Come Pagare Meno Tasse Con Una SAS Con Situazioni Debitorie

Hai una SAS con debiti verso l’Agenzia delle Entrate, l’INPS o i fornitori? Ti chiedi se è possibile ridurre il carico fiscale e sistemare la situazione prima che arrivino pignoramenti o azioni giudiziarie?

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in diritto tributario, crisi d’impresa e responsabilità nelle società di persone – ti spiega in modo chiaro e concreto come una SAS può affrontare le situazioni debitorie e pagare meno tasse, nel pieno rispetto della legge.

Scopri quali strumenti prevede il Codice della Crisi anche per le società di persone, come funziona la transazione fiscale, cosa possono fare i soci accomandatari per evitare responsabilità personali, in quali casi puoi chiedere la composizione negoziata, e come proteggere il patrimonio della società e dei soci dai creditori.

Alla fine della guida troverai tutti i contatti per richiedere una consulenza riservata con l’Avvocato Monardo, valutare la posizione fiscale e debitoria della tua SAS, e costruire una strategia concreta per ridurre i debiti, alleggerire la pressione fiscale e dare una seconda possibilità alla tua attività.

Introduzione

La Società in accomandita semplice (S.a.s.) è una forma societaria di persone molto diffusa tra le piccole e medie imprese italiane. In una S.a.s. coesistono due tipologie di soci: i soci accomandatari, che amministrano la società e rispondono illimitatamente dei debiti sociali, e i soci accomandanti, che sono investitori con responsabilità limitata al capitale conferito. Questa struttura mista comporta vantaggi e criticità peculiari, soprattutto quando la società accumula debiti significativi. In situazioni debitorie complesse, diventa fondamentale pianificare attentamente sia le strategie di risanamento finanziario sia le mosse per ridurre il carico fiscale in modo legale. Pagare meno tasse (o meglio, ottimizzare il carico fiscale) per una S.a.s. indebitata significa massimizzare tutte le agevolazioni, le deduzioni e le misure di legge disponibili affinché le risorse economiche vengano destinate prioritariamente al riequilibrio dei debiti anziché al fisco.

Aggiornamento normativo (Maggio 2025): la guida è aggiornata alle ultime novità legislative italiane in materia fiscale e concorsuale. Negli ultimi anni l’ordinamento ha visto importanti riforme: l’entrata in vigore del Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (D.lgs. 14/2019), con i suoi correttivi fino al 2024, ha introdotto nuovi strumenti di gestione della crisi (come la composizione negoziata e il concordato “minore”), nonché la possibilità di trattare in modo più flessibile i debiti fiscali nei piani di ristrutturazione. Parallelamente, in ambito tributario, il legislatore ha varato misure di “tregua fiscale” come la rottamazione-quater (definizione agevolata delle cartelle esattoriali 2000-2022) e lo stralcio automatico dei mini-debiti fino a 1.000 euro, per alleviare il peso dei carichi pendenti. Inoltre, la Legge Delega n. 111/2023 (Riforma Fiscale) preannuncia ulteriori interventi nel 2025, tra cui l’estensione della transazione fiscale ai tributi locali e procedure liquidatorie speciali. Questo contesto normativo in evoluzione offre oggi a imprenditori e professionisti una “cassetta degli attrezzi” più completa per affrontare situazioni di sovraindebitamento preservando, ove possibile, la continuità aziendale e riducendo il peso fiscale complessivo in modo lecito.

Obiettivi della guida: fornire una panoramica avanzata – ma dal taglio pratico – delle strategie legali, fiscali e contabili per ridurre l’imposizione fiscale di una S.a.s. gravata da debiti. Ci rivolgeremo in particolare a professionisti legali, consulenti fiscali e imprenditori, adottando un linguaggio tecnico-giuridico ma con finalità divulgative. Verranno analizzate le possibili soluzioni di risanamento (dalla rateizzazione delle imposte alla transazione fiscale nel concordato) e le tecniche di pianificazione fiscale consentite dalla normativa vigente. Dedicheremo inoltre specifica attenzione alle peculiarità dei principali settori economici – edilizia, commercio, tecnologia, servizi, agricoltura, industria, trasporti, turismo – evidenziando per ciascuno eventuali incentivi o regimi speciali utili a ridurre il carico tributario in scenari di crisi. Non mancheranno riferimenti a casi concreti e recenti pronunce giurisprudenziali, per dare conto di come la teoria si applichi nella pratica. Infine, la guida include tabelle riepilogative, una sezione di domande frequenti (FAQ) e alcune simulazioni pratiche riferite al contesto italiano, allo scopo di consolidare la comprensione con esempi numerici e casi ipotetici realistici.

Nota: “Pagare meno tasse” in questa guida va inteso esclusivamente come riduzione legale e fisiologica del carico fiscale, tramite l’uso di agevolazioni, ristrutturazioni del debito e corretta pianificazione, escludendo qualsiasi forma di evasione o illecito. Le strategie illustrate mirano a ottimizzare la posizione tributaria della S.a.s. nel rispetto delle norme, approfittando delle opportunità offerte dall’ordinamento per imprese in difficoltà. Nei paragrafi seguenti inizieremo delineando il quadro generale della S.a.s. e della sua tassazione, per poi passare alle tecniche di pianificazione fiscale in presenza di debiti e agli strumenti di regolazione della crisi d’impresa, con focus infine sulle specificità settoriali.

La S.a.s.: Struttura, Responsabilità e Regime Fiscale

Caratteristiche della S.a.s. e responsabilità dei soci

La Società in accomandita semplice (S.a.s.) è una società di persone nella quale convivono due categorie di soci con ruoli giuridici differenti. I soci accomandatari hanno il potere di gestione e rappresentanza della società e, di conseguenza, assumono una responsabilità illimitata e solidale per tutti i debiti sociali (analogamente ai soci di una S.n.c.). Ciò significa che, se la società non paga i propri debiti, i creditori possono rivalersi anche sul patrimonio personale di ciascun accomandatario (conti bancari, immobili, stipendi, ecc.), previa escussione del patrimonio sociale. Inoltre, in caso di fallimento (oggi liquidazione giudiziale) della S.a.s., la procedura concorsuale si estende automaticamente a tutti i soci accomandatari, travolgendo i loro beni personali (ex art. 147 L.Fall., ora art. 256 CCII). Il rischio imprenditoriale per l’accomandatario è dunque massimo: errori gestionali o rovesci di mercato possono mettere in gioco l’intero suo patrimonio.

I soci accomandanti, invece, sono meri investitori esclusi dall’amministrazione: essi godono di responsabilità limitata ai conferimenti effettuati. In linea di principio un accomandante può perdere al massimo il capitale apportato e gli utili non distribuiti, senza obblighi ulteriori verso i creditori sociali. Il Codice Civile sancisce espressamente questa limitazione: “i soci accomandanti rispondono limitatamente alla quota conferita” (art. 2313, c.1 c.c.) e non assumono i doveri dei soci illimitatamente responsabili (art. 2318 c.c.). Importante corollario è che i creditori della società (incluso il Fisco) non possono agire direttamente sul patrimonio del socio accomandante per i debiti sociali. Tale regola, confermata più volte dalla Corte di Cassazione, vale anche per le obbligazioni tributarie: ad esempio, un accomandante non può essere destinatario di una cartella di pagamento per IVA o imposte dovute dalla S.a.s., salvo casi eccezionali.

L’unica deroga alla limitazione di responsabilità dell’accomandante si ha se questi interferisce nella gestione, violando il divieto di immistione previsto dall’art. 2320 c.c. In base a tale articolo, “il socio accomandante non può compiere atti di amministrazione né trattare o concludere affari in nome della società, pena la perdita della limitazione di responsabilità”. In altre parole, se un accomandante partecipa di fatto alla gestione come se fosse un amministratore, egli viene equiparato a un accomandatario e diventa illimitatamente responsabile verso i creditori sociali. La giurisprudenza ha ritenuto, ad esempio, che un accomandante che impartiva direttive ai dipendenti e influiva sulle scelte aziendali dovesse rispondere dei debiti come socio accomandatario di fatto. Dunque il socio accomandante deve mantenere una rigorosa distinzione di ruolo: ogni ingerenza operativa può costargli la protezione offerta dalla sua posizione.

Implicazioni pratiche: in caso di situazione debitoria grave della S.a.s., gli accomandatari saranno esposti personalmente per le passività residue non coperte dal patrimonio sociale. Anche dopo l’eventuale scioglimento e cancellazione della società, i creditori potranno agire contro di loro per il pagamento. Gli accomandanti, invece, non rischiano il proprio patrimonio oltre la quota conferita, a meno che – come detto – abbiano assunto di fatto comportamenti gestori proibiti. Questa differenza incide sulle strategie di risanamento: spesso gli accomandatari, consapevoli della responsabilità illimitata, sono incentivati a trovare accordi con i creditori o ad accedere a procedure concorsuali minori per contenere il debito, mentre gli accomandanti (se rimangono “passivi”) non subiscono azioni dirette. Tuttavia, i debiti della S.a.s. possono riflettersi indirettamente su tutti i soci: ad esempio, se la società smette di pagare le imposte, l’Agenzia delle Entrate potrà iscrivere ipoteca su immobili sociali e (per la parte di responsabilità illimitata) su quelli degli accomandatari; ciò può spingere anche gli accomandanti a favorire soluzioni di risanamento pur di salvaguardare l’investimento e l’avviamento aziendale.

Riassumendo: accomandatari = potere di gestione e responsabilità personale totale sui debiti sociali; accomandanti = ruolo di capitale di rischio con responsabilità limitata, purché restino fuori dalla gestione. Questa configurazione influenza le modalità di pagamento dei debiti e la ripartizione del carico fiscale: gli accomandatari, essendo titolari di reddito d’impresa e obbligati in solido, saranno chiamati a pagare imposte sui redditi della S.a.s. e contributi, nonché gli eventuali debiti tributari non estinti dalla società; gli accomandanti dichiareranno i redditi di partecipazione ma in genere non versano contributi e non possono essere obbligati per le imposte sociali, se non nelle ipotesi eccezionali viste. Nei prossimi paragrafi vedremo in dettaglio come viene tassata una S.a.s. e quali strumenti esistono per alleggerire legalmente il suo carico fiscale, tenendo a mente questo assetto di responsabilità differenziate.

Regime fiscale della S.a.s.: tassazione per trasparenza e imposte dovute

Dal punto di vista fiscale, la S.a.s. è una società di persone “fiscalmente trasparente”. Ciò significa che il reddito prodotto dalla società non viene assoggettato ad IRES (come accadrebbe in una società di capitali), ma viene attribuito pro-quota ai soci ed entra nelle loro dichiarazioni dei redditi individuali, indipendentemente dall’effettiva distribuzione di utili. In altri termini, l’utile della S.a.s. “passa attraverso” la società e viene tassato direttamente in capo ai soci, secondo la rispettiva percentuale di partecipazione. Contestualmente, la S.a.s. come ente è soggetta ad alcune imposte proprie, prima fra tutte l’IRAP (Imposta Regionale sulle Attività Produttive) dovuta sul valore della produzione netta regionale.

Imposte principali in una S.a.s.:

  • IRAP: imposta calcolata sull’utile operativo della società, con aliquota ordinaria del 3,9% (salvo maggiorazioni regionali o settoriali). La base imponibile IRAP è sostanzialmente l’utile d’impresa risultante dal conto economico, con alcune variazioni fiscali (ad esempio il costo del lavoro per dipendenti e collaboratori non è deducibile ai fini IRAP, salvo detrazioni forfettarie). La S.a.s. è soggetto passivo IRAP e deve versarla annualmente sul proprio utile, anche se in perdita ai fini IRPEF (poiché l’IRAP non ammette il riporto delle perdite). Dal 2022 è stata abolita l’IRAP per le ditte individuali e professionisti, ma non per le società di persone commerciali, che continuano a pagarla. Dunque una S.a.s. paga IRAP sul suo utile imponibile al 3,9% (aliquota che può variare leggermente per alcune Regioni o settori, ad esempio le imprese agricole e le imprese concessionarie autostradali hanno aliquote diverse).
  • IRPEF per trasparenza: il reddito imponibile della S.a.s., determinato secondo le regole del TUIR (Testo Unico Imposte sui Redditi) per il reddito d’impresa, viene attribuito a ciascun socio in proporzione alla sua quota di partecipazione agli utili. Ciascun socio dichiara tale reddito nella propria dichiarazione dei redditi e lo assoggetta all’IRPEF con le aliquote progressive per scaglioni (23%, 25%, 35% fino al 43% oltre 50.000 € di reddito imponibile annuo, secondo la legge di Bilancio 2022). Pertanto, se la S.a.s. realizza un utile, ad esempio, di 100.000 € e i soci hanno ciascuno il 50%, ognuno dovrà aggiungere 50.000 € al proprio reddito personale e pagarci l’IRPEF in base al proprio scaglione. Nota: anche se l’utile non viene prelevato dalla società (rimane in riserva), fiscalmente viene comunque tassato in capo ai soci per trasparenza. Di converso, se la S.a.s. subisce una perdita fiscale, tale perdita viene anch’essa attribuita ai soci (in proporzione) e può essere da loro utilizzata in compensazione con altri redditi d’impresa propri o portata a nuovo secondo le regole del TUIR. La tassazione per trasparenza evita la “doppia imposizione” tipica delle società di capitali (dove c’è prima l’IRES sulla società e poi l’IRPEF sui dividendi), ma può risultare penalizzante per soci persone fisiche con aliquote IRPEF alte, rispetto al regime dell’IRES fisso al 24%. Valuteremo in seguito eventuali strategie legate a questo aspetto.
  • Contributi previdenziali (INPS): i soci accomandatari, in quanto imprenditori attivi che partecipano al lavoro aziendale, sono tenuti all’iscrizione alla Gestione INPS Artigiani o Commercianti (a seconda della natura dell’attività sociale) e al pagamento dei relativi contributi sui redditi di partecipazione. L’aliquota contributiva è attorno al 24% del reddito d’impresa attribuito (oltre a un minimale annuo obbligatorio). I soci accomandanti generalmente non sono tenuti a contributi INPS sul reddito di partecipazione, poiché per legge non possono svolgere attività lavorativa per la società in modo qualificato (se lo facessero, verrebbero considerati accomandatari di fatto). Pertanto il reddito degli accomandanti è colpito solo da IRPEF, senza oneri previdenziali aggiuntivi, mentre il reddito degli accomandatari sconta IRPEF + contributi. Questa distinzione ha effetti sul “total tax rate” effettivo: avere parte dei soci come accomandanti (non lavoratori) riduce il carico contributivo complessivo. Ad esempio, in una S.a.s. con 4 soci al 25% (di cui 2 accomandatari e 2 accomandanti) e utile annuo 100.000 €, il carico fiscale/contributivo potrebbe essere: IRAP ~3.900 € (3,9%), contributi INPS circa 6.000 € per ciascun accomandatario (su 25.000 € a testa), IRPEF circa 23.800 € totali sui quattro soci (ipotesi: i 25.000 € di reddito per socio ricadono parte al 23% e parte al 25%). In tal caso il prelievo complessivo sarebbe ~33.700 €, pari a ~33,7% dell’utile. Se invece tutti e 4 fossero accomandatari (tutti soggetti a INPS), il prelievo salirebbe considerevolmente (più contributi, e l’IRPEF in parte maggiore per l’innalzarsi degli scaglioni su redditi personali più elevati) arrivando anche oltre il 50%. Questo esempio illustra come la composizione tra soci lavoratori e non lavoratori possa incidere sul peso fiscale/previdenziale di una S.a.s.
  • Altre imposte e oneri: come ogni attività economica, anche la S.a.s. è soggetta alle altre imposte tipiche: IVA (Imposta sul valore aggiunto) sulle vendite di beni e servizi, ritenute su redditi di lavoro dipendente o autonomo corrisposti (da versare periodicamente), IMU/TASI sugli immobili eventualmente intestati alla società, imposta di registro su contratti, etc. In particolare, il versamento dell’IVA e delle ritenute operate riveste carattere critico in situazioni di crisi, perché il mancato versamento oltre soglie di punibilità può configurare reati tributari (si pensi all’omesso versamento IVA > 250.000 € annui, punito dall’art. 10-ter D.Lgs. 74/2000): torneremo su questo punto parlando della gestione delle imposte correnti in contesti di tensione finanziaria.

In sintesi, la S.a.s. paga meno tasse “societarie” in senso stretto rispetto a una società di capitali, in quanto non c’è l’imposta sui redditi societari (IRES) al 24%; tuttavia, i soci persone fisiche possono trovarsi a pagare aliquote IRPEF elevate sul reddito di partecipazione, e i soci accomandatari hanno un peso contributivo non trascurabile. Dal lato fiscale puro, la trasparenza può essere vantaggiosa per redditi bassi o medi (beneficiando della no tax area e delle aliquote IRPEF minori nei primi scaglioni), ma diventa onerosa per utili ingenti che spingono i soci nei massimi scaglioni IRPEF (43% oltre 50.000 €). Ciò è uno dei motivi per cui, a volte, in fase di pianificazione straordinaria si valuta la trasformazione della S.a.s. in S.r.l. o S.p.A., specialmente se l’impresa genera alti utili reinvestiti: il regime IRES consente di tassare gli utili al 24% e posticipare la tassazione degli azionisti al momento dei dividendi (27% di ritenuta), con possibili vantaggi in termini di cash flow e protezione patrimoniale. D’altra parte, in presenza di perdite, la trasparenza consente ai soci di utilizzare immediatamente il risultato negativo, mentre una società di capitali vedrebbe la perdita “bloccata” in capo ad essa (con riporto a nuovo illimitato ma senza immediato effetto sulle persone fisiche).

Pagare meno tasse con una S.a.s., in generale, significa sfruttare appieno le caratteristiche di questo regime fiscale: ad esempio, se vi sono più soci familiari, suddividere l’utile su di essi riduce la concentrazione del reddito su un’unica persona (evitando di far scattare aliquote IRPEF alte); oppure, come vedremo, qualificare la società come “società agricola” può dare accesso a tassazione catastale agevolata; ancora, la scelta del numero di accomandatari e accomandanti incide sui contributi dovuti. Queste considerazioni rientrano nella pianificazione fiscale lecita che un buon consulente può fare anche a prescindere da stati di crisi. Quando però la S.a.s. versa in cattive acque, con debiti elevati, diventano cruciali ulteriori strategie specifiche, di natura sia fiscale sia concorsuale, per alleggerire il peso delle imposte e destinare le risorse al risanamento. Tali strategie – dalla massimizzazione dei costi deducibili alla rinegoziazione dei debiti tributari – saranno illustrate nei capitoli seguenti.

Pianificazione Fiscale in Presenza di Debiti

Quando una S.a.s. si trova ad affrontare difficoltà finanziarie e accumula debiti (verso banche, fornitori, Fisco o altri creditori), è essenziale attuare una pianificazione fiscale accorta. L’obiettivo è duplice: da un lato ridurre al minimo l’esborso per imposte correnti, evitando che il pagamento delle tasse prosciughi liquidità vitale per l’azienda; dall’altro minimizzare l’imposizione su eventuali operazioni straordinarie di risanamento, come accordi di riduzione del debito o cessioni di beni, in modo da non aggravare ulteriormente la situazione debitoria. In questa sezione analizziamo le principali leve legali e contabili a disposizione per pagare “meno tasse” in modo legittimo quando la S.a.s. è indebitata, preservando al tempo stesso la compliance fiscale (evitando quindi di incorrere in sanzioni o problemi maggiori).

Ottimizzazione dei costi deducibili e utilizzo delle perdite fiscali

Una prima linea di intervento consiste nell’assicurarsi che tutti i costi deducibili e le agevolazioni spettanti siano opportunamente colti, così da abbattere il reddito imponibile della S.a.s. nei periodi di crisi. Un’azienda in difficoltà spesso presenta margini ridotti o perdite; tuttavia, può capitare che anche in anni di crisi vi sia un utile fiscale (ad esempio per la vendita di cespiti o altre operazioni). In questi casi, è fondamentale massimizzare le deduzioni disponibili per ridurre (o azzerare) l’utile tassabile:

