 anni), non potrà avere appalti pubblici (1-3 anni), non potrà fare il consulente fiscale o partecipare a commissioni tributarie. Inoltre, la sentenza di condanna può essere pubblicata su giornali, con ovvio danno reputazionale. Queste misure scattano di diritto se condannato, salvo casi di patteggiamento sotto 2 anni (che evita pene accessorie).
  • Se la violazione fiscale è stata commessa nell’interesse dell’azienda, anche l’azienda (società) può subire sanzioni ex D.Lgs. 231/2001: tipicamente multe molto salate e interdizioni (divieto di pubblicità, esclusione gare, etc.). Ciò è rilevante soprattutto per frodi gravi (false fatture, ecc.). Ad esempio, una SRL i cui amministratori sono condannati per frode IVA da 1 milione può vedersi comminare una sanzione amministrativa come ente per centinaia di migliaia di euro e essere esclusa da appalti pubblici per un anno o più.
  • Sul piano civilistico, una condanna penale per frode fiscale può costituire prova in eventuali cause di responsabilità contro l’amministratore da parte dei soci o dei creditori. Inoltre, se l’impresa va in fallimento, la condanna per reati tributari è un elemento negativo che può precludere esdebitazioni o facilitazioni.
  • Da non dimenticare: la condanna penale non estingue affatto i debiti fiscali. Quindi l’imprenditore condannato dovrà comunque pagare le imposte evase, più interessi e sanzioni amministrative (a meno che non rientri in definizioni agevolate o transazioni nel frattempo).
    In sintesi, i rischi sono multi-livello: penale (carcere), professionale (impossibilità di operare in ruoli apicali per anni), economico (multe all’azienda) e reputazionale.

Domanda: Se l’azienda paga in ritardo le imposte evase, il titolare evita sempre la condanna?
Risposta: Non sempre, ma in molti casi sì. La legge premia molto chi paga spontaneamente il dovuto. Ci sono tre situazioni:

  1. Pagamento integrale tempestivo (prima del giudizio): per i reati di omesso versamento e alcuni dichiarativi, se paghi tutto prima dell’apertura del dibattimento, il reato non è punibile. Quindi in questi casi, sì, eviti la condanna del tutto (il processo neanche prosegue).
  2. Pagamento integrale tardivo (a processo avviato): se paghi tutto quando magari il processo è già iniziato (ma prima della sentenza di primo grado), non eviti la condanna ma prendi un forte sconto di pena (fino a 1/2) e niente pene accessorie. Spesso si riesce a patteggiare a una pena minima.
  3. Pagamento parziale o dopo condanna: il giudice può tenerne conto per attenuanti generiche o per la particolare tenuità, ma non c’è garanzia di evitare la condanna. Tuttavia, la recente estensione consente di pagare anche entro l’appello per ottenere la non punibilità. Dunque la finestra si è allungata.
    Eccezione: per i reati più gravi (frode con false fatture, etc.) pagare il dovuto (che di solito è frutto di un imbroglio) non estingue il reato, perché c’è un disvalore nella condotta oltre al danno erariale. Lì il pagamento serve solo a mostrare pentimento e può ridurre la pena, ma la condanna ci sarà comunque. In conclusione, per la maggior parte dei reati “da crisi” (omessi pagamenti), sì, pagando si evita la condanna; per le frodi elaborate, il pagamento da solo non basta, ma è comunque meglio di niente.

