Sei un imprenditore e hai ricevuto una notifica dal tribunale per l’apertura della liquidazione giudiziale? O temi che la tua azienda non riesca più a far fronte ai debiti?
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati specializzati in crisi d’impresa e difesa da procedure concorsuali – ti aiuta a capire subito cosa fare per proteggerti.
Scoprirai quando viene disposta la liquidazione giudiziale, cosa rischi come amministratore o socio, quali beni possono essere aggrediti, e come valutare percorsi alternativi come la composizione negoziata o il piano di ristrutturazione del debito.
In fondo alla guida troverai tutti i contatti utili per ottenere una consulenza riservata, analizzare in modo concreto la tua posizione e costruire una strategia legale su misura per evitare il peggio e ripartire.
Liquidazione Giudiziale: Quali le Conseguenze per l’Amministratore e Come Difendersi – La Guida di Studio Monardo
Introduzione
La liquidazione giudiziale è la procedura concorsuale introdotta dal Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (D.lgs. 14/2019) in sostituzione del tradizionale fallimento. Si tratta di un procedimento giudiziario finalizzato alla liquidazione del patrimonio di un’impresa insolvente, sotto la supervisione di un tribunale e di un curatore nominato. Questa guida, aggiornata a maggio 2025, offre un’analisi pratica e completa delle conseguenze che l’apertura di una liquidazione giudiziale comporta per gli amministratori di società – siano esse S.r.l., S.p.A., cooperative, startup innovative o altre tipologie – e illustra le possibili strategie di difesa. L’argomento è di cruciale importanza sia per gli avvocati che assistono imprese in difficoltà, sia per gli stessi amministratori che potrebbero trovarsi a rispondere delle proprie decisioni gestionali in sede civile, penale e tributaria.
Obiettivo della guida: fornire un quadro organico e aggiornato delle norme (in particolare alla luce del nuovo Codice della Crisi d’Impresa, D.lgs. 14/2019 e successive modifiche), della giurisprudenza più recente e degli strumenti pratici a disposizione per gestire e mitigare i rischi di responsabilità degli amministratori in caso di insolvenza dell’impresa. Verranno approfonditi i doveri degli amministratori prima e dopo l’apertura della liquidazione giudiziale, le azioni di responsabilità che possono essere promosse contro di loro, le possibili sanzioni penali (come le fattispecie di bancarotta) e le implicazioni fiscali (ad esempio la responsabilità per mancato pagamento di imposte). Il taglio sarà volutamente pratico: includeremo casi simulati, tabelle riepilogative per un confronto immediato tra varie situazioni societarie e una sezione di Domande e Risposte frequenti.
Prima di entrare nel vivo, definiamo brevemente il perimetro della liquidazione giudiziale e chi riguarda. La liquidazione giudiziale può interessare tutte le imprese collettive dotate di soggettività giuridica (società di capitali come S.r.l. e S.p.A., cooperative, ecc.) e, con alcuni adattamenti, anche imprese individuali o società di persone se superano le soglie di fallibilità previste dalla legge. In pratica, quando un’impresa versa in stato di insolvenza irreversibile, il Tribunale può, su ricorso dei creditori, dell’imprenditore stesso o d’ufficio nei casi previsti, dichiarare l’apertura della procedura di liquidazione giudiziale (sentenza di liquidazione). Da quel momento l’azienda viene spossessata della gestione e gli amministratori perdono i propri poteri gestori, subentrando il curatore nella gestione e liquidazione dell’attivo. Per gli amministratori si apre quindi un capitolo delicatissimo: da un lato hanno obblighi di cooperazione con gli organi della procedura, dall’altro diventano possibili bersagli di azioni di responsabilità civili da parte del curatore o dei creditori e possono incorrere in responsabilità penali qualora il dissesto derivi da comportamenti a loro imputabili (come mala gestio, distrazione di beni, occultamento di documenti contabili, ecc.). Inoltre, potrebbero sorgere a loro carico conseguenze di natura tributaria, ad esempio se nella gestione pre-insolvenza non sono stati soddisfatti debiti fiscali.
In questa guida tratteremo in dettaglio: (i) i doveri di diligente amministrazione e di prevenzione della crisi posti a carico degli amministratori (e cosa accade se vengono violati); (ii) gli effetti immediati dell’apertura di una liquidazione giudiziale sulla posizione degli amministratori (decadenza dalle cariche, obbligo di consegna documenti, ecc.); (iii) le conseguenze civilistiche, distinguendo i diversi tipi di azioni di responsabilità e relative particolarità per S.r.l., S.p.A., cooperative e altre società; (iv) le conseguenze penalistiche, con focus sui reati fallimentari (bancarotta semplice e fraudolenta) e altri reati connessi (ad es. reati tributari come l’omesso versamento IVA); (v) le conseguenze fiscali/tributarie, inclusa la responsabilità personale per mancato pagamento di imposte in talune circostanze; (vi) come un amministratore può difendersi o attenuare le proprie responsabilità, sia agendo preventivamente durante la crisi d’impresa, sia adottando strategie difensive durante eventuali giudizi civili o penali; (vii) alcuni casi pratici simulati per illustrare scenari tipici e possibili esiti; (viii) una sezione di Domande e Risposte frequenti, per chiarire i dubbi più comuni; (ix) un elenco completo e aggiornato delle fonti normative, giurisprudenziali e dottrinali citate, per consentire approfondimenti ulteriori.
Struttura e aggiornamento normativo: La guida è organizzata in capitoli e paragrafi con titoli chiari per facilitare la consultazione. L’analisi tiene conto delle norme del Codice Civile (es. artt. 2392-2394 c.c. per le S.p.A., artt. 2476, 2485-2487 c.c. per le S.r.l., ecc.), delle disposizioni del Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (D.lgs. 14/2019) e delle sue successive modifiche e correttivi (D.lgs. 147/2020, D.lgs. 83/2022, nonché il recente D.lgs. 13 settembre 2024 n.136). Si farà cenno anche alla previgente Legge Fallimentare (R.D. 267/1942) quando utile a comprendere la continuità/discontinuità del quadro normativo, specie in materia di reati. Le massime delle sentenze citate sono aggiornate al 2024 e inizio 2025, includendo importanti pronunce della Corte di Cassazione civile e penale (ad es. Cass. 2021 n.13221 sulle dimissioni degli amministratori, Cass. 2023 n.3552 sull’azione di responsabilità ex art.2394 c.c., Cass. 2024 n.2885 sulla posizione dell’amministratore “di diritto” rispetto all’“amministratore di fatto”, ecc.), nonché alcune decisioni di merito significative e pronunce tributarie (come Cass. 2024 n.15580 sulla responsabilità ex art.36 DPR 602/1973).
Passiamo ora ad esaminare nel dettaglio ciascun aspetto, iniziando dai doveri che incombono sugli amministratori nella fase di gestione ordinaria e di crisi – il cui rispetto (o violazione) avrà poi profonde implicazioni in caso di apertura di una liquidazione giudiziale.
Doveri degli Amministratori nella Prevenzione della Crisi e dell’Insolvenza
Un amministratore diligente deve porre in essere tutte le misure organizzative e gestionali idonee a prevenire lo stato di insolvenza o quantomeno ad intercettarne tempestivamente i segnali, così da poter attivare per tempo gli strumenti di regolazione della crisi previsti dalla legge. Questo principio è stato codificato in particolare dall’art. 2086 c.c., come modificato dall’art. 375 del Codice della Crisi d’Impresa: all’imprenditore che operi in forma societaria è imposto di istituire “un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e alle dimensioni dell’impresa” funzionale anche alla rilevazione tempestiva della crisi e della perdita di continuità aziendale. In altre parole, la legge richiede oggi agli amministratori di qualunque società di dotarsi di assetti interni adeguati e di monitorare costantemente lo stato di salute economico-finanziaria dell’ente. La presenza di sistemi di controllo e pianificazione adeguati (contabilità aggiornata, sistemi di allerta interni su indici di liquidità, reporting finanziario, etc.) è non solo buona pratica di gestione, ma costituisce ormai un preciso obbligo legale la cui violazione può essere fonte di responsabilità. Infatti, è opinione diffusa che la mancata predisposizione di adeguati assetti possa configurare di per sé un inadempimento degli obblighi gestori e, in caso di successiva insolvenza, possa aggravare la posizione di responsabilità degli amministratori omissivi. Pur non esistendo una responsabilità oggettiva automatica per il solo fatto di aver omesso gli adeguati assetti, è evidente che se il dissesto dell’impresa poteva essere evitato o ridotto tramite strumenti di allerta precoce che l’organo amministrativo non ha approntato, ciò verrà valutato severamente in sede di giudizio di responsabilità.
Un altro dovere fondamentale è quello di conservare l’integrità del patrimonio sociale. Gli amministratori devono gestire la società senza pregiudicare indebitamente il patrimonio dell’ente, nell’interesse non solo dei soci ma anche dei creditori sociali. A tal proposito, l’art. 2476 c.c. per le S.r.l. prevede espressamente che l’amministratore risponda verso i creditori della società per la violazione dei doveri inerenti alla conservazione del patrimonio sociale. Norma analoga si ricava, per le S.p.A., dall’art. 2394 c.c. (responsabilità verso i creditori sociali). Ciò significa che se gli amministratori adottano decisioni che portano a disperdere risorse aziendali, aggravare inutilmente la posizione debitoria o in generale compromettere il patrimonio a garanzia dei creditori, potranno essere chiamati a rispondere dei danni conseguenti. In fasi di difficoltà economica incipiente, questo dovere si traduce in pratica nell’evitare operazioni temerarie (es. investimenti azzardati nel tentativo disperato di “raddoppiare” il capitale, oppure contrarre nuovi debiti insostenibili), nell’evitare di soddisfare solo alcuni creditori a scapito di altri (pratica che potrebbe configurare poi una bancarotta preferenziale) e in generale nell’evitare qualsiasi condotta che aggravi il dissesto. Al contrario, la gestione in crisi dovrebbe orientarsi alla tutela del valore residuo: riduzione dei costi, negoziazione con i creditori, ricerca di nuova finanza o investitori, ove possibile.
Particolarmente rilevanti sono gli obblighi degli amministratori quando si verifica una causa di scioglimento della società ai sensi del codice civile (ad esempio, per le società di capitali: riduzione del capitale al di sotto del minimo legale per perdite ex artt. 2447 c.c. per S.p.A. e 2482-ter c.c. per S.r.l.; oppure impossibilità di conseguire l’oggetto sociale, ecc.). In tali casi, gli amministratori devono astenersi dal proseguire la normale gestione come se nulla fosse e assumere invece i provvedimenti richiesti dalla legge: convocare l’assemblea dei soci perché adotti i provvedimenti del caso (es.: ricapitalizzazione, trasformazione, messa in liquidazione volontaria) oppure, se i soci non vi provvedono e la situazione lo impone, procedere direttamente alla liquidazione. In passato, la giurisprudenza ha affermato più volte che la prosecuzione dell’attività imprenditoriale nonostante il verificarsi di una causa di scioglimento costituisce violazione dell’obbligo di corretta gestione e può generare responsabilità per gli amministratori, specialmente verso i creditori per le nuove obbligazioni contratte oltre la soglia della perdita del capitale sociale. Oggi questo principio è ulteriormente rafforzato da una norma specifica: l’art. 2486 c.c., comma 2 e 3 (come modificato dal Codice della Crisi), che fissa criteri oggettivi per quantificare il danno risarcibile causato dagli amministratori che hanno indebitamente proseguito l’attività oltre la causa di scioglimento. In particolare, il nuovo comma 3 dell’art. 2486 c.c. stabilisce che, una volta accertata la responsabilità dell’amministratore, il danno si presume pari alla differenza tra il patrimonio netto alla data di apertura della liquidazione (o alla data di cessazione della carica) e il patrimonio netto alla data in cui si è verificata la causa di scioglimento, al netto dei costi che sarebbe stato normale sostenere in quel periodo; qualora manchino o siano irregolari le scritture contabili, il danno è liquidato pari alla differenza tra l’attivo e il passivo accertati nella procedura concorsuale. Si tratta di una presunzione legale introdotta dall’art. 378 del Codice della Crisi, che semplifica la posizione dei creditori/curatore in un’eventuale azione risarcitoria: in pratica, se l’amministratore ha continuato la gestione dopo che la società avrebbe dovuto sciogliersi (ad esempio dopo aver perduto il capitale sociale senza ricapitalizzazione né messa in liquidazione), il deficit emerso al momento del fallimento (liquidazione giudiziale) è addebitato a titolo di danno iure presunto agli amministratori, salvo che questi provino che il danno effettivo sia minore. Questo meccanismo incentiva fortemente gli amministratori a non ritardare indebitamente l’emersione della crisi e a non procrastinare decisioni imposte dalla legge (come lo scioglimento/cessazione dell’attività in caso di perdite irreparabili).