  • Interessi passivi sui debiti finanziari: se la S.a.s. ha esposizioni verso banche o altri finanziatori, gli interessi passivi pagati sono in genere costi deducibili dal reddito d’impresa. La normativa italiana pone dei limiti alla deducibilità degli interessi (art. 96 TUIR per i soggetti IRES, applicato anche alle società di persone commerciali): in linea generale, gli interessi passivi sono deducibili fino a concorrenza degli interessi attivi; l’eventuale eccedenza è deducibile nel limite del 30% del Risultato Operativo Lordo (ROL) dell’esercizio. Se non dedotti, gli interessi eccedenti possono essere riportati a nuovo senza scadenza. In pratica, durante una crisi il ROL può essere basso o negativo, limitando la deduzione immediata degli interessi – ma tali interessi si accumuleranno a credito per deduzioni future. È importante calcolare bene questo meccanismo e, se possibile, valutare azioni per incrementare il ROL (ad es. vendendo scorte obsolete per generare margine operativo) in modo da sfruttare più deduzione di interessi in quell’anno. In alternativa, in sede di procedura concorsuale (concordato preventivo o accordo di ristrutturazione) si può considerare di convertire parte del debito finanziario in capitale o altra forma, riducendo il carico di interessi futuri. Dal punto di vista fiscale, ogni euro di interesse dedotto è un euro di utile in meno tassato per trasparenza (quindi potenzialmente fino a 43 centesimi di IRPEF risparmiati per i soci). Attenzione: qualora la S.a.s. sia composta anche da soci persone giuridiche (caso raro ma possibile), occorre valutare il regime di deducibilità degli interessi anche in capo ad essi.
  • Ammortamenti e svalutazioni: in situazioni di difficoltà, è buona prassi rivedere il piano di ammortamento dei beni aziendali e considerare eventuali svalutazioni di attività iscritte a bilancio (crediti inesigibili, rimanenze obsolete, partecipazioni di valore calato). La normativa fiscale prevede limiti per la deducibilità delle svalutazioni crediti (deducibili entro certi limiti per le imprese di minori dimensioni, altrimenti deducibili solo in caso di elementi certi e precisi, come procedure esecutive infruttuose, o nell’ambito di accordi di ristrutturazione omologati). Tuttavia, se la S.a.s. ha crediti commerciali di difficile incasso, è opportuno procedere allo stanziamento di un fondo svalutazione crediti congruo: civilmente ciò riflette correttamente il patrimonio netto, e fiscalmente le perdite su crediti potranno essere dedotte quando si manifesteranno (o prima, se si rientra nelle condizioni di legge). Anche gli ammortamenti di beni materiali e immateriali andrebbero portati avanti senza rinvii: la deduzione delle quote di ammortamento riduce l’utile tassabile. Anzi, se l’impresa ha effettuato investimenti ammissibili a super-ammortamenti o iper-ammortamenti (regime valido fino al 2019, poi sostituito dai crediti d’imposta “Industria 4.0”), conviene assicurarsi di fruire di tali maggiorazioni figurative che aumentano la quota deducibile. Ad esempio, un macchinario acquistato nel 2019 con iper-ammortamento al 250% consente ancora nel 2025 quote deducibili maggiorate (se non completamente dedotto), riducendo il reddito imponibile.
  • Componenti straordinari di reddito e perdite pregresse: se la S.a.s. negli anni precedenti ha accumulato perdite fiscali, queste possono essere riportate a nuovo e compensate con i futuri redditi d’impresa (per le società di persone e i soci persone fisiche, le perdite d’impresa ante 2018 sono riportabili solo entro il quinto anno; le perdite 2018 e seguenti sono riportabili senza limite di tempo ma utilizzabili solo nella misura dell’80% del reddito di ciascun anno, salvo che siano perdite dei primi tre anni di nuova attività, utilizzabili al 100%). In uno scenario di risanamento, è fondamentale sfruttare le perdite pregresse per abbattere eventuali utili futuri derivanti dal rilancio dell’azienda. Ciò ridurrà drasticamente le imposte dovute nei primi esercizi di ritorno all’utile. Bisogna perciò monitorare la scadenza delle perdite riportabili a tempo e pianificare quando utilizzarle. Inoltre, se nel percorso di ristrutturazione del debito una parte dei debiti viene stralciata (remissione da parte di creditori), occorre prestare attenzione al trattamento fiscale delle sopravvenienze attive da esdebitazione (cioè il “guadagno” che la società realizza venendo liberata da un debito senza pagarlo interamente). Secondo l’art. 88, comma 4-ter del TUIR, le sopravvenienze attive derivanti da riduzione dei debiti NON concorrono a formare il reddito imponibile se derivano da procedure concorsuali come il concordato preventivo (liquidatorio) o il fallimento, o da accordi di ristrutturazione dei debiti omologati, oppure – parzialmente – se derivano da concordati in continuità o piani attestati di risanamento. In pratica, la legge fiscale “premia” le esdebitazioni attuate in sede concorsuale: ad esempio, se una S.a.s. ottiene in un concordato il taglio di debiti per 500.000 €, tale importo cancellato non sarà tassato come sopravvenienza (eccetto l’eventuale parte che eccede le perdite pregresse già utilizzate). Ciò è fondamentale: diversamente, l’azienda si troverebbe a dover pagare tasse su un “utile” meramente contabile derivante dallo sconto dei debiti, il che sarebbe paradossale in una situazione di crisi. Importante: la non imponibilità piena si applica alle esdebitazioni da concordato liquidatorio e fallimento; per concordati di risanamento, accordi 182-bis e piani attestati è prevista un’imponibilità parziale nella misura in cui la sopravvenienza attiva copre perdite non ancora utilizzate (semplificando molto: prima si usano le perdite pregresse all’80%, poi l’eventuale eccedenza di debito stralciato può beneficiare di detassazione). È un tema tecnico su cui conviene farsi assistere da un tributarista: la regola generale è che conviene effettuare le riduzioni del debito all’interno di strumenti giuridici di regolazione della crisi (accordi, concordati, ecc.) per godere della detassazione della sopravvenienza attiva. Se invece un debitore ottiene uno sconto del debito in via meramente privatistica (fuori da procedure omologate), rischia di vedersi tassare come ricavo imponibile la parte di debito condonata dal creditore. Dunque, ai fini di “pagare meno tasse” è cruciale inquadrare correttamente giuridicamente l’operazione di taglio del debito. Nella sezione sugli strumenti di risanamento vedremo la transazione fiscale, che tra l’altro consente di evitare l’emersione di sopravvenienze attive immediate per la parte di tributi abbattuta (poiché l’accordo con il Fisco viene omologato dal tribunale).
  • Regimi contabili e fiscali agevolati: un’azienda in crisi potrebbe valutare, se di piccole dimensioni, l’adozione di regimi semplificati che comportino minor carico fiscale. Ad esempio, se la S.a.s. ha ricavi ridotti entro i limiti di legge, può applicare la contabilità semplificata (meno costosa in termini amministrativi) e la determinazione del reddito per cassa (introdotta dal 2017 per imprese minori): tassare il reddito per cassa può rinviare l’imposizione di utili non ancora incassati, aiutando la liquidità. Inoltre, se l’attività lo consente e la dimensione è molto piccola, potrebbe valutarsi la trasformazione in impresa individuale e l’adesione al regime forfettario (aliquota 15% sostitutiva) – ma questa strada è estrema e implica lo scioglimento della S.a.s., trasferimenti d’azienda, ecc., con rischi e costi che spesso la sconsigliano (oltre al fatto che i debiti pregressi resterebbero in capo agli ex accomandatari). Di norma, dunque, ci si concentra su misure interne alla S.a.s. esistente. Un’altra area da esplorare è la detassazione degli investimenti in equity: se i soci o nuovi investitori apportano capitali freschi per salvare l’azienda, si può beneficiare dell’ACE (Aiuto alla Crescita Economica) – un’agevolazione che consente una deduzione dal reddito proporzionale al nuovo capitale proprio conferito. L’ACE mira a parificare il trattamento fiscale tra finanziamento con debito e con capitale: per il 2025 il rendimento nozionale ACE è attorno al 1.3-1.5%. In pratica, se i soci versano 100.000 € di nuovo capitale nella S.a.s., la società (trasparente) può dedurre circa 1.300-1.500 € di imponibile ogni anno, riducendo le imposte per circa 600 € (ipotizzando aliquota marginale 43%). Non è molto, ma è comunque un risparmio fiscale annuo che premia il risanamento tramite capitalizzazione. Inoltre, l’ACE non utilizzata per incapienza può essere riportata e anche trasformata in credito IMU. Sebbene importi modesti, ogni risparmio conta.

In sintesi, in fase di pianificazione fiscale “ordinaria” durante la crisi, la S.a.s. dovrebbe: dedurre tutto il deducibile (interessi, ammortamenti, accantonamenti consentiti), utilizzare le perdite pregresse per non versare imposte sugli eventuali utili risicati, e strutturare eventuali accordi di riduzione del debito in forme tali da non generare imposizione su sopravvenienze attive. Tutto ciò ovviamente nel rispetto delle norme e con adeguata documentazione (le operazioni straordinarie vanno supportate da perizie, piani di risanamento attestati, ecc. quando richiesto). Così facendo, si minimizza l’IRPEF dovuta dai soci in un momento in cui le casse sono asfittiche, liberando risorse che possono essere impiegate per pagare i creditori e ridurre i debiti.

Gestione delle imposte correnti e prevenzione dei reati tributari

In situazioni di tensione di liquidità, le imprese spesso si trovano a dover scegliere quali pagamenti onorare e quali rinviare. Purtroppo è frequente che, per sopravvivere, si finiscano per omettere i versamenti fiscali correnti (IVA, ritenute, contributi) in favore di pagamenti più urgenti (stipendi, fornitori essenziali, rate di mutui). Tuttavia, questo può innescare conseguenze molto gravi sia sul piano fiscale (accumulo di interessi e sanzioni, iscrizioni a ruolo, misure cautelari come fermi amministrativi e ipoteche) sia sul piano penale, qualora gli omessi versamenti superino determinate soglie. Pertanto una parte cruciale della “pianificazione” in crisi è gestire con attenzione le imposte correnti, bilanciando la necessità di non bloccare la produzione con l’esigenza di non incorrere in violazioni irreparabili.

Ecco alcune linee guida e strategie in tal senso:

  • Prioritizzare i versamenti “sensibili”: se le risorse non bastano per onorare tutti gli obblighi fiscali, è consigliabile dare priorità ai tributi che comportano responsabilità personali o penali in caso di omissione. In particolare, l’IVA e le ritenute sui dipendenti sono somme che la società trattiene per conto dell’Erario o dei lavoratori, e la loro mancata corresponsione è percepita dall’ordinamento con maggiore severità. L’art. 10-bis D.Lgs. 74/2000 punisce l’omesso versamento di ritenute certificate oltre 150.000 € per anno; l’art. 10-ter D.Lgs. 74/2000 punisce l’omesso versamento IVA oltre 250.000 € per anno. Dunque, se la S.a.s. ha un debito IVA ingente che non riesce a pagare, è fondamentale tenere sotto controllo tale soglia criminale su base annuale. Pagare almeno parzialmente l’IVA per scendere sotto 250.000 € (o presentare la dichiarazione annuale IVA con credito, se effettivamente c’è credito) può evitare di trasformare un problema fiscale in un procedimento penale a carico dell’amministratore (accomandatario). Analogo discorso per le ritenute: ad esempio, in caso di crisi si può valutare di ridurre il personale o orario per limitare le ritenute da versare, oppure concordare con i dipendenti una sospensione temporanea di parte della retribuzione (13esime differite, ecc.) – tutto pur di non incorrere nell’omissione sanzionata. Naturalmente queste sono soluzioni estreme; una più fisiologica è richiedere la rateizzazione (vedi oltre) del debito fiscale in modo da congelare le azioni esecutive e diluire il pagamento.
  • IVA per cassa e altri regimi di liquidazione: un modo per ridurre l’esborso immediato di IVA è aderire al regime IVA per cassa (cash accounting) previsto dall’art. 32-bis D.L. 83/2012. Se la S.a.s. ha volume d’affari sotto 2 milioni di euro, può optare per liquidare l’IVA sulle fatture emesse solo al momento dell’incasso delle stesse (anziché alla data di emissione). Questo significa che se la società emette fatture ai clienti ma questi pagano tardi, non dovrà anticipare l’IVA al mese/trimestre successivo, bensì solo quando incasserà. Ciò evita che l’azienda in crisi debba finanziarie l’IVA all’Erario mentre ha crediti commerciali in sofferenza. Attenzione: specularmente, l’IVA sugli acquisti si detrae solo al pagamento ai fornitori – ma se la società è in ritardo nei pagamenti, tanto vale, il vantaggio di cassa rimane. L’IVA per cassa è un’opzione che va comunicata e che vincola per almeno un triennio, ma può dare respiro alla tesoreria. Un altro aspetto IVA da considerare è l’IVA nei confronti della PA (split payment) e il reverse charge: molte imprese edili o di servizi si trovano in credito IVA strutturale perché lavorano con pubbliche amministrazioni (che pagano l’IVA con split payment) o come subappaltatori (reverse charge edilizio). Se la S.a.s. è in credito IVA, è opportuno chiederne il rimborso o la compensazione il prima possibile, seguendo le procedure semplificate (ad esempio per importi fino a 150.000 € annuali si può ottenere rimborso IVA accelerato con certificato di regolarità). Recuperare un credito IVA approvato può significare incamerare liquidità statale (o ridurre altri debiti tributari in F24) in momenti di strettoia finanziaria.
  • Ravvedimenti operosi e comunicazioni al Fisco: in caso di omissioni nel versamento di imposte, è sempre preferibile – se si reperiscono i fondi – effettuare un ravvedimento operoso quanto prima, pagando l’imposta dovuta con sanzioni ridotte e interessi legali. Ciò evita l’iscrizione a ruolo con sanzioni piene e aggravi. Ad esempio, se la S.a.s. non è riuscita a versare il saldo IVA annuale o un acconto, e dopo qualche mese ottiene liquidità (o un finanziamento soci), dovrebbe procedere al ravvedimento versando appena possibile: le sanzioni calcolate saranno minori di quelle di cartella e si eviteranno ulteriori misure. Inoltre, mantenere un dialogo con l’Agenzia delle Entrate o l’Agente della Riscossione è utile: ad esempio, presentare l’istanza di rateizzazione (anche solo per prendere tempo) segnala la volontà di adempiere e può frenare iniziative aggressive come i pignoramenti, purché la richiesta sia tempestiva.
  • Monitoraggio delle azioni cautelari: quando la S.a.s. ha debiti fiscali significativi scaduti, l’Agente della Riscossione (Agenzia Entrate-Riscossione) può attivare garanzie sul patrimonio della società e degli accomandatari. Ad esempio, il D.P.R. 602/1973 consente di iscrivere ipoteca sugli immobili per debiti oltre 20.000 € e di disporre fermo amministrativo sui veicoli per debiti oltre 1.000 €. Questi atti aggravano la crisi (bloccano beni che potrebbero servire a finanziare il risanamento). Pertanto, appena si riceve notizia (ad es. una comunicazione preventiva di ipoteca), conviene reagire: proporre subito un piano di rateazione o una sospensione (se ci sono cause pendenti) per evitare l’iscrizione. In ottica di minimizzare l’impatto economico, evitare le sanzioni e gli oneri aggiuntivi derivanti da misure cautelari ed esecutive è parte integrante del “pagare meno”. Un fermo su un automezzo aziendale, ad esempio, potrebbe bloccare l’attività di trasporto, con perdita di commesse e ulteriori danni economici.
  • Contributi previdenziali e INPS: analogamente alle imposte, anche i contributi (INPS dipendenti, artigiani/commercianti per soci) se omessi generano sanzioni civili e possono portare a rischi (per i dipendenti c’è il reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali > 10.000 € annui, art. 2 D.L. 463/83). Quindi, seppur non fiscali in senso stretto, i contributi andrebbero inclusi nella pianificazione: spesso l’INPS consente dilazioni fino a 24-36 mesi per aziende in crisi (con prova di bilanci). È bene sfruttarle per evitare che l’INPS iscriva privilegi o aggravi il conto con more salate.

In conclusione, gestire le imposte correnti in crisi significa: ridurre al minimo le nuove esposizioni (ad esempio ridimensionando l’attività se necessario), privilegiare i pagamenti di quelle imposte il cui mancato versamento avrebbe conseguenze irreversibili (penali o blocchi dell’attività), e “congelare” il più possibile i debiti fiscali esistenti attivando strumenti come la rateizzazione o le definizioni agevolate. Nel prossimo capitolo approfondiremo proprio tali strumenti di risanamento del debito tributario, assieme ad altri istituti più strutturati (transazione fiscale, concordati, ecc.), che permettono di ridurre l’importo complessivo dovuto al Fisco e di diluire i pagamenti nel tempo, in parallelo alla ristrutturazione aziendale. È in quei contesti che una S.a.s. indebitata può realizzare i maggiori “risparmi fiscali” leciti, attraverso tagli di sanzioni e interessi o addirittura abbattimento parziale delle imposte stesse se vi sono le condizioni.

Scelta della forma giuridica e trasformazioni societarie

Una considerazione a margine, rilevante in ottica di pianificazione di medio periodo, riguarda la valutazione della forma giuridica più efficiente per l’attività, specialmente in previsione di un turnaround. La S.a.s. offre flessibilità gestionale e fiscalità per trasparenza, ma come visto espone gli accomandatari a responsabilità illimitata e può risultare fiscalmente pesante su redditi elevati (aliquote IRPEF progressive). In taluni casi, per pagare meno tasse in futuro e proteggere il patrimonio dei soci, potrebbe essere opportuno trasformare la S.a.s. in una S.r.l. (società a responsabilità limitata) o altra società di capitali, a risanamento avvenuto o nell’ambito dello stesso piano di risanamento. La trasformazione comporta che l’impresa diventa soggetto all’IRES (24%) e non più all’IRPEF per trasparenza, e i soci accomodanti diventano soci di capitali con responsabilità limitata.

Dal punto di vista fiscale, qual è il vantaggio potenziale? In una S.r.l., gli utili societari pagano IRES 24% (più IRAP), e se non vengono distribuiti ai soci non c’è altra tassazione fino all’eventuale distribuzione come dividendi (sui quali i soci persone fisiche pagheranno il 26%). Ciò permette di modulare la tassazione: l’utile reinvestito in azienda sconta solo il 24%, nettamente inferiore alle aliquote IRPEF alte. Inoltre, se l’azienda genera utili significativi, i soci possono decidere di non distribuirli nell’immediato, differendo quindi la tassazione personale a momenti più opportuni (o usufruendo di esenzioni parziali se dovessero vendere le quote della società in regime PEX, ad esempio). Per contro, i piccoli utili in S.r.l. subiscono un prelievo minimo del 24%, anche se il socio avesse un basso reddito personale che in una S.a.s. magari sarebbe rimasto sotto la no tax area o al 23%. Dunque la convenienza dipende dalle cifre. Spesso, se l’impresa ha prospettive di forte crescita di utili, la trasformazione in S.r.l. può ridurre il tax rate complessivo di medio periodo. Inoltre, sul piano finanziario, passare ad una S.r.l. limita la responsabilità dei soci: gli ex accomandatari, una volta ripuliti i debiti pregressi (o inclusi in un concordato), potrebbero preferire operare protetti dal “velo” societario per evitare futuri rischi personali.

Esempio numerico semplificato: consideriamo un utile ante imposte di 100.000 €.

  • Come S.a.s.: supponendo 1 accomandatario e 1 accomandante al 50%, avremo IRAP ~3.900 €, reddito trasparente 96.100 € diviso tra i due soci (48.050 € ciascuno). L’accomandatario paga contributi ~11.500 € (24% di 48k circa), ciascun socio paga IRPEF su 48k (aliquota marginale attorno al 38% su parte di esso, grossomodo 15-18k € a testa). Il totale prelievo può attestarsi ~50-55k (IRAP + IRPEF + INPS).
  • Come S.r.l.: su 100.000 € lordi, la società pagherebbe IRES 24.000 € e IRAP 3.900 €, utile netto societario ~72.100 €. Se non distribuisce utili, i soci non pagano null’altro (risparmiando rispetto alla S.a.s.). Se distribuisse tutto, sui 72.100 € ogni socio pagherebbe il 26% di ritenuta (circa 18.700 € in totale), portando il totale imposte+ritenute a ~46.600 €. In questo scenario, la tassazione totale come S.r.l. (46,6%) sarebbe leggermente inferiore a quella come S.a.s. (50-55%), ma soprattutto con la possibilità di differire la tassazione dei dividendi. Se invece i soci in S.a.s. avessero redditi personali già al 43%, la tassazione poteva arrivare anche al 55% o più includendo contributi – quindi la S.r.l. darebbe un risparmio maggiore.

Questi calcoli indicativi mostrano che una società di capitali può far “pagare meno tasse” in certe condizioni (utili alti reinvestiti, soci con altri redditi, ecc.). Tuttavia, la trasformazione non è un rimedio immediato: durante la crisi, trasformare una S.a.s. indebitata in S.r.l. non cancella i debiti esistenti (che restano e anzi potrebbero seguire i soci accomandatari se si aprisse poi un fallimento per debiti pregressi). È un passo da valutare preferibilmente dopo aver raggiunto un accordo coi creditori o un concordato, per rilanciare l’attività in una veste più “robusta” giuridicamente. Inoltre, la trasformazione in costanza di insolvenza potrebbe essere contestata come atto in frode ai creditori se volta a limitare responsabilità senza soddisfare i debiti – perciò va fatta con trasparenza e magari inglobata in un piano concordatario.

In conclusione, la forma societaria ottimale post-risanamento potrebbe non essere la S.a.s.: molti professionisti consigliano, una volta superata la tempesta, di valutare il passaggio a S.r.l. o S.p.A. per motivi fiscali e di responsabilità. Nella fase acuta della crisi, però, la priorità rimane utilizzare gli strumenti disponibili all’interno della S.a.s. esistente per ridurre il carico fiscale e debitorio. Di questi strumenti – rateizzazioni, definizioni agevolate, transazione fiscale, concordati, composizione negoziata, ecc. – ci occupiamo ora nel dettaglio.

Strumenti di Risanamento del Debito e Riduzione del Carico Fiscale

In presenza di significativi debiti accumulati, una S.a.s. può ricorrere a vari strumenti legali per ristrutturare le proprie obbligazioni e, di riflesso, ridurre l’onere fiscale complessivo. Tali strumenti vanno dalle soluzioni amministrative e stragiudiziali, come le rateizzazioni dei debiti fiscali o le definizioni agevolate (condoni), fino alle vere e proprie procedure concorsuali minori, come la composizione negoziata, il concordato minore o gli accordi di ristrutturazione con transazione fiscale. In questa sezione passeremo in rassegna i principali istituti, evidenziando per ciascuno come contribuisce a “pagare meno tasse” (tipicamente attraverso la falcidia di sanzioni e interessi, se non di parte dell’imposta) e quali sono le condizioni di accesso.

Rateizzazione dei debiti fiscali (piani di rientro)

La rateizzazione è spesso il primo strumento da valutare quando una società si trova con cartelle esattoriali o avvisi bonari non pagati. Rateizzare significa diluire nel tempo il pagamento del debito tributario, alleggerendo il peso su ogni esercizio e evitando nell’immediato esborsi insostenibili. Pur non comportando di per sé un “sconto” sul dovuto (il capitale rimane intero e si pagano interessi di rateazione, seppur calmierati), la rateizzazione efficace permette di evitare sanzioni aggiuntive e soprattutto blocca le azioni esecutive del Fisco, prevenendo ipoteche, pignoramenti e fermi che aggraverebbero la situazione.

Le possibilità di rateazione in Italia (aggiornate al 2025) sono le seguenti:

  • Rateizzazione ordinaria fino a 72 rate: per debiti iscritti a ruolo (cartelle) fino a un certo importo, l’Agenzia delle Entrate-Riscossione concede piani di rientro automatici fino a 6 anni (72 rate mensili) senza bisogno di documentare lo stato di difficoltà. Attualmente, per le richieste presentate entro il 31/12/2024, il limite è fissato in 120.000 €: fino a tale soglia, il contribuente (anche S.a.s.) può ottenere 72 rate presentando semplice domanda online, con rate costanti di importo minimo 50 €. Dal 2025 in poi, in attuazione della delega fiscale, dovrebbero essere introdotte nuove regole che amplierebbero l’accesso: ad esempio si parla di aumentare a 85-97 il numero di rate possibili senza documentazione per richieste 2025-2026. Ogni rata viene caricata di interessi di dilazione (attualmente il tasso è modesto, 2% annuo per le definizioni agevolate, attorno al 4% per le rate ordinarie). Se la S.a.s. rispetta le scadenze del piano, evita il decadimento e le relative sanzioni.
  • Rateizzazione straordinaria fino a 120 rate: per debiti oltre la soglia ordinaria, o se comunque 72 rate risultano insufficienti a garantire sostenibilità, si può richiedere un piano straordinario di durata fino a 10 anni (120 mesi). Questa opzione richiede di documentare una comprovata e grave situazione di difficoltà legata alla congiuntura economica, in cui il pagamento secondo il piano ordinario metterebbe in pericolo l’attività del debitore. In pratica bisogna presentare i bilanci e dimostrare che l’indice “debito rata / reddito disponibile” supera certe soglie fissate per legge. Se accettata, la dilazione straordinaria consente rate più piccole. Ad esempio, un debito di 240.000 € in 120 rate genera rate da 2.000 € mensili, contro i 3.333 € mensili che sarebbero in 72 rate. Questo può fare la differenza tra fallire e sopravvivere per un’azienda in crisi. Per importi molto elevati (milioni di euro) si tende a ricorrere a procedure concorsuali piuttosto che a semplici rateazioni, ma per molte S.a.s. con debiti medio-grandi la rateazione decennale può essere risolutiva, soprattutto se combinata con altri interventi (p.es. nuovi finanziamenti per pagare le prime rate).
  • Vantaggi fiscali indiretti della rateazione: pur non riducendo l’imposta o le sanzioni già applicate, la rateazione consente di evitare l’aggravio delle sanzioni di mora (se il debito resta scaduto e senza rateazione, ogni semestre scattano aggiuntivi 6% di aggio riscossione e interessi di mora elevati). Inoltre, se la S.a.s. riesce a dilazionare, può beneficiare della regola del “lieve inadempimento” che consente un ritardo fino a 5 giorni su una rata senza decadenza, o saltare fino a 8 rate non consecutive prima di perdere il beneficio. Ciò offre flessibilità di cassa. Un altro aspetto: con rate in essere, la società può ottenere il DURC (Documento Unico Regolarità Contributiva) e partecipare a gare, purché in regola con i piani. Senza rateazione, un debito a ruolo preclude il DURC, impedendo di fatto nuove commesse in edilizia, servizi pubblici, etc., che potrebbero risanare l’impresa.