Domanda: Cosa succede ai debiti fiscali dell’imprenditore dopo un fallimento o un concordato?
Risposta: Nel fallimento (liquidazione giudiziale), i debiti fiscali vengono trattati come gli altri: se l’Erario ha privilegio (es. IVA, ritenute) sarà soddisfatto prima di chirografari, altrimenti prende una percentuale come gli altri. Dopo la chiusura del fallimento, l’imprenditore individuale può chiedere l’esdebitazione: significa che tutti i debiti residui (inclusi quelli fiscali) vengono cancellati e il soggetto riparte pulito, a patto di aver collaborato e non aver commesso irregolarità gravi. Quindi il fallimento + esdebitazione può cancellare anche i debiti con il Fisco, tranne quelli per sanzioni pecuniarie penali e poche eccezioni. Nel concordato preventivo, i debiti fiscali vengono gestiti nell’ambito della proposta: spesso si include una transazione fiscale in cui l’Erario accetta un pagamento parziale di imposte (oggi anche il solo pagamento parziale è ammesso per IVA e ritenute se c’è la maggioranza dei creditori complessivi). Se il concordato viene omologato, il debitore è liberato dai debiti falcidiati come da piano una volta eseguito. Quindi, se in concordato si prevede di pagare il 30% dell’IVA, il restante 70% viene cancellato una volta che l’azienda adempie al concordato. Attenzione: l’omologazione vincola anche l’Erario, per legge. Dunque il concordato è uno strumento per “transare” il debito fiscale in sede concorsuale, cosa che fuori da lì è difficile (se non tramite rate o definizioni). Infine, nelle procedure di sovraindebitamento per persone fisiche c’è l’esdebitazione del consumatore o la liquidazione controllata con esdebitazione finale, analoghe a quanto detto: al termine, fisco compreso viene stralciato (salvo malafede). Naturalmente, qualunque stralcio di debito fiscale in procedure concorsuali non incide su eventuali reati già commessi: come detto, l’estinzione del debito può aiutare a evitare/attenuare la condanna, ma se ad esempio uno ha già omesso versamenti per tot, il fatto che in concordato paga solo un pezzo non gli dà automaticamente l’esimente, a meno che la legge non lo consenta in quel contesto (nel 2023 si discute se l’omologa di un concordato con pagamento parziale equivalga a definizione del debito ex art. 13 Dlgs 74: la norma parla di “somme dovute correttamente definite e versate integralmente” prima dell’appello – in un concordato però non c’è pagamento “integrale” ma legale sì… è materia dibattuta).

Domanda: Un avvocato penalista può aiutare un imprenditore anche prima che vengano commessi reati tributari?
Risposta: Assolutamente sì, ed è anzi auspicabile coinvolgerlo precocemente. Un avvocato esperto di penale tributario può fare attività di consulenza preventiva, che significa: analizzare la situazione fiscale dell’azienda, individuare quali comportamenti potrebbero portare a responsabilità penali e suggerire come evitarli. Per esempio, se l’azienda è in ritardo con l’IVA, l’avvocato può consigliare di non presentare dichiarazioni infedeli o omettere dichiarazione pensando di guadagnare tempo (sarebbe peggio), ma piuttosto di presentare la dichiarazione corretta e poi valutare strumenti (ravvedimento, rateazione) per evitare il reato di omesso versamento. Oppure, se l’imprenditore sta valutando operazioni al limite (es. utilizzare un certo credito fiscale dubbio), l’avvocato può avvertirlo dei rischi penali di una compensazione indebita e suggerire semmai di chiedere un interpello all’Agenzia delle Entrate o di astenersi. L’avvocato può anche formare l’imprenditore su come tenere le scritture per evitare di incorrere in occultamento (ad esempio, scoraggiando doppi bilanci o contabilità parallele). Inoltre, in team con il fiscalista, può predisporre modelli organizzativi 231 per l’azienda, includendo protocolli per prevenire i reati tributari (d’ora in avanti sarà importante, visto che l’ente può essere imputato anch’esso). Quindi, il ruolo del legale non è solo repressivo ma anche proattivo di compliance: aiuta a costruire scudi (comportamentali e documentali) per non oltrepassare la sottile linea tra lecito ed illecito nell’ambito tributario. In particolare, durante situazioni di crisi, un avvocato può consigliare l’imprenditore di non usare certe prassi illecite (tipo creare false fatture per generare liquidità fittizia con le banche – purtroppo qualcuno lo fa – o non pagare l’IVA pensando “poi sistemerò”). Un buon legale dirà: “Attenzione, queste azioni possono portarti in carcere; meglio cerchiamo soluzioni lecite come la negoziazione, la richiesta di dilazioni, la ricerca di investitori, ecc.”. Dunque il suo apporto è fondamentale per evitare di commettere errori irreversibili.