Accanto agli obblighi gestionali “interni” appena descritti, il nuovo Codice della Crisi ha introdotto strumenti per la gestione attiva della crisi. In particolare:
- la composizione negoziata della crisi, procedura di natura volontaria e confidenziale introdotta nel 2021 (D.L. 118/2021 conv. in L. 147/2021, ora integrata nel Codice della Crisi) che consente all’imprenditore in difficoltà di richiedere l’affiancamento di un esperto indipendente per tentare il risanamento. Spetta all’amministratore valutare per tempo se avviare una composizione negoziata; questa procedura si attiva tramite una piattaforma telematica nazionale e prevede la nomina di un esperto da parte della Camera di Commercio. Pur essendo facoltativa, la composizione negoziata offre vantaggi (protezioni temporanee dai creditori, agevolazioni fiscali, ecc.) ed è indice di diligenza dell’organo amministrativo: un amministratore che la attiva tempestivamente dimostra di aver tentato il possibile per evitare la crisi irreversibile e ciò potrebbe essergli riconosciuto positivamente in caso di successivo giudizio.
- le misure di allerta: il Codice prevedeva originariamente anche un sistema di segnalazioni obbligatorie (c.d. allerta) e una procedura davanti a un Organismo di Composizione assistita della Crisi (OCRI). Tuttavia, tali misure sono state sospese e rinviate più volte (da ultimo erano state posticipate al 2024) e, alla data di maggio 2025, non risultano ancora operative in forma obbligatoria generalizzata. In ogni caso, permane sullo sfondo il principio che “l’aggravarsi della situazione di crisi porta con sé accentuati doveri e responsabilità” per gli amministratori, fino a imporre, nei casi più gravi, la cessazione della gestione ordinaria e la ricerca di soluzioni straordinarie.
In ultima analisi, il dovere di agire tempestivamente è forse la sintesi più importante dei nuovi obblighi: se la crisi non è risolvibile con strumenti di risanamento e si configura uno stato di insolvenza conclamata, è preciso dovere dell’amministratore chiedere l’apertura della liquidazione giudiziale senza indugio. Ignorare questo obbligo di iniziativa comporta gravissime conseguenze per l’amministratore, poiché il ritardo può aggravare il dissesto (aumentando il danno risarcibile a suo carico) e può integrare estremi di reato (la bancarotta semplice punisce anche la colpevole tardiva richiesta di fallimento). Su questo torneremo in dettaglio nella sezione penale. Qui basti ribadire che attendere passivamente che siano i creditori a portare l’azienda in tribunale, magari continuando ad accumulare debiti ulteriori sperando in soluzioni miracolose, è probabilmente l’errore peggiore che un amministratore possa commettere in crisi: aumenta il rischio di responsabilità personale sia civile che penale.
Riassumendo questa parte, le best practice richieste agli amministratori nella fase precedente la liquidazione giudiziale sono: diligenza gestionale finché l’impresa è in bonis, monitoraggio continuo della situazione economico-finanziaria, trasparenza verso soci e organi di controllo, attivazione di strumenti di composizione se vi sono segnali di crisi, e, se l’insolvenza diviene inevitabile, adozione tempestiva delle procedure concorsuali previste (concordato preventivo, accordi di ristrutturazione o, ultima ratio, liquidazione giudiziale). Questi comportamenti non solo possono talvolta salvare l’azienda, ma in ogni caso pongono l’amministratore in posizione più favorevole qualora si arrivi comunque al fallimento: aver agito tempestivamente e correttamente potrà essere una linea difensiva decisiva per evitare o attenuare le contestazioni di mala gestio.
Effetti dell’Apertura della Liquidazione Giudiziale sugli Amministratori
Quando il Tribunale dichiara, con sentenza, l’apertura della liquidazione giudiziale della società, si producono immediatamente una serie di effetti sia sull’impresa che sui soggetti che la rappresentano e la gestiscono. Dal punto di vista degli amministratori, gli effetti principali sono:
1. Decadenza dei poteri di amministrazione e rappresentanza: a decorrere dalla sentenza dichiarativa, gli amministratori perdono la gestione dell’impresa. Nel caso di impresa individuale, il fallito è privato dell’amministrazione e disponibilità dei propri beni; similmente, per la società, gli organi sociali (amministratori, consigli di amministrazione) sono spossessati dei poteri gestori. Il soggetto incaricato di amministrare e liquidare il patrimonio diventa il Curatore fallimentare (ora spesso chiamato curatore della liquidazione giudiziale), nominato dal Tribunale. In sostanza, gli amministratori cessano dalle loro funzioni attive: non possono più compiere atti di amministrazione né disporre dei beni sociali. Eventuali atti dispositivi compiuti dagli ex amministratori dopo l’apertura della procedura sarebbero giuridicamente inefficaci o addirittura nulli verso i creditori (in base al principio del destitution del fallito dagli asset). L’ex amministratore non può ad esempio pagare debiti sociali o vendere beni dell’azienda dopo la sentenza di liquidazione; qualsiasi pagamento o alienazione potrà essere revocata dal curatore o considerata tamquam non esset.
2. Obbligo di consegna di beni e documenti: gli amministratori (o liquidatori in carica prima del fallimento) hanno l’obbligo legale di consegnare immediatamente al Curatore tutti i beni aziendali ancora in loro possesso, nonché tutta la documentazione sociale: libri contabili, registri societari, bilanci, estratti conto bancari, corrispondenza, contratti, etc. Devono inoltre fornire l’elenco dei creditori e debitori della società e ogni altra informazione utile a ricostruire il patrimonio. L’inosservanza di questo dovere può configurare il grave reato di bancarotta fraudolenta documentale (occultamento delle scritture contabili) se intenzionale, oppure bancarotta semplice se dovuta a negligenza (ad es. avere tenuto i libri in modo così disordinato da non permettere la ricostruzione del patrimonio). Pertanto, è nell’interesse dell’amministratore collaborare pienamente nella fase di avvio della procedura, consegnando tutto il materiale richiesto. Si noti che l’art. 254 del Codice della Crisi impone che “gli amministratori e i liquidatori della società in liquidazione giudiziale devono essere sentiti in tutti i casi in cui la legge richiede che sia sentito il debitore” e che essi “sono tenuti a fornire le informazioni o i chiarimenti necessari per la gestione della procedura richiesti dal curatore o dal comitato dei creditori”. Questa norma riproduce sostanzialmente l’obbligo di collaborazione già previsto dall’art. 146 L.F. per i fallimenti societari. In pratica, l’amministratore diviene un coadiuvante del curatore, dovendo rispondere con puntualità a tutte le richieste di chiarimenti sulla gestione passata, segnalare eventuali atti in corso (cause pendenti, contratti in essere, ecc.) e generalmente mettere a disposizione la propria conoscenza della società per favorire le operazioni di liquidazione.
3. Coinvolgimento nelle indagini e verifiche: sin dall’avvio della procedura, il curatore e gli organi della procedura (Giudice Delegato, Comitato dei Creditori) esaminano la condotta degli amministratori nel periodo antecedente il fallimento. Ciò significa che tipicamente il curatore verificherà se sussistono estremi per promuovere un’azione di responsabilità contro gli amministratori (vedi prossimo capitolo), esaminando i bilanci, le operazioni societarie degli ultimi anni, eventuali anomalie contabili o patrimoniali. Parimenti, la documentazione contabile verrà analizzata anche da parte della Procura della Repubblica se emergono indizi di reato (è prassi che la sentenza dichiarativa di fallimento sia comunicata d’ufficio al Pubblico Ministero, che può avviare indagini penali per bancarotta). Dunque, gli amministratori falliti si trovano immediatamente “sotto la lente d’ingrandimento”. Un effetto indiretto dell’apertura della liquidazione giudiziale è che eventuali azioni legali già pendenti contro gli amministratori promosse da creditori vengono sospese: infatti, l’art. 294 del Codice della Crisi (che ricalca l’art. 43 L.F.) prevede la cristallizzazione del contenzioso. Tali azioni potranno eventualmente essere proseguite dal curatore o dai creditori secondo le regole concorsuali (come vedremo, l’azione individuale dei creditori sociali viene assorbita dall’azione esercitata dal curatore ex art. 2394-bis c.c.). Ciò significa che un creditore, dal momento del fallimento, non può continuare da solo una causa di risarcimento contro l’amministratore, perché l’iniziativa spetta al curatore nell’interesse di tutti i creditori.
4. Sospensione o rimozione dagli incarichi sociali: ovviamente, l’apertura della liquidazione determina la cessazione di diritto degli amministratori dalla loro carica. Se la società era in bonis, formalmente gli amministratori decadono. Se per ipotesi la società facesse parte di un gruppo o avesse altre attività residue, l’autorità giudiziaria potrebbe adottare provvedimenti di interdizione temporanea. Inoltre, in alcuni casi particolari, il tribunale può nominare d’urgenza un custode o amministratore giudiziario già nella fase prefallimentare (ad es. in presenza di condotte dissipative in corso da fermare). Ma nella generalità dei casi, con la sentenza dichiarativa è il curatore a subentrare in ogni funzione amministrativa. Gli amministratori uscenti non devono svolgere alcuna attività se non quelle collaborativa sopra dette.
5. Conseguenze sul piano personale e reputazionale: pur non essendoci (nel diritto italiano attuale) una misura amministrativa automatica di interdizione dagli uffici direttivi a seguito di fallimento della società (diversamente da quanto accadeva molti decenni fa con l’istituto dell’interdizione commerciale per i falliti persone fisiche), è evidente che subire la liquidazione giudiziale comporta per un amministratore un danno reputazionale e potenziali difficoltà nel proseguire la carriera professionale. Le banche dati societarie registrano l’evento: nei certificati camerali, ad esempio, sarà indicato che la società è in fallimento e chi erano gli amministratori. Inoltre, se l’amministratore aspira ad altri incarichi, i soci o i consigli di amministrazione di altre società valuteranno con attenzione il suo track record. In certi settori regolati (es. appalti pubblici, settore finanziario) avere amministrato società fallite potrebbe costituire elemento pregiudizievole, sebbene non vi sia un divieto legale salvo che intervenga una condanna specifica. Una condanna penale per bancarotta, invece, comporta automaticamente pene accessorie tra cui l’interdizione temporanea dagli uffici direttivi di imprese e l’incapacità a esercitare imprese commerciali per un certo periodo. Quindi, se dal fallimento scaturisce una condanna, l’amministratore potrà essere formalmente inabilitato a ricoprire nuove cariche per la durata stabilita dalla sentenza.
In sintesi, l’apertura della liquidazione giudiziale segna il passaggio di consegne dagli amministratori al curatore nella gestione dell’impresa insolvente. Agli amministratori è richiesto massimo supporto e trasparenza nei confronti degli organi della procedura. Allo stesso tempo, da quel momento in poi essi diventano potenziali convenuti in azioni di responsabilità civili e indagati/imputati in procedimenti penali connessi al fallimento. I capitoli successivi esamineranno proprio queste due grandi categorie di conseguenze: le responsabilità civili (verso la società, i creditori e i terzi) e le responsabilità penali (reati fallimentari e tributari) degli amministratori a seguito di un dissesto.