In termini di “pagare meno tasse”, la rateazione non riduce il debito fiscale nominale, ma lo rende pagabile e impedisce che aumenti per sanzioni future o costi esecutivi. Quindi, da un punto di vista economico effettivo, la società finirà per pagare meno di quanto avrebbe dovuto se fosse stata travolta da esecuzioni (si pensi ai costi di un fermo o di un pignoramento immobiliare, che blocca asset produttivi). Per questo, un consiglio fondamentale agli accomandatari è: non lasciare mai incancrenire i debiti fiscali senza un piano. Anche gli avvocati sottolineano che se la S.a.s. ha debiti con Fisco o enti previdenziali, conviene subito valutare forme di rateizzazione per ridurre l’importo complessivo da versare ed evitare azioni esecutive come pignoramenti e ipoteche.

Oltre alle rateazioni con l’Agente della Riscossione, vanno menzionate le possibili dilazioni su avvisi bonari dell’Agenzia Entrate (ad esempio dilazione in 8 rate di somme dovute dopo controllo automatizzato) e le dilazioni su accertamenti con adesione (fino a 20 rate trimestrali). Ogni istituto ha regole proprie, ma l’idea comune è: spezzettare il dovuto e comprare tempo. Talvolta la rateazione è preludio a un accordo più complesso: ad esempio la S.a.s. avvia una rateazione per evitare aggressioni immediate, poi contestualmente prepara un ricorso o un piano di ristrutturazione e, se questo va in porto, interrompe la rateazione sostituendola con l’accordo definitivo (ad esempio un concordato). Le somme già versate in rata non sono perse, si imputano al piano concordatario.

Caso pratico: Alfa S.a.s. doveva 90.000 € tra IVA e ritenute degli ultimi due anni. Non avendo liquidità per pagare in unica soluzione, presenta nel 2023 richiesta di rateazione: ottiene 72 rate da ~1.330 € al mese. Ciò le consente di evitare che a breve Equitalia iscriva ipoteca sul capannone. Alfa riesce a pagare regolarmente le rate per un anno, dopodiché nel 2024 le sue vendite ripartono: decide allora di estinguere anticipatamente il piano versando il residuo (facoltà concessa). In definitiva, Alfa ha evitato sanzioni di mora e diluito l’onere fiscale sul 2023 (anno in cui aveva ancora crisi), spostando due terzi dei pagamenti sul 2024 quando i flussi sono migliorati, senza aggravio significativo di interessi. Questo le ha permesso di pagare meno interessi passivi bancari (non dovendo magari chiedere un fido per saldare le imposte subito) e di scongiurare costi esecutivi.

Definizioni agevolate e “tregua fiscale” (sconti su sanzioni e interessi)

Oltre alle rateazioni, il legislatore negli ultimi anni ha emanato varie misure di definizione agevolata dei debiti fiscali, volte a incentivare i contribuenti a regolarizzare la propria posizione con sconti su sanzioni, interessi e accessori. Approfittare di queste misure – colloquialmente note come rottamazioni o condoni – consente effettivamente di pagare meno rispetto al dovuto integrale e di chiudere pendenze pregresse liberando la società dal fardello fiscale. È cruciale quindi che una S.a.s. indebitata resti aggiornata sulle finestre legislative di “pace fiscale” e vi aderisca tempestivamente quando possibile.

Le principali definizioni agevolate recenti (rilevanti al 2025) sono:

  • Rottamazione-quater (Definizione agevolata 2023): introdotta dalla Legge 197/2022 (Bilancio 2023), riguarda i debiti affidati all’Agente della Riscossione dal 1° gennaio 2000 al 30 giugno 2022. Aderendo a questa misura, il debitore può estinguere i carichi iscritti a ruolo senza dover pagare sanzioni, interessi di mora e aggio di riscossione. In pratica, resta dovuto solo il capitale originario dell’imposta/contributo e le eventuali spese vive (spese di notifica, diritti di esecuzione). Si tratta di uno sconto notevole: ad esempio, per una cartella IRPEF da 50.000 € comprensiva di 10.000 € di sanzioni e 5.000 € di interessi, in rottamazione si pagheranno solo 35.000 €. La rottamazione-quater ha aperto le adesioni fino al 30 aprile 2023 e consente il pagamento dilazionato fino a 18 rate in 5 anni (con un 2% annuo di interesse dilatorio). Le prime due rate, pari al 10% ciascuna, scadevano nel 2023 (poi prorogate a marzo 2024), le successive 16 rate sono distribuite dal 2024 al 2027. È previsto un breve margine di tolleranza per ritardi (5 giorni) e la possibilità di riammissione se si saltano le rate 2023 entro il 2024 (la legge di assestamento ha concesso fino al 30 aprile 2025 per chiedere riammissione pagando gli arretrati). Impatto fiscale: la rottamazione-quater non riduce il tributo in sé, ma azzera le pesanti sanzioni (30%+ del tributo) e gli interessi di mora (che maturano al ~3-4% annuo). Quindi, per la società, è come ottenere uno sconto immediato spesso superiore al 20-30% del dovuto totale. Da notare: il debito “rottamato” risulta pagato integralmente agli effetti del DURC e del casellario, non essendo un fallimento parziale. Questo migliora la posizione dell’impresa anche reputazionalmente.
  • Stralcio dei mini-debiti fino a 1.000 €: sempre la L.197/2022 ha previsto l’annullamento automatico dei debiti di importo residuo fino a 1.000 € affidati a riscossione dal 2000 al 2015. Tali mini-cartelle (spesso multe stradali o piccole imposte) sono state cancellate d’ufficio al 31 marzo 2023, limitatamente a importi di capitale + sanzioni fino a 1.000 (gli interessi di mora e aggio annullati in ogni caso). Per la S.a.s. ciò significa che eventuali vecchi ruoli di modesta entità sono stati eliminati senza alcun pagamento. Non è un intervento che salva un’azienda indebitata pesantemente, ma fa pulizia di code minori e soprattutto toglie di mezzo sanzioni e more cresciute nel frattempo. Anche questa è una forma di “pagare zero” su alcuni debiti, che alleggerisce il bilancio.
  • Definizione agevolata delle liti pendenti e ravvedimenti speciali: nel 2023 è stata data la possibilità di chiudere le controversie tributarie pendenti pagando solo una percentuale del valore (ad es. 90% se in primo grado, 40% se vinta in primo grado dal contribuente, etc.) e di regolarizzare violazioni formali o dichiarazioni omesse con sanzioni ridotte. Per una S.a.s. queste misure sono state utili se aveva cause fiscali in corso o errori formali da sanare. Non riducono imposte ma evitano il rischio di esiti peggiori.
  • Saldo e stralcio per contribuenti in difficoltà: in passato (2019) fu previsto un “saldo e stralcio” per i debiti fiscali di persone fisiche con ISEE basso, che consentiva di pagare solo il 16%–35% dell’imposta. Tuttavia, questo non si applicava alle società (solo alle ditte individuali/persone fisiche). Nel 2023 non c’è un saldo e stralcio generalizzato per le S.a.s., anche se nell’ambito della composizione negoziata o di un concordato il concetto di saldo a saldo e stralcio viene in pratica realizzato caso per caso con la transazione fiscale (di cui si dirà).

Come sfruttare al meglio queste definizioni agevolate? Una S.a.s. indebitata dovrebbe monitorare le leggi di bilancio e i decreti fiscali: quando esce una rottamazione, conviene aderire subito presentando la domanda per tutte le cartelle ammissibili. Questo mette in stand-by la riscossione (durante l’attesa delle rate, il carico è sospeso) e prospetta un forte risparmio su sanzioni. Attenzione però alla tenuta del piano di pagamenti agevolati: se si decade, tornano dovuti anche sanzioni e interessi originari, vanificando il beneficio. Dunque bisogna aderire con ragionevole certezza di riuscire a rispettare le scadenze (magari valutando poche rate invece di 18, se l’eccessiva dilazione aumenta il rischio di inadempimento futuro).

Va sottolineato che le definizioni agevolate sono compatibili con le procedure concorsuali: ad esempio, una S.a.s. in concordato può includere nel piano il pagamento delle somme dovute di rottamazione invece del 100% originario. In pratica, la rottamazione aiuta anche a costruire un concordato più leggero (meno debito fiscale da soddisfare). Se però la società intende percorrere un concordato o accordo con transazione fiscale, occorre coordinare le due cose: spesso il piano concordatario stesso prevede di pagare il Fisco negli importi ridotti permessi dalla rottamazione (ossia solo imposta e spese) e ciò va bene se l’ente è d’accordo o se comunque prende almeno quanto avrebbe preso liquidando (vedi cram-down).

Dal punto di vista giuridico, aderire a rottamazione comporta rinuncia ai contenziosi sul merito di quelle cartelle e il debito residuo, una volta pagato, è definitivo. Se la S.a.s. ritiene invece di aver ragione su un tributo (ad es. una cartella da accertamento nullo), potrebbe scegliere di proseguire la causa anziché definire. Ma questo esula dalla logica di “pagare meno tasse con debiti”: noi assumiamo che il debito c’è ed è dovuto in linea capitale.

Benefici concreti: immaginiamo Beta S.a.s. con 200.000 € di cartelle (150.000 € imposte, 30.000 € sanzioni, 20.000 € interessi/mora). Aderendo alla rottamazione-quater, Beta otterrà di pagare solo 150.000 € (capitale) + un migliaio di euro di spese, dilazionati in 5 anni. Il risparmio immediato è di 50.000 € (che non sono poche, equivalgono a un abbattimento del 25% del debito totale!). Questo si riflette in bilancio come sopravvenienza attiva da sanzioni condonate, che fortunatamente non è imponibile (l’Agenzia Entrate ha chiarito che l’abbuono di sanzioni in rottamazione non genera provento tassabile, trattandosi di sanzioni amministrative non dedotte a suo tempo). Dunque Beta ottiene un alleggerimento “pulito”. Inoltre, potendo dilazionare, l’esborso annuo medio sarà 30.000 €, più gestibile nel cash flow. Certo, Beta deve trovare la provvista per onorare tutte le rate: se la crisi è acuta, potrebbe dover associare ad essa ulteriori interventi (riduzione costi, vendita cespiti) per raccogliere la liquidità necessaria. Ma grazie allo sconto, il target da raggiungere è più basso.

Composizione negoziata della crisi e accordi stragiudiziali

La Composizione negoziata della crisi è un istituto introdotto nel 2021 (D.L. 118/2021, conv. L. 147/2021) e confluito nel Codice della Crisi (artt. 12-25 quinquies D.lgs. 14/2019), pensato per aiutare le imprese in difficoltà a trovare un accordo con i creditori in modo volontario e stragiudiziale, con l’ausilio di un esperto terzo. Si tratta di uno strumento nuovo, caratterizzato da riservatezza (nella fase iniziale) e dalla mancanza di un giudice se non per aspetti autorizzativi. Pur non essendo specifico per il trattamento dei debiti fiscali, la composizione negoziata offre alcune opportunità per ridurre il peso del debito tributario nel contesto di un risanamento.

Ecco come funziona in sintesi e quali benefici fiscali comporta:

  • Accesso e svolgimento: l’imprenditore (anche di S.a.s.) che si accorge di trovarsi in uno stato di crisi incipiente o di insolvenza reversibile può presentare istanza telematica per accedere alla composizione negoziata. Viene nominato un esperto indipendente che affianca l’imprenditore nel tentativo di trovare un accordo con creditori (banche, fornitori, Fisco, ecc.). La procedura è volontaria, non c’è perdita di gestione per l’imprenditore, e dura alcuni mesi (prorogabile). Durante la negoziazione, l’impresa può chiedere misure protettive (blocco delle azioni esecutive) autorizzate dal tribunale. Questo crea una “tregua” in cui trattare. Elemento chiave: la legge prevede incentivi fiscali “premiali” se la composizione negoziata ha esito positivo. In particolare, l’art. 14 D.Lgs. 14/2019 (come modificato dal D.Lgs. 83/2022) introduce all’art. 25-bis CCII le cosiddette misure premiali fiscali: gli interessi sui debiti tributari che maturano dall’accettazione dell’incarico dell’esperto fino alla conclusione delle trattative sono dovuti nella misura del tasso legale (molto più basso degli interessi normalmente applicati su ruoli e accertamenti), e le sanzioni e gli interessi di mora eventualmente maturati nel periodo possono essere ridotti o azzerati se si raggiunge un esito concordato della crisi. In altre parole, lo Stato incentiva chi utilizza la composizione negoziata garantendo che nel frattempo il debito fiscale non lieviterà ulteriormente se non al tasso legale (attualmente 5% dal 2023) e prospettando uno sconto sulle sanzioni.
  • Transazione fiscale nella composizione negoziata: durante le trattative, la società può proporre al Fisco un accordo di tipo transattivo, ovvero pagare parzialmente i debiti tributari e contributivi, con stralcio di sanzioni e interessi. Questa è di fatto una “transazione fiscale” stragiudiziale che, se validata dall’esperto e recepita nel concordato strumento che si andrà ad adottare (accordo di ristrutturazione, piano attestato, o addirittura un “concordato semplificato” ex art. 25-sexies CCII in caso di fallimento negoziazione), consente un abbattimento del carico fiscale. Va detto che fino al 2023 c’era incertezza su quanto potesse essere ridotto il debito IVA (in passato intoccabile): col Codice della Crisi e i correttivi, è ora chiaro che anche l’IVA e le ritenute possono essere falcidiate, purché il trattamento offerto non sia inferiore a quello ricavabile da una liquidazione e sia approvato dal giudice in sede di omologa (cram-down fiscale). Nel negoziato stragiudiziale, quindi, l’Agenzia Entrate può accettare di ridurre parte delle imposte (magari non l’IVA integralmente, ma la parte non soddisfatta diverrebbe chirografaria in ipotesi concorsuale), e comunque di azzerare le sanzioni e ridurre gli interessi. L’esperto redige una relazione sul punto.
  • Soluzioni e esito: la composizione negoziata può concludersi con vari esiti:
    • un contratto di ristrutturazione con uno o più creditori (ad esempio un accordo stragiudiziale con banche e principali fornitori, affiancato da transazione col Fisco);
    • una convenzione di moratoria;
    • un accordo ad efficacia estesa (se si raggiungono adesioni di creditori finanziari al 75%, l’accordo vincola anche dissenzienti, art. 23 CCII);
    • oppure lo sbocco in una procedura concorsuale minore (come chiedere un concordato minore o un accordo di ristrutturazione in tribunale). Solo in caso di conclusione positiva (cioè uno dei risultati ex art. 23 commi 1-2 CCII) scattano le misure premiali fiscali: gli interessi maturati nel periodo vengono ricalcolati al tasso legale, e le sanzioni per ritardato pagamento maturate nello stesso intervallo vengono condonate al momento dell’omologazione dell’accordo. Inoltre, se l’accordo include una transazione fiscale, l’importo del debito tributario oggetto di transazione può essere ridotto di un ulteriore percentuale (il cosiddetto “premio” del 25% – in discussione nei correttivi 2024 – che potrebbe ridurre dal 75% al 60% la quota minima da offrire al Fisco in caso di concordato semplificato successivo). In pratica, chi avvia per tempo la composizione negoziata e riesce a salvare l’impresa ottiene un doppio vantaggio fiscale: meno interessi e sanzioni sul pregresso e possibilità di stralciare parte dei tributi nel piano di risanamento.
  • Tutela del patrimonio personale: è importante per gli accomandatari sapere che durante la composizione negoziata possono ottenere dal tribunale la sospensione delle azioni di escussione personali da parte dei creditori sociali (art. 20 CCII). Ciò li protegge temporaneamente dal vedersi pignorare beni personali per debiti della S.a.s., dando spazio a trattative più serene. Questa protezione può includere le esecuzioni per cartelle esattoriali sul patrimonio personale dell’accomandatario, se il giudice lo estende (questo è da valutare caso per caso).

In termini di “pagare meno tasse”, la composizione negoziata è un strumento di riduzione indiretta: il beneficio immediato è il blocco delle azioni e la riduzione del tasso di interesse al legale, il che ferma l’accumularsi di more. Il beneficio finale, se si giunge a un accordo, è la riduzione delle sanzioni e possibili falcidie sulle imposte stesse previste nel piano di ristrutturazione. Ad esempio, Gamma S.a.s. in composizione negoziata potrebbe concordare con l’Agenzia Entrate di pagare il 50% del debito IVA e il 0% delle sanzioni e interessi: questo accordo verrebbe formalizzato in un accordo di ristrutturazione con transazione fiscale ex art. 63 CCII e omologato dal tribunale, con efficacia vincolante anche sui creditori dissenzienti (grazie al meccanismo del cram-down). Il tribunale verificherà che quella proposta al Fisco è migliore di quanto esso otterrebbe dal fallimento di Gamma; se sì, potrà omologarla anche senza voto favorevole dell’Erario. Questo significa che oggi l’Agenzia Entrate non ha più potere di veto assoluto: se esagera nel rifiutare qualsiasi sconto, ma la proposta è ragionevole, il giudice può imporla (cram-down fiscale). Ciò è una evoluzione di enorme importanza rispetto al passato, e spinge il Fisco stesso a negoziare in modo costruttivo. Infatti le statistiche post-2022 mostrano i primi casi di tribunali che omologano accordi nonostante il parere negativo del Fisco, purché i parametri di convenienza siano rispettati.

Conclusione sulla composizione negoziata: è uno strumento sofisticato, da utilizzare con l’assistenza di professionisti, ma che può salvare l’impresa e contestualmente ottenere significative riduzioni dei debiti, incluse le tasse. Richiede uno sforzo di negoziazione e la capacità di predisporre un piano di risanamento credibile (spesso con nuovi finanziamenti, cessioni di asset non strategici, ecc.). Per una S.a.s. di piccole dimensioni, può essere lo strumento ideale perché evita lo stigma del fallimento e consente di mantenere il controllo in mano all’imprenditore durante il processo. E, se tutto va bene, la S.a.s. ne esce risanata, alleggerita di parte del debito fiscale e senza aver pagato sanzioni inutili.

Accordi di ristrutturazione dei debiti e transazione fiscale (procedure ex art. 182-bis L.F. / art. 57 CCII)

Un gradino più in là rispetto alla composizione negoziata, quando la situazione debitoria richiede un formale intervento dell’autorità giudiziaria ma si vuole evitare il fallimento, vi sono gli accordi di ristrutturazione dei debiti (ARD). Questi accordi, regolati dall’art. 57 e seguenti del Codice della Crisi (già art. 182-bis legge fall.), consistono in un patto che l’imprenditore conclude con una parte significativa dei creditori (almeno il 60% in valore) per ristrutturare l’esposizione, patto che viene poi omologato dal tribunale e reso vincolante anche per i creditori dissenzienti appartenenti alle categorie coinvolte.

Per una S.a.s. sovraindebitata, l’accordo di ristrutturazione può essere uno strumento potente per ridurre il debito complessivo, incluse le tasse, grazie all’integrazione dell’istituto della transazione fiscale. Vediamo i punti salienti:

  • Contenuto dell’accordo: tipicamente l’imprenditore propone ai creditori un certo trattamento: ad esempio alle banche una dilazione o uno stralcio parziale del credito, ai fornitori una percentuale a saldo (es. 40%) con pagamento in tempi definiti, ai soci forse la rinuncia a crediti verso la società, ecc. Nel contesto fiscale, può includere una proposta di transazione fiscale e contributiva ex art. 63 CCII (già art. 182-ter L.Fall.). Questa proposta al Fisco prevede di norma il pagamento parziale dei debiti tributari: si possono offrire, ad esempio, il 100% dell’IVA e contributi privilegiati, il 30% delle imposte sul reddito e altri debiti chirografari, e l’azzeramento totale delle sanzioni e interessi. Una cosa del genere, fino a qualche anno fa, sarebbe stata impensabile per normative restrittive (che vietavano di falcidiare IVA e ritenute): oggi invece è possibile, con il limite che l’offerta al Fisco deve essere almeno pari a quanto esso otterrebbe in caso di liquidazione giudiziale del debitore (quindi, semplificando, se l’azienda ha beni solo per pagare 10% dei debiti, proporre il 10%; se ha beni per 50%, non si può offrire meno). Se l’Erario accetta, l’accordo prosegue; se rifiuta, l’imprenditore può comunque chiedere l’omologa col cram-down fiscale, come visto.
  • Procedura di omologazione: l’accordo sottoscritto dai creditori che rappresentano almeno il 60% dei debiti viene presentato in tribunale con la documentazione di rito (piano attestato di fattibilità e attestazione di miglior soddisfazione rispetto alla liquidazione). Se tutto è regolare, il tribunale omologa l’accordo e da quel momento esso diventa vincolante per tutti i creditori aderenti e (se previsto dal tipo di accordo) anche per eventuali creditori dissenzienti della stessa classe aderente. Il Fisco, se ha aderito alla transazione fiscale, sarà vincolato a riscuotere solo quanto concordato e a rinunciare al resto. Se non ha aderito ma l’accordo è omologato con cram-down, rimane vincolato lo stesso. Durante la fase di omologa, su richiesta del debitore si possono sospendere le azioni esecutive (misure protettive analoghe a quelle del concordato).
  • Vantaggi fiscali ed economici: un accordo di ristrutturazione omologato offre diversi vantaggi:
    • Giuridici: l’impresa evita il fallimento, prosegue la sua attività sotto il vincolo di rispettare l’accordo; i debiti anteriori sono regolati e non possono più essere azionati singolarmente; i crediti dei sottoscrittori eventualmente privilegiati degradati a chirografari vengono “slegati” dalle garanzie in eccedenza, ecc.
    • Fiscali: come evidenziato, con la transazione fiscale inclusa si ottiene in sostanza una rottamazione personalizzata dei debiti fiscali, spesso con tagli ben maggiori delle definizioni agevolate ordinarie. Ad esempio, Delta S.a.s. potrebbe chiudere con un accordo pagando solo il 50% dell’intero debito verso l’Agenzia Entrate e l’INPS, se gli asset disponibili giustificano quella percentuale. Inoltre, come già visto per le sopravvenienze da esdebitazione, l’art. 88 TUIR esenta da imposizione la parte di debito abbuonata in sede di accordo omologato. Quindi Delta non pagherà tasse neanche sul “beneficio” contabile di aver cancellato il 50% del debito fiscale. Questo è fondamentale perché in mancanza di omologa invece quella riduzione sarebbe stata tassabile.
    • Contabili: l’accordo di ristrutturazione permette di risanare il bilancio dell’azienda: i debiti stralciati vengono eliminati, il patrimonio netto torna positivo (se era negativo), e la società può ripartire su basi più solide anche per l’accesso al credito. Pagare meno tasse in questo contesto significa che, liberata dal fardello fiscale pregresso, l’impresa potrà destinare i flussi di cassa futuri a investimenti o ai soli nuovi tributi correnti, senza l’incubo di cartelle pregresse.
  • Differenza rispetto al concordato preventivo: l’accordo di ristrutturazione richiede solo il consenso del 60% dei creditori, non tutti. È più rapido e meno costoso di un concordato, ma non consente di imporre ai creditori non aderenti un sacrificio eccetto per i termini di pagamento omologati (se un creditore non aderisce, il suo credito va pagato integralmente fuori accordo, salvo differimento; nel concordato invece si può imporre il cram-down anche alle classi dissenzienti). Per questo l’accordo è utile se il numero di creditori è ristretto e si riesce a convincerne la maggioranza qualificata. Con riferimento al Fisco, per il 60% di consensi si calcola anche la sua quota se aderisce. Se il Fisco non aderisce e rappresenta ad esempio il 30% dei debiti, l’accordo può ugualmente essere omologato ma il Fisco rimarrebbe con diritto di escussione: qui interviene la norma del cram-down fiscale art. 63 CCII che consente al giudice di omologare l’accordo di ristrutturazione anche senza adesione dell’Erario se la proposta era conveniente per esso. Questa è una novità del 2022 che di fatto equipara la forza dell’accordo a quella di un concordato, togliendo al Fisco la possibilità di bloccare pretestuosamente l’operazione. Tuttavia, vi sono dei paletti: per gli sconti oltre il 30% e oltre 30 milioni di debito erariale si richiede un parere vincolante dell’apposito ufficio centrale dell’AdE (norme del 2023). Ciò per evitare arbitri: se una transazione fiscale prevede di abbonare più del 70% di un debito fiscale imponente, deve passare dal Direttore centrale e avrà un controllo rigoroso.