Domanda: In caso di indagine per reati tributari, che strategie difensive sono possibili?
Risposta: Le strategie variano a seconda del tipo di reato e delle prove. Alcune possibili linee difensive:

  • Negare l’elemento soggettivo (dolo): ad esempio, per reati come l’infedele dichiarazione, sostenere che l’errore era dovuto a colpa (errata interpretazione) e non volontà di evadere – magari suffragato dal fatto che la materia era incerta (puntando all’esimente obiettiva incertezza).
  • Dimostrare cause di forza maggiore: soprattutto per omessi versamenti, provare che c’erano cause di forza maggiore (es. conto bancario pignorato da terzi, il ricavato di vendite vincolato da legge, ecc.) che hanno reso impossibile il pagamento. Ora con la crisi incolpevole questo rientra formalmente in esimente per IVA/ritenute.
  • Attivarsi per il pagamento: come difesa “attiva”, mostrare al giudice di aver pagato tutto (o buona parte) del dovuto prima della decisione. Questo come minimo porta all’attenuante speciale e spesso rende i giudici più propensi a soluzioni indulgenti (patteggiamento minimo, 131-bis se applicabile).
  • Questioni procedurali e di prova: ad esempio, contestare la quantificazione del tributo evaso (ridurre l’importo magari sotto soglia), eccepire la mancanza di certezza su alcuni elementi (nel penale vige l’onere della prova all’accusa – se c’è dubbio su un elemento, es. se una fattura sia soggettivamente inesistente o solo sovrafatturata, il dubbio va all’imputato).
  • Riti alternativi: valutare se conviene patteggiare (spesso sì, se la prova è schiacciante – col patteggiamento magari si evita la galera e si limitano i danni reputazionali). Oppure chiedere il perdono giudiziale se fosse una cosa minima (tenuità).
  • Contestare eventuali violazioni del ne bis in idem: in alcuni casi, se il contribuente è già stato sanzionato in via definitiva con una sanzione amministrativa elevata per la stessa condotta, si può tentare di far valere il principio del “già punito” in Europa (non punibilità bis in idem). Questo ha portato a qualche annullamento di condanne in passato per duplicazione di sanzioni, ma la legge italiana ha in parte risolto prevedendo che sanzioni amministrative e penali coesistono come complementari. Non è una difesa facile.
    In concreto, la miglior strategia viene calibrata dal legale studiando gli atti: ad esempio, se ci sono intercettazioni che provano la frode, negare l’addebito è inutile – meglio puntare a ridurre la pena cooperando e pagando. Se invece l’accusa si basa su presunzioni (tipico in reati fiscali è l’uso di presunzioni tributarie in sede penale, a volte contestabile perché in penale serve prova oltre ogni dubbio), il legale potrà attaccare la tenuta di quelle presunzioni.

Domanda: Che cos’è la transazione fiscale e come può aiutare in crisi?
Risposta: La transazione fiscale è un istituto previsto inizialmente dalla legge fallimentare (art. 182-ter L.F.) e ora confluito negli artt. 63-64 del Codice della crisi. Consente, nell’ambito di un concordato preventivo o di un accordo di ristrutturazione, di proporre all’Agenzia delle Entrate (e all’INPS per i contributi) il pagamento parziale o dilazionato dei debiti tributari e contributivi. In passato, per IVA e ritenute la legge non permetteva lo stralcio (bisognava pagarle al 100%), ma dal 2017 questa preclusione è caduta e oggi si può proporre anche il taglio di IVA/ritenute in concorsuale, purché l’offerta non sia inferiore a quanto il Fisco otterrebbe in caso di liquidazione fallimentare. In pratica, la transazione fiscale è il meccanismo per includere il Fisco in una soluzione negoziale della crisi: l’imprenditore presenta un piano in cui magari offre il 30% su tutti i debiti, e l’Agenzia Entrate (organo competente) valuta e, se la maggioranza dei creditori concorda, viene omologato dal tribunale anche contro l’eventuale dissenso del Fisco (ci sono formule di cram-down ora). Questo strumento è fondamentale perché spesso l’Erario è tra i principali creditori nelle crisi e senza il suo assenso non si andava lontano. Con la transazione fiscale si può ridurre sensibilmente il carico fiscale e contributivo, rendendo fattibile un piano di risanamento. Ad esempio, se un’azienda ha €1 milione di debiti fiscali, in un concordato potrebbe transare per pagarne 300 mila e ottenere lo stralcio di 700 mila. Per l’imprenditore è una liberazione e gli consente di ripartire con un debito fiscale ridimensionato. Naturalmente, l’accordo va onorato: se poi non paga quelle 300 mila, la transazione decade e lo Stato torna a esigere tutto (al netto di quanto preso). Da notare, come collegato al penale: se una transazione fiscale viene omologata e poi eseguita, ai fini penali quell’imposta si considera pagata integralmente? La dottrina propende di sì, perché la transazione ha modificato l’obbligazione originaria (lo Stato ha accettato il 30% come soddisfazione piena). Pertanto, l’imprenditore che rispetta la transazione potrebbe invocare la non punibilità ex art. 13 D.Lgs. 74/2000, avendo “estinto” il debito come concordato con lo Stato. Anche se non c’è giurisprudenza consolidata, è un argomento di difesa.