Prima di procedere, può essere utile una tabella riepilogativa che confronta gli effetti immediati della dichiarazione di liquidazione giudiziale sugli amministratori con la situazione precedente:
Situazione | Poteri di gestione | Obblighi | Facoltà |
---|---|---|---|
Società in bonis (prima della liquidazione) | Gli amministratori hanno pieni poteri di amministrazione nei limiti dell’oggetto sociale e della legge. | Dovere di gestire con diligenza, conservare patrimonio sociale, convocare assemblea in caso di perdite rilevanti, istituire assetti adeguati, attivare procedure di allerta/negoziazione se necessario. | Possibilità di proporre concordato preventivo, accordi di ristrutturazione o composizione negoziata per evitare il fallimento. |
Stato di crisi conclamata/insolvenza non ancora dichiarata | Amministratori in carica, ma dovrebbero astenersi da operazioni aggravanti. Devono prepararsi a richiedere procedure concorsuali. | Dovere di chiedere tempestivamente il concordato preventivo o la liquidazione giudiziale. Obbligo di astenersi da nuove obbligazioni se non funzionali a evitare il peggio. | Possono ancora scegliere la procedura (es. presentare domanda di concordato preventivo “in proprio” se ritengono di poter soddisfare i creditori meglio che con il fallimento). |
Apertura liquidazione giudiziale (dopo la sentenza) | Amministratori decaduti: gestione affidata al Curatore. Gli ex amministratori non hanno più poteri sui beni della società. | Obbligo di consegna libri e beni al Curatore. Obbligo di collaborazione: fornire informazioni, essere a disposizione per chiarimenti. Dovere di verità nelle dichiarazioni al curatore/Giudice. | Pochi margini di azione: possono solo collaborare. Possono partecipare all’udienza di verifica dello stato passivo per segnalare eventuali errori (come qualsiasi interessato). |
Durante la procedura | – (nessun potere di gestione) | Eventuale obbligo di comparire in interrogatorio dinanzi al Giudice Delegato o PM. Devono comunicare ogni cambio residenza. | Possono proporre al curatore un accordo transattivo sulle loro responsabilità civili, se ciò va a vantaggio del ceto creditorio (es.: offerta di risarcimento per evitare causa). Possono partecipare eventualmente al progetto di concordato fallimentare se presentato da terzi. |
Chiusa la procedura (società cancellata) | Società estinta; amministratori cessati. | Se rimangono debiti insoddisfatti e se hanno violato obblighi, le azioni di responsabilità proseguono (anche a procedura chiusa, i creditori possono agire in proprio contro gli amministratori per danni non coperti). | L’amministratore può chiedere l’esdebitazione personale solo se era un socio illimitatamente responsabile fallito; altrimenti, per i debiti sociali non c’è esdebitazione in quanto egli non era debitore principale (fa eccezione se ha garanzie personali escusse). |
(La tabella sopra evidenzia il cambiamento di ruolo degli amministratori dal periodo ante-crisi alla fase post-dichiarazione di liquidazione giudiziale.)
Responsabilità Civile degli Amministratori nella Liquidazione Giudiziale
Uno degli aspetti più importanti – e temuti – per un amministratore di una società fallita è la possibilità di essere chiamato a rispondere civilmente dei danni cagionati alla società, ai soci o ai creditori a causa della propria gestione. In caso di liquidazione giudiziale di una società, infatti, si apre lo scenario delle azioni di responsabilità promosse contro gli amministratori uscenti. Tali azioni mirano, in sostanza, a far sì che il patrimonio personale degli amministratori risponda delle conseguenze pregiudizievoli delle loro eventuali violazioni dei doveri. Data la complessità della materia, affronteremo separatamente le diverse tipologie di azioni e di responsabilità civile coinvolte, evidenziando le peculiarità per le varie forme societarie (S.r.l., S.p.A., cooperative, ecc.):
Azione Sociale di Responsabilità (verso la società)
L’azione sociale di responsabilità è lo strumento attraverso il quale la società (o chi per essa) chiede agli amministratori il risarcimento dei danni patrimoniali cagionati al patrimonio sociale a seguito della violazione dei loro doveri di ufficio (diligenza, prudenza, rispetto della legge e dello statuto). Nelle S.p.A., quest’azione è disciplinata dall’art. 2393 c.c., mentre nelle S.r.l. dall’art. 2476, comma 7 c.c. (che richiama la responsabilità verso la società). Normalmente, in situazioni di attività in bonis, l’azione sociale può essere promossa dalla società stessa (mediante delibera assembleare che autorizza il consiglio a far causa all’ex amministratore, oppure – nella S.r.l. – anche da parte di ciascun socio in caso di inerzia).
Cosa accade però se la società è fallita? Chi esercita l’azione sociale a nome della società che ormai è in liquidazione giudiziale? La risposta è: il curatore fallimentare (ora “curatore della liquidazione giudiziale”). Il Codice della Crisi conferma questo assetto: l’art. 115, comma 2, Cod. Crisi prevede che “il liquidatore giudiziale esercita, oppure, se pendente, prosegue l’azione sociale di responsabilità” e qualsiasi clausola contraria in proposte di concordato o accordi è da considerarsi non opponibile. Ciò significa che, una volta aperta la procedura, spetta al curatore decidere se intentare la causa per responsabilità contro gli ex amministratori, al fine di recuperare somme da destinare al soddisfacimento dei creditori. In pratica il curatore “prende il posto” della società danneggiata e diviene l’attore dell’azione risarcitoria.
L’azione sociale esercitata dal curatore è unica e indivisibile, volta a reintegrare il patrimonio sociale depauperato. Questo ha due conseguenze importanti: (i) eventuali somme ottenute dagli amministratori a titolo di risarcimento entreranno nell’attivo fallimentare e saranno ripartite tra tutti i creditori secondo le regole concorsuali (non vanno solo ad uno specifico soggetto); (ii) i singoli soci (nelle S.r.l.) o singoli creditori non possono più esercitare autonomamente l’azione sociale, essendo ormai appannaggio esclusivo del curatore quale rappresentante della massa. In passato, sotto la vecchia legge fallimentare, l’art. 146 L.F. stabiliva espressamente la legittimazione del curatore ad esercitare sia l’azione sociale ex art. 2393 c.c. che l’azione dei creditori ex art. 2394 c.c., e tale principio è sostanzialmente confermato nel nuovo Codice, seppur con diverso arrangiamento normativo (artt. 254-255 Cod. Crisi). Come notato in dottrina, “la disciplina del codice della crisi sulla liquidazione giudiziale delle società (Capo VIII, artt. 254 ss.) si apre con […] i doveri di collaborazione degli amministratori […] e prosegue immediatamente dopo con le norme sulle azioni di responsabilità”. In particolare, l’art. 255 del Codice della Crisi (rubricato “Azioni di responsabilità nella liquidazione giudiziale delle società”) stabilisce che il curatore può promuovere o proseguire anche separatamente sia l’azione sociale di responsabilità sia l’azione dei creditori (di cui al prossimo paragrafo). Dunque, il curatore può decidere di intentare entrambe le azioni, cumulativamente, oppure solo una delle due a seconda dei presupposti.
Un punto chiave è che l’azione sociale ha natura contrattuale (deriva dal rapporto di amministrazione, che è un mandato sociale): ciò comporta, tra l’altro, un termine di prescrizione di 5 anni dal momento in cui l’amministratore cessa dalla carica (art. 2393 c.c. per S.p.A.) o dal compimento dell’atto dannoso. Nella pratica fallimentare, tuttavia, i termini di prescrizione possono essere sospesi o far capo alla scoperta del danno. Ad esempio, la Cassazione ha chiarito che l’azione ex art. 2394 c.c. (creditori) promossa dal curatore ha prescrizione quinquennale decorrente dalla dichiarazione di fallimento (come vedremo sotto), mentre l’azione ex 2393 c.c. decorre dalla cessazione dell’amministratore (con eventuali sospensioni). Il curatore, quando agisce, tende spesso a cumulare le domande per entrambe le responsabilità (sociale e verso creditori) in un unico giudizio, ma giuridicamente rimangono distinte.
Dal punto di vista della prova e del quantum del danno, il curatore-attore deve dimostrare che l’amministratore ha violato obblighi gestori e ciò ha causato un pregiudizio al patrimonio sociale. In un contesto di fallimento, ciò è spesso evidente: si pensi a operazioni distrattive (es: l’amministratore ha regalato beni a terzi o se li è fatti vendere sottocosto a proprie società), oppure a operazioni gravemente imprudenti (investimenti folli, finanziamenti a fondo perduto a soggetti insolventi, mancato incasso di crediti per inerzia, ecc.). Tali condotte riducono la massa attiva e quindi danneggiano la società e i creditori. Il curatore chiederà il risarcimento corrispondente alle perdite generate. Un tema particolare è la quantificazione del danno quando la colpa dell’amministratore consiste nel aver aggravato il dissesto continuando l’attività: qui torna in gioco la presunzione del differenziale dei patrimoni netti di cui all’art. 2486 co.3 c.c. sopra citato. Questa presunzione consente al curatore di quantificare il danno nella differenza tra patrimonio netto esistente al momento in cui la società avrebbe dovuto cessare e patrimonio netto al fallimento, senza dover provare nel dettaglio ogni singola operazione dannosa compiuta in quel periodo. Spetterà all’amministratore semmai dimostrare che non tutto quel differenziale è a lui imputabile. Si tratta di un forte strumento a favore della massa.
Peculiarità per le S.r.l.: Nelle S.r.l., qualsiasi socio può promuovere l’azione sociale (art. 2476 c.3 c.c.) anche se la società non lo fa. Dopo il fallimento però, come detto, sarà il curatore ad avere la legittimazione principale. I soci, essendo anch’essi per lo più danneggiati (il valore delle loro quote è azzerato), potrebbero avere interesse a che il curatore agisca. Se il curatore fosse inerte, teoricamente i soci (o creditori) potrebbero provare a ottenere autorizzazione a esercitare l’azione (si discute se sia ammissibile un intervento surrogatorio dei creditori se il curatore non agisce – alcuni autori ritengono di sì dopo un certo tempo, ma il Codice della Crisi pare non contemplare espressamente tale ipotesi, a differenza di altre giurisdizioni). In ogni caso, i soci di S.r.l. possono essere essi stessi bersaglio di un’azione di responsabilità se hanno concorso nelle violazioni: ad esempio l’art. 2476 c.7 c.c. prevede la responsabilità dei soci di S.r.l. che deliberando o autorizzando atti di mala gestio dei manager ne abbiano tratto beneficio. Il curatore può agire anche contro di loro (l’art. 146 L.F. vecchio testo lo prevedeva espressamente, e l’attuale art. 255 c.1 del Codice Crisi lo consente parimenti).
Peculiarità per le cooperative: Le cooperative, se soggette a liquidazione giudiziale (quando non vengono assoggettate a liquidazione coatta amministrativa), seguono le stesse regole delle società di capitali corrispondenti (una cooperativa è in genere una S.p.A. o S.r.l. “particolare”). Il curatore quindi agirà contro gli amministratori della cooperativa con gli stessi strumenti. Vale la pena ricordare che nelle cooperative vige il divieto di distribuire utili oltre certi limiti e l’obbligo di devoluzione del patrimonio ai fondi mutualistici in caso di scioglimento: se gli amministratori di una coop fallita hanno violato questi vincoli (ad es. dirottando patrimonio ai soci in forme improprie), risponderanno dei danni.
Difese dell’amministratore nell’azione sociale: in sede civile, l’amministratore convenuto potrà difendersi contestando l’addebito di colpa (adducendo ad esempio che le scelte gestionali rientravano nella discrezionalità imprenditoriale e che si è trattato di scelte sfortunate ma non imprudenti in sé – il famoso principio della business judgment rule che esclude la responsabilità per mere scelte di merito gestionale ). Oppure potrà sostenere che il danno invocato non è effettivamente derivato dalle sue scelte ma da cause esterne (crisi di mercato imprevedibile, insolvenza di un grande cliente, calamità, pandemia, etc.). Nella misura in cui riesca a provare queste circostanze, l’amministratore può evitare la condanna. Ad esempio, se il curatore lamenta che l’amministratore ha ritardato il fallimento di 6 mesi aggravando il buco di X euro, l’amministratore potrebbe difendersi mostrando che in quei 6 mesi ha in realtà limitato i danni tentando di risanare o che il peggioramento era ineluttabile a prescindere (difficile, ma tentabile). Altro caso: se è citato per aver concesso un grosso credito a tizio poi fallito, potrebbe provare che al momento della concessione quel credito sembrava ragionevolmente esigibile (diligence effettuata, garanzie acquisite, etc.). Inoltre, se c’è un collegio di amministrazione, il singolo può andare esente se prova di essersi dissociato dalle decisioni dannose (far mettere a verbale il proprio voto contrario può salvare da responsabilità ex art. 2392 c.c.).