In conclusione su ARD e transazione fiscale: si tratta di uno strumento “tagliato su misura” per imprese in crisi che abbiano ancora risorse e credibilità per trattare coi creditori. Per una S.a.s., può rappresentare la salvezza quando i debiti sono troppi per essere pagati integralmente ma c’è ancora fiducia da parte di banche/fornitori nel recupero parziale. In termini di riduzione delle tasse dovute, un accordo ben congegnato può far risparmiare decine se non centinaia di migliaia di euro di sanzioni e interessi, e anche una quota del tributo, con il placet dell’Erario (o del giudice in sua vece). È, potremmo dire, la versione “privatistica” del concordato: meno pubblicità, più rapido, ma richiede appunto negoziazione proattiva.

Concordato preventivo (ordinario e “minore”)

Il concordato preventivo è la procedura concorsuale giudiziale tradizionale, cui si accede quando la crisi o insolvenza è conclamata e si vuole evitare il fallimento tramite un accordo con la totalità dei creditori sotto supervisione del tribunale. Con l’entrata in vigore del Codice della Crisi, esistono due varianti principali: il concordato preventivo ordinario (per imprese “soggette a fallimento”, di dimensioni rilevanti) e il concordato minore (riservato agli imprenditori non fallibili, tipicamente piccole imprese sotto soglia e soggetti del sovraindebitamento). Nel caso di una S.a.s., la distinzione dipende dai requisiti dimensionali: se la S.a.s. supera anche uno solo dei parametri dell’art. 2 CCII (attivi > €300k, debiti > €500k, ecc.), è considerata fallibile e quindi soggetta al concordato preventivo ordinario; se invece è sotto soglia, rientra nelle procedure di sovraindebitamento e potrebbe accedere al concordato “minore”.

A prescindere dalla tipologia, il concordato è uno strumento risolutivo: attraverso di esso la società può proporre ai creditori un soddisfacimento parziale dei loro crediti, eventualmente in continuità aziendale (proseguendo l’attività) oppure mediante liquidazione del patrimonio. Una volta approvato dalle maggioranze richieste e omologato dal tribunale, il concordato vincola tutti i creditori anteriori e la società esce dalla procedura avendo cancellato le passività eccedenti ciò che ha pagato.

Dal punto di vista del carico fiscale, il concordato oggi offre i seguenti vantaggi:

  • Trattamento dei debiti fiscali in concordato: storicamente, la legge imponeva limiti stringenti: in concordato non si poteva falcidiare l’IVA né le ritenute, andavano pagate al 100%, e se il Fisco votava contro, difficilmente il concordato passava (dato che spesso aveva credito privilegiato e bloccava le maggioranze). Oggi queste rigidità sono cadute. Il Codice della Crisi ha introdotto il principio del cram-down fiscale: in sede di omologazione, il tribunale può approvare il concordato anche senza il voto favorevole dell’Erario o dell’INPS, purché la proposta verso di essi non sia inferiore al valore di liquidazione. Questo toglie al Fisco il potere di veto. Inoltre, è espressamente consentito degradare a chirografari i debiti IVA per la parte non soddisfatta, purché la percentuale pagata li soddisfi più di quanto avrebbero ottenuto liquidando. In pratica: una S.a.s. può oggi proporre in concordato di pagare, ad esempio, solo il 50% del debito IVA, e se ciò è più di quanto il Fisco prenderebbe da un fallimento (mettiamo 20%), il giudice può omologare il concordato anche se l’Agenzia vota no. La quota falcidiata (in questo caso il 50% dell’IVA) diventa credito chirografario e sarà soddisfatto al tasso previsto per i chirografari (anche 0% in liquidatorio); il tutto però è legittimo e omologabile. Questo rappresenta un cambiamento epocale: concordati che prima sarebbero stati impossibili (perché avrebbero dovuto garantire 100% IVA e ritenute) ora possono vedere la riduzione anche di quei crediti erariali privilegiati. Naturalmente, l’Agenzia Entrate cercherà di negoziare le sue condizioni nel corso della procedura: prassi vuole che chieda almeno il pagamento integrale dell’IVA e magari una buona percentuale sugli altri tributi, ma non c’è più un obbligo di legge rigido. Anche le sanzioni tributarie, se non già privilegiate, nel concordato vengono usualmente annullate (sono crediti chirografari postergati, di fatto mai pagati).
  • Sopravvenienze attive esdebitative: analogamente agli accordi, anche per il concordato il TUIR prevede la non imponibilità delle sopravvenienze attive da taglio debiti (art. 88 c.4-ter TUIR). Quindi se una S.a.s. esce dal concordato avendo pagato solo una parte dei debiti, il beneficio contabile non genera reddito tassabile. Inoltre, durante la procedura di concordato, la società viene generalmente esentata dal versamento dell’IVA corrente e di altre imposte se funzionale a risanare (questo avveniva col concordato in bianco), ma questo è un dettaglio procedurale.
  • “Concordato minore” per imprese sotto soglia: se la S.a.s. è non fallibile, può accedere a un concordato minore (ex accordo di composizione della crisi da sovraindebitamento). I principi sono simili al concordato preventivo ma con alcune semplificazioni: le maggioranze richieste sono solo per teste dei creditori (non per valori o classi), non vi è la soglia minima del 20% per chirografari in liquidatorio che invece vige nel concordato ordinario, e i costi sono inferiori. Anche nel concordato minore si può includere la transazione fiscale e valere il cram-down. Dunque, per una piccola S.a.s. sovraindebitata, il concordato minore è sostanzialmente l’analogo del concordato preventivo ma alla portata di realtà minori, con oneri procedurali ridotti. Ad esempio, non è obbligatorio nominare un commissario giudiziale salvo decisione del tribunale, e non si formano classi di solito. Ciò che importa è che anche in questo caso le tasse possono essere ridotte e dilazionate: il tribunale verificherà che la percentuale offerta a ciascuno (incluso il Fisco) sia almeno pari al ricavabile dalla liquidazione, e potrà omologare anche con il voto contrario dell’Erario. La S.a.s. in concordato minore può anche optare per la continuità aziendale (con prosecuzione dell’attività) se c’è la prospettiva di generare utili per soddisfare i creditori.
  • Concordato in continuità vs liquidatorio: se la S.a.s. ha prospettive di stare sul mercato, spesso proporrà un concordato in continuità aziendale, magari con intervento di un investitore, oppure con un piano di risanamento che prevede di pagare i creditori in X anni usando i flussi generati. In tal caso, l’azienda continua ad operare e paga le imposte correnti (da concordato in poi) regolarmente. Può beneficiare di regole come l’esenzione dall’obbligo di riduzione capitale per perdite durante la procedura, la moratoria sui debiti anteriori, ecc. Se invece non c’è più speranza, si fa un concordato liquidatorio, dove la società vende i propri beni (anche sotto la regia di un liquidatore giudiziale) e distribuisce il ricavato ai creditori, dopodiché cessa l’attività. In un concordato liquidatorio ordinario, la legge richiede di garantire almeno il 20% ai chirografari salvo esenzioni; nel concordato minore liquidatorio questa soglia non si applica espressamente, ma in ogni caso un minimo di soddisfo ci deve essere. Qual è l’impatto sulle tasse? In un concordato liquidatorio le imposte future non rilevano perché l’azienda chiude; l’interesse era soprattutto sul taglio delle imposte pregresse, di cui abbiamo detto. In un concordato in continuità, invece, l’azienda deve prevedere di essere in regola con il fisco post-omologa, e spesso gode di “finanza esterna” prededucibile (nuovi apporti) che possono essere usati anche per pagare i debiti fiscali falcidiati, ottenendo a volte premialità. Ad esempio, la Legge 178/2020 introdusse (per i concordati in continuità ante CCII) uno sgravio del 50% delle imposte sui redditi generateda remissione di debiti, ma ora con CCII quell’utile non è tassabile in radice, quindi il punto è superato.

In sintesi sul concordato: questo è l’ultimo baluardo prima del fallimento (liquidazione giudiziale). Offre la più ampia gamma di soluzioni, ma anche i costi e le complessità maggiori. In termini di riduzione del carico fiscale, il concordato oggi consente:

  • di stralciare una parte dei debiti tributari (anche privilegiati) senza consenso del Fisco, purché si rispetti la regola di convenienza;
  • di azzerare sanzioni e interessi sui tributi falcidiati (parte integrante della transazione fiscale);
  • di non incorrere in responsabilità penali per i mancati versamenti pregressi, poiché l’omologazione del concordato causa la estinzione dei reati tributari relativi a quel periodo se il piano li prevede (entro certi limiti: occorre almeno pagare il capitale IVA ritenute per escludere il dolo penale).
  • di ripartire puliti: la S.a.s. post-concordato (se in continuità) avrà debiti fiscali residui solo quelli concordatari (in regolare pagamento secondo piano) e potrà concentrarsi sul presente.

Va segnalata infine l’esistenza del “concordato semplificato” ex art. 25-sexies CCII: è un concordato liquidatorio senza voto dei creditori, cui può ricorrere l’imprenditore onesto se la composizione negoziata non ha prodotto accordi. In tale procedura, il tribunale può direttamente approvare un piano di liquidazione con falcidia generale dei crediti. L’art. 25-sexies menziona che anche in esso si può utilizzare la transazione fiscale. Questo strumento è stato per ora usato raramente, ma offre un’ulteriore possibilità di abbattere i debiti fiscali quando non c’è tempo per raccogliere voti su un concordato classico.

Liquidazione giudiziale (ex fallimento) ed esdebitazione dell’imprenditore

Se tutte le opzioni di risanamento dovessero fallire, l’epilogo è la liquidazione giudiziale (quella che in passato si chiamava fallimento). In tale procedura, un curatore vende il patrimonio della S.a.s. e ripartisce il ricavato tra i creditori secondo l’ordine delle cause di prelazione. Generalmente, in un fallimento i creditori chirografari – tra cui spesso rientra larga parte del debito tributario, soprattutto sanzioni e interessi – ricevono poco o nulla. Dal punto di vista dell’azienda, la liquidazione giudiziale porta alla cessazione dell’attività e alla perdita della soggettività (una volta chiusa).

Tuttavia, citiamo la liquidazione qui perché c’è un aspetto inerente al “pagare meno tasse”: la esdebitazione. L’esdebitazione è l’istituto che consente all’imprenditore fallito onesto di ottenere la cancellazione di tutti i debiti residui non pagati al termine della liquidazione. Nel contesto di una S.a.s., questo riguarda:

  • la società in sé (che dopo la chiusura del fallimento è estinta, quindi i suoi debiti si estinguono con essa) e
  • soprattutto i soci accomandatari, che in caso di fallimento vengono dichiarati falliti personalmente (art. 256 CCII, ex estensione del fallimento ai soci illimitatamente responsabili). Questi soci, terminata la procedura, possono chiedere l’esdebitazione personale per ripulirsi dai debiti rimasti.

L’esdebitazione, disciplinata ora dagli artt. 278-279 CCII, include espressamente anche i debiti tributari (non ci sono esclusioni per imposte, a parte eventuali sanzioni per fatti penali). Quindi un socio accomandatario fallito, se si è comportato lealmente e ha collaborato, può a fine procedura ottenere dal tribunale un decreto di esdebitazione che lo libera dai debiti fiscali e contributivi rimasti insoddisfatti. In altre parole, non li pagherà affatto. Questo è il “pagare meno tasse” estremo: a costo dell’uscita dal mercato e della perdita del patrimonio investito, l’imprenditore ottiene di non essere perseguitato a vita per i debiti. L’esdebitazione, introdotta una ventina d’anni fa e ora ampliata, è fondamentale per dare una seconda chance. In passato vi erano dubbi se riguardasse anche l’IVA (essendo debito “dovuto a titolo di mal tolto” dicevano alcuni), ma la giurisprudenza ha confermato che tutti i debiti concorsuali sono esdebitabili, inclusi quelli verso l’Erario, tranne le obbligazioni ex delicto o alimentari.

Un caso particolare: se la S.a.s. era piccola e non fallibile, i soci accomandatari non subiscono l’estensione del fallimento, ma restano con debiti civili. Possono allora ricorrere all’esdebitazione del sovraindebitato (art. 283 CCII) subito, che in sostanza consente anche a chi non è passato per un fallimento di liberarsi dei debiti residui ineluttabili, una volta ceduto il proprio patrimonio disponibile ai creditori. Questo strumento è un equivalente per i non fallibili: ad esempio, un accomandatario di una S.a.s. agricola non fallibile, travolto dai debiti sociali, può chiedere al giudice l’esdebitazione di “responsabilità personale” dopo aver messo a disposizione il possibile (se non ha nulla da dare, c’è addirittura l’esdebitazione del nullatenente). Si tratta di soluzioni limite, ma presenti.

Va da sé che la liquidazione giudiziale non è auspicabile se esistono alternative: gli imprenditori la considerano il fallimento vero e proprio. Tuttavia, per correttezza informativa, notiamo che a volte minacciare o considerare la liquidazione è un elemento di leva negoziale nelle trattative: per dire al Fisco e agli altri creditori “se non accettate il concordato, in fallimento prenderete meno e poi io mi esdebiterei pure, dunque conviene anche a voi trovare un accordo ora”. Questo ragionamento è pienamente legittimo e spesso convincente.

Analisi Settoriale: Strategie Fiscali e di Risanamento nei Principali Settori

Ogni settore economico presenta caratteristiche specifiche in termini di struttura finanziaria, tipologia di debiti e opportunità fiscali. Per “pagare meno tasse” con una S.a.s. indebitata, è utile tener conto delle peculiarità del settore in cui opera l’impresa, poiché esistono normative e prassi agevolative settoriali che possono contribuire a ridurre il carico fiscale o facilitare la ristrutturazione. In questa sezione esamineremo uno ad uno i principali settori – edilizia, commercio, tecnologia, servizi, agricoltura, industria, trasporti, turismo – evidenziando per ciascuno:

  • Quali sono le cause frequenti di crisi e indebitamento nel settore (per capire la natura dei debiti accumulati, es. banche, fisco, fornitori).
  • Quali strumenti di riduzione fiscale o incentivi specifici il settore offre (agevolazioni tributarie, regimi speciali).
  • Esempi concreti o casi noti di imprese del settore che hanno affrontato la crisi, per trarre spunti su come sono stati trattati i debiti (in particolare quelli fiscali).

Questa analisi settoriale ci aiuterà a contestualizzare le strategie generali discusse finora in situazioni reali.

Settore Edilizia (Costruzioni e Immobiliare)

Caratteristiche e difficoltà tipiche: l’edilizia è storicamente un settore ciclico, soggetto a periodi di forte espansione e improvvise frenate. Molte S.a.s. operano nell’edilizia (impresette familiari di costruzioni, impiantistica, subappalti). Le cause di indebitamento più comuni includono: ritardi nei pagamenti da parte dei committenti, fallimenti a catena (se fallisce un general contractor, trascina i subappaltatori), investimenti in cantieri rimasti invenduti, oppure squilibri dovuti a ribassi eccessivi. Negli ultimi anni si sono aggiunte dinamiche particolari come l’incertezza normativa sui bonus edilizi (superbonus 110%, ecobonus, ecc.), che ha causato blocchi di crediti fiscali e crisi di liquidità per molte imprese edili nel 2022-2023.

Composizione dei debiti: le imprese edili sovente accumulano debiti verso banche (per anticipazioni su SAL, fidi per materiali), verso fornitori e subappaltatori, nonché debiti fiscali per IVA e ritenute. Nel settore edile l’IVA è spesso a credito a causa del regime di split payment (l’IVA dovuta dalle PA viene versata direttamente allo Stato e l’impresa resta con credito) o del reverse charge (l’IVA nei subappalti è dovuta dal committente). Questo comporta che molte imprese edili abbiano crediti IVA cronici e, viceversa, possano avere debiti contributivi e ritenute per mancanza di liquidità. Inoltre, in periodi di crisi, possono accumularsi debiti verso Cassa Edile (ente paritetico dell’edilizia che riscuote quote per i lavoratori).

Strategie fiscali e agevolazioni: nel settore edile esistono alcune particolarità:

  • L’IVA per cassa è stata utilizzata da molte PMI edili per evitare di anticipare imposta su fatture non incassate, date le lunghe dilazioni tipiche.
  • Per incentivare il settore, negli ultimi anni il governo ha introdotto vari crediti d’imposta e detrazioni: il Sismabonus, il Bonus ristrutturazioni, il Bonus facciate, e soprattutto il Superbonus 110% (poi 90%). Molte imprese edili hanno maturato crediti fiscali vendendo lo sconto in fattura: questi crediti potevano essere compensati con le proprie imposte (riducendo le tasse da pagare) oppure ceduti. Purtroppo, il blocco delle cessioni nel 2022 ha lasciato alcuni con crediti incagliati. Se una S.a.s. edile indebitata ha ancora crediti fiscali edilizi, può usarli in compensazione per abbattere i propri debiti verso l’Erario – ciò è un modo indiretto di pagare meno tasse, usando il credito come moneta fiscale. Alcune procedure concorsuali hanno visto cessione dei crediti Superbonus a terzi per generare liquidità.
  • Il settore gode talvolta di contributi pubblici (es. fondo salva-opere, fondo garanzia per PMI edili) che possono fornire risorse per pagare i debiti.
  • Tassazione immobiliare: se la S.a.s. edile possiede immobili invenduti, paga IMU significativa. In caso di crisi, può chiedere ai comuni dilazioni o riduzioni (alcuni comuni riducono l’IMU per immobili merce invenduti). Inoltre, può valutare vendite rapide (anche a sconti) per incassare e pagare debiti fiscali prioritari.

Risanamento ed esempi: negli ultimi anni, diversi grandi costruttori hanno affrontato procedure concorsuali. Un caso emblematico è Astaldi S.p.A., colosso delle costruzioni, che nel 2018 ha presentato un concordato preventivo in continuità a seguito di una crisi di liquidità. Nel suo concordato, Astaldi ha incluso una transazione fiscale: ha proposto di pagare integralmente l’IVA e parzialmente le altre imposte, con conversione di crediti in strumenti finanziari (azioni) per i chirografari. La procedura è stata complessa ma i creditori l’hanno approvata nel 2019 e l’azienda è stata poi acquisita da Webuild. Lamaro Appalti S.p.A., un’importante impresa romana del gruppo Caltagirone, ha richiesto il concordato nel 2024 e sta cercando soluzioni in continuità mediante affitto d’azienda. In tali concordati di grandi dimensioni, il Fisco tipicamente ottiene trattamenti di favore (spesso pagamento del 100% dell’IVA e di una buona percentuale di altri tributi), ma comunque concordati – mentre i fornitori subiscono stralci pesanti. Questo evidenzia che in edilizia il debito IVA è spesso molto elevato (per via dei volumi e del reverse charge) e la transazione fiscale è cruciale: lo Stato tende a pretendere l’IVA perché formalmente è un credito dell’erario, ma il nuovo cram-down ha costretto il Fisco ad accettare in casi come Astaldi un pagamento non integrale di alcune voci.

Per le piccole imprese edili, magari S.a.s. familiari, sono più frequenti le liquidazioni o i piani di rientro informali. Ad esempio, molte ditte edili hanno usufruito della rottamazione cartelle 2023 per condonare sanzioni su debiti INPS e IVA accumulati durante la pandemia, evitando il fallimento. Alcune hanno scelto la composizione negoziata: il settore edile è stato uno dei più attivi nel testare la composizione, specie per imprese con crediti da Superbonus bloccati – cercando accordi con banche e Fisco per sbloccare i crediti. Non ci sono nomi pubblici data la riservatezza, ma la prassi emergente (Osservatorio Crisi d’Impresa) segnala che diverse PMI edili in Veneto e Lombardia hanno risolto la crisi con accordi grazie anche alla riduzione di sanzioni fiscali.

In definitiva, nel settore edilizia, per pagare meno tasse in situazioni debitorie spesso si fa leva su:

  • Maxi-compensazioni di crediti fiscali (bonus edilizi) ove presenti.
  • Transazione fiscale nel concordato/accordo per ridurre IVA e sanzioni.
  • Definizioni agevolate: ad esempio molti costruttori hanno aderito allo stralcio automatico delle cartelle fino 1.000 €, liberandosi di vecchie sanzioncine (bolli auto, ecc.).
  • Regimi speciali IVA (split/reverse) che, se ben gestiti, tengono a bada l’esposizione IVA (ad esempio richiedendo rimborsi periodici per non far gonfiare crediti IVA che poi diventano debito bancario).

Chi opera in edilizia deve anche stare attento a non incorrere in reati come l’omesso versamento di ritenute su stipendi (cosa che accade in cantieri se in crisi non pagano contributi); i concordati spesso includono piani di pagamento rateale dei contributi per evitare guai penali ai titolari.

Settore Commercio (Dettaglio e Ingrosso)

Caratteristiche e criticità: il commercio al dettaglio è costituito da miriadi di piccole imprese familiari, tra cui molte S.a.s. (ad esempio negozi di abbigliamento, minimarket, ristorazione, ecc.). Negli ultimi anni il settore ha subito la concorrenza dell’e-commerce e, durante la pandemia, lunghi periodi di chiusura che hanno generato debiti. Nel commercio all’ingrosso, invece, operano S.a.s. di medio livello (es. distribuzione di alimentari, materiali) che soffrono quando calano i consumi o falliscono i clienti a cui concedono merce a credito. Le cause di crisi nel commercio spesso includono: calo del fatturato, eccesso di concorrenza, spese fisse alte (affitti, personale) e politiche di prezzo compressi.

Tipologia di debiti: i commercianti sovente accumulano debiti con fornitori (magazzino invenduto), con banche (anticipo fatture, fidi di cassa), e debiti tributari di natura prevalentemente IVA (il commercio incassa IVA sulle vendite quotidianamente, ma se quella liquidità è usata per spese correnti e poi mancano i soldi per versare l’IVA trimestrale, si creano buchi), nonché IRPEF sui redditi se comunque c’è utile tassabile anche in anni difficili (a causa di regimi di determinazione forfettaria rimanenze ecc.). Piccoli commercianti a volte trascurano di versare contributi INPS commercianti (24% del minimale) accumulando cartelle. La crisi può portare anche a morosità su affitti e bollette, ma questi non sono tributi, sebbene possano portare a cause parallele (sfratti).

Regimi fiscali agevolati: il commercio al dettaglio è uno dei settori dove molti adottano il regime forfettario (imposta sostitutiva 15% – 5% se start-up – su una base forfettizzata dei ricavi). Tuttavia, una S.a.s. non può accedere al regime forfettario (riservato a ditte individuali e professionisti). Ciò crea una sperequazione: tante ditte individuali negozianti pagano pochissimo (15% su 40% dei ricavi, ad esempio, quindi 6% del fatturato), mentre la S.a.s. tradizionale paga IRAP e IRPEF progressive sul reddito reale. Dunque, una S.a.s. commerciale in difficoltà potrebbe valutare, in estremis, di trasformarsi in impresa individuale per usufruire del forfettario e ridurre drasticamente le tasse. Questa operazione però va ponderata, e non elude i debiti pregressi (restano personali agli ex soci). È successa in alcuni casi: piccole attività che chiudono la società indebitata (portandola in liquidazione o facendola fallire se serve) e ripartono come ditta individuale pulita in forfettario – di fatto una fresh start con beneficio fiscale. Non sempre è lecito se volto solo a evitare debiti (potrebbe configurare un abuso del diritto se la continuità è evidente).