Domanda: Nella crisi aziendale, quali responsabilità penali possono sorgere oltre ai reati fiscali?
Risposta: Purtroppo diverse. Durante una crisi d’impresa, se la situazione degenera, entrano in gioco anche i reati fallimentari: per esempio, se l’azienda viene dichiarata fallita e si scopre che gli amministratori prima hanno distratto beni (portati via dal patrimonio) o preferito alcuni creditori ad altri in modo doloso o hanno falsificato i bilanci, possono essere accusati di bancarotta fraudolenta (artt. 322-323 CCII, ex art. 216 L.F.), reato grave punito fino a 10 anni. Anche la semplice aggravamento del dissesto per negligenza può portare a bancarotta semplice (meno grave ma sempre reato). Oltre a ciò: in situazioni di crisi può capitare, ad esempio, di incorrere in reati di sicurezza sul lavoro (se, per tagliare costi, si risparmia su misure di sicurezza e avviene un infortunio) o reati ambientali (magari l’azienda in crisi smaltisce illecitamente rifiuti per risparmiare). Oppure reati finanziari: se si cerca credito disperato presentando garanzie false o dati falsi in banca, si può finire per truffa o false comunicazioni. Anche non pagando stipendi o contributi si rischiano reati (l’omesso versamento di contributi previdenziali oltre una soglia è contravvenzione penale). Insomma, la crisi è un terreno minato dove, se l’imprenditore non è guidato bene, può compiere una serie di atti illegali nel tentativo di salvare la baracca. L’assistenza legale serve proprio a evitare questa “deriva”. C’è da dire che il Codice della crisi punta a far emergere per tempo la crisi proprio per evitare che si arrivi a reati: usando composizione negoziata o concordato, l’imprenditore opera sotto vigilanza e con trasparenza, riducendo la tentazione o il bisogno di fare mosse illegali. Quindi, oltre ai reati tributari, in crisi occhio a: bancarotta (se insolvenza conclamata), reati societari (falsi bilanci, illecita restituzione di capitali ai soci, ecc.), reati finanziari (usura se ci si rivolge a finanziatori sbagliati, ipotesi estrema), e via dicendo. Un avvocato esperto di crisi di impresa saprà valutare tutte queste potenziali responsabilità e orientare il cliente verso la legalità e la riduzione del danno.

Tabelle riepilogative

Di seguito presentiamo alcune tabelle riassuntive utili per schematizzare quanto esposto:

Tabella 1: Principali reati tributari a carico dell’imprenditore e relative pene (D.Lgs. 74/2000, situazione aggiornata al 2025)