In generale tuttavia, una volta che la società è fallita, è spesso evidente che qualche errore grave sia avvenuto, quindi l’onere di difesa è alto. Ecco perché molti contenziosi di questo tipo si concludono con transazioni in cui l’assicurazione degli amministratori (se esistente, ad es. polizza D&O) paga una parte dei danni al curatore. Si noti infatti che molte società stipulano assicurazioni a copertura della responsabilità civile degli amministratori: se la polizza copre l’insolvenza (non sempre lo fa, spesso esclude i danni da fallimento fraudolento ad es.), il curatore avrà interesse a escutere l’assicurazione e l’amministratore potrà cooperare in tal senso.
Azione dei Creditori Sociali (responsabilità verso i creditori ex art. 2394 c.c.)
Diversa dall’azione sociale (che colpisce il danno al patrimonio sociale) è l’azione di responsabilità verso i creditori sociali, disciplinata dall’art. 2394 c.c. (per le S.p.A. e, per le S.r.l., richiamata dall’art. 2476 comma 6 c.c.). Questa azione sorge quando il patrimonio sociale risulta insufficiente a soddisfare i creditori (insufficienza dell’attivo), a causa di inadempimenti degli amministratori ai doveri di conservazione dell’integrità del patrimonio. In pratica, se gli amministratori con la loro mala gestio hanno “svuotato” la società o l’hanno depauperata a tal punto da renderla incapiente verso i creditori, questi ultimi – invece di subire semplicemente la perdita – possono cercare ristoro dal patrimonio personale degli amministratori. È un’azione tradizionalmente qualificata come extracontrattuale (da fatto illecito specifico) e si prescrive in 5 anni dal momento in cui i creditori hanno conoscenza dell’insufficienza patrimoniale.
In costanza di attività, l’azione ex art. 2394 c.c. può essere proposta dal singolo creditore di una società ancora in piedi quando, ad esempio, l’azienda sta per dissolversi e il creditore si accorge che manca attivo a causa di atti di mala gestio. Tuttavia, nella stragrande maggioranza dei casi, l’insufficienza del patrimonio diventa manifesta al momento del fallimento. Infatti la dichiarazione di fallimento (liquidazione giudiziale) è la cristallizzazione dell’insolvenza e spesso certifica che l’attivo non copre il passivo. La Cassazione ha affermato che la sentenza di fallimento segna di regola il dies a quo per la prescrizione dell’azione dei creditori, in quanto da quel momento i creditori sono ufficialmente posti a conoscenza dell’insufficienza patrimoniale. Inoltre, in giurisprudenza si è creato un orientamento per cui esiste una presunzione iuris tantum che la conoscenza dell’insufficienza coincida col fallimento, salvo prova contraria che il dissesto fosse palese prima.
Con il fallimento, la legittimazione ad esercitare l’azione ex art. 2394 c.c. passa anch’essa al curatore, analogamente all’azione sociale. L’art. 115 comma 3 del Codice Crisi sancisce espressamente che, anche pendente la procedura, “resta ferma la legittimazione di ciascun creditore sociale a esercitare o proseguire l’azione di responsabilità prevista dall’articolo 2394 c.c.”, ma ciò non significa che i singoli creditori agiscano indipendentemente in caso di fallimento. In realtà questa previsione va coordinata con l’art. 255 Cod. Crisi, il quale – interpretato sistematicamente – attribuisce comunque al curatore il potere di esercitare l’azione dei creditori (ex art. 2394) in via principale. Come funziona dunque? Di fatto, sotto la vecchia legge fallimentare, la Cassazione a Sezioni Unite chiarì che con il fallimento l’azione 2394 spetta al curatore e i creditori individuali ne sono privati (teoria della sostituzione processuale del curatore) perché l’azione concorre a reintegrare il patrimonio generale (Cass. SS.UU. n. 7029/2006). Il nuovo art. 115 Cod. Crisi nel comma 3 pare però voler conservare comunque ai creditori una legittimazione concorrente o successiva. L’interpretazione prevalente è che durante la procedura e fino alla chiusura, l’azione viene esercitata dal curatore; i creditori conservano la possibilità di intervenire se pendente o di subentrare pro quota in caso di inerzia del curatore (ad esempio, se il curatore non agisce, forse i creditori possono agire direttamente anche prima della chiusura, ma è tema dibattuto). Tuttavia, essendo il curatore normalmente attivo in tal senso, è raro che un creditore debba farlo in proprio.
Lo scopo ultimo dell’azione ex 2394 c.c. è risarcire i creditori per la parte di credito insoddisfatta per colpa degli amministratori. Anche qui, le somme recuperate vanno a beneficio della massa dei creditori se l’azione è esercitata dal curatore (si considera infatti che il curatore, pur esercitando un’azione “dei creditori”, quando la esperisce incamera le somme nell’attivo fallimentare e poi le ripartisce). Se invece – in ipotesi – la esercitasse singolarmente un creditore (ad esempio dopo la chiusura del fallimento senza che il curatore l’abbia fatta), quel creditore potrebbe trattenere quanto ottenuto nei limiti del suo danno.
Presupposti: l’azione ex art. 2394 richiede la prova che gli amministratori abbiano violato obblighi di conservazione del patrimonio sociale (ad esempio non formando le riserve obbligatorie, distribuendo utili fittizi, non reagendo a perdite rilevanti, distraendo beni) e che ciò abbia portato all’incapienza del patrimonio verso i creditori. Spesso, i fatti alla base di questa azione coincidono con quelli dell’azione sociale. Infatti, come recita una nota massima “l’azione di responsabilità dei creditori sociali ex art. 2394 c.c., pur quando promossa dal curatore fallimentare, è soggetta a prescrizione quinquennale dal momento dell’oggettiva percepibilità dell’insufficienza patrimoniale” e il suo fondamento sta nella violazione di doveri di conservazione. In molti casi, nel giudizio di responsabilità si discute se una certa condotta dell’amministratore abbia danneggiato direttamente la società (azione sociale) o direttamente i creditori (azione 2394) – nella pratica le due azioni spesso vengono cumulate perché le condotte scorrette incidono su entrambi i fronti.
Esempi tipici: Pagare dividendi ai soci in presenza di perdite o in violazione dei limiti di legge (in danno alle risorse destinate ai creditori) è un classico caso che fonda la responsabilità verso i creditori. Oppure omettere di fare quanto dovuto per ricapitalizzare la società, lasciando che questa continui ad operare decotta, facendo nuovi debiti che poi non verranno pagati: qui i nuovi creditori potranno dire che se gli amministratori avessero preso atto della perdita di capitale e liquidato prima, loro non sarebbero rimasti insoddisfatti (c.d. danno da aggravamento del dissesto). Anche la violazione di norme a tutela del capitale (come l’art. 2482-bis c.c. per S.r.l. che impone di ridurre il capitale o sciogliere la società in caso di perdite oltre il terzo) costituisce inadempimento rilevante verso i creditori, i quali contano sul capitale come garanzia.
Chi può essere citato: l’azione dei creditori può colpire non solo gli amministratori in carica al momento del fallimento, ma anche quelli del passato, purché entro il quinquennio, se il dissesto è in parte cagionato dalla loro gestione (ad es. un amministratore ha lasciato da un anno ma ha compiuto atti pregiudizievoli i cui effetti si manifestano ora). Inoltre, teoricamente, può colpire anche direttori generali e sindaci se hanno concorso (questi ultimi però attraverso regole proprie, v. art. 2407 c.c. per sindaci).
Difese dell’amministratore: le difese sono analoghe all’azione sociale: sostenere di aver agito correttamente, che la crisi deriva da cause esterne non prevenibili, o che comunque l’attivo sociale sarebbe risultato insufficiente anche senza le presunte violazioni (questa è una linea difensiva peculiare: se il dissesto era inevitabile per ragioni estranee, l’amministratore può argomentare che il nesso causale tra i suoi atti e l’insufficienza patrimoniale manca). Ad esempio, se un’intera settore economico è crollato improvvisamente (si pensi al turismo durante la pandemia), l’amministratore può dire che la società sarebbe fallita comunque e le sue scelte (anche se azzardate) non hanno creato il deficit, semmai hanno tentato di evitarlo.
Va segnalato inoltre che la Cassazione ha statuito che l’azione ex 2394 c.c., anche se esercitata dal curatore, conserva la sua natura personale e dunque soggiace a prescrizione breve quinquennale, come detto. Ciò significa che se il fallimento dura molto a lungo, passato quel termine i creditori (o il curatore) potrebbero vedersi opporre la prescrizione. Tuttavia, la giurisprudenza ha elaborato la presunzione che parta dal fallimento, salvo prova di conoscibilità anteriore. Questo complesso aspetto tecnico sottolinea ancora una volta che, per massimizzare le chances di successo, il curatore tende a promuovere entrambe le azioni (sociale e dei creditori) cumulativamente, così da coprire ogni evenienza giuridica.
In conclusione su azioni sociali e dei creditori: esse rappresentano i due volti della responsabilità civile verso danno alla società e danno ai creditori. In ambito di liquidazione giudiziale, confluiscono nella figura del curatore che di solito le esercita insieme. La Cassazione del 2023, sentenza n. 3552, ha peraltro ribadito che l’azione ex art. 2394 c.c. (creditori) esercitata dal curatore mantiene natura distinta e prescrizione propria, confermando la complessità di coordinamento di queste azioni. Per l’amministratore convenuto, però, poco cambia: dovrà difendersi in un unico giudizio dalle contestazioni sollevate, che coprono l’intera gamma della sua condotta.
Simulazione pratica 1 (azione civile) – Caso Alfa S.r.l.: la Alfa S.r.l. è stata dichiarata in liquidazione giudiziale. Il curatore, esaminando gli atti, scopre che: 1) due anni prima del fallimento, l’amministratore unico aveva trasferito l’unico immobile di proprietà della società a un prezzo molto inferiore al valore di mercato alla Beta S.r.l., società riconducibile a suo fratello; 2) nonostante nel bilancio l’attivo risultasse azzerato, l’amministratore ha continuato l’attività contrattando nuovi debiti con fornitori per ulteriori 500.000€. Allo stato del fallimento, i beni di Alfa sono del tutto insufficienti (rimane poco o nulla). Cosa accade? Il curatore certamente promuoverà un’azione di responsabilità contro l’amministratore: contesterà la distrazione dell’immobile (che ha leso il patrimonio sociale – quindi azione sociale ex 2476/2393 c.c. – e al contempo ha creato un danno ai creditori, azione 2394 c.c.) e la prosecuzione abusiva dell’attività (avendo contratto 500k di debiti quando la società era di fatto decotta: anche qui violazione del 2486 c.c., con danno quantificabile almeno in 500k per i creditori). L’amministratore Alfa in giudizio proverà a difendersi dicendo che l’immobile fu venduto a prezzo basso perché c’era un’ipoteca e urgenza di liquidità, e che sperava di risanare; e che i 500k di debiti aggiuntivi furono contratti nel tentativo di ottenere forniture per completare ordini che avrebbero salvato la società. Tuttavia, a meno di documentazione convincente, con ogni probabilità verrà ritenuto responsabile. Il danno potrebbe essere calcolato come: differenza tra valore reale dell’immobile e prezzo incassato (ad es. immobile val. €300k venduto a €100k, danno €200k) + l’aggravio di 500k. Se per ipotesi i libri contabili fossero tenuti male, il giudice potrebbe applicare direttamente la presunzione del deficit, ad esempio constatando che il deficit fallimentare è €700k (passivo 800k, attivo 100k): quell’importo diventerebbe la misura del risarcimento. L’amministratore, se condannato, dovrà pagare tali somme (700k) al curatore, che poi distribuirà ai creditori in percentuale dei loro crediti. Se l’amministratore non paga spontaneamente, il curatore potrà agire sul suo patrimonio (pignoramento beni personali). Se l’amministratore è nullatenente, purtroppo per i creditori l’azione pur vittoriosa rimarrà infruttuosa (in quel caso il curatore ben difficilmente la intraprende se prevede incapienza totale dell’amministratore, data l’inutilità pratica).