In ambito IVA, i commercianti al minuto possono utilizzare il metodo IVA per cassa se volume <2M€, ma trattandosi di vendite al dettaglio, in genere incassano subito dai clienti, quindi l’IVA per cassa non incide (è utile più per grossisti con vendite a credito). Un aiuto può venire dall’IVA di gruppo se la S.a.s. fa parte di un gruppo (raro per piccole).

Definizioni agevolate e commercio: molti operatori commerciali hanno aderito con entusiasmo alla rottamazione-quater 2023 per liberarsi di cartelle accumulate negli anni difficili. Organizzazioni di categoria (es. Confcommercio) hanno promosso l’informazione: è noto che nel 2021 circa il 30% delle imprese del dettaglio aveva debiti con il fisco. Rottamando, negozi e bar hanno potuto togliere sanzioni e pagare a rate ridotte. Ad esempio, un piccolo ristorante S.a.s. dopo il Covid poteva avere €50k di cartelle, con sanzioni €10k: rottamando riduce a €40k da pagare, magari in 15 rate fino 2027 – un solievo.

Esempi noti: nel settore commercio di grandi dimensioni, un caso eclatante fu Mercatone Uno, catena di arredamento, finita in amministrazione straordinaria e poi fallita nel 2019. Pur essendo una SpA e non una S.a.s., la vicenda Mercatone Uno (crac da 800 milioni) mostra come nel commercio al dettaglio un calo di vendite e gestione inefficiente possano portare a insolvenza massiva, con dipendenti e fornitori non pagati. Molti fornitori di Mercatone (spesso PMI) hanno dovuto poi portare in detrazione l’IVA delle fatture non incassate attraverso procedure di insinuazione al passivo (cosa consentita dal DPR 633). Un altro esempio: Trony (elettronica di consumo) è passato per concordato nel 2018 dopo l’insolvenza della società Dps Group; qui i negozi in franchising (alcune S.a.s.) si trovarono con merce in conto vendita bloccata e dovettero o chiudere o rinegoziare debiti. Alcuni di essi hanno utilizzato accordi con fornitori e transazioni fiscali per ripartire.

A livello micro, tantissimi negozi hanno purtroppo semplicemente chiuso senza procedure formali, lasciando i debiti verso Fisco ai soci accomandatari. Questi poi si arrangiano con piani di rateizzazione personali o, come detto, con esdebitazione da sovraindebitato. Federconsumatori segnalava come post-pandemia decine di migliaia di microimprese commerciali abbiano beneficiato dello stralcio automatico dei debiti sotto 1.000 € (cancellando vecchie multe, interessi) e di piani straordinari di rate INPS.

Pagare meno tasse nel commercio – spunti:

  • Sfruttare agevolazioni locali: alcuni Comuni nel 2021-22 hanno esentato le imprese dal pagamento della TOSAP/COSAP (tassa suolo pubblico) e ridotto la TARI (tassa rifiuti) come sostegno. Ciò ha ridotto i costi di fiscalità locale.
  • Nel 2020 fu introdotto il Tax credit affitti (60% dei canoni commerciali), che molti commercianti hanno usato in compensazione riducendo le imposte dovute in F24.
  • Chi ha rinnovato registratori di cassa per scontrini telematici ha avuto un credito d’imposta (250€) – piccolo ma usato per ridurre imposte.
  • Per i crediti verso clienti insolventi, il commerciante può emettere nota di variazione IVA per recuperare l’IVA su fatture non incassate a seguito di procedure concorsuali dei clienti. Questo recupero IVA riduce l’IVA dovuta nello stesso anno, alleviando cassa. È un dettaglio tecnico, ma importante per grossisti con clienti falliti.

In generale, il commercio non ha regimi speciali di favore come l’agricoltura o industria 4.0, quindi la pianificazione fiscale si limita a ottimizzare la struttura societaria (valutare di restare sotto soglia forfettario, se possibile operare come ditte individuali). Una S.a.s. commerciale in crisi punterà soprattutto su taglio dei costi e consolidamento debiti; dal lato fiscale, userà rottamazioni e transazioni per liberarsi di sanzioni e more, e potrebbe scegliere procedure di sovraindebitamento (piano del consumatore se la S.a.s. è piccola e riconducibile a persona fisica, ma di solito c’è concordato minore).

Settore Tecnologia (ICT, Start-up e Software)

Panorama e rischi: il settore tecnologia comprende imprese informatiche, servizi IT, start-up innovative, software house, ecc. Spesso le imprese tech nascono come S.r.l. start-up (per beneficiare di norme speciali), ma vi sono anche S.a.s. (ad esempio agenzie di consulenza informatica di piccole dimensioni, studi associati convertiti, aziende familiari che vendono hardware). Le cause di crisi nel tech includono: rapida obsolescenza, dipendenza da pochi grandi clienti, elevati costi di R&D non sostenuti da ricavi immediati. Molte start-up bruciano cassa e possono ritrovarsi insolventi se i finanziamenti si interrompono.

Tipologia di debiti: imprese tech hanno relativamente pochi debiti verso fornitori materiali (meno magazzino), più debiti verso dipendenti e sviluppatori (stipendi) e investitori. Debiti tributari possono sorgere se nonostante perdite contabili ci sono costi indeducibili (spesso hanno perdite e quindi niente IRES/IRPEF da pagare, ma potrebbero avere debiti IVA se vendono servizi con IVA e acquistano manodopera esente). Alcune start-up accumulano debiti IVA perché magari incassano vendite soggette a IVA ma reinvestono tutto senza accantonare l’IVA. Debiti INPS e ritenute possono emergere se hanno dipendenti e non riescono a pagarli. Tuttavia, molte start-up usano contratti di collaborazione e costi flessibili per modulare, quindi i debiti fiscali non sono la prima voce: più spesso arrivano al fallimento con debiti verso soci/investitori e stipendi arretrati, piuttosto che col fisco.

Incentivi e vantaggi fiscali per il tech: il settore è stato destinatario di varie agevolazioni:

  • Regime Start-up innovativa: se la S.a.s. fosse “start-up innovativa” (non comune, poiché di solito servono S.r.l.), ci sarebbero esenzioni da imposta di bollo, oneri di avvio, ecc. Ma in generale poche S.a.s. rientrano, perché la normativa spinge ad essere S.r.l. per limitare responsabilità ai soci.
  • Credito d’imposta Ricerca & Sviluppo: fino al 2020 c’era un credito 50% sulle spese R&S, dal 2021 c’è credito su innovazione (10-15%). Le imprese tech ne hanno usufruito, riducendo le imposte da versare: questi crediti infatti vanno in compensazione e tagliano l’IRAP o l’IVA dovuta. Una S.a.s. tech indebitata potrebbe trovarsi con crediti R&S maturati che può usare per pagare meno tasse nel periodo di crisi.
  • Patent box: se la S.a.s. detiene brevetti o software registrati, può optare per il regime Patent Box (nuova versione: super-deduzione del 110% dei costi R&D collegati agli intangibili). Ciò riduce l’imponibile. Non molte S.a.s. arrivano a questo (era più per aziende grandi), ma se capitasse, è un bel risparmio fiscale.
  • Fondo perduto e digital transformation: durante il Covid furono erogati contributi a fondo perduto che non erano tassati e quindi miglioravano le casse. Inoltre, programmi come “Digital transformation” hanno dato crediti d’imposta sull’acquisto di beni digitali. Tutto ciò di riflesso consente alle imprese tech di ridurre l’esborso fiscale.

Ristrutturazione debiti nel tech – esempi: il mondo delle startup è pieno di “casi di scuola” di come NON indebitarsi col Fisco: avendo spesso perdite, raramente devono pagare IRES; e se hanno debiti, chiudono prima. Però ci sono state scale-up che, dopo crescita, sono crollate: pensiamo a Bio-On (bioplastica, Bologna) fallita nel 2019 dopo scandalo finanziario, o Olivetti/Telecom Italia Sparkle (passata in ristrutturazioni negli anni 2000). Questi però sono grandi. Per S.a.s. piccole, potremmo citare un caso ipotetico: “Alpha Tech S.a.s.”, consulenza software 10 dipendenti, perde il suo principale cliente e si trova insolvente verso fornitori di software e Fisco. Alpha Tech potrebbe optare per un accordo di ristrutturazione semplificato: convincere il Fisco a dilazioni e i fornitori a uno stralcio in cambio di futuri contratti. Forse utilizza la composizione negoziata, ed ecco che qui appare l’importanza del capitale umano: se i tecnici chiave se ne vanno, l’azienda muore, se restano, i creditori possono sperare in continuità. A differenza di edilizia o commercio, nel tech la maggior parte del valore è nei cervelli, non in beni liquidabili; quindi i creditori e il Fisco sono più propensi ad accettare un piano di risanamento in continuità (per esempio, transazione fiscale: paghiamo solo 30% del dovuto ma riprendiamo l’attività e generiamo reddito per pagare quello).

Fiscalità e crisi nel tech: un aspetto singolare è che molte imprese tech hanno perdite pregresse consistenti (anni di R&D in perdita). Se fanno profitto in futuro, useranno quelle perdite e non pagheranno tasse per un bel po’. Ciò riduce notevolmente il carico fiscale post-crisi e dunque migliora la sostenibilità del piano di rientro. Ad esempio, Beta Software S.a.s. ha 1 milione di perdite pregresse; chiude un accordo coi creditori per dimezzare i debiti e continua: se genera 200k di utile anno, per 5 anni non pagherà IRES/IRPEF grazie alle perdite, potendo destinare l’intero flusso al piano di rientro. In sede di attestazione, l’esperto lo evidenzierà: “la società può destinare 100% utile a creditori perché non paga imposte avendo perdite da scomputare”.

Pagare meno tasse nel tech dunque passa per:

  • sfruttare perdite pregresse (riduzione imponibile futuro),
  • utilizzare al massimo crediti d’imposta R&S, training, investimenti tech disponibili per compensare debiti fiscali,
  • assicurarsi di chiedere rimborso IVA su crediti se vantati (molte start-up in perdita accumulano crediti IVA su acquisti attrezzature: meglio chiederli indietro per pagare fornitori),
  • e ovviamente, se in procedura concorsuale, utilizzare la transazione fiscale per tagliare eventuali debiti IVA/ritenute.

Settore Servizi (Servizi alle imprese e alle persone)

Panoramica: il settore dei servizi è vastissimo: consulenza, marketing, professioni, servizi alle persone (palestre, formazione, ecc.). Molti studi professionali non possono essere S.a.s. (gli ordini spesso lo vietano se includono non professionisti), ma ad esempio agenzie di viaggi, agenzie pubblicitarie, imprese di pulizie, possono essere S.a.s. Nel settore servizi i costi principali sono lavoro e affitti; i margini spesso risicati. La pandemia ha colpito duramente turismo, intrattenimento, eventi – ambiti di servizi – generando insolvenze.

Debiti frequenti: per servizi, debiti verso dipendenti e collaboratori sono cruciali (TFR, stipendi arretrati), oltre a debiti bancari (fidi per anticipo fatture) e debiti tributari, in primis IVA se vendono a privati (incassata e non versata in crisi di liquidità) e ritenute lavoratori. Ad esempio, palestre chiuse hanno magari usato l’IVA degli abbonamenti per rimborsare voucher e poi non han versato l’IVA. Oppure società di sicurezza hanno vinto appalti con ribassi e poi non sono riuscite a pagare contributi e IVA.

Agevolazioni particolari: nel settore servizi non ci sono regimi speciali generali come in agricoltura. Tuttavia:

  • Per servizi turistici (hotel, tour operator, agenzie) ci sono stati crediti d’imposta affitti 60% nel 2020-21 e esoneri IMU.
  • Per servizi di trasporto passeggeri (es. NCC, bus turistici) contributi a fondo perduto e riduzioni di imposte su veicoli.
  • Le imprese culturali e dello spettacolo (teatri, cinema) hanno avuto crediti d’imposta specifici (ad esempio tax credit musica, etc.) che riducono il dovuto fiscale.
  • Molte imprese di servizi possono accedere al regime forfettario se individuali; se S.a.s., no, come detto. Però non di rado i soci di S.a.s. di servizi si fanno pagare parte dei compensi come lavoro autonomo (escamotage per tassarli al 15% se in forfettario personale), ma è borderline legalmente.
  • Una cosa importante: i servizi alle imprese e professionali possono subire ritenute d’acconto sui compensi (es. un consulente prende compenso con ritenuta 20%). Se la S.a.s. chiude in perdita, quelle ritenute subite sono crediti verso l’Erario. È bene recuperarle (chiedere rimborso o compensarle). Spesso società di servizi in crisi dimenticano di recuperare ritenute subite, regalando soldi allo Stato inutilmente.

Casi notevoli: un esempio di settore servizi in crisi fu Air Italy (compagnia aerea) posta in liquidazione nel 2020 – anche se più trasporti, ma è servizio. O la catena di palestre Happy Fitness, finita in concordato nel 2018; oppure società di call center (come Almaviva Contact che chiuse una sede per crisi). In questi casi, i debiti prevalenti erano verso lavoratori e INPS; i concordati tendevano a privilegiare il pagamento dei TFR e contributi (per evitare conflitti sociali), mentre i debiti tributari venivano falcidiati. Il Fisco spesso ottiene in concordati di servizi meno che in altri settori, perché nei servizi intangible c’è poco da liquidare (niente magazzino, pochi beni) e il vero asset sono i contratti futuri e la forza lavoro. Quindi, ad esempio, in un concordato per un call center, l’Agenzia Entrate magari accetta il 10% dei suoi crediti pur di far passare il piano, perché diversamente in fallimento prenderebbe zero e si perderebbero 500 posti di lavoro.

Pagare meno tasse nei servizi: si possono individuare alcuni pattern:

  • Molte piccole S.a.s. di servizi, se entrano in crisi, si sciolgono e liquidano volontariamente per evitare fallimenti (non fallibili se piccole). In liquidazione spesso non pagano tutte le imposte (perché insufficienti attivi), e i soci accomandatari poi usano la procedura di esdebitazione per liberarsi dal residuo. Quindi, in ultima analisi, lo Stato incassa parziale o nulla, di fatto condonando di necessità (esdebitazione).
  • Le definizioni agevolate 2023 hanno aiutato, ad esempio, agenzie di eventi a ridurre sanzioni su debiti IVA contratti nel 2020.
  • Il rinnovo degli accordi: le imprese di pulizie e ristorazione collettiva, quando in crisi, negoziano con la PA per revisione prezzi (causa inflazione). Se ottengono aumenti, generano marginalità per rientrare. Non è fiscale, ma citabile come strategia di sopravvivenza. Un margine maggiore consente di pagare tasse correnti e recuperare su quelle passate.

Settore Agricoltura

Specificità del settore: l’agricoltura ha regole peculiari. Molte imprese agricole sono ditte individuali o società semplici, ma esistono S.a.s. agricole (spesso tra familiari). Un punto cruciale: l’imprenditore agricolo è storicamente non fallibile (salvo dimensioni industriali). Con il Codice Crisi, anche se di grandi dimensioni, l’impresa agricola rimane esclusa da liquidazione giudiziale, ricadendo semmai nel sovraindebitamento/concordato minore. Questo influenza la gestione del debito: banche e Fisco sanno che non possono spingere un’azienda agricola al fallimento classico, quindi o transano o la vedono dissolversi senza nulla (i beni spesso ipotecati a banche; i debiti fiscali rimangono su persone).

Debiti tipici: l’agricoltura subisce eventi naturali, crolli di prezzi. Debiti tipici: mutui agrari (terre ipotecate), debiti con consorzi agrari e fornitori (sementi, concimi), debiti con enti previdenziali (contributi operai agricoli, gestione agricola INPS), e debiti verso l’Erario per contributi unificati e in passato le famigerate multe quote latte (che generarono contenziosi enormi con allevatori). L’IVA in agricoltura spesso risulta a credito (vendite con aliquote ridotte e acquisti con aliquote piene), e molti agricoltori stanno in regime di esonero se piccoli (niente IVA da versare). Quindi il debito fiscale classico è l’IRPEF sull’eventuale reddito agrario o più spesso l’IMU sui terreni.

Regime fiscale su base catastale: qui sta un grande vantaggio: le società agricole (tra cui S.a.s. che abbiano nell’oggetto esclusivo attività agricola ai sensi art. 2135 c.c.) possono optare per la tassazione catastale dei redditi. In pratica, anziché tassare l’utile reale, tassano il reddito agrario accertato catastalmente, che di solito è irrisorio rispetto agli utili effettivi. Questa opzione, prevista dalla L. 296/2006, consente a una S.a.s. agricola di essere tassata come un semplice coltivatore diretto: se possiede 50 ha con reddito agrario totale di 5.000 €, pagherà IRPEF su 5.000 (magari zero se ha deduzioni), anche se l’utile di bilancio fosse 100.000 €. È uno scudo fiscale enorme: mantiene per i soci la tassazione di favore riservata alle persone fisiche. Per usufruirne la società deve avere uno statuto ad hoc e l’opzione va esercitata in dichiarazione IVA. Questo regime, oltre a far pagare meno imposte dirette, esenta dall’IRAP (poiché il reddito agrario non è soggetto IRAP). Dunque una S.a.s. agricola in bonis può già pagare poche tasse (solo IMU e poca IRPEF). Se è in crisi, talvolta paradossalmente non ha debiti fiscali significativi proprio grazie a questo regime.

Ad esempio, S.a.s. Agricola Serena: ricavi 300k, utile 100k, reddito agrario catastale 10k -> paga IRPEF su 10k (diciamo 1k di tasse) invece che su 100k (dove avrebbe pagato ~30k). Questo la aiuta a restare liquida e servire i debiti bancari.

Procedure di crisi in agricoltura: come accennato, agricoltori usano sovraindebitamento:

  • Concordato minore agricolo: senza soglie di % e col vantaggio che l’agricoltore può anche prevedere la continuazione dell’attività se sostenibile.
  • Liquidazione controllata del sovraindebitato: se un’impresa agricola è decotta, liquida i beni e i soci chiedono esdebitazione. Ad esempio molti allevatori indebitati per le quote latte (sanzioni UE per eccesso produzione) hanno usato la legge 3/2012 per farsi annullare quei debiti: gli importi erano enormi e lo Stato italiano stesso ha favorito soluzioni di saldo al 50% poi condonato dall’UE.

Agevolazioni in crisi: agricoltura ha anche misure come:

  • Fondi di garanzia ISMEA per consolidare debiti bancari (lo Stato garantisce nuove linee).
  • Mutui a tasso zero o contributi PSR che aumentano la cassa.
  • Fiscalmente, se eventi calamitosi, possibilità di esenzione IRPEF reddito agrario per zone colpite (ad esempio per 2021 erano esenti IRPEF i redditi agrari di coltivatori diretti). Questo comporta zero tasse quell’anno, aiutando le imprese.

Esempio: un’azienda vitivinicola S.a.s. con debiti per investimenti in cantina, stava per collassare; è riuscita a vendere il magazzino vini con un contratto di stock ai distributori, ha rinegoziato i mutui con ISMEA e con un piano di rientro sui debiti fiscali (che erano principalmente contributi dipendenti) ottenendo sgravio di sanzioni. Tutto ciò senza procedure concorsuali, sfruttando la flessibilità del sistema agricolo (meno formalizzato).

Pagare meno tasse agricoltura – in breve:

  • Tassazione catastale: chi ne ha diritto dovrebbe adottarla (richiede che la S.a.s. sia “società agricola professionale”, con uno IAP – imprenditore agricolo professionale – tra i soci, etc. Non tutte le S.a.s. possono, ma molte sì). Questo letteralmente riduce l’imponibile anche del 80-90% rispetto al reddito reale.
  • Esonero IRAP: se è agricola pura, niente IRAP (4% risparmiato).
  • IVA agricola a regime speciali: se la S.a.s. vende prodotti agricoli, può applicare le percentuali di compensazione: in pratica versa al Fisco solo la differenza tra IVA vendite e quellacalcolata forfettariamente sugli acquisti (che spesso risulta zero o credito). In conclusione, l’IVA incassata in parte la trattiene. Questo è già una agevolazione di legge.
  • Definizione agevolata contributi agricoli: nel 2023 l’INPS ha aderito a rottamazione: molti coltivatori hanno potuto stralciare sanzioni su contributi unificati mancati.
  • Sovvenzioni: i contributi PAC e regionali non sono tassabili come reddito se percepiti da società agricole? In genere i contributi in conto esercizio lo sarebbero, ma se la tassazione è catastale, paradossalmente contributi pure restano in più non tassati (il reddito agrario è fisso a prescindere dai contributi incassati). Quindi una S.a.s. agricola può incassare contributi e non pagarci imposte: quella liquidità va interamente a risanare i debiti.

Un problema possono essere i debiti con i fornitori agricoli (es. consorzio agrario): questi spesso vengono ripianati col subentro di cooperative o con accordi di ristrutturazione in tribunale (qualche tribunale ha omologato accordi di imprese agricole benché formalmente non fallibili, basandosi su art. 182-bis l.f. che li ammetteva per soggetti non fallibili).

Settore Industria (Manifatturiero e Produzione)

Caratteristiche: il settore industriale comprende manifattura, metalmeccanica, chimica ecc. In genere, imprese industriali medio-grandi sono società di capitali, ma esistono S.a.s. piccole (es. manifattura artigianale evoluta, ditte di famiglia con qualche decina di dipendenti). Spesso crescendo si trasformano in S.r.l., ma se non l’hanno fatto possono trovarsi con base familiare. Cause di crisi: innovazione insufficiente, concorrenza globale, shock dei prezzi materie prime (es. caro energia 2022 ha messo in difficoltà industrie energivore), cali di domanda.

Debiti e fiscalità: le imprese industriali investono in macchinari – quindi contraggono leasing, mutui (debito verso banche). Hanno anche debiti verso fornitori (materie prime) e verso il fisco. Debiti tributari frequenti: l’IRAP incide su aziende con molto personale; l’industria ne ha, ma a volte è compensata da deduzioni. IVA: l’industria esportatrice va in credito IVA (non incassa IVA sull’export, ma paga sugli acquisti). Invece industrie che vendono sul mercato interno incassano IVA; se in crisi, possono non versarla per finanziare il circolante. Tasse energetiche: alcune industria pagano accise su gasolio, ecc. Durante la crisi energia, il governo ha dato crediti d’imposta carburante ed energia (fino al 40% delle bollette per energivori Q4 2022): molte imprese li hanno usati in F24 riducendo IVA e contributi da pagare. Chi non è riuscito, può chiederne rimborso: in procedure concorsuali, questi crediti d’imposta diventano attivi da valorizzare per pagare creditori (e magari Fisco).

Incentivi settore: il piano Industria 4.0/Transizione 4.0 ha fornito cospicui crediti d’imposta su investimenti in beni strumentali (40% o 20% a seconda) e su spese R&S. Ciò significa che aziende in utile hanno pagato meno imposte grazie alla compensazione di questi crediti. Per aziende in crisi, i crediti hanno minor utilizzo (se sono in perdita non li usano subito, ma possono portarli avanti). Comunque, se un’industria S.a.s. ha investito in macchinari, avrà crediti su cui contare per alleggerire il fisco in anni successivi.