Reato (art. D.Lgs. 74/2000)Condotta (soglie rilevanti)Sanzione penale (reclusione)Note (attenuanti/esimenti)
Dichiarazione fraudolenta mediante fatture false (art. 2)Usa fatture/documenti fittizi per evadere. Nessuna soglia di imposta; Forma attenuata se passivi fittizi < €100.000.4 – 8 anni (ridotta a 1½ – 6 anni se importi < €100k)Pagamento integrale entro anno succ. (ravvedimento) esclude pena; patteggiamento ≤2 anni esclude interdizioni. 231: sì (fino 500 quote).
Dichiarazione fraudolenta altri artifici (art. 3)Frode “gen. ” con mezzi fittizi diversi da fatture; Soglia: imposta evasa > €30k e elementi falsi > 5% del reddito o > €1.5 mln.3 – 8 anniRavvedimento operoso prima controlli esclude pena. 231: sì (500 quote).
Dichiarazione infedele (art. 4)Dati falsi in dichiarazione senza frode; Soglia: imposta evasa > €100k e elementi non dichiarati > 10% del totale (o > €2 mln).2 – 4 anni 6 mesi (massimo 4,5 anni)Ravvedimento entro anno succ. (dich. integrativa e pagamento) esclude reato. Particolare tenuità possibile se vicina a soglia. 231: solo frodi UE > €10 mln.
Omessa dichiarazione (art. 5)Non presentare la dichiarazione (redditi o IVA) entro 90 gg; Soglia: imposta evasa > €50k.2 – 5 anniSe dich. presentata entro anno succ. e pagato tutto, non punibile. 231: solo frodi IVA UE > €10 mln.
Emissione fatture false (art. 8)Emissione o rilascio di fatture/documenti per operazioni inesistenti (per far evadere altri); Attenuante se importi < €100k.4 – 8 anni (ridotta a 1½ – 6 anni se < €100k)Pagamento irrilevante per non punibilità (reato consumato). Pene accessorie pubblici uffici 1–3 anni. 231: sì (500 quote).
Occultamento/distruzione scritture (art. 10)Sottrazione o distruzione di contabilità obbligatoria, impedendo ricostruzione reddito/IVA.3 – 7 anniReato di pericolo: dolo specifico di evadere. 231: sì (400 quote).
Sottrazione fraudolenta al pagamento imposte (art. 11)Atti simulati o frodi su propri beni per evitare il pagamento di imposte (es. alienazioni fittizie); Soglia: imposte dovute > €50k.6 mesi – 4 anni (1 – 6 anni se importo > €100k)Spesso concomitante a condotte pre-fallimentari. Pagamento tardivo = attenuante. 231: sì (400 quote).
Omesso versamento ritenute (art. 10-bis)Non versare ritenute certificate (es. IRPEF dipendenti) entro scadenze; Soglia: > €150k per periodo d’imposta.6 mesi – 2 anniNon punibile se debito in rateazione e in regola coi pagamenti; Non punibile se “fatto non imputabile” (es. insolvenza terzi). Pagamento integrale prima dibattimento esclude punibilità.
Omesso versamento IVA (art. 10-ter)Non versare IVA annuale risultante da dichiarazione; Soglia: > €150k.6 mesi – 2 anniNon punibile se debito IVA in rateazione regolare; Non punibile se crisi di liquidità incolpevole (dopo incasso IVA). Pagamento integrale prima dibattimento esclude punibilità.
Indebita compensazione crediti non spettanti (art. 10-quater c.1)Uso in compensazione di crediti reali ma non spettanti (oltre limiti o requisiti); Soglia: > €50k annui.6 mesi – 2 anniNon punibile se obiettiva incertezza su spettanza credito. Pagamento integrale prima dibattimento esclude punibilità.
Indebita compensazione crediti inesistenti (art. 10-quater c.2)Uso in compensazione di crediti fittizi/inesistenti; Soglia: > €50k annui.1 anno 6 mesi – 6 anniCaso grave di frode. 231: solo frodi IVA transnazionali > €10 mln. Attenuante pagamento tardivo (riduzione fino a 1/3) possibile. Nessuna esimente di incertezza (credito inesistente è per definizione fraudolento).