Altre forme di responsabilità civile connesse
Oltre alle azioni principali discusse sopra, vi sono ulteriori profili di responsabilità civile che possono coinvolgere l’amministratore di una società fallita:
- Responsabilità verso terzi: Se l’amministratore con illeciti dolosi ha direttamente danneggiato terzi estranei alla società (ad es. frodando un contraente), questi terzi possono agire ai sensi dell’art. 2043 c.c. per il risarcimento. In fallimento, tali pretese di terzi diventano crediti verso la massa. Non di rado, però, i terzi danneggiati coincidono con creditori sociali e dunque rientrano nell’azione ex 2394 c.c. Un caso peculiare è la responsabilità per danni da reato: se l’amministratore commette reati (es. truffa, falso bilancio, infortuni sul lavoro) causando danni a specifiche persone, queste potranno costituirsi parte civile nel processo penale o agire in civile contro di lui. Tali azioni coesistono con quelle del curatore ma esulano un po’ dallo schema societario classico.
- Responsabilità dei componenti di altri organi sociali: Il curatore può estendere l’azione anche ai sindaci/revisori e al direttore generale, se esistenti, qualora con condotte omissive o commissive essi abbiano concorso a provocare il danno. Ad esempio, se il collegio sindacale non ha vigilato e segnalato per tempo irregolarità palesi, i sindaci possono essere corresponsabili verso società e creditori (art. 2407 c.c.). Questo però non diminuisce la responsabilità degli amministratori, semplicemente aggiunge altri soggetti passivi da cui il curatore può pretendere quota di risarcimento.
- Responsabilità dei soci: Come accennato, nella S.r.l. è prevista un’azione contro i soci che abbiano deliberato o autorizzato atti dannosi compiuti dagli amministratori (art. 2476 comma 7 c.c.). Esempio: i soci istruiscono informalmente l’amministratore a distribuire utili non risultanti da bilancio o a fare un’operazione a loro favore dannosa per la società; in tal caso, fallita la società, anche i soci istigatori possono essere citati dal curatore e condannati a risarcire. Ciò serve ad evitare che il vero dominus (socio di maggioranza) la faccia franca scaricando tutto sull’amministratore di facciata. La giurisprudenza applica questa norma di frequente quando c’è sovrapposizione tra proprietà e gestione: se la mala gestio è decisa dai soci (in S.r.l. spesso l’amministratore è anche socio di maggioranza), costoro ne rispondono direttamente.
- Responsabilità contrattuale specifica: in alcuni casi particolari, l’amministratore può essere responsabile per inadempimento di obblighi specifici, ad esempio verso l’acquirente di azienda se ha rilasciato dichiarazioni false, oppure verso un terzo garante se ha aggravato la posizione debitoria contrariamente a patti contrattuali. Sono situazioni di nicchia che esulano dal generico 2392 c.c.
Va ricordato che tutte queste forme di responsabilità civile non eliminano la limitazione di responsabilità della società, ma ne rappresentano eccezioni mirate: normalmente i debiti sociali restano a carico della società (patrimonio separato), ma tramite l’azione risarcitoria si può aggredire il patrimonio personale dell’amministratore se ha commesso illeciti gestori. Non esiste invece, nel nostro ordinamento, una responsabilità civile generale dell’amministratore per i debiti sociali in assenza di colpa: per fare un esempio, se la società fallisce per sfortune economiche senza colpa degli amministratori, costoro non sono tenuti a pagare i debiti residui. Questo è un punto spesso frainteso dai non addetti ai lavori: l’amministratore non garantisce i debiti della società come un fideiussore, risponde solo in caso di mala gestio. Dunque, la differenza tra società di capitali e società di persone qui è fondamentale: nelle società di persone (S.n.c., S.a.s.), i soci amministratori sono illimitatamente responsabili per legge e, se la società fallisce, falliscono anche personalmente. Nelle società di capitali gli amministratori non falliscono personalmente per il fallimento della società, salvo che abbiano compiuto atti illeciti – i quali vanno però provati nelle forme sopra viste.
Tabella riepilogativa tipologie di azioni di responsabilità
Per chiarezza, riportiamo una tabella riepilogativa delle azioni di responsabilità civile che possono riguardare un amministratore in caso di fallimento societario, con indicazione dei legittimati attivi (chi può promuovere l’azione) e dei soggetti passivi (chi ne risponde):
Azione di responsabilità | Danno lamentato | Soggetto che la esercita | Contro chi è proposta | Riferimenti normativi |
---|---|---|---|---|
Azione sociale di responsabilità (verso la società) | Danno al patrimonio sociale (decurtazione dell’attivo sociale per mala gestio). | Curatore fallimentare (dopo apertura liquidazione giudiziale). In bonis: società (con delibera) o singoli soci (S.r.l.). | Amministratori (anche ex), potenzialmente sindaci e direttori generali se corresponsabili. | Art. 2393 c.c. (S.p.A.); Art. 2476 c.c. (S.r.l.). In fallimento: Art. 115 co.2 Cod. Crisi. |
Azione dei creditori sociali | Insufficienza del patrimonio a pagare i creditori, causata da violazione obblighi di conservazione. | Curatore fallimentare principalmente. Singoli creditori (se curatore non agisce o dopo chiusura). | Amministratori (anche ex) responsabili di aver aggravato il dissesto o violato obblighi di integrità patrimoniale. | Art. 2394 c.c. (anche per S.r.l.). In fallimento: art. 115 co.3 Cod. Crisi. |
Azione dei soci di S.r.l. contro amministratori | Danno diretto al valore della partecipazione sociale (es.: comportamento doloso che incide su singolo socio). N.B.: Di solito il danno ai soci è riflesso di quello alla società. | Singoli soci della S.r.l. (anche in aggiunta all’azione sociale della società). | Amministratori. (Può cumularsi con azione sociale esercitata dal curatore). | Art. 2476 comma 6 c.c.: soci e terzi direttamente danneggiati da fatti dolosi degli amministratori hanno azione individuale. |
Azione del curatore contro soci di S.r.l. | Danno alla società/creditori derivante da atti dei soci (di concerto con amministratori) che hanno danneggiato la società. | Curatore fallimentare. (In bonis: la società stessa o soci di minoranza in certi casi). | Soci di S.r.l. (non tutti, ma quelli che hanno deliberato o autorizzato atti dannosi, o abusato di direzione unitaria). | Art. 2476 comma 7 c.c. (responsabilità dei soci verso società/creditori per atti gestionali eterodiretti). |
Azione verso sindaci o revisori | Danno al patrimonio sociale o ai creditori derivante da omesso controllo o omissioni dei sindaci/revisori. | Curatore fallimentare (subentrando alla società). | Sindaci, componenti organo di controllo o revisore contabile. | Art. 2407 c.c. (responsabilità sindaci). Art. 15 D.lgs. 39/2010 (revisori). In fallimento: art. 146 L.F. prev., ora implicito in art. 255 Cod. Crisi. |
Azione risarcitoria di terzi (extra-concorsuale) | Danno specifico a terzi (es: cliente truffato, dipendente infortunato per violazione norme). | Terzo danneggiato (parte civile nel penale o causa civile autonoma). | Amministratore autore del fatto illecito. (La società può essere co-responsabile). | Art. 2043 c.c. (responsabilità aquiliana generale); possibili specifiche (es: art. 2049 c.c. se la società risponde per fatto dei preposti). |
(La tabella mostra le principali azioni. In una procedura concorsuale, molte di queste confluiscono nelle azioni esercitate dal curatore, centralizzando le pretese risarcitorie.)
Come si vede, il sistema è complesso e finalizzato a coprire ogni ipotesi di nocumento ai vari interessi in gioco (società, creditori, soci, terzi) causato da una cattiva gestione. Nel contesto di una liquidazione giudiziale, in pratica, il curatore funge da pivot centrale per far valere la gran parte di queste responsabilità in sede unitaria (dinanzi al tribunale fallimentare o a quello civile in composizione specializzata, a seconda delle regole organizzative dei tribunali).
Profili di Responsabilità Penale degli Amministratori
Oltre alle responsabilità civili, gli amministratori di società incorsi in una liquidazione giudiziale possono dover rispondere di illeciti penali connessi alla gestione dell’impresa in crisi o al fallimento. La legge italiana punisce con vari reati le condotte fraudolente o gravemente imprudenti poste in essere dagli amministratori di un’impresa poi fallita. Questi reati sono tradizionalmente noti come reati fallimentari (disciplinati originariamente dalla Legge Fallimentare del 1942, R.D. 267/42, artt. 216-223). Anche con il nuovo Codice della Crisi, tali fattispecie incriminatrici permangono, sebbene il termine “fallimento” sia sostituito da “liquidazione giudiziale”. In attesa di un riordino organico, si ritiene applicabile in via di continuità la normativa previgente, adattata alla nuova procedura: in pratica, dove la legge penale parla di fallimento, oggi si intende riferita alla liquidazione giudiziale (come condizione oggettiva di punibilità). In questa sezione esamineremo i principali reati che possono coinvolgere un amministratore e le relative conseguenze.
Bancarotta Fraudolenta
Il reato principe in materia concorsuale è la bancarotta fraudolenta, previsto dall’art. 216 del R.D. 267/42 (ancora in vigore per la parte penale). Si tratta di un reato gravissimo, punito con la reclusione da 3 a 10 anni, che si configura quando l’imprenditore (o gli amministratori, nel caso di società) distraggono, occultano, dissipano o sottraggono beni della società pregiudicando i creditori, oppure eseguono pagamenti preferenziali a danno della par condicio, oppure falsificano, alterano o tengono in modo inidoneo le scritture contabili per ostacolare la ricostruzione del patrimonio, il tutto con dolo e in stato d’insolvenza conclamato. La bancarotta fraudolenta ha diverse sottocategorie:
- Bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione/occultamento/dissipazione: si ha quando l’amministratore volontariamente sottrae beni dal patrimonio della società, ad esempio vendendoli sottoprezzo a complici, tenendoli nascosti, appropriandosene personalmente, oppure li dissipa (spese folli e ingiustificate). È il caso classico dell’amministratore infedele che “svuota” la società poco prima del fallimento. Esempi: preleva ingenti somme dalla cassa senza giustificazione; cede l’asset principale a un prezzo irrisorio a un amico o parente; acquista beni o servizi inutili a costi esorbitanti per beneficio personale; mantiene diponibili somme su conti esteri non dichiarati. Queste condotte sono punite severamente perché considerato un vero e proprio frodo ai creditori.
- Bancarotta preferenziale: è una forma di bancarotta fraudolenta (sempre art. 216 L.F.) che si verifica quando l’amministratore, in stato di insolvenza già presente, soddisfa intenzionalmente un creditore a scapito degli altri, alterando la parità di trattamento. Ad esempio, paga integralmente un fornitore “amico” poco prima del fallimento, lasciando gli altri a bocca asciutta. Oppure rimborsa un finanziamento fatto da un parente. Questa condotta configura reato se avviene in prossimità del dissesto ed è volontaria. La ratio è che in insolvenza conclamata l’amministratore dovrebbe astenersi da scegliere chi pagare: ogni pagamento preferenziale riduce la massa disponibile per gli altri creditori. La pena è la stessa della bancarotta fraudolenta patrimoniale. Un caso peculiare di bancarotta preferenziale è quando l’amministratore paga sé stesso (ad esempio si liquida compensi arretrati o restituisce finanziamenti soci propri) poco prima del fallimento: anche questo è preferire un creditore (lui medesimo) agli altri. La giurisprudenza recente ha chiarito che se tali compensi erano congrui e dovuti per il lavoro svolto, la condotta è qualificabile come bancarotta preferenziale e non come distrazione fraudolenta, in quanto non c’è volontà di sottrarre risorse alla società ma solo di soddisfare un credito (seppur in modo preferenziale). Quindi, ad esempio, un amministratore che si paga un compenso ragionevole maturato, senza delibera, mentre altri creditori rimangono insoddisfatti, commette bancarotta preferenziale ma non appropriazione indebita – questa distinzione ha importanza in termini di configurazione ma la pena resta comunque di bancarotta fraudolenta.