  • ACE (Aiuto crescita economica): l’industria ad alto capitale proprio beneficia di deduzione ACE, riducendo imponibile IRPEF dei soci. In S.a.s., i soci imputano quell’ACE come deduzione dal loro reddito complessivo, riducendo IRPEF.
  • Regimi di sospensione IVA: sul lato liquidità, le imprese industriali possono usare il plafond IVA se esportatrici abituali, così non pagano IVA sugli acquisti (lo Stato rinuncia temporaneamente a incassarla). Questo in crisi evita esborso di IVA e salva cassa.
  • Accordi doganali: non strettamente tasse, ma ad esempio la dilazione di dazi doganali se in difficoltà (Agenzia Dogane concede).
  • Zone economiche speciali (ZES): se l’industria è in ZES, ha credito d’imposta investimenti 50%, che riduce il carico fiscale.

Ristrutturazioni note: l’industria italiana ha visto casi come Ilva (acciaio), Alitalia (anche trasporti, ma dimensione industriale), Parmalat (alimentare), Bialetti (casalinghi), OMSA (tessile) ecc. Quasi tutte grandi S.p.A. con concordati o amministrazioni straordinarie. Concentriamoci su un esempio minore: Melegatti S.a.s., storico produttore di pandori (era una S.a.s. nel 2017), caduto in crisi e finito in concordato nel 2018. Il caso Melegatti fu emblematico: una S.a.s. familiare, con 90 dipendenti, salvata in extremis da un investitore. Nel concordato, l’Agenzia Entrate ha dovuto accettare un certo stralcio dei crediti per consentire l’ingresso del nuovo socio (che portava soldi freschi). I fornitori locali pure accettarono. Melegatti è ripartita e i debiti fiscali residui sono stati pagati in parte col ricavato di vendite natalizie successive. Questo dimostra come in PMI industriali a volte si trova un cavaliere bianco ma solo se i debiti vengono ridotti (investitore non paga in toto i debiti vecchi). Lo strumento fu un concordato con transazione fiscale.

Come pagare meno tasse nell’industria:

  • Transazione fiscale come sempre, per ridurre carichi imposte nei piani.
  • Utilizzo efficiente di crediti d’imposta e perdite: molte imprese industriali in crisi hanno perdite fiscali (che ridurranno imposte future) e crediti 4.0 (che riducono debiti verso Erario).
  • Eliminazione sprechi fiscali: p.es. vendere magazzino obsoleto a realizzo e dedurre la perdita per ridurre utile tassabile. O demolire impianti inutili e dedurre la perdita (svalutazioni di magazzino e cespiti sono deducibili con certe condizioni). Questo abbassa il reddito imponibile e quindi le tasse.
  • Verifica aliquote energia agevolata: alcune industrie energivore hanno esenzioni o aliquote ridotte di accise se in crisi o se producono combinato (cogenerazione). Sfruttare questi meccanismi riduce i costi parafiscali.

Settore Trasporti (Logistica e Mobilità)

Situazione: trasporti include autotrasporti merci, trasporto passeggeri (bus, taxi), logistica magazzini, ecc. Molte piccole imprese di autotrasporto sono S.a.s. (padroncini con un paio di camion). Il settore è ad alta intensità di capitale (mezzi) e lavoro, e sensibile al costo carburante. Crisi tipiche: aumento diesel (come nel 2022), fermi per pandemia (bus turistici), normative stringenti.

Debiti comuni: leasing/finanziamenti per i veicoli (i camion costano, se non paghi rata c’è rischio ritiro), debiti con fornitori gasolio e officine, e debiti fiscali: l’autotrasporto gode di deduzioni forfetarie (un tot per km per spese non documentate) che riducono molto l’imponibile IRPEF, quindi spesso hanno bassa tassazione diretta. Tuttavia, possono accumulare debiti su IVA carburante (che incassano dalle fatture se fanno servizi conto terzi con IVA, e se comprano gasolio extrarete pagano IVA che scaricano – di solito autotrasportatori sono a credito IVA, infatti chiedono rimborsi trimestrali del credito per eccesso di acquisti di gasolio), e su contributi INPS (gli autisti dipendenti). Un problema fiscale frequente: le multe e pedaggi non pagati, ma questi non sono imposte, se non li pagano diventano debiti verso concessionari autostrade o comuni (comunque potenziali cartelle).

Agevolazioni fiscali settore:

  • Deduzioni forfetarie autotrasportatori: ogni anno la legge di bilancio stabilisce un importo deducibile per viaggio per i piccoli autotrasportatori conto terzi (nel 2022 era ~55 € a trasferta oltre il Comune). Ciò riduce reddito imponibile notevolmente, dunque meno IRPEF.
  • Credito accise gasolio: le imprese di trasporto merci >7.5 tonnellate e passeggeri autobus possono chiedere rimborso trimestrale delle accise sul gasolio professionale. Lo Stato rimborsa circa €0,21 per litro. Questo rimborso si può fare compensare in F24 con contributi e imposte. In anni di crisi, ha aiutato: se l’impresa aveva debiti INPS, poteva usare il credito accise per pagarli.
  • Esonero contributi COVID: nel 2021 c’è stato esonero parziale contributi previdenziali per imprese trasporto turistico. Quindi meno contributi da versare = meno debito.
  • Rinvi fiscali: Governo ha spesso rinviato il versamento dell’IVA o contributi per autotrasportatori in periodi di gasolio alto (dando liquidità a breve, ma accumulo a lungo se non ben gestito).
  • Decontribuzione Sud: se trasportatori operano in Sud Italia, c’è sgravio 30% contributi fino 2029 – molti ne beneficiano riducendo costi e debiti verso INPS.
  • Fondo garanzia e Ristori: nel 2020-21 per bus turistici e NCC c’erano contributi a fondo perduto e fino a 80% di ristoro sui mancati ricavi. Non tassati.

Ristrutturazioni esempi: la situazione di Alitalia è nota: compagnia aerea cronicamente in perdita, commissariata e ora in liquidazione amministrazione straordinaria. Debiti in larga parte verso Stato (prestiti ponte) e dipendenti (TFR), e il piano è non pagarne gran parte (lo Stato sta accettando perdite, qui “pagare meno tasse” non c’entra se non che Alitalia ha lasciato credo debiti IVA/accise che non saranno saldati interamente). Un caso più terra-terra: un consorzio di autotrasportatori in Emilia (vari soci S.a.s.) che fallisce nel 2018: i singoli soci avevano garanzie incrociate. Il Fisco ha recuperato poco in fallimento, ma i soci accomandatari poi con esdebitazione si sono puliti dei residui. Oppure compagnie di pullman fallite (Marozzi? Sita Sud?), dove poi l’Erario resta con crediti insinuati e incassa forse l’IVA sui beni venduti e nulla più.

Nelle procedure concorsuali di trasporto merci, i crediti privilegiati grandi spesso sono verso dipendenti (che vanno pagati al 100%), quindi il margine per il Fisco è poco. Tipicamente il concordato di un’azienda di autotrasporto darà all’Erario una piccola percentuale e il resto stralcio. L’Agenzia potrebbe opporsi, ma come sempre il cram-down la disinnesca se la proposta è equa.

Pagare meno tasse nei trasporti:

  • Sicuramente, sfruttare i crediti gasolio a tappeto per ridurre debiti fiscali (compensare, se non li hanno usati).
  • Applicare tutte le deduzioni forfettarie e controllare spese deducibili (es. notturni autisti, spese di viaggio).
  • Se hanno veicoli euro 0 rottamati con incentivo, c’è credito imposta investimenti (nel 2021 per es. 30% acquisto veicoli nuovi): usarlo per F24.
  • Pianificare i rifornimenti nei Paesi UE con accise più basse (non fiscale italiano, ma riduce costi e quindi difficoltà).
  • Il regime forfettario per piccoli: autotrasportatori con ricavi <100k possano essere forfettari con coeff. 0.67 e 15% imposta. Se S.a.s. non può, ma se era ditta individuale sì. Alcuni si stanno spostando a ditte individuali per questo.

Settore Turismo e Ristorazione

Caratteristiche: comprende alberghi, B&B, tour operator, agenzie viaggi, ristoranti, stabilimenti balneari, ecc. Molti di questi sono S.a.s. (tipicamente ristoranti e piccoli hotel familiari costituiti come S.a.s. per far entrare figli come accomandanti). Il turismo è stato devastato da COVID e poi ripresosi, ma con strascichi di debiti.

Debiti tipici: affitti elevati (molti non pagati in pandemia, convertiti in debiti vs proprietari), debiti con fornitori (alimentari, lavanderie), debiti con portali (p. es. commissioni Booking non pagate), e naturalmente debiti tributari: l’IVA 10% incassata su soggiorni e pasti in lockdown è stata spesso non versata (alcuni l’hanno usata per sopravvivere), inoltre imposta di soggiorno non riversata ai comuni (ci sono stati casi di appropriazione indebita contestata a titolari di hotel per imposta di soggiorno non versata). Debiti contributivi per dipendenti stagionali (anche se cassa integrazione ha coperto parte). Molti soggetti turistici hanno ottenuto esoneri IMU 2020 e 2021 (lo Stato ha cancellato IMU per alberghi per aiutarli) quindi un debito in meno.

Agevolazioni speciali:

  • Tax credit vacanze 2020: un bonus fino 500€ per famiglie da spendere in hotel, di cui l’80% veniva scontato subito e rimborsato all’albergatore come credito d’imposta. Quindi tanti hotel hanno crediti d’imposta vacanze che hanno potuto compensare con le tasse 2021-22 (riducendo carico).
  • Fondo perduto turismo: contributi a fondo perduto vari (es. 200k € agli hotel montagna, etc.) non tassati.
  • Bonus riqualificazione alberghi 65% (fino al 2018): crediti portati avanti per compensare imposte.
  • Credito imposta affitti turistici 60% (2020-21) – ridotto i debiti per locazioni e quell’importo compensato su F24 con altre tasse.
  • Esenzione Tari parziale per attività chiuse.
  • IVA 5% per centri termali su alcuni servizi fino a fine 2022 (decreto sostegni bis) – riduce incassi IVA e quindi debiti IVA.

Esempi e soluzioni: il settore ha visto fallimenti importanti: Valtur, storico tour operator, fallito 2018; Aeroviaggi (resort) fatto concordato; molte piccole agenzie di viaggio semplicemente chiuse. Valtur in particolare: aveva accumulato debiti enormi, fu liquidata (con vendite asset e marchio). Lo Stato (INPS, Fisco) insinuato ha preso poco. Nelle località turistiche, diversi hotel storici (spesso S.a.s. familiari) hanno fatto accordi di ristrutturazione con banche – vendendo l’immobile e convertendo debiti residui in concordati minori. Il Fisco in queste situazioni di solito accetta il pagamento parziale (perché alternative pessime: se chiude l’hotel, non recuperano neanche quell’uno).

Il settore ristorazione: molti ristoranti S.a.s. indebitati 2020 hanno chiuso e i soci accomandatari poi trattano a titolo personale con Agenzia Entrate Riscossione: alcuni stanno usando la composizione della crisi da sovraindebitamento sotto forma di piano del consumatore (se i debiti sono in parte personali) o liquidazione controllata del patrimonio personale del ristoratore, in cui anche i debiti fiscali vengono falcidiati e poi esdebitati.

Pagare meno tasse in turismo:

  • Utilizzo massimo dei tax credit disponibili (vacanze, affitti, riqualificazione) per ridurre i pagamenti a Fisco.
  • Transazione fiscale nei concordati di hotel: spesso i piccoli hotel sono sovraindebitati con Equitalia per IVA e ritenute – un concordato minore può proporre di pagare magari 30% di quei debiti con vendita di un terreno, il resto stralcio.
  • Gestione familiare: i soci spessissimo confondono patrimonio famigliare e d’azienda, con rischi. Dal punto di vista fiscale, a volte remunerare i familiari con cedolare secca sugli immobili affittati alla società (aliquota 21%) è vantaggioso invece che tenerli in società e tassare utili al 43%. Alcuni proprietari di hotel affittano l’immobile a una società di gestione con canone, e su quell’affitto pagano 21% se cedolare (se persona fisica e immobile abitativo, non sempre applicabile a hotel purtroppo). In ogni caso, ingegneria fiscale lecita può includere splitting di attività in due soggetti per ridurre l’IRPEF con 2 soglie progressive (soci diversi). Questo tipo di pianificazione riduce carico totale. Anche se non risolve debiti esistenti, impedisce di crearne di nuovi.
  • Vendita cespiti con tax free: ad esempio vendere licenza taxi o concessione balneare e reinvestire i proventi per pagare debiti: la plusvalenza a volte è tassata separatamente col 12.5% se certe condizioni (cessione azienda familiare). Usare regimi sostitutivi consente di cedere asset per saldare debiti col fisco senza creare altro debito fiscale.

Tutto il comparto turismo ha beneficiato di rottamazione quater: pare che più del 50% degli hotel con cartelle vi abbia aderito, perché sgravarsi di sanzioni era fondamentale (fonte: Federalberghi). Quindi ora hanno un piano quinquennale senza sanzioni che li aiuta a stare a galla.


Questo excursus settoriale dimostra come, pur applicando i medesimi strumenti generali (rateazioni, transazioni, concordati), in ciascun settore vi siano normative specifiche e prassi da sfruttare per minimizzare l’aggravio fiscale in situazioni di crisi. Un professionista esperto terrà conto di questi dettagli (dalla tassazione catastale in agricoltura, alla deduzione forfettaria autotrasportatori, al credito imposta turismo, ecc.) nella costruzione di un piano di risanamento su misura per la S.a.s. cliente.

Domande Frequenti (FAQ)