Tabella 2: Scadenze fiscali e soglie oltre le quali scatta l’illecito penale

Adempimento fiscaleScadenza ordinariaQuando diventa reato?Riferimento Normativo
Versamento ritenute dipendenti (mensili)16 del mese successivo al pagamento salari (es. ritenute gennaio entro 16 febbraio)Se entro il 31 dicembre dell’anno successivo non sono versate ritenute per importo > €150.000 complessivi, scatta reato di omesso versamento (art. 10-bis).D.Lgs. 74/2000, art. 10-bis (soglia €150k)
Versamento IVA periodica (mensile/trimestrale)16 del mese successivo (mensile) o 16 del secondo mese successivo (trimestrale); liquidazione annuale a saldo entro 16 marzo (o a rate fino a nov)Se al 31 dicembre dell’anno di scadenza (ossia entro fine anno successivo al periodo IVA) l’IVA non versata supera €150.000, scatta reato (art. 10-ter). Es: IVA 2024 non pagata entro 16/3/25, se ancora non pagata >150k al 31/12/2025 -> reato.D.Lgs. 74/2000, art. 10-ter (soglia €150k)
Presentazione dichiarazione annuale redditi/IVARedditi (IRES/IRPEF) entro 30 novembre dell’anno successivo; IVA annuale entro 30 aprile (se separata) dell’anno successivoSe la dichiarazione non è presentata entro 90 giorni dalla scadenza (quindi oltre fine febbraio per redditi, oltre fine luglio per IVA) e l’imposta evasa supera €50.000, è reato di omessa dichiarazione.D.Lgs. 74/2000, art. 5 (soglia €50k)
Dichiarazione infedele (redditi o IVA)Come sopra – dichiarazione presentata ma con dati non veritieriSe imposta evasa > €100.000 e elementi sottratti > 10% del totale dichiarato o > €2.000.000, è reato di dich. infedele. Es: dich. 2024 presentata nov 2025 con €120k evasi e 15% redditi occultati = reato.D.Lgs. 74/2000, art. 4 (soglia €100k e 10%)
Certificazione Unica (ritenute)16 marzo dell’anno successivo (consegna al percettore) – invio telematico entro 16 marzo (o scadenze diverse)– L’omessa consegna o invio di CU in sé non è reato (sanzione amministrativa); rileva però perché senza “certificazione” formalmente l’art. 10-bis parla di ritenute dovute o certificate. In pratica, se il datore non certifica, l’omesso versamento potrebbe essere perseguito come indebita compensazione se ha compensato, o come appropriazione indebita (ma è raro).D.Lgs. 74/2000, art. 10-bis si riferisce a ritenute dovute o certificate.
Versamenti di altre imposte (es. IRES, IRAP)Saldo entro 30 giugno dell’anno successivo (o 30 luglio con 0.4% int.) – acconti a giugno e novembre dell’anno in corsoIl mancato versamento di imposte diverse da IVA/ritenute (es. IRES, IRAP) non è di per sé reato. Rimane soggetto a sanzione amministrativa (30%). Tuttavia, se per non pagare tali imposte si fanno atti fraudolenti (es. sottrarre beni al fisco), può configurarsi l’art. 11 (sottrazione fraudolenta).– (art. 11 per atti di frode al fine di non pagare imposte >€50k)
Compensazione crediti in F24Pagamento mediante compensazione contestuale di tributi con crediti (es. utilizzo di credito d’imposta X per pagare contributi, IVA, ecc.)Se vengono compensati crediti non spettanti o inesistenti oltre €50.000 in un anno, è reato (art. 10-quater). “Non spettante” = credito vero ma uso eccede limiti o condizioni; “inesistente” = credito fittizio. Sanzioni diverse: non spettante pena fino 2 anni, inesistente fino 6 anni.D.Lgs. 74/2000, art. 10-quater (soglia €50k)
Tenuta scritture contabiliObbligo conservazione libri, registri, fatture per almeno 10 anni; aggiornamento entro termini di legge (IVA entro 15gg, ecc.)Irregolarità contabili in sé = sanzioni amm.ve (fino €2k). Se però l’imprenditore occulta o distrugge volutamente le scritture, scatta reato art. 10 (anche prima dei 10 anni se lo fa per frodare il fisco). Se in procedura concorsuale mancano le scritture si configura pure bancarotta fraudolenta documentale.D.Lgs. 74/2000, art. 10 (nessuna soglia; dolo specifico richiesto).

Tabella 3: Strumenti di gestione della crisi d’impresa per tipologia di soggetto

Tipologia di impresa/debitoreComposizione negoziataConcordato preventivoConcordato semplificatoAccordo di ristrutturazioneLiquidazione giudiziale (fallimento)Procedure sovraindebitamento (concordato minore, liquidaz. controllata)
Ditta individuale commerciale (sopra soglie fall.)✔️ (accessibile)✔️ (impresa soggetta a fallimento se supera parametri)✔️ (dopo comp. negoziata fallita)✔️ (può omologare accordi se >60% crediti)✔️ (fallisce se insolvente, socio illimit. pure)No, non applicabile se fallibile (usa proc. ordinarie)
Piccolo imprenditore (sotto soglie art. 2 CCII)✔️ No (non soggetto a fallimento, dunque no concordato preventivo)No (riservato a sogg. fallibili)No (ADR riservati sogg. fallibili)No (non fallisce; va in liquidaz. controllata ex L.3/2012)✔️ : applica Concordato minore (artt. 74-83 CCII) o Liquidazione controllata (artt. 268-277 CCII).
Società di persone (snc, sas)**✔️ ✔️ (soggetta a fallimento se attività commerciale)✔️ (post-neg.negoziata)✔️ (può fare accordi ristrutt.)✔️ (società fallisce e anche soci illimitati falliscono personalm.)No (una volta soggetta a fall., non ricade in proc. sovraindebitamento)
Società di capitali (srl, spa)✔️ ✔️ (sempre soggette a fallimento se insolventi)✔️ (dopo comp. negoz.)✔️ (ADR possibili, soglia 60%)✔️ (liquidaz. giudiziale in caso insolvenza)No (non applicabile a soggetti fallibili)
Imprenditore agricolo✔️ No (agricolo non fallisce per legge)NoNoNo (non fallisce)✔️ : trattato come sovraindebitato (può fare accordo di ristrutt. debiti o liquidaz. controllata ex L.3)
Professionista / Consumatori (no impresa)✔️ (ammesso per estensione, es. professionisti possono accedere)No (non è imprenditore commerciale)NoNoNo (non soggetto a fall.)✔️ : Piano di ristr. per consumatore o accordo (art. 67 CCII) oppure liquidazione controllata (L.3)