- Bancarotta fraudolenta documentale: si ha quando l’amministratore occulta, distrugge o falsifica in tutto o in parte le scritture contabili, oppure le tiene in modo così irregolare e incompleto da non consentire la ricostruzione del patrimonio e del movimento d’affari. È un reato anch’esso punito con 3-10 anni. Ad esempio, non ha tenuto alcuna contabilità per anni, oppure ha distrutto i registri prima della dichiarazione di fallimento, oppure ha alterato le fatture per nascondere prelievi. Anche l’occultamento di documenti (nascondere i libri contabili per non consegnarli al curatore) rientra in questa fattispecie. Va sottolineato che non è necessario il dolo specifico di frodare i creditori, basta la consapevolezza di rendere difficoltosa la ricostruzione contabile. Tuttavia, la linea di demarcazione con la bancarotta semplice documentale (vedi oltre) è nella volontarietà: se l’amministratore ha tenuto male i conti per negligenza grave, si configura la bancarotta semplice; se invece volutamente ha creato caos contabile o ha nascosto registri, si configura la bancarotta fraudolenta documentale. Un esempio: se l’amministratore sparisce portando via i computer con la contabilità, è fraudolenta; se invece i conti sono un disastro per incuria ma non c’è traccia di occultamento deliberato, potrà essere qualificata come semplice.
Le pene per bancarotta fraudolenta (di qualsiasi tipo) sono significative: reclusione 3-10 anni, e come accennato comportano anche pene accessorie (interdizione dai pubblici uffici, dall’esercizio di imprese commerciali e dalle cariche societarie per 10 anni, incapace civile durante pena, ecc.). Trattandosi di reati commessi da soggetti qualificati (imprenditore o amministratore di società fallita), essi si perfezionano con la dichiarazione di fallimento: la sentenza di liquidazione giudiziale è condizione perché vengano contestati. Non c’è bancarotta se l’impresa non è insolvente conclamata; condotte analoghe potrebbero costituire altri reati (es. distrazione di beni può essere appropriazione indebita, falso in bilancio per i libri falsificati, ecc.), ma senza fallimento non si attiva l’apparato sanzionatorio fallimentare.
Esempi di bancarotta fraudolenta: Un amministratore che negli mesi antecedenti il fallimento trasferisce i beni dell’azienda alla propria nuova società lasciando solo debiti compie bancarotta patrimoniale fraudolenta. Se in più non tiene contabilità o la trucca per coprire queste uscite, avrà anche la bancarotta documentale fraudolenta. Se preferisce pagare un creditore particolare (es. restituisce un prestito al fratello) prima di portare i libri in tribunale, risponderà di bancarotta preferenziale. È possibile cumulare più condotte: spesso negli stessi fatti un amministratore viene accusato sia di bancarotta distrattiva (per i beni mancanti) sia documentale (per i libri spariti).
Difese e cause di non punibilità: La bancarotta fraudolenta è un reato di evento (dichiarazione di fallimento) e di dolo generico (distrarre beni volontariamente, etc.). Per difendersi, l’amministratore può cercare di dimostrare l’assenza di dolo e di aver agito eventualmente in buona fede. Ad esempio, per la contestazione di distrazione, sostenere che quel bene fu venduto a prezzo equo e nell’interesse della società (quindi negare la natura distrattiva). Oppure per la preferenza, sostenere che non sapeva dello stato d’insolvenza e ha pagato un creditore credendo di poter pagare anche gli altri. Sono difese difficili, ma possibili. In alcuni casi, la strategia è far riqualificare il fatto in bancarotta semplice (meno grave, v. dopo) sostenendo che non c’era malafede ma solo imprudenza. Ad esempio, se i libri contabili sono caotici, dire che fu incapacità e non volontà di frode – questo può far scendere la contestazione a bancarotta semplice documentale. Inoltre, l’amministratore può cercare di sanare parzialmente la situazione: pentimento attivo. Ad esempio, se consegna spontaneamente ai creditori o al curatore dei beni occultati o risarcisce in parte il danno, ciò potrà essere valutato come attenuante in sede di pena (non cancella il reato, ma può ridurre la pena sensibilmente). Va detto che per la bancarotta fraudolenta non esistono cause di estinzione legate al pagamento dei debiti (a differenza di alcuni reati tributari), salvo il caso particolare della bancarotta fraudolenta cosiddetta “riparata”: dottrina e giurisprudenza parlano di bancarotta riparata quando l’autore reintegra il patrimonio prima del fallimento, eliminando il danno. Se ad esempio l’amministratore aveva distratto 100 ma prima del fallimento restituisce i 100 alla società, viene meno l’elemento di danno ai creditori e in alcuni casi può escludersi il reato (o quantomeno viene meno l’aggravante del danno patrimoniale rilevante). Cassazione 2023 n. 2502 ha discusso di bancarotta riparata e prova del bonifico a favore della società: se l’amministratore dimostra di aver ristorato la società prima del dissesto, potrebbe evitare la condanna.
Bancarotta Semplice
Accanto alla bancarotta fraudolenta (dolo), esiste un reato meno grave chiamato bancarotta semplice (art. 217 R.D. 267/42), punito con reclusione fino a 2 anni (più lievi pene accessorie). Riguarda condotte meno dolose e più colpose. In particolare, scatta bancarotta semplice quando l’imprenditore (amministratore) ha, prima del fallimento:
- speso somme eccessive per bisogni personali o per lusso (es. si è attribuito compensi spropositati aggravando il dissesto);
- consumato una parte notevole del patrimonio in operazioni azzardate manifestamente imprudenti (ricorso abusivo al credito, ad esempio indebitarsi all’inverosimile per prolungare l’agonia, oppure speculazioni scriteriate);
- aggravato il dissesto per ritardo nell’istanza di fallimento (questo è cruciale: se l’amministratore ha tardato a dichiarare fallimento senza giustificato motivo e in quel frattempo la situazione è peggiorata, è bancarotta semplice);
- omesso di tenere i libri o li ha tenuti in modo irregolare per negligenza, senza però il fine di frode (bancarotta semplice documentale).
Insomma, la bancarotta semplice punisce la mala gestio gravemente imprudente o negligente. Non richiede il dolo di sottrarre beni o ingannare, basta la colpa grave. Ad esempio, se un amministratore non ha mai redatto un bilancio né tenuto le scritture perché ignorante in materia e la società fallisce, non c’è dolo di nascondere ma c’è colpa grave: bancarotta semplice documentale. Oppure se ha continuato a giocare in borsa col denaro sociale sperando in un colpo di fortuna e ha perso tutto – condotta imprudente punita come bancarotta semplice per operazioni d’azzardo.
Nel contesto del nuovo Codice della Crisi, che insiste sul dovere di attivarsi tempestivamente, possiamo prevedere che la fattispecie di bancarotta semplice da ritardata richiesta di fallimento (art. 217 n.4 L.F.) sarà spesso contestata se l’amministratore ha ignorato la crisi e tardato l’istanza. Questo reato era raramente applicato in passato (il ritardo si “assorbiva” spesso nel più grave danno da distrazione). Ma oggi, con l’esplicito obbligo di attivarsi, la sua importanza cresce: l’amministratore che, pur vedendo l’insolvenza, non chiede né concordato né fallimento e fa incancrenire i debiti, sarà quantomeno colpevole di bancarotta semplice.
Conseguenze penali: la bancarotta semplice comporta pena più bassa (massimo 2 anni, spesso si converte in pene minori o condizionale per incensurati). Tuttavia, non va sottovalutata perché è comunque una condanna penale con possibili interdizioni temporanee (anche se di solito più brevi, 2 anni max di interdizione dalle imprese). Può rovinare la reputazione e la carriera di un amministratore.
Difese: Trattandosi di reato colposo o preterintenzionale, la difesa sta nel dimostrare di non aver agito con quella negligenza qualificata richiesta. Ad esempio, se contestano il ritardo nel fallimento, provare che il ritardo era giustificato da tentativi concreti di salvataggio (es. trattative serie con investitori che sembravano andare a buon fine). Se contestano spese personali eccessive, provare che in realtà quelle spese erano funzionali all’attività (es. rappresentanza). Oppure invocare la particolare tenuità del fatto se i danni sono modesti (il nuovo art. 217 bis introdotto nel 2007 L.F. – non sappiamo se concettualmente mantenuto – esclude punibilità per bancarotta semplice documentale in caso di piccole aziende o scritture tenute con regolarità fiscale, etc.). In generale, la bancarotta semplice è spesso un “male minore” in confronto alla fraudolenta: a volte in giudizio si cerca un patteggiamento su bancarotta semplice in cambio della rinuncia all’accusa di fraudolenta.
Altri Reati Fallimentari e Societari
Oltre alle bancarotte, gli amministratori possono incorrere in ulteriori reati connessi al fallimento o comunque alla gestione societaria:
- Ricorso abusivo al credito: era previsto dall’art. 218 L.F., puniva l’imprenditore che continuava a fare credito sapendo di non poterlo restituire, aggravando il passivo. Era poco applicato come reato a sé, spesso confluisce nella bancarotta semplice (operazioni d’azzardo). Potrebbe sussistere se un amministratore ha ottenuto finanziamenti bancari nascondendo lo stato disastroso (spesso è pure truffa contrattuale verso la banca).
- Omessa dichiarazione di fallimento: reato di natura procedurale se l’imprenditore non collabora all’apertura della procedura. Questo nella prassi è assorbito dalle altre bancarotte (non è normalmente contestato a sé).
- Falso in bilancio: indipendentemente dal fallimento, un amministratore può rispondere del reato di false comunicazioni sociali (art. 2621 c.c. e seguenti) se ha falsificato bilanci o relazioni sociali. In caso di fallimento, spesso emergono falsi in bilancio commessi negli anni precedenti (per coprire perdite, per ottenere credito facile). Questi reati sono punibili con reclusione (fino a 3-8 anni se societá quotata, o 1-5 non quotata) e possono sommarsi alla bancarotta. Ad esempio, amministratore che per 3 anni ha occultato perdite con bilanci falsi e poi la società fallisce: sarà accusato di falso in bilancio per ciascun anno e anche di bancarotta (per la parte distrattiva/documentale eventuale). Talora i due si fondono: bilancio falso come mezzo per occultare distrazioni = concorso di reati.
- Altri reati societari: es. illegale ripartizione di utili o riserve (art. 2627 c.c.), indebita restituzione conferimenti (2626 c.c.), infedeltà patrimoniale (2634 c.c.). Molti di questi reati vengono sovrastati dalla bancarotta: se c’è fallimento, il fatto di aver restituito conferimenti o distratto utili sarà punito come bancarotta preferenziale o distrattiva, di solito. Comunque sono possibilità teoriche.
Reati Tributari connessi
Un amministratore di società fallita può trovarsi imputato anche di reati tributari relativi alla gestione fiscale pre-fallimentare. Questi reati (previsti dal D.lgs. 74/2000) colpiscono l’amministratore in quanto legale rappresentante che ha commesso il fatto. I più comuni in contesto di insolvenza sono:
- Omesso versamento di IVA (art. 10-ter D.lgs. 74/2000): se la società non versa l’IVA dovuta annualmente oltre soglia di €250.000, l’amministratore commette reato, punito con reclusione fino a 6 anni. Spesso accade che per far fronte alla crisi si decida di non pagare l’IVA per avere liquidità: se poi l’IVA non viene versata entro il termine previsto (di solito il 27 dicembre dell’anno successivo), scatta il reato. Il fallimento non estingue questo reato, anzi ne rende palese la volontarietà se i soldi non ci sono più. L’amministratore può difendersi sostenendo di non aver avuto liquidità per cause di forza maggiore (la giurisprudenza su ciò è altalenante: lo stato di necessità economica raramente viene accolto, ma se si prova che si pagarono prima stipendi per necessità aziendale e proprio non c’erano fondi, qualche giudice assolve per carenza di dolo).