  1. Quali tasse paga una Società in Accomandita Semplice e come incide sulle persone?
    Risposta: Una S.a.s. paga principalmente l’IRAP (imposta regionale sulle attività produttive, 3,9% sull’utile d’impresa) e l’IRPEF in capo ai soci per trasparenza. In pratica, l’utile della S.a.s. viene attribuito ai soci proporzionalmente e tassato nelle loro dichiarazioni IRPEF con aliquote progressive. Inoltre, i soci accomandatari versano i contributi INPS commercianti/artigiani (circa 24%) sulla loro quota di reddito. La S.a.s. non paga IRES (che è l’imposta sulle società di capitali). Questo significa che, se l’utile è elevato, esso verrà tassato come reddito personale dei soci (fino al 43% oltre certe soglie) più i contributi per gli accomandatari. Ad esempio, con utile 100.000 € e 4 soci (2 accomandatari, 2 accomandanti), la S.a.s. pagherà IRAP ~3.900 €, poi i soci dichiareranno 25.000 € ciascuno: i due accomandatari verseranno ~6.000 € cad. di contributi INPS e ogni socio pagherà IRPEF sul proprio reddito. Complessivamente il prelievo potrebbe essere intorno al 30-50% dell’utile a seconda delle aliquote IRPEF applicabili e del numero di soci. Se i soci hanno altri redditi o aliquote marginali alte, la trasparenza può essere onerosa. Viceversa, distribuire l’utile tra più soci (es. familiari) spesso abbassa il carico IRPEF rispetto a concentrare tutto su uno solo.
  2. Gli accomandanti devono pagare i debiti fiscali e altri debiti della S.a.s.?
    Risposta: In linea generale no, i soci accomandanti rispondono limitatamente alla quota conferita e non possono essere obbligati a pagare i debiti sociali con il proprio patrimonio personale. Il Codice Civile (art. 2313 c.c.) stabilisce che l’accomandante perde al massimo il capitale investito. Inoltre la Cassazione ha più volte confermato che l’accomandante è privo di legittimazione passiva verso le obbligazioni tributarie della società. Ciò significa che, ad esempio, l’Agenzia delle Entrate non può notificare cartelle esattoriali all’accomandante per imposte dovute dalla S.a.s., né i creditori possono pignorare beni dell’accomandante. Eccezione importante: se l’accomandante viola il divieto di immistione (cioè si ingerisce nella gestione in modo sostanziale, amministrando di fatto la società), perde il beneficio della responsabilità limitata. In tal caso eccezionale, potrà essere chiamato a rispondere come un accomandatario (illimitatamente). Ad esempio, se un accomandante firma contratti o dirige dipendenti, i creditori potrebbero dimostrare la sua ingerenza e aggredire i suoi beni. Ma in assenza di tali abusi, l’accomandante non paga i debiti sociali oltre la sua quota. Dunque, se la S.a.s. ha debiti fiscali o bancari, l’Erario e le banche potranno rivalersi sul patrimonio sociale e su quello degli accomandatari, non su quello dei soci accomandanti. Questa differenza è cruciale anche nelle strategie di crisi: i soci accomandatari sono generalmente spinti a trovare accordi (perché rischiano in proprio), mentre gli accomandanti possono attendere l’evoluzione senza esposizione diretta. Attenzione però: anche l’accomandante può subire conseguenze indirette (perde il valore della sua partecipazione e eventuali finanziamenti soci). Inoltre, se la società viene meno, potrebbe essere chiamato a versare eventuali conferimenti ancora dovuti.
  3. Cosa succede se una S.a.s. non paga le tasse?
    Risposta: Se la S.a.s. non versa imposte dovute (IVA, ritenute, IRAP, etc.), l’Agenzia Entrate-Riscossione iscriverà il debito a ruolo ed emetterà cartelle esattoriali. Da quel momento possono scattare misure di riscossione coattiva: pignoramenti di conti correnti e beni intestati alla società, ipoteche sugli immobili sociali e fermi amministrativi su automezzi aziendali. Inoltre, data la responsabilità illimitata, i creditori (compreso il Fisco) possono, dopo escussione del patrimonio sociale, agire anche sui beni personali dei soci accomandatari. Ciò significa che l’Agenzia delle Entrate potrebbe iscrivere ipoteca sulla casa del socio accomandatario o pignorare somme dal suo conto personale per recuperare imposte non pagate dalla S.a.s.. Sul piano amministrativo, la società potrebbe incorrere in sanzioni e interessi di mora che fanno lievitare il debito fiscale col passare del tempo. Ad esempio, per omesso versamento IVA c’è una sanzione del 30% dell’imposta, più interessi (attualmente circa 4% annuo). Queste somme si aggiungono al dovuto, aggravando la situazione. Sul piano penale, se l’omissione riguarda IVA oltre 250.000 € annui o ritenute certificate oltre 150.000 € annui, scatta il reato di omesso versamento (artt. 10-bis e 10-ter D.Lgs. 74/2000) punito con la reclusione. Dunque un accomandatario che non versa IVA per importi molto elevati rischia denuncia penale, a meno che non regolarizzi entro la soglia di punibilità o prima della scadenza del termine di presentazione della dichiarazione annuale. In sintesi: il mancato pagamento delle tasse porta inizialmente a sanzioni e cartelle (profilo amministrativo), poi a esecuzioni forzate sul patrimonio della società e degli accomandatari (profilo civile), e nei casi più gravi a responsabilità penale degli amministratori (profilo penale). Per questo è fondamentale, in caso di difficoltà finanziarie, intervenire subito chiedendo rateizzazioni o definizioni agevolate, in modo da bloccare sul nascere sanzioni e procedure che possono divenire ingestibili col tempo. Se la situazione degenera, si può valutare di ricorrere a procedure concorsuali (concordato, ecc.) che sospendono le azioni esecutive e permettono di trattare con il Fisco in modo controllato.
  4. Cos’è la transazione fiscale e come può aiutare una S.a.s. indebitata col Fisco?
    Risposta: La transazione fiscale è uno strumento che permette di inserire i debiti tributari e previdenziali in un piano di ristrutturazione con l’assenso (o la non opposizione) dell’Agenzia delle Entrate e degli enti previdenziali. In pratica, la società in crisi propone al Fisco di pagare solo una parte del debito oppure di dilazionarlo a tassi ridotti, stralciando sanzioni e interessi. La transazione fiscale può avvenire nell’ambito di un concordato preventivo o di un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato (artt. 63 e 88 del Codice della Crisi), oppure durante la composizione negoziata (trattativa assistita) prima di una procedura. È lo strumento chiave per ridurre il carico fiscale in via legale. Ad esempio, una S.a.s. con 100.000 € di debiti fiscali (IVA, IRPEF ritenute, etc.) potrebbe proporre in concordato di pagare 50.000 € in 5 anni e stralciare il resto. Se la proposta è conveniente rispetto alla liquidazione (ovvero il Fisco prenderebbe meno di 50.000 € da un fallimento), il tribunale può omologarla anche senza il consenso formale dell’Erario (grazie al meccanismo del cram-down). Con la transazione fiscale, dunque, si possono abbattere drasticamente sanzioni e interessi e talvolta anche parte dell’imposta stessa. Fino a pochi anni fa c’erano limiti: ad esempio l’IVA e le ritenute non potevano essere falcidiate (bisognava offrirle 100%). Oggi questi vincoli sono caduti: l’IVA può essere trattata come gli altri crediti, purché la quota non pagata sia giustificata dalla migliore soddisfazione rispetto a un fallimento. In sede di transazione fiscale, normalmente:
    • le sanzioni tributarie vengono sempre azzerate (lo prevede espressamente l’art. 88 CCII),
    • gli interessi di mora vengono fortemente ridotti,
    • sul capitale delle imposte si offre una percentuale oppure un pagamento dilazionato (spesso oltre i termini ordinari). Ad esempio, durante la composizione negoziata si può ottenere che gli interessi maturati sui debiti fiscali siano solo al tasso legale anziché di mora.
    Come aiuta concretamente? Riducendo l’ammontare da versare al Fisco, la transazione fiscale libera risorse per pagare altri creditori o investire nel rilancio. Inoltre evita che il dissenso del Fisco faccia saltare un concordato – oggi il giudice può imporre l’omologa se la proposta è equa. Ad esempio, grazie alla transazione, molte aziende in concordato sono riuscite a salvare l’attività offrendo al Fisco un pagamento parziale invece di essere strangolate dall’obbligo di saldare tutto l’IVA (cosa che spesso rendeva impossibile il piano). Va detto che l’Agenzia delle Entrate generalmente accetta transazioni in cui riceve almeno quanto il creditore di pari rango migliore (in pratica, se altri chirografari prendono 30%, chiede 30% anche lei se chirografaria, e sui crediti privilegiati spesso pretende una buona percentuale – es. 100% sull’IVA o comunque non meno del realizzo su beni su cui ha privilegio). Ma non ha più veto totale: dal 2021-2022 il tribunale può disporre l’omologa anche col Fisco contrario, se sono rispettati i criteri di convenienza. In conclusione, la transazione fiscale è lo strumento più efficace per “pagare meno tasse” legalmente quando si è in procedura concorsuale: consente di concordare uno “sconto” sul debito tributario, integrato e autorizzato dal giudice, dando respiro all’impresa e ai soci accomandatari (che vedono così ridotta anche la loro esposizione personale).
  5. Cos’è la composizione negoziata della crisi e in che modo può ridurre il carico fiscale?
    Risposta: La Composizione negoziata è una procedura introdotta nel 2021 per aiutare le imprese in crisi a trovare soluzioni stragiudiziali assistite da un esperto indipendente. Non è un fallimento né un concordato, ma un periodo di trattative volontarie (di norma 3-6 mesi) durante il quale l’imprenditore, affiancato da un esperto nominato dalla Camera di Commercio, cerca un accordo con i creditori (banche, fornitori e Fisco) per risanare l’azienda. La composizione negoziata offre alcuni vantaggi fiscali “premiali” se la trattativa ha esito positivo:
    • Gli interessi sui debiti tributari che maturano nel periodo della composizione vengono ridotti al tasso legale (molto più basso degli interessi di mora ordinari). Quindi, dall’apertura della procedura fino alla sua conclusione, il debito fiscale “congelato” cresce poco.
    • Se si raggiunge un accordo di risanamento (un contratto con creditori che assicuri la continuità per 2 anni, o un accordo ex art. 23 CCII, o si passa a un concordato/accordo omologato), le sanzioni e parte degli interessi sui debiti fiscali possono essere rinunciati dall’Erario (misure premiali ex art. 25-bis CCII). In pratica, lo Stato concede uno “sconto” aggiuntivo come premio per chi risolve la crisi senza fallire. Ad esempio, se Tizio S.a.s. completa con successo la composizione negoziata trovando un accordo con i creditori, le sanzioni fiscali accumulate fino a quel momento potrebbero essere automaticamente condonate.
    • Durante le trattative, l’impresa può proporre subito una transazione fiscale sui debiti tributari: l’Agenzia delle Entrate può accettare di ridurre imposte e contributi, magari condonando sanzioni e interessi, subordinatamente all’omologa di un eventuale accordo o concordato successivo. Queste intese prese “in anticipo” poi confluiscono nel piano finale.
    • Si può ottenere dal tribunale la sospensione delle azioni esecutive (come i pignoramenti dell’Agente della Riscossione) mentre dura la composizione negoziata. Ciò evita aggravio di costi e mantiene lo status quo del debito fiscale (nessuna nuova ipoteca o fermo nel frattempo).
    In sintesi, la composizione negoziata non cancella direttamente i debiti fiscali, ma crea un ambiente protetto in cui negoziare con il Fisco e predispone agevolazioni se la crisi si risolve: interessi ridotti e sconti su sanzioni. Ad esempio, Alfa S.a.s. accede alla composizione negoziata e nei 4 mesi di negoziazione non subisce nuove cartelle o interessi di mora extra, perché le vengono applicati interessi solo al tasso legale e bloccate le azioni. Trova poi un accordo con banche e Fisco per ristrutturare i debiti: a quel punto, come premio, l’Agenzia delle Entrate potrebbe accettare di ridurre del 50% le sanzioni accumulate prima e durante la procedura. Alfa esce dalla negoziazione con un contratto di risanamento e, grazie a ciò, paga meno di quanto originariamente dovuto al Fisco, e con comodo (magari ottiene 5 anni di dilazione). Se invece la negoziazione fallisce, Alfa potrà comunque accedere a un concordato semplificato successivo e proporre lì la falcidia fiscale (ma in assenza di accordo, i premi fiscali scattano solo parzialmente). In ogni caso, la composizione negoziata è utile perché anticipa il dialogo col Fisco in una fase in cui l’impresa non è ancora in procedura concorsuale formale, e mette sul tavolo eventuali soluzioni (tipo la rimozione di sanzioni) che poi verranno formalizzate in sede di omologa di accordo. È quindi uno strumento di “prevenzione” che aiuta a limitare l’aggravio fiscale durante la crisi e a preparare il terreno per una riduzione concordata del debito.
  6. Una S.a.s. in crisi può chiudere e riaprire con un’altra forma giuridica per pagare meno tasse o evitare i debiti?
    Risposta: Questa è una strada molto delicata e spesso sconsigliata se fatta con l’intento di eludere i debiti. In linea di principio, i soci potrebbero decidere di sciogliere/liquidare la S.a.s. indebitata e avviare una nuova attività (ad esempio come ditta individuale o S.r.l.) più leggera dal punto di vista fiscale. Tuttavia, la semplice chiusura della S.a.s. non estingue i debiti pregressi: i creditori potranno continuare a chiedere il pagamento ai soci accomandatari anche dopo la cancellazione dal registro imprese. Quindi, se i soci riaprono un nuovo soggetto giuridico, i debiti “seguono” comunque i vecchi accomandatari (salvo facciano esdebitazione personale in una procedura concorsuale). Tentare di trasferire l’attività e i beni a una nuova società per sfuggire ai creditori è considerato un atto in frode e può essere revocato o perseguito legalmente. Ad esempio, vendere macchinari sottocosto alla nuova società dei familiari per sottrarli al Fisco sarebbe un abuso.
    Diverso è il caso di trasformazione: una S.a.s. può regolarmente trasformarsi in S.r.l. (o viceversa). La trasformazione però non crea un soggetto nuovo – c’è continuità nei debiti (la S.r.l. post-trasformazione risponde dei debiti della S.a.s.). Quindi non serve a “pulire” i debiti, ma solo a cambiare il regime fiscale e di responsabilità per il futuro. Se l’obiettivo è pagare meno tasse in futuro, la trasformazione in S.r.l. può essere sensata: i futuri utili scontano IRES 24% invece che IRPEF fino 43%, e i soci non rispondono più illimitatamente. Però i debiti attuali restano. Una trasformazione fatta mentre c’è già insolvenza potrebbe essere impugnata dai creditori come lesiva (specie se accompagnata da riduzione di capitale o altro).
    Quanto all’apertura di una nuova attività lasciando la vecchia in default: i soci accomandatari rischiano l’azione dei creditori comunque. Potrebbero pensare di aprire la nuova attività intestandola a terzi (mogli, figli) per non apparire – ma se di fatto è una continuazione, il Fisco può intervenire (anche ipotizzando cessione d’azienda simulata, interposizione fittizia, ecc.). Inoltre, trasferire dipendenti o asset senza soddisfare i creditori può portare a responsabilità solidale del nuovo soggetto (ad es., se c’è un trasferimento d’azienda regolato dall’art. 2560 c.c., l’acquirente risponde dei debiti risultanti dai libri contabili).
    In conclusione, chiudere e riaprire altrove non è una panacea: i debiti non scompaiono e si rischiano azioni legali. Una via lecita è invece quella di usare le procedure di cui abbiamo parlato: concordato, accordo o liquidazione giudiziale con esdebitazione per chiudere la S.a.s. scaricando i debiti (legalmente) e poi ripartire da zero puliti. Dopo l’esdebitazione, nulla vieta ai soci di costituire una nuova società – a quel punto i vecchi debiti sono stati formalmente cancellati. Certo, è un percorso lungo e pubblico, ma sicuro.
    Quanto alle tasse, se l’intento è sfruttare regimi fiscali più vantaggiosi (es. regime forfettario 15%), l’unica è cessare la S.a.s. e operare come ditta individuale se se ne hanno i requisiti di fatturato. Molti piccoli commercianti lo hanno fatto. Non è illecito se genuino (ridimensionamento dell’attività). Ma l’Agenzia Entrate può contestare l’operazione se il vecchio e nuovo soggetto sono troppo simili ed esiste il sospetto di artificio per godere di un regime fiscale: occorre discontinuità effettiva.
    In sintesi: evasione dei debiti attraverso nuova società – no, rischioso e perseguibile; ottimizzazione fiscale scegliendo forma più efficiente per il futuro – sì, è possibile, ma conviene farlo dopo aver sistemato (o scaricato legalmente) i debiti passati per evitare guai. Meglio utilizzare transazione fiscale, rottamazioni e procedure concorsuali per pulire la situazione e poi ripartire su basi nuove, anziché fare “fuga in avanti” lasciando pendenze.
  7. Come funziona la rateizzazione dei debiti tributari? Conviene richiederla se la S.a.s. è in difficoltà?
    Risposta: La rateizzazione permette di pagare i debiti fiscali a rate mensili, in un periodo che può arrivare fino a 6 anni (72 rate) o, in casi straordinari, 10 anni (120 rate). È uno strumento semplice da attivare: per debiti fino a €120.000, la dilazione fino a 72 rate è concessa automaticamente su richiesta, senza bisogno di dimostrare nulla (fino a fine 2024). Per importi maggiori, o per chiedere fino 120 rate, occorre documentare lo stato di difficoltà e la sostenibilità della rata (serve una prova di temporanea situazione di squilibrio finanziario). Se accettata, l’Agenzia delle Entrate-Riscossione congela le azioni esecutive e consente il pagamento scaglionato. Conviene? Sì, in molti casi è il primo passo da fare se non si riesce a saldare una cartella in un’unica soluzione. La rateizzazione evita che scattino sanzioni di mora e procedure di recupero, e spalma l’esborso in importi mensili gestibili. Anche se non riduce nominalmente l’importo (si paga intero capitale + interessi dilatori modesti), di fatto fa “pagare meno” nell’immediato e consente di pianificare i flussi di cassa. Ad esempio, se la S.a.s. ha una cartella da 60.000 €, può ottenere 72 rate da circa €833 al mese invece di dover trovare 60k subito, scongiurando pignoramenti. Questo spesso fa la differenza tra continuare l’attività o chiudere.
    Bisogna tuttavia considerare che la rateizzazione non è una remissione: la S.a.s. dovrà comunque pagare tutto il dovuto (a parte sanzioni di tardivo versamento che nelle cartelle sono già incluse e restano). Se l’impresa si aspetta di non riuscire comunque a pagare neanche a rate (perché magari il debito è troppo grande rispetto ai margini futuri), allora la rateazione da sola potrebbe solo posticipare il problema. In quei casi, a monte conviene negoziare un saldo e stralcio (es. tramite concordato o definizioni agevolate).
    In generale però, conviene chiedere la rateazione subito quando arrivano le cartelle: si evita la maggiorazione del 10% per aggio e soprattutto si gode della regola che con la dilazione attiva l’Agente non procede ad azioni esecutive. La S.a.s. deve però essere puntuale: se saltano 5 rate (anche non consecutive) si decade e torna esigibile tutto. Ma esistono i “5 giorni di tolleranza” per ritardi occasionali.
    Uno scenario comune: molte S.a.s. accedono alla rateazione per prendere tempo e nel frattempo valutare altre soluzioni (accordi, concordato). Ad esempio, Beta S.a.s. rateizza 100k di debiti su 8 anni – intanto esplora la vendita di un capannone. Se dopo 2 anni vende, può estinguere anticipatamente la dilazione senza penali. Così ha evitato nell’interim di esser aggredita.
    Quindi sì, richiederla conviene come misura di emergenza per imprese in difficoltà: blocca l’esattoria, diluisce l’impatto e non preclude eventuali definizioni agevolate successive (anzi, se esce una rottamazione, si può aderire anche se c’è una dilazione in corso, sospendendo la rata nel frattempo). Va solo usata con serietà: se si chiede e poi non si paga, dopo la decadenza sarà più difficile ottenerne un’altra (bisogna saldare quelle scadute almeno).
    In conclusione, la rateizzazione è uno strumento di sollievo immediato: trasforma un grosso debito in “piccoli pezzi”. Non taglia l’importo, ma in ottica di sostenibilità può fare la differenza tra riuscire a pagare “meno ogni mese” invece che fronteggiare una somma insormontabile. In abbinamento ad altre strategie (es. rottamazione o concordato), è spesso parte del percorso di risanamento.
  8. In caso di fallimento (liquidazione giudiziale) della S.a.s., i debiti fiscali scompaiono? Cosa accade ai soci?
    Risposta: Se una S.a.s. viene dichiarata in liquidazione giudiziale (ex fallimento), si avvia la vendita dei beni sociali per pagare i creditori secondo prelazioni. Al termine della procedura, la società viene cancellata e cessa di esistere. I debiti rimasti insoddisfatti della società non possono più essere perseguiti (perché il soggetto debitore non esiste più). Tuttavia, poiché parliamo di società di persone, occorre distinguere:
    • I soci accomandatari, essendo falliti anch’essi per estensione (art. 256 CCII), rimangono personalmente obbligati per gli eventuali debiti sociali non pagati con l’attivo. Però, la legge consente al socio fallito onesto di ottenere la esdebitazione: un provvedimento che cancella tutti i debiti residui non soddisfatti nel fallimento, comprese le imposte. Quindi, dopo la chiusura del fallimento, il socio accomandatario può chiedere al tribunale di essere liberato dai debiti rimasti (incluse cartelle esattoriali, IVA, IRPEF, ecc.), e se ha cooperato e non ci sono irregolarità, l’esdebitazione viene concessa di regola. Ci sono poche eccezioni (debiti per malversazione, sanzioni penali, alimenti… i debiti tributari non sono esclusi di per sé). In tal caso il socio torna “pulito”: i debiti fiscali scompaiono nei suoi confronti. Dunque sì, alla fine di un fallimento con esdebitazione, potremmo dire che i debiti fiscali della S.a.s. sono sostanzialmente cancellati (il Fisco avrà preso ciò che ha preso nella procedura e non potrà più rivalersi per il resto).
    • I soci accomandanti di norma non falliscono (salvo fossero di fatto amministratori). Quindi, se la S.a.s. fallisce, l’accomandante non è coinvolto. Egli perde il capitale investito e potenzialmente potrebbe vedersi chiedere di versare eventuali quote non ancora versate. Ma per il resto, come detto, non risponde dei debiti sociali, quindi non deve pagare i creditori. Non ha bisogno di esdebitazione perché formalmente non è debitore (salvo il caso di ingerenza nella gestione). Quindi, per gli accomandanti, i debiti sociali spariscono con la società. Solo attenzione: se l’accomandante aveva prestato garanzie personali (es. fideiussioni alla banca per prestiti alla S.a.s.), quelle restano valide e il creditore potrà escutere lui in base a quella garanzia. L’esdebitazione riguarda solo debiti “di diritto” del socio accomandatario derivanti dalla responsabilità illimitata, non le obbligazioni che il socio ha assunto autonomamente verso terzi.
    In sintesi: col fallimento la società paga fin dove può, e finisce lì. I debiti fiscali residui restano formalmente a carico dei soci illimitatamente responsabili, ma questi possono liberarsene tramite l’esdebitazione. Se invece non chiedessero o non ottenessero l’esdebitazione, gli accomandatari sarebbero teoricamente perseguitabili vita natural durante dal Fisco per i residui; ma nella prassi oggi quasi tutti i falliti ottengono esdebitazione. L’esdebitazione è una sorta di “perdono” dei debiti per ripartire da zero onestamente. Dunque, il fallimento + esdebitazione è l’extrema ratio per risolvere i debiti: certamente non conviene ai creditori perché recuperano di solito poco, ma dal punto di vista dei debitori mette la parola fine ai debiti, tasse incluse. Va però sottolineato che, una volta fallita, la S.a.s. è cessata, quindi l’attività imprenditoriale in quella forma è finita. I soci potranno anche ripartire, ma con un nuovo soggetto (e se c’è stato fallimento, per esercitare di nuovo commercio professionalmente serve un percorso di riabilitazione). Da ricordare: l’esdebitazione non cancella eventuali sanzioni penali (se, ad esempio, l’amministratore è stato condannato per reati tributari gravi, la responsabilità penale resta). Ma per le obbligazioni civili tributarie, sì. Quindi, paradossalmente, la via del fallimento porta al caso in cui “alla fine non si pagano affatto le tasse rimaste” – ovviamente al costo di perdere l’azienda e tutto il patrimonio disponibile dei soci accomandatari durante la procedura.
  9. Quali sono le differenze fiscali principali tra una S.a.s. e una S.r.l.?
    Risposta: Le differenze sono significative sul piano fiscale:
    • Tassazione degli utili: la S.a.s. è “trasparente” ai fini dei redditi: non paga imposta sugli utili come società, ma attribuisce l’utile ai soci che lo tassano in IRPEF. La S.r.l. paga invece l’IRES al 24% sul suo reddito netto, e i soci tassano solo eventuali dividendi distribuiti (con imposta 26% se persone fisiche). In S.r.l. quindi c’è una doppia imposizione economica (azienda + socio), mentre in S.a.s. c’è un’unica imposizione (solo soci) ma a aliquote progressive. Implicazione: per utili medio-alti, la S.r.l. può risultare più conveniente perché l’azienda trattiene utili tassati solo 24% e i soci possono decidere quando prelevarli (se li reinvestono, niente IRPEF aggiuntiva), mentre la S.a.s. se produce 100 di utile, i soci pagano su quei 100 a IRPEF che può arrivare al 43%. D’altro canto, per redditi bassi e distribuiti magari tra più soci, la trasparenza può far pagare meno (ogni socio sfrutta scaglioni bassi IRPEF, e non c’è la “seconda tassa” sui dividendi). Nella S.r.l. va considerato che se i soci incassano dividendi, c’è il 26%, quindi il totale su utile distribuito può arrivare circa al 45% (24% + 26% su residuo), più o meno come l’aliquota massima IRPEF. Però la S.r.l. consente di modulare e differire la distribuzione, mentre la S.a.s. “ti tassa comunque” ogni anno sull’utile, anche se lo lasci in azienda.
    • Contributi previdenziali: nella S.a.s. i soci accomandatari pagano INPS commercianti/artigiani sul reddito; in una S.r.l., solo gli amministratori e lavoratori pagano contributi (se un socio non lavora attivamente, può ricevere dividendi senza contributi). Questo può essere un vantaggio: in S.r.l. un socio non operativo paga solo la tassazione finanziaria (26%) sui dividendi e niente contributi; nella S.a.s. qualunque accomandatario, anche se non opera molto, è soggetto a INPS su tutto l’utile.
    • IRAP: entrambe pagano IRAP sull’attività d’impresa (3,9%), salvo esenzioni (ad esempio la S.a.s. agricola può avere reddito catastale e non pagare IRAP). Non c’è differenza qui, se fanno stessa attività (IRAP è indipendente dal tipo societario, si paga comunque come attività produttiva).
    • Fiscalità in caso di perdite: nella S.a.s., le perdite d’impresa vengono attribuite ai soci e si possono compensare con altri redditi di impresa dei soci (o riportare a nuovo) a certe condizioni. Nella S.r.l., le perdite restano nella società: possono essere riportate negli anni futuri senza scadenza (ma solo per l’80% dell’utile per anno). Diciamo che in S.r.l. c’è più flessibilità temporale nel riporto, in S.a.s. c’è il beneficio che i soci se hanno altri redditi di impresa personale possono usare subito la quota di perdita (ma se non li hanno, la perdita segue regole analoghe di riporto a nuovo in capo alla società e poi ai soci).
    • Altri aspetti: la S.a.s. non ha ritenute sui prelievi utili (perché tanto li dichiari in IRPEF direttamente), la S.r.l. invece deve applicare ritenuta 26% sui dividendi ai soci persone fisiche. La S.r.l. può optare per regimi speciali come la trasparenza fiscale (opzione per tassare i soci come in S.a.s., ma è rara) o l’IRI (che fu introdotta ma poi abolita). La S.a.s. non ha di queste opzioni, è già trasparente di default.
    • Responsabilità e fisco: non fiscale diretto, ma importante: nella S.r.l. i soci non rispondono con patrimonio personale dei debiti sociali fiscali. Quindi se la società non paga le imposte, l’Agenzia può prendersela con la S.r.l. e al limite con gli amministratori (per sanzioni personali in casi di reati), ma non direttamente col patrimonio dei soci (salvo abuso). Invece nella S.a.s. sappiamo che i soci accomandatari rispondono illimitatamente e quindi il Fisco potrà rifarsi su di loro. Ciò non è differenza di “tassa”, ma incide sulla gestione del debito fiscale: con S.r.l. i soci proteggono i propri beni (a meno di garanzie), con S.a.s. no. Questo può far preferire la S.r.l. per rischio di indebimenti elevati.
    Conclusione: La S.r.l. tende ad essere fiscalmente vantaggiosa per imprese con utili consistenti che vogliono reinvestirli, perché l’IRES è più bassa dell’IRPEF alta e si possono procrastinare i dividendi. La S.a.s. è vantaggiosa per piccole attività familiari con utili modesti, dove magari i soci sfruttano gli scaglioni IRPEF bassi e non hanno la complessità della doppia imposizione (e magari preferiscono la semplicità amministrativa e la trasparenza). Dal punto di vista del “pagare meno tasse”, se la S.a.s. genera redditi elevati che finiscono su un socio in 43% IRPEF + contributi, passare a S.r.l. potrebbe far risparmiare (azienda paga 24% e quell’utile può restare in azienda per crescita, senza ulteriori tasse fino a distribuzione). Ad esempio con 200k utile reinvestito: S.a.s. soci pagano ~86k IRPEF+INPS subito; S.r.l. paga 48k IRES e lascia 152k in azienda (soci se non prelevano non pagano altro). Però, se i soci vogliono prendere tutto l’utile ogni anno, le differenze si affievoliscono: prelevando 152k come dividendo pagano ~39k di imposta, totale 87k – simile alla S.a.s. (dipende dal mix contributi). Quindi la differenza fiscale va valutata caso per caso.
    Vale anche considerare costi di compliance: la S.r.l. ha costi di bilancio, revisione (se grande), etc., la S.a.s. è più agile. Questi non sono “tasse” ma pesano su cassa.
    In sintesi, la S.r.l. offre più pianificazione fiscale (ad es. accumulo utili a tassazione fissa bassa, scelta se e quando distribuire) e protegge i soci, mentre la S.a.s. ha fisco trasparente (niente imposta societaria, tutto sui soci) che può essere o meno conveniente a seconda del reddito e del numero di soci. In situazioni di crisi, notiamo che la S.r.l. potendo accumulare perdite senza far scattare imposizioni sui soci è un vantaggio: la S.a.s. se ha utili tassabili li attribuisce anche se l’azienda è in crisi di liquidità (paradosso: potresti dover pagare IRPEF su utili contabili che non riesci a incassare, peggiorando la crisi di cassa). La S.r.l. in difficoltà invece può decidere di non distribuire, e i soci non subiscono carico fiscale finché non c’è effettivo beneficio.
  10. Quali errori fiscali comuni vanno evitati da parte di una S.a.s. in crisi?
    Risposta: Ci sono alcuni comportamenti fiscali rischiosi che, comprensibilmente, imprese in crisi potrebbero essere tentate di adottare ma che andrebbero evitati o gestiti con cautela:
    • Usare l’IVA incassata per finanziare le spese correnti senza versarla all’Erario: È frequente ma pericoloso. A breve termine sembra “un prestito gratuito”, ma poi genera cartelle con sanzioni 30% e interessi, aggravando il debito. Inoltre, superate certe soglie, scatta il reato (omesso versamento oltre 250k €). Meglio cercare di versare almeno parzialmente l’IVA o attivare subito piani rateali. Se proprio non si riesce, va considerata una procedura concorsuale per trattare quel debito prima che diventi penale.
    • Non presentare le dichiarazioni fiscali per “nascondere” la crisi: Alcuni, non potendo pagare, omettono la dichiarazione IVA o redditi. È un errore grave: l’omessa dichiarazione sopra soglie è reato (dichiarazione infedele o omessa) e in ogni caso il debito emergerà tramite accertamenti d’ufficio, con sanzioni ben più alte. Meglio dichiarare il debito, anche se non si paga subito, e semmai avvalersi del ravvedimento o di definizioni.
    • Pagare alcuni creditori e trascurare totalmente il Fisco: In crisi, la tentazione è pagare fornitori “strategici” e lasciare indietro le tasse. Bisogna stare attenti: privilegiare certi pagamenti potrebbe essere poi contestato in caso di fallimento come atto di favore (anche se pagare normali fornitori non è revocabile, se proporzionato). Ma soprattutto, accumulare troppo debito fiscale fa perdere il controllo: può portare a ipoteche, blocchi conti etc. Occorre un minimo di equilibrio: meglio versare almeno le ritenute dei dipendenti e un po’ di IVA per restare sotto soglia penale, piuttosto che prosciugare cassa su altri fronti e lasciare il Fisco completamente a secco. Idealmente, aprire un dialogo col Fisco (rateazione) per evitare atteggiamenti aggressivi.
    • Non tenere separato il patrimonio personale da quello della società: Nelle S.a.s. di tipo familiare capita che si utilizzino conti personali per l’azienda e viceversa, confondendo risorse. Questo in crisi è disastroso: i creditori sociali (Fisco incluso) potrebbero pretendere l’escussione di quei beni personali trattati di fatto come aziendali. I soci accomandatari devono formalmente limitare i prelievi (onde evitare contestazioni di distrazione) e non far transitare incassi aziendali su conti privati. Sul lato fiscale, una confusione può far perdere deduzioni (es. spese miste non documentate correttamente). Tenere nette le distinzioni evita ulteriori grane (come accertamenti per utili extrabilancio prelevati).
    • Ignorare le comunicazioni del Fisco (cartelle, solleciti): Non rispondere o non attivarsi peggiora solo la situazione. Ad esempio, ignorare una “comunicazione di irregolarità” pre-cartella toglie la chance di ravvedimento con sanzione ridotta. O ignorare l’intimazione a pagare può portare a pignoramento improvviso sul conto. Sempre meglio contattare l’AdER, chiedere rateazione, o presentare istanza di sospensione se si pensa il debito sia errato. Far finta di nulla porta a costi aggiuntivi (iscrizioni ipotecarie, ecc.).
    • Svendere beni societari a terzi (magari parenti) per sottrarli ai creditori: Questo è un atto in frode. Il Fisco e gli altri creditori possono farlo revocare (se entro 2 anni prima del fallimento, atti a titolo gratuito o sottocosto sono revocabili) o contestarlo come reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 11 D.Lgs. 74/2000) se fatto quando ci sono debiti fiscali in riscossione. Esempio tipico: cedere l’immobile aziendale all’accomandante a prezzo stracciato con l’Erario che vanta crediti: è reato. Meglio intraprendere vie legali trasparenti (concordato, accordo) dove la cessione dei beni avviene sotto controllo e il ricavato va ai creditori secondo la legge.
    • Continuare ad accumulare debiti (soprattutto verso Erario) sperando in un condono totale: Le definizioni agevolate tagliano sanzioni e interessi, ma raramente il capitale delle imposte (salvo casi come saldo e stralcio per persone fisiche disagiate). Sperare che “prima o poi arriva un condono che azzera tutto” è aleatorio. Nel frattempo, il debito cresce. È preferibile approfittare delle misure esistenti (rottamazioni, ecc.) o se la situazione è insostenibile, considerare un percorso concorsuale. Le sanatorie esistono, ma di solito chiedono comunque di versare il tributo.
    • Non farsi assistere da un professionista per risolvere la crisi fiscale: Gestire da soli magari tagliando sui consulenti è comprensibile se mancano soldi, ma errori come quelli citati possono costare molto di più. Un commercialista o avvocato specializzato può suggerire ad esempio di presentare domanda di composizione negoziata (con benefici dallo Stato) invece di attendere l’aggressione dei creditori. O valutare la trasformazione societaria a tempo debito. Il fai-da-te in materia fiscale durante insolvenza spesso porta a passi falsi che complicano eventuali procedure successive.
    In definitiva, errore n.1 da evitare: l’inazione e l’occultamento. Meglio affrontare proattivamente il problema dei debiti tributari, magari negoziando e dilazionando, piuttosto che ritrovarsi con un vortice di sanzioni, azioni legali e possibili implicazioni penali. Pagare “meno tasse” in crisi non si ottiene ignorando le tasse, ma usando intelligentemente gli strumenti offerti dalla legge (rate, rottamazioni, transazioni) per ridurre legalmente l’importo e l’impatto delle imposte dovute.