Legenda: ✔️ = Strumento accessibile/applicabile; ❌ = Non applicabile per quella categoria.

(Nota: “sopra soglie fall.” indica soglie art. 2 CCII: attivo > €300k, ricavi > €200k, debiti > €500k circa; “imprenditore agricolo” e professionisti non sono fallibili per legge e ricadono nelle procedure di sovraindebitamento.)

Fonti e riferimenti (normativi e giurisprudenziali)

  • D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74 – “Nuova disciplina dei reati tributari”: Testo consolidato con modifiche fino al 2024. (Spec. artt. 2, 3, 4, 5, 8, 10, 10-bis, 10-ter, 10-quater, 11, 12, 13).
  • D.Lgs. 14/2019 – Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, con correttivi D.Lgs. 83/2022 e D.Lgs. 136/2024 (in vigore dal 15/7/2022). Definizione di “stato di crisi” (art. 2 c.1 lett. a); procedure di composizione negoziata (D.L. 118/2021 conv. L.147/2021) e concordato semplificato (art. 25-sexies CCI).
  • D.Lgs. 87/2024 – Riforma del sistema sanzionatorio penale tributario (cd. “Decreto sanzioni” 2024): ha introdotto l’esimente della crisi di liquidità non imputabile (art. 13 co.3-bis D.Lgs. 74/2000) e la non punibilità per incertezza obiettiva nella compensazione (art. 10-quater co.2-bis). Ha inoltre modificato art. 10-ter richiedendo IVA “effettivamente incassata” ai fini penali, e previsto la non punibilità in caso di rateizzazione in corso (nuovo art. 13 co.1-ter).
  • Cassazione Penale, Sez. III, 31 gennaio 2025 n. 4145 – In tema di dichiarazione infedele e particolare tenuità del fatto. Conferma che l’art. 131-bis c.p. può applicarsi anche su imposte evase non irrisorie, valutando pagamento successivo come indice (se non rientra in cause art.13 D.Lgs.74).
  • Cassazione Penale, Sez. III, 13 ottobre 2024 n. 41238 – Principio: “non commette reato l’imprenditore che non versa l’IVA perché non ha incassato le relative fatture”. Pronuncia che recepisce la nuova causa di non punibilità ex art. 13 co.3-bis in caso di insolvenza del debitore IVA (nella specie, mancato incasso da parte della P.A.).
  • Cassazione Penale, Sez. III, 20 settembre 2023 n. 35590 – (Cited via Baker Tilly news) Ha applicato la riforma 2024 annullando la condanna di un imprenditore pugliese che non aveva versato l’IVA a causa della crisi del suo principale committente (ILVA). Riconosciuta l’esimente della crisi incolpevole.
  • Documento Camera Deputati, Dossier n. 47, 2024 – Relazione di accompagnamento schema D.Lgs. attuativo delega fiscale (decreto sanzioni): illustra finalità della riforma, fra cui “ripensamento della risposta punitiva a fronte di scenari di crisi aziendale”, con interventi su artt. 10-bis, 10-ter e 13 (cause non punibilità e tenuità). Dettaglia nuovo testo art. 13: introduzione commi 3-bis e 3-ter e indicatori tenuità (a-d).
  • D.L. 26/10/2019 n. 124 (conv. L.157/2019) – Decreto fiscale 2020: ha abbassato soglie penali (IVA da 250k a 150k), aumentato pene frodi (ex art.2,3) e introdotto reati tributari nel catalogo 231.
  • D.L. 34/2023 (Decreto “Bollette”, conv. L.56/2023) art. 23: ha esteso termini di pagamento per causa non punibilità fino all’appello e previsto sospensione processo per rateizzazioni in corso (poi ripresa in D.Lgs.87/24).
  • Circolare Agenzia Entrate 4 agosto 2006 n. 28/E (cit. in Arch. Penale 2010) – chiariva che crisi di liquidità non esime da reato IVA salvo forza maggiore (interpretazione superata dalle nuove norme).
  • Codice Penale, art. 131-bis – Esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto. Parametri generali e applicabilità ai reati tributari valutati con indici introdotti da D.Lgs.87/2024.