- Omesso versamento di ritenute previdenziali o fiscali (art. 10-bis D.lgs. 74/2000 per ritenute fiscali, art. 2 L. 638/83 per contributi INPS): analoghi concetti, soglie di punibilità differenti. Anche qui la crisi di liquidità è spesso la causa: per pagare i dipendenti netti si sacrificano i versamenti all’Erario.
- Emissione di fatture per operazioni inesistenti o utilizzo delle stesse (artt. 2 e 8 D.lgs. 74/2000): in situazioni di sofferenza, qualche impresa ricorre a false fatturazioni per gonfiare costi o ottenere IVA a credito. Se scoperto, l’amministratore risponde penalmente (falso in atti fiscali). Nel fallimento spesso il curatore scopre partite di bilancio fittizie – ciò può portare a denunce per questi reati.
- Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 11 D.lgs. 74/2000): fattispecie collegata al dopo dell’insolvenza. Se l’amministratore, per evitare il pagamento di imposte, occulta o distrae beni in modo da rendere inefficace la riscossione coattiva, commette reato (punito fino a 6-7 anni se grave). Questo è parallelo alla bancarotta distrattiva ma focalizzato sull’intento di frodare il Fisco. Esempio: sapendo di avere grossi debiti IVA, cede l’azienda a terzi compiacenti per non farla pignorare dal fisco – è reato tributario. Spesso concorre con la bancarotta se poi la società fallisce, ma può esser contestato a sé (anche senza fallimento, se l’Erario tenta escussione e non trova beni per via delle sue manovre).
È evidente che, in caso di fallimento, l’amministratore rischia un cumulus di imputazioni: bancarotta(e) + reati tributari + reati societari. Le pene potrebbero sommarsi fino a prospettare condanne molto elevate. Nella realtà, però, i giudici tendono a comminare pene congrue al fatto complessivo con concorso formale o continuato, e a concentrare l’attenzione su reati maggiori (bancarotta fraudolenta prime fra tutte).
Simulazione pratica 2 (profili penali) – Caso Beta S.p.A.: Il CEO di Beta S.p.A., di fronte al peggiorare della crisi aziendale, negli ultimi 6 mesi prima del fallimento ha fatto quanto segue: (a) ha venduto macchinari aziendali a una ditta estera compiacente incassando €500.000 “in nero” su un suo conto personale; (b) ha omesso di versare circa €300.000 di IVA e €100.000 di ritenute fiscali per pagare invece fornitori e stipendi; (c) ha continuato ad acquistare merce a credito dai fornitori nonostante sapesse che la società non l’avrebbe mai pagata; (d) quando ha capito che il fallimento era imminente, ha fatto sparire i libri contabili e i computer con la contabilità. Una volta dichiarato il fallimento, emergono queste condotte. Sul piano penale, l’amministratore Beta sarà verosimilmente imputato di: bancarotta fraudolenta patrimoniale (per aver distratto i €500.000 dei macchinari a suo beneficio), bancarotta fraudolenta documentale (per aver occultato la contabilità), bancarotta semplice (per aver aggravato il dissesto comprando merce a credito in modo irresponsabile – anche se questo potrebbe essere visto come parte del disegno fraudolento e allora assorbito nella fraudolenta), omesso versamento IVA (reato tributario per i 300k IVA non versata) e omesso versamento ritenute (reato per i 100k). In più, il fatto di aver pagato i fornitori e stipendi con quelle somme e non l’IVA potrebbe configurare anche bancarotta preferenziale (i dipendenti e fornitori pagati vs Erario no). Tuttavia, è possibile che la preferenziale verso i fornitori venga assorbita dalla distrattiva se quei pagamenti erano fuori ordine. In ogni caso, il ventaglio è ampio. L’amministratore Beta, per difendersi, potrebbe cercare un patteggiamento riconoscendo le colpe su alcuni reati in cambio di una pena contenuta, oppure provare a sostenere che la vendita dei macchinari è servita a pagare stipendi (ma essendo finiti sul suo conto personale, questa difesa crolla). Potrebbe anche restituire i €500.000 al fallimento (magari li ha ancora): ciò potrebbe ridurre sensibilmente la pena, forse evitargli la massima severità, ma non lo esonererà dalle condanne. Con buona probabilità, Beta verrebbe condannato a una pena significativa (per es. 5 o 6 anni di reclusione comprensiva di tutti i reati in continuazione), con interdizione decennale dai diritti e dalle cariche.
Come difendersi penalmente? Le strategie difensive in ambito penale includono:
- Dimostrare assenza di dolo nelle condotte fraudolente (difficile, ma a volte sostenibile: es. i beni non erano destinati a sottrazione ma a garanzia di un creditore, etc.);
- Ottenere una derubricazione a reati meno gravi (da bancarotta fraudolenta a bancarotta semplice, da appropriazione indebita a semplice insolvenza civile);
- Collaborare attivamente con gli inquirenti e il curatore per mostrare pentimento (la collaborazione può consistere nel fornire informazioni su altri responsabili, consegnare spontaneamente beni occultati, ecc., che se non altro aiutano a dipingere l’imputato in luce migliore e spingere per una pena minore);
- Patteggiamento: spesso, per reati fallimentari, l’imputato sceglie di patteggiare la pena con l’accordo del PM, ottenendo uno sconto (anche 1/3) ed evitando un lungo processo dalle esiti incerti. Ciò consente di circoscrivere la pena ed eventualmente concordare quali capi riconoscere. Ad esempio, si patteggia ammettendo la bancarotta semplice e qualche profilo minore, evitando il rischio di condanna massima per fraudolenta – ma dipende dalla gravità delle prove;
- Sfruttare eventuali vizi procedurali: il fallimento è condizione obiettiva del reato, se per ipotesi il fallimento venisse revocato o annullato, anche il penale cadrebbe (situazione rara ma non impossibile, es. annullamento sentenza fallimento per vizio di procedura);
- Nel caso di reati tributari, una difesa efficace è pagare il dovuto prima del dibattimento: la legge prevede che per omesso versamento IVA/ritenute, se il debito tributario viene saldato integralmente dal reo prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, il reato è estinto. Questo in fallimento è arduo perché l’azienda è insolvente e l’amministratore spesso non ha quelle somme, ma se per esempio l’amministratore recuperasse risorse personali per pagare quell’IVA, non verrebbe punito per il 10-ter. Questa è una forte spinta per lui a trovare fondi (magari convincendo un garante a intervenire). Anche il patteggiamento nei reati tributari richiede di regola il pagamento del debito.
Conseguenze penali accessorie e implicazioni
Un amministratore condannato per bancarotta fraudolenta subirà quasi certamente:
- Interdizione dai pubblici uffici per 5-10 anni;
- Inabilitazione all’esercizio di impresa commerciale e decadenza da ogni carica di amministrazione presso qualsiasi impresa per 10 anni (questo è specifico per bancarotta fraudolenta, art. 216 ult. co. L.F.);
- Sospensione eventuale dell’ordine professionale se trattasi di professionista (ad es. un commercialista che era amministratore di società e condannato, verrà sospeso o radiato).
Queste misure significano che un amministratore condannato per reati fallimentari gravi non potrà assumere nuove cariche almeno per un decennio, e questo è un impatto enorme sulla sua vita professionale. Anche senza condanna, il solo status di indagato/imputato per bancarotta può comportare misure cautelari: è possibile ad esempio l’applicazione di misure interdittive in pendenza di processo (art. 290 c.p.p. prevede sospensione dagli uffici direttivi di persone giuridiche). E nei casi più gravi, se c’è pericolo di fuga o inquinamento prove, anche custodia cautelare in carcere o domiciliari.
Va anche considerato che i reati di bancarotta fraudolenta possono comportare la responsabilità amministrativa dell’ente (D.lgs. 231/2001) se commessi da apicali nell’interesse o vantaggio della società: però, trattandosi di atti che di solito danneggiano la società (distrazione di beni sociali a fini personali), non è frequente imputare l’ente per bancarotta, se non in situazioni peculiari.
Conseguenze Fiscali e Tributarie per gli Amministratori
In aggiunta alle implicazioni civili e penali, gli amministratori di società in liquidazione giudiziale possono dover fronteggiare anche conseguenze in ambito tributario. Due profili vanno distinti: (a) le possibili responsabilità personali patrimoniali per debiti tributari della società non soddisfatti; (b) le conseguenze sul piano di sanzioni amministrative tributarie.
Responsabilità patrimoniale personale per debiti tributari
Il principio di base è che, nelle società di capitali, i debiti fiscali della società rimangono a carico della società medesima. L’amministratore, in linea generale, non è personalmente obbligato al pagamento delle imposte dovute dalla società (altrimenti verrebbe meno la separazione patrimoniale). Tuttavia, l’ordinamento fiscale prevede alcuni casi in cui, a fronte di determinate condotte degli amministratori o liquidatori, l’erario può rivalersi sul loro patrimonio. La norma fondamentale è l’art. 36 del DPR 602/1973 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito). Questa disposizione stabilisce, in sintesi, che: se una società si scioglie e va in liquidazione, i liquidatori (e per estensione anche gli amministratori che hanno operato prima della liquidazione) sono tenuti al pagamento delle imposte dovute dalla società entro il limite dell’attivo della liquidazione distribuito ai soci o pagato ad altri creditori con preferenza indebita. In particolare, il comma 4 dell’art. 36 prevede che gli amministratori che nei due anni precedenti la messa in liquidazione hanno compiuto operazioni di liquidazione (cioè di fatto smobilizzo e distribuzione di attivo) o hanno occultato attività sociali anche tramite omissioni nelle scritture possano essere chiamati a rispondere in proprio dei debiti fiscali rimasti insoddisfatti.
In parole semplici: se prima del fallimento (o invece di far fallire regolarmente la società) gli amministratori hanno di fatto distribuito beni ai soci o preferito taluni creditori privando il Fisco di risorse, oppure hanno nascosto beni che potevano servire a pagare le tasse, l’Agenzia delle Entrate può emettere un atto di accertamento direttamente nei confronti degli amministratori per recuperare le imposte dovute, fino a concorrenza di quanto così distratto. La Cassazione ha più volte ribadito che questa è una obbligazione civile ex lege a carico di amministratori e liquidatori, autonoma rispetto al debito d’imposta e non solidale con esso. Significa che l’amministratore non diventa un co-debitore di tutte le imposte della società, ma ne risponde per fatto proprio se ha violato il dovere di destinare l’attivo al pagamento delle imposte prima di distribuirlo altrove.
Un esempio classico: la società cessa l’attività e vende tutti i beni, incassando 100. Con questi 100 l’amministratore paga fornitori e soci, e non paga €30 di imposte (IVA, IRES) dovute. L’erario può chiedere a lui personalmente quei €30, se quelle operazioni sono avvenute negli ultimi due esercizi prima della liquidazione e se il mancato pagamento è dipeso dal fatto che lui ha preferito altri. Questa responsabilità è frequentemente invocata soprattutto quando imprese vengono chiuse dolosamente per non pagare tasse (fenomeno delle “bare fiscali”, società svuotate e poi cancellate). Nel caso di fallimento, l’azione ex art. 36 compete all’Agenzia delle Entrate Riscossione, che emette cartella/avviso all’amministratore.
Bisogna dire che la giurisprudenza ha precisato che la responsabilità ex art. 36 non implica una successione nei debiti tributari, ma è una forma di risarcimento civile: “non pone coobbligazione nei debiti tributari a carico di tali soggetti, nemmeno se la società è cancellata”, ma configura un’obbligazione civile per violazione degli artt. 1176 e 1218 c.c. (diligenza e obblighi del mandatario). Pertanto, l’accertamento contro l’amministratore deve provare il suo comportamento scorretto (aver esaurito le disponibilità senza pagare il fisco, oppure aver occultato attivi). Se l’amministratore prova che non c’era nulla da pagare al fisco o che lui non ha compiuto atti di liquidazione pregiudizievoli, può evitare la responsabilità. Ad esempio, se l’attivo realizzato è stato interamente assorbito da debiti con privilegio superiore alle imposte (come stipendi, TFR, ipoteche bancarie) e nulla sarebbe comunque andato al fisco, l’amministratore non è responsabile (non ha distribuito indebitamente). Invece, se ha pagato debiti chirografari prima delle imposte o rimborsato soci, allora sì.
Nel contesto del fallimento, spesso questo accertamento verso amministratori viene fatto dopo la chiusura del fallimento, quando l’Erario quantifica l’insoddisfatto. Ma può essere fatto anche durante, per non perdere tempo.
Da tenere presente: l’art. 36 DPR 602/73 originariamente riguardava imposte sul reddito (IRPEG), poi è stato esteso ad altri tributi iscritti a ruolo. Oggi si ritiene applicabile anche ad IVA e altri tributi erariali. Le Sezioni Unite della Cassazione (sent. n. 2814/2020) hanno ulteriormente chiarito la natura di tale responsabilità, definendola “autonoma e di natura civilistica, con carattere sussidiario nei confronti dei soci”. I soci infatti possono rispondere anche loro ex art. 36, ma solo per somme percepite in sede di liquidazione (massimo quanto incassato).
Dunque, un amministratore di società fallita potrebbe, qualche tempo dopo, ricevere una cartella esattoriale intestata a lui per tasse non pagate dalla società. È un evento spiazzante per molti amministratori che pensavano di non dover nulla: “come, la mia S.r.l. è fallita, perché mi chiedono a me?” – Ecco, è l’art. 36 DPR 602/73.
Simulazione pratica 3 (responsabilità fiscale) – Caso Gamma S.r.l.: Gamma S.r.l. accumula debiti fiscali (IVA e IRES) per €200.000. Prima di fallire, l’amministratore di Gamma paga con le ultime disponibilità alcuni fornitori critici e restituisce ai soci un finanziamento soci, esaurendo la cassa. Il fallimento si chiude distribuendo nulla al fisco. L’Agenzia delle Entrate accerta che negli ultimi 2 anni l’amministratore ha pagato €150.000 ad altri soggetti invece di pagare le imposte. Pertanto gli notifica un atto ex art. 36 DPR 602/73 chiedendo €150.000 (limitatamente a quel che ha “dirottato”). L’amministratore potrebbe difendersi sostenendo magari che quei pagamenti erano obbligati per mantenere la continuità e sperare di salvare l’azienda (ma ormai il fallimento c’è stato, quell’argomento regge poco), oppure cercare vizi formali nell’atto. Se non paga spontaneamente, il fisco potrà pignorare beni personali dell’amministratore per recuperare.
Un caso particolare: azienda cancellata dal registro imprese senza fallimento. In tal scenario, l’art. 2495 c.c. prevede che i creditori insoddisfatti possano agire contro soci (fino a concorrenza di quanto hanno riscosso) e liquidatori (se il mancato pagamento è dipeso da colpa di questi). Ecco, l’art. 36 dpr 602/73 è la proiezione fiscale di questo: l’Agenzia può agire contro liquidatori/amministratori e soci per il credito fiscale rimasto. Quindi anche se l’azienda non fallisce ma viene semplicemente liquidata e cancellata, il fisco può far valere art. 36.
Sanzioni Amministrative Tributarie e altri effetti
Quando una società fallisce lasciando debiti tributari, il fisco normalmente insinua al passivo il proprio credito (imposte + interessi + sanzioni). Le sanzioni tributarie pecuniarie (per omessi versamenti, violazioni dichiarative, ecc.) di regola restano a carico della società e in fallimento sono chirografarie postergate (non hanno privilegio). L’amministratore non risponde delle sanzioni amministrative della società, a meno che non vi sia un provvedimento di escussione in proprio in base a quell’art. 36 già citato. Ma in generale, le multe fiscali restano in capo alla società fallita e sono inesigibili se la società è estinta post-fallimento.
Tuttavia, se l’amministratore ha commesso violazioni tributarie gravi, l’Agenzia può contestargli, oltre al penale, anche le sanzioni amministrative personali previste in alcuni casi (ad esempio, la normativa IVA può prevedere sanzioni a carico di chi commette irregolarità contabili). In pratica però, raramente l’erario cerca di escutere l’amministratore per sanzioni amministrative, preferisce concentrarsi sull’art. 36 per il recupero dell’imposta.
Inoltre, a seguito di fallimento, l’amministratore può essere inserito in apposite banche dati della Guardia di Finanza o Agenzia come soggetto collegato a un fallimento con debiti fiscali, il che può far scattare maggiori controlli se in futuro diventerà rappresentante di altre società. Ad esempio, se poi quell’amministratore apre una nuova società e chiede dilazioni di imposta, il fisco sarà più cauto.
Transazione fiscale: Un elemento da menzionare: nel contesto di un concordato preventivo o di accordi di ristrutturazione dei debiti, esiste la possibilità di proporre una transazione fiscale (art. 63 Codice Crisi, ex art. 182-ter L.F.) per stralciare in parte i debiti fiscali. Ma quando si è in liquidazione giudiziale, è troppo tardi per la transazione fiscale (vale fase concordataria). Quindi l’amministratore, per evitare guai fiscali personali, avrebbe dovuto eventualmente perseguire un concordato con transazione fiscale prima del fallimento: se fosse riuscito, avrebbe ridotto i debiti e il fisco non avrebbe ragione di agire contro di lui ex art. 36. In liquidazione giudiziale, il curatore può con l’autorizzazione ex art. 240 Codice Crisi aderire a definizioni agevolate fiscali (v. norme “saldo e stralcio” o rottamazioni cartelle) per abbattere il debito fiscale della massa, ma ciò incide poco sul ruolo degli ex amministratori.
Responsabilità per indebite compensazioni: Un altro rischio è se l’amministratore ha effettuato compensazioni illegittime di imposte (usando crediti inesistenti per non pagare contributi/tasse), allora può incorrere nel reato ex art. 10-quater D.lgs. 74/2000 (se importi oltre 50k euro), e il fisco potrà recuperare quelle somme come indebitamente non versate, potenzialmente anche verso di lui.
Contributi previdenziali non versati: Anche l’INPS può far valere responsabilità: l’art. 36 DPR 602/73 riguarda imposte, ma esiste una norma simile per contributi (art. 9-bis D.Lgs. 46/99) che rende responsabili liquidatori e amministratori per contributi non versati con gli stessi presupposti. Quindi, se nel fallimento restano contributi INPS non pagati e l’amministratore ha pagato altri creditori invece dell’INPS, quest’ultima potrebbe chiedere conto a lui. La Cassazione ha anzi affermato la generale applicabilità analogica dell’art. 36 anche ai contributi.
Sussidiarietà e benefondi dell’amministratore: In casi estremi, l’Agenzia delle Entrate può rilevare profili di concorso in evasione fiscale a carico dell’amministratore se la società ha commesso frodi (ma questo è penalmente trattato, non amministrativamente). Un amministratore che abbia usato la società come schermo per evadere fiscalmente (es. false fatture emesse) potrebbe essere chiamato a rispondere di una “pena pecuniaria” in sede 231/2001 se la società è senza beni – ma entriamo in campi molto specialistici.
In ogni caso, a differenza delle responsabilità civili e penali, quelle tributarie sono meno note ma possono avere effetti finanziari seri sull’amministratore: ad esempio pignoramenti di conti personali per recuperare IVA non versata. L’amministratore può tuttavia difendersi in Commissione Tributaria impugnando gli avvisi ex art. 36, cercando di provare di non aver fatto male il suo dovere.
Riassumendo i rischi tributari:
- L’amministratore può essere costretto a pagare di tasca propria le imposte della società rimaste insolute, se ha dolosamente o colposamente destinato altrove le risorse che dovevano soddisfare il Fisco. Questo avviene mediante specifici atti dell’AE, non automaticamente.
- L’amministratore può subire condanne penali per evasione o omesso versamento, come visto nella sezione penale, con relative multe e sanzioni accessorie (es. interdizione dagli uffici pubblici anche per reati tributari gravi).
- Non esiste invece un “ergastolo tributario” che impedisca a vita di amministrare società se c’è un fallimento alle spalle, ma è chiaro che l’Agenzia delle Entrate guarderà con sospetto future richieste di rateizzazioni da una società amministrata dallo stesso soggetto.
Come difendersi da una liquidazione giudiziale in qualità di amministratore
Dopo aver delineato il complesso scenario di rischi, è doveroso illustrare come un amministratore possa difendersi o tutelarsi, sia prima che la crisi sfoci in una liquidazione giudiziale, sia durante/dopo la procedura quando si attivano le azioni di responsabilità e i procedimenti penali.
Difese Preventive (quando la società è in crisi ma non ancora fallita)
La miglior difesa è sempre la prevenzione. Un amministratore che adotta le condotte virtuose previste dalla legge e dalla sana gestione riduce drasticamente il rischio di incorrere in responsabilità:
- Assetti adeguati e allerta interna: Come detto, avere un sistema di controllo di gestione e di monitoraggio dei flussi finanziari permette di accorgersi subito di problemi e intervenire. Ciò consente di non aggravare il dissesto involontariamente. Ad esempio, se l’amministratore dispone di report mensili che evidenziano perdite e calo liquidità, potrà congelare spese non essenziali tempestivamente. Questo lo metterà al riparo dall’accusa di non aver capito la situazione o di aver continuato ad indebitarsi incoscientemente.
- Consulenza professionale: Appena compaiono segnali di crisi, è buona pratica coinvolgere professionisti esperti (commercialisti specializzati in crisi, avvocati d’impresa). Essi possono consigliare le mosse giuste: predisporre piani di risanamento, attivare la composizione negoziata, trattare con banche e creditori strategici, e predisporre eventualmente una domanda di concordato preventivo. Farlo nei tempi giusti potrebbe salvare l’azienda. E anche se non la salva, dimostrerà che l’amministratore ha fatto tutto il possibile in modo corretto, il che è un ottimo argomento difensivo in sede di giudizio di responsabilità (“Ho tentato la strada concordataria per soddisfare i creditori, anziché lasciarli al fallimento senza nulla”).
- Trasparenza verso soci e organi di controllo: Un amministratore non dovrebbe nascondere la polvere sotto il tappeto. Se emergono perdite rilevanti, deve convocare subito l’assemblea (nel caso di S.p.A. o S.r.l. con più soci) come richiesto da legge. Questo perché un’omissione in tal senso (non convocare l’assemblea in presenza di perdita >1/3 capitale) è già di per sé inadempimento grave che espone a responsabilità. Al contrario, verbalizzare la situazione e chieder ai soci una decisione (ricapitalizziamo? liquidiamo?) tutela l’amministratore: se i soci poi non deliberano per tempo e la società va in decozione, l’amministratore potrà dire di aver fatto la sua parte (in S.r.l., però, l’amministratore ha comunque il dovere di non aggravare il dissesto anche se i soci latitano; ma almeno avrà tracciato la sua buona fede).
- Non improvvisare manovre potenzialmente illecite: In momenti di panico, amministratori inesperti possono essere tentati da “scorciatoie” illegali: ad es. vendere beni a parenti per evitare pignoramenti, o falsificare bilanci per ottenere altro credito. Questo è esattamente ciò che non bisogna fare. È preferibile affrontare apertamente la crisi (anche a costo di far emergere un’insolvenza conclamata) piuttosto che coprirla con atti poi facilmente smascherabili dal curatore. L’amministratore deve resistere alla pressione di soci o altri di “liberare” asset in loro favore prima del fallimento: tali atti verranno annullati (revocatoria fallimentare) e per giunta lui incorrerà in bancarotta. Meglio negoziare con tutti i creditori alla luce del sole una soluzione equa (es. un accordo di ristrutturazione con percentuale di soddisfo per tutti) piuttosto che pagare di nascosto solo alcuni.
- Documentare le decisioni e le ragioni sottostanti: È consigliabile che l’amministratore tenga traccia scritta delle scelte cruciali e delle motivazioni. Ad esempio, se decide di continuare l’attività nonostante perdite, redigere un