Simulazioni Pratiche

Per concretizzare i concetti esposti, presentiamo alcune simulazioni semplificate relative a S.a.s. italiane in situazioni debitorie, evidenziando gli effetti delle strategie fiscali e concorsuali adottate. (Le seguenti sono ipotesi illustrative, con dati arrotondati, ma basate su regole reali.)

Caso 1: Transazione fiscale in concordato – risparmio ottenuto
Situazione: Gamma S.a.s. (settore commercio) ha un debito totale verso il Fisco di 120.000 €, composto da 80.000 € di IVA arretrata (privilegiata) e 40.000 € tra IRPEF su redditi, interessi e sanzioni (chirografari). La società è insolvente, ma può contare su un magazzino e crediti per un valore di realizzo stimato di 50.000 €. Senza accordi, in caso di fallimento l’Erario stimerebbe di recuperare forse 30.000 € (liquidando i beni, dopo pagati i costi e privilegi superiori).
Strategia: Gamma accede al concordato preventivo presentando un piano liquidatorio: propone di vendere tutto e distribuire il ricavato pro quota ai creditori. Per i debiti fiscali, attiva la transazione fiscale offrendo: pagamento del 100% dell’IVA privilegiata (80.000 €) limitato però a 30.000 € che è quanto si prevede di ricavare sui beni gravati da privilegio, e stralcio integrale delle sanzioni e interessi; sui 40.000 € chirografari (imposte residue e sanzioni), propone di pagarne il 20% (8.000 €). In totale, l’offerta al Fisco è circa 38.000 € a saldo di 120.000 €.
Esito: Il tribunale verifica che, stimando un ricavato di 50.000 €, al Fisco toccano 30.000 € (IVA privilegiata sul valore beni) + circa 8.000 € sui chirografi (ipotizzando pari trattamento con altri chirografari al 20%). Dunque l’offerta 38.000 € è in linea con il ricavabile in liquidazione. L’Erario vota contrario, lamentando che l’IVA non è pagata al 100%. Ma grazie al cram-down fiscale, il tribunale omologa comunque il concordato.
Beneficio: Con la transazione fiscale, Gamma paga 38.000 € invece di 120.000 € al Fisco. Vengono condonati 82.000 €, di cui 100% delle sanzioni (~20k) e interessi (~10k), e circa 52k di imposte (parte di IVA e imposte dirette non soddisfatte per incapienza). Senza transazione, avrebbe dovuto in teoria pagare integralmente IVA e imposte per avere l’omologa, somma impossibile dato il patrimonio. Invece il concordato va a buon fine. Il risparmio effettivo è del 68% del debito fiscale. I soci accomandatari escono dalla procedura liberati da ogni debito residuo (esdebitazione), quindi anche quell’importo ridotto di 82k non si riversa su di loro. Il Fisco ha accettato di “perdere” 82k perché in scenario alternativo ne avrebbe forse recuperati anche meno (e molto più tardi, e con spese). Gamma cessa l’attività, ma lo fa senza strascichi di cartelle: i soci potranno aprire magari una nuova ditta individuale ripartendo da zero.

Caso 2: Rateizzazione e rottamazione – impatto su flusso di cassa
Situazione: Delta S.a.s. (ristorante) nel 2020-2021 ha accumulato 50.000 € di debiti con l’Agenzia Riscossione: 20.000 € di IVA non versata, 5.000 € di ritenute dipendenti e 25.000 € tra sanzioni e interessi vari. Nel 2022 l’attività riprende, ma Delta non dispone di 50k immediatamente.
Strategia: A inizio 2023 Delta aderisce alla Definizione agevolata (rottamazione-quater) per i ruoli 2000-2022. Così facendo, sulle cartelle “rottamabili” (tutte le sue) pagherà solo capitale e spese e niente sanzioni/interessi di mora. Il debito da 50.000 € viene ricalcolato in circa 25.000 € (20k IVA + 5k ritenute + piccole spese vive), con condono integrale di ~25.000 € di penalità e interessi. Inoltre Delta opta per il pagamento dilazionato in 18 rate dal 2023 al 2027: due nel 2023 (rinviate poi a 2024) da ~2.500 € ciascuna e le restanti 16 da ~1.250 € ogni trimestre circa.
Risultato: Il carico fiscale pregresso di 50k viene più che dimezzato a 25k grazie alla rottamazione (−50%) e, grazie alla rateazione quinquennale, l’esborso medio mensile è di circa 417 €. Nel 2023 Delta ha dovuto reperire appena 5.000 € (le prime due rate da 2.500 €), invece di dover trovare 50k subito per evitare pignoramenti. L’azienda riesce a sostenere le rate con l’aumento di fatturato post-Covid. Entro il 2027 pagherà i 25.000 € residui. Nel frattempo, avendo le rate in corso regolari, l’Agente della Riscossione non procede con fermi o ipoteche, e Delta mantiene agibilità finanziaria.
Beneficio: in termini di riduzione del debito puro, Delta risparmia 25.000 € (non paga sanzioni e interessi, quindi un risparmio del 50% sul dovuto totale). In termini di cassa mensile, invece di un’uscita straordinaria enorme, affronta un costo ordinario sostenibile (417 € al mese). Questo le ha permesso di sopravvivere: se avesse dovuto pagare 50k nel 2023, probabilmente avrebbe chiuso o fatto fallimento. Quindi la combinazione “rottamazione + dilazione” le ha dato sia un taglio dell’importo dovuto sia un allungamento dei tempi, il che, come flusso di cassa, equivale ad aver convertito un debito impagabile in una sorta di piccolo “finanziamento” senza interessi (solo 2% annuo di interessi di dilazione dal 2024). Per Delta ciò ha significato salvare l’azienda. Nota: se Delta per assurdo non fosse riuscita a rispettare le rate entro il 2027, avrebbe potuto rientrare con la “riammissione 2025” (norma che le consente, se avesse saltato rate 2024, di mettersi in pari entro 30/04/2025). Fortunatamente, i conti attuali indicano che riuscirà.

Caso 3: Società agricola – regime catastale vs regime normale
Situazione: Epsilon S.a.s. è un’azienda agricola a conduzione familiare (coltivazione cereali). Ha terreni per 50 ettari con un reddito agrario catastale complessivo di 8.000 €. Nell’anno X, grazie a un buon raccolto e ai prezzi alti, l’azienda realizza un utile di bilancio di 60.000 € (dopo costi effettivi). I soci sono due fratelli accomandatari. Senza agevolazioni, la S.a.s. sarebbe tassata come segue: IRAP 3,9% su 60k = 2.340 €; reddito 60k attribuito 30k a testa – ciascun fratello IRPEF ~6.960 € (aliquote 23% su 15k + 25% su 15k), totale IRPEF ~13.920 €; contributi IVS (gestione agricola coltivatori) circa 24% su 30k ciascuno ≈ 7.200 € a testa = 14.400 € (nota: aliquota e minimale agricolo semplificato qui). Totale prelievo: ~2.340 + 13.920 + 14.400 = 30.660 € su 60k di utile, pari al 51% di incidenza.
Strategia: Epsilon, possedendo i requisiti di “società agricola” (rispetta art. 2135 c.c. e soci IAP), opta per la tassazione su base catastale del reddito. Così, ai fini IRPEF il suo reddito imponibile non sarà l’utile reale 60k, ma il reddito agrario di 8k. Inoltre, come società agricola, l’IRAP sull’agricoltura ha aliquota ridotta al 1,9% in molte regioni, e in alcune fattispecie l’IRAP non si applica (ipotizziamo comunque di pagarla). Con il regime catastale: IRAP ~1,9% di 60k = 1.140 €; reddito di ciascun socio = 4k (metà di 8k) su cui IRPEF: circa 0 € (entro soglie esenzione o comunque aliquota 23% su 4k = 920 € totale per entrambi); contributi: per imprenditori agricoli c’è un minimale annuo indipendente dal reddito (diciamo 3.500 € cad.), oltre una quota percentuale se reddito eccede un certo minimo. Su 4k a testa probabilmente pagano solo il minimale. Stimiamo contributi totali ~7.000 € (per entrambi). Totale: ≈ 1.140 + 920 + 7.000 = 9.060 €.
Risultato: Grazie al regime catastale, Epsilon S.a.s. versa circa 9 mila € di imposte/contributi, contro i 30,6 mila € che avrebbe pagato altrimenti. Un risparmio di oltre 21.000 €, ossia circa il 35% dell’utile viene recuperato. In pratica paga IRPEF quasi nulla e riduce drasticamente anche contributi e IRAP. Ciò perché il legislatore vuole equiparare la tassazione delle società agricole a quella, molto bassa, degli agricoltori individuali.
Conseguenze: Epsilon impiega quel risparmio di 21k per investire in macchinari e per ripianare un debito bancario. In caso di un’annata sfortunata futura, il basso imponibile catastale la mette anche al riparo dal pagare imposte nonostante l’utile magari azzerato. Quindi questo regime stabilizza e alleggerisce il carico fiscale. Se Epsilon fosse stata tassata sul reddito reale, forse avrebbe dovuto contrarre nuovi debiti per pagare 30k di tasse, proprio quando le servivano capitali per crescere o resistere alle fluttuazioni. In agricoltura, ciò spesso fa la differenza tra sostenibilità e crisi. Infatti molte società agricole che non optano per il catastale finiscono per avere problemi di liquidità per pagare le imposte negli anni buoni e poi mancano riserve negli anni cattivi. Epsilon invece accumula riserve fiscali (non tassate) che fungono da cuscinetto anticrisi.
Naturalmente il rovescio della medaglia è che se Epsilon avesse subìto una perdita, il reddito agrario resterebbe tassabile comunque (se il catasto dice 8k, quello paghi anche se bilancio è in rosso). Ma l’opzione è vincolante per 3 anni almeno e Epsilon l’ha scelta consapevole della redditività media dei terreni. Dunque, in equilibrio, pagherà sempre poco (anche in annate negative magari qualcosa su 8k di reddito agrario). Questo è un trade-off che molte società agricole accettano volentieri, privilegiando la stabilità e il bassissimo carico fiscale.

Caso 4: Concordato minore e sovraindebitamento – liberazione del socio
Situazione: Zeta S.a.s. (settore servizi di pulizia) è composta da due soci: Paolo accomandatario e Luca accomandante. Dopo la perdita di appalti, Zeta ha chiuso l’attività con 150.000 € di debiti: 50.000 € verso banche, 30.000 € fornitori, 20.000 € arretrati dipendenti, 50.000 € debiti tributari (IVA e INPS), nessun attivo rilevante (mezzi obsoleti). Zeta non è fallibile (sotto soglie). Paolo, il socio accomandatario, rischia di dover pagare tutto con i suoi beni (ha una casa modesta intestata). Luca accomandante ha perso solo il capitale sociale (non rischia oltre).
Strategia: Paolo avvia una procedura di composizione della crisi da sovraindebitamento in tribunale, presentando un concordato minore. Propone: liquidazione dell’unico cespite (un furgone, 5.000 €) e un contributo personale di 15.000 € (ottenuto vendendo un’auto propria e piccoli risparmi). Totale 20.000 € da distribuire. Nel piano, prevede di soddisfare 100% i dipendenti privilegiati (20k) e il resto (0 €) agli altri chirografari (banche, fornitori, Fisco). In pratica chirografari a zero, ma il giudice può omologare perché la legge lo consente se non c’è prospettiva migliore (qui non c’è patrimonio). Propone comunque in transazione fiscale che quei 50k di debiti erariali siano considerati chirografari e annullati (falcidiati integralmente).
Esito: Il tribunale approva il concordato minore. I 20k raccolti pagano interamente i crediti per TFR e stipendi (tutelati). Banche, fornitori e Fisco, essendo chirografari, non ricevono nulla in quanto il piano dimostra che neppure in liquidazione avrebbero avuto soddisfo (anzi, il Fisco non prende nulla ma almeno i dipendenti hanno avuto il dovuto, soddisfacendo l’ordine delle priorità). Grazie al cram-down fiscale nel concordato minore, l’opposizione dell’Agenzia Entrate (che vota no) viene superata: il giudice omologa valutando che il Fisco non avrebbe comunque ricavato niente di più da un eventuale liquidazione personale di Paolo.
Beneficio: Al termine, tutti i debiti di Zeta S.a.s. sono estinti per effetto dell’omologa. Paolo ha sacrificato 15k dei suoi, ma in cambio ottiene la liberazione integrale dai debiti residui (130k euro cancellati). In base all’art. 280 CCII, l’omologa del concordato minore comporta l’esdebitazione di diritto del sovraindebitato, ossia Paolo è automaticamente esdebitato dei debiti non soddisfatti. Ciò include i debiti fiscali e bancari rimasti. Anche senza una liquidazione giudiziale formale, Paolo usufruisce del fresh start: nessun creditore potrà più cercarlo per quei 130k. Ha salvato inoltre la casa (che seppur modesta era protetta essendo prima casa e di valore non aggredibile oltre un certo limite). Luca, l’accomandante, non aveva responsabilità oltre la quota e di fatto non è stato toccato dall’intera procedura (non ha dovuto contribuire né subisce pretese future).
In termini di “pagare meno tasse”, in questo caso Paolo ha finito per non pagare affatto i 50k di tasse dovute, azzerandole, perché la sua situazione rientrava nello spirito della legge sul sovraindebitamento (imprenditore incolpevole senza beni). Il Fisco, pur formalmente scontento, non avrebbe potuto ottenere nulla comunque, data la mancanza di patrimonio. Grazie alla procedura però Paolo ha potuto indirizzare le poche risorse a soddisfare i dipendenti (doveroso) e ottenere l’esdebitazione subito, invece che restare esposto a cartelle per 50k indefinitamente. Questa simulazione mostra come, nelle situazioni più estreme, l’ordinamento consenta di arrivare persino al “zero taxes” (zero debiti tributari da pagare) per chi proprio non è in grado, permettendogli di ripartire senza l’ombra eterna dei debiti. Naturalmente è l’ultima spiaggia e comporta la cessazione dell’attività originaria.


Questi esempi evidenziano, in numeri, l’effetto delle diverse leve:

  • La transazione fiscale nel concordato (Caso 1) ha ridotto di due terzi il carico tributario, rendendo fattibile un piano altrimenti irrealizzabile.
  • La combinazione definizione agevolata + dilazione (Caso 2) ha dimezzato il debito e spalmato il resto, salvando la liquidità di un’azienda in ripresa.
  • L’opzione fiscale agricola (Caso 3) ha portato a un risparmio fiscale notevolissimo (oltre 21k, ~35% dell’utile), espressione di come i regimi agevolati settoriali possano incidere.
  • La procedura di concordato minore/esdebitazione (Caso 4) ha condotto al completo sollievo dal debito fiscale e non, quando non vi era altra via, proteggendo comunque i creditori “deboli” (dipendenti).

Ogni situazione reale ovviamente è più complessa e coinvolge variabili non riproducibili qui (interessi dei creditori, valutazioni attuariali, ecc.), ma queste simulazioni danno l’idea tangibile di quanto si possa “pagare meno” in termini di tasse e debiti applicando gli strumenti giusti. Pianificare e agire per tempo fa la differenza tra subire passivamente l’oppressione dei debiti (fiscali e non) o ristrutturarli in modo sostenibile, arrivando persino – quando giustificato – a vederne cancellata una larga parte.

Fonti Normative, Giurisprudenziali e Dottrinali

Fonti Normative Principali:

  • Codice Civile: artt. 2291-2324 c.c. (Disciplina delle società di persone, responsabilità soci; in particolare art. 2313 c.c. responsabilità accomandanti e art. 2320 c.c. divieto di ingerenza accomandanti).
  • D.P.R. 22/12/1986 n. 917 (TUIR): art. 5 (trasparenza fiscale S.a.s.), art. 88 c.4-ter (detassazione sopravvenienze da concordato/accordi), art. 96 (deducibilità interessi passivi 30% ROL).
  • D.Lgs. 446/1997: art. 5 (soggettività IRAP delle società di persone).
  • Codice della Crisi d’Impresa (D.Lgs. 14/2019): art. 12-25-quinquies (Composizione negoziata), art. 25-bis (misure premiali fiscali), art. 25-sexies (concordato semplificato), art. 56-64 (concordato minore), art. 57-64 (accordi di ristrutturazione debiti), art. 63 (transazione fiscale negli accordi), art. 74-83 (concordato preventivo), art. 84-120 (concordato preventivo ordinario), art. 88 (transazione fiscale nel concordato), art. 256 (liquidazione giudiziale estesa a soci illimitatamente responsabili), artt. 278-282 (esdebitazione fallito), art. 283-284 (esdebitazione sovraindebitato).
  • Legge 197/2022 (Legge di Bilancio 2023): art. 1 commi 231-252 (Definizione agevolata 2023, “rottamazione-quater”, stralcio automatico mini-debiti).
  • D.L. 118/2021 conv. L. 147/2021: (introduzione Composizione negoziata, poi trasfusa nel CCII).
  • D.Lgs. 74/2000: art. 10-bis (omesso versamento ritenute >150k), art. 10-ter (omesso versamento IVA >250k), art. 11 (sottrazione fraudolenta al pagamento imposte).
  • Leggi di settore: L. 296/2006 art. 1 c.1093-1095 (tassazione reddito agrario per società agricole); D.L. 50/2017 art. 11 (split payment PA, impatto edilizia); L. 178/2020 (esoneri IMU 2021 hotel; transazione fiscale concordato continuità); D.L. 34/2020 e D.L. 41/2021 (contributi COVID vari, esonero contributi settori particolari).

Fonti Giurisprudenziali:

  • Cassazione Civile Sez. V n. 13565/2021: conferma che “il socio accomandante è privo di legittimazione – attiva e passiva – rispetto alle obbligazioni tributarie riferibili alla società”, salvo abbia perso la limitazione di responsabilità.
  • Cassazione Civ. Sez. Unite n. 3022/2015: stabilisce che l’accomandante che consente l’uso del proprio nome nella ragione sociale risponde illimitatamente dei debiti sociali (caso di responsabilità per apparenza sociale).
  • Cass. Civ. Sez. I n. 22932/2020: in materia di concordato, afferma che l’adesione dell’erario alla transazione fiscale non è imprescindibile ai fini dell’omologa se la proposta è migliorativa rispetto alla liquidazione (anticipando il concetto di cram-down fiscale, poi normativizzato).
  • Tribunale di Cagliari, decreto 7/10/2022: primo caso applicativo di cram-down fiscale in un accordo di ristrutturazione ex art. 182-bis/63 CCII, omologato nonostante il voto contrario dell’Erario, ritenuto soddisfatto in misura non inferiore alla liquidazione.
  • Corte d’Appello di Roma n. 5412/2023: conferma che il cram-down fiscale presuppone la verifica giudiziale di convenienza economica e non può supplire a un totale difetto di proposta al Fisco (no omologa forzosa se proprio non è stata presentata transazione fiscale), delineando confini procedurali.
  • Tribunale di Milano, decreto 28/7/2022 (concordato Arriva Italia): applica l’art. 25-sexies CCII (concordato semplificato post-composizione negoziata) citando la possibilità di transazione fiscale anche in tale sede.
  • Cassazione Penale n. 7587/2016: chiarisce che la transazione fiscale accettata e omologata estingue i reati di omesso versamento per le imposte oggetto di falcidia, in quanto il debito tributario viene “legalmente inesatto” (rilevante per il profilo penale).
  • Tribunale di Torino, decreto 20/1/2023: in materia di esdebitazione, concede l’esdebitazione del sovraindebitato ex art. 283 CCII anche per debiti tributari, sottolineando l’assenza di limitazioni quanto alla natura dei debiti cancellati (coerente col CCII).

Come Pagare Meno Tasse con una SAS con Situazioni Debitorie: Perché Affidarti a Studio Monardo

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Cosa può fare per te l’Avvocato Giuseppe Monardo

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Le qualifiche dell’Avvocato Giuseppe Monardo

🔹 Avvocato esperto in crisi d’impresa, fiscalità e responsabilità dei soci nelle società di persone
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🔐 Solo un avvocato esperto può costruire un piano di rientro legale, equo e sostenibile, proteggendo la società e chi la guida

Conclusione

Anche una SAS con debiti fiscali e verso fornitori può pagare meno tasse e uscire dalla crisi, ma serve una gestione legale precisa e tempestiva.
Non esistono scorciatoie, ma soluzioni legittime per salvare l’impresa e il patrimonio personale dei soci.

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