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✅ Attiva procedure protette (composizione negoziata, accordo di ristrutturazione, concordato preventivo) per fermare sanzioni e azioni penali

✅ Collabora con i tuoi consulenti e commercialisti per costruire una linea di difesa solida, documentata e sostenibile

Le qualifiche dell’Avvocato Giuseppe Monardo

🔹 Avvocato esperto in diritto penale tributario, crisi d’impresa e contenzioso fiscale
🔹 Gestore della Crisi da Sovraindebitamento – iscritto al Ministero della Giustizia
🔹 Negoziatore della Crisi d’Impresa – abilitato ex D.L. 118/2021
🔹 Fiduciario OCC – Organismo di Composizione della Crisi

Perché agire subito

⏳ Ogni giorno di ritardo aumenta i rischi: sanzioni, interessi, blocchi fiscali e procedimenti penali

⚠️ Senza un piano strutturato, potresti rispondere personalmente per reati che potevano essere evitati o sanati

📉 Rischi concreti: denunce penali, interdizioni, sequestri aziendali e responsabilità personali

🔐 Solo un avvocato esperto può bloccare le conseguenze penali della crisi e salvare azienda e imprenditore

Conclusione

Una crisi di liquidità non è un reato, ma ignorarla può trasformarla in un incubo fiscale e giudiziario.
Con la giusta strategia, puoi difenderti, rientrare in regola e ripartire.

Affidarsi all’Avvocato Giuseppe Monardo significa scegliere una guida esperta nella difesa dell’impresa e dell’imprenditore, anche nei casi più gravi e complessi.

Qui sotto trovi tutti i riferimenti per richiedere una consulenza riservata e immediata.
Se la tua azienda è in crisi e rischi sanzioni o reati fiscali, il momento per agire è adesso.

Leggi con attenzione: Se stai affrontando difficoltà con il Fisco e hai bisogno di una rapida valutazione delle tue cartelle esattoriali e dei debiti, non esitare a contattarci. Siamo pronti ad aiutarti immediatamente! Scrivici su WhatsApp al numero 351.3169721 oppure inviaci un’e-mail all’indirizzo info@fattirimborsare.com. Ti ricontatteremo entro un’ora per offrirti supporto immediato.

Informazioni importanti: Studio Monardo e avvocaticartellesattoriali.com operano su tutto il territorio italiano attraverso due modalità.

  1. Consulenza digitale: si svolge esclusivamente tramite contatti telefonici e successiva comunicazione digitale via e-mail o posta elettronica certificata. La prima valutazione, interamente digitale (telefonica), è gratuita, ha una durata di circa 15 minuti e viene effettuata entro un massimo di 72 ore. Consulenze di durata superiore sono a pagamento, calcolate in base alla tariffa oraria di categoria.
  2. Consulenza fisica: è sempre a pagamento, incluso il primo consulto, il cui costo parte da 500€ + IVA, da saldare anticipatamente. Questo tipo di consulenza si svolge tramite appuntamento presso sedi fisiche specifiche in Italia dedicate alla consulenza iniziale o successiva (quali azienda del cliente, ufficio del cliente, domicilio del cliente, studi locali in partnership, uffici temporanei). Anche in questo caso, sono previste comunicazioni successive tramite e-mail o posta elettronica certificata.

La consulenza fisica, a differenza di quella digitale, viene organizzata a partire da due settimane dal primo contatto.

Disclaimer: Le opinioni espresse in questo articolo rappresentano il punto di vista personale degli Autori, basato sulla loro esperienza professionale. Non devono essere intese come consulenza tecnica o legale. Per approfondimenti specifici o ulteriori dettagli, si consiglia di contattare direttamente il nostro studio. Si ricorda che l’articolo fa riferimento al quadro normativo vigente al momento della sua redazione, poiché leggi e interpretazioni giuridiche possono subire modifiche nel tempo. Decliniamo ogni responsabilità per un uso improprio delle informazioni contenute in queste pagine.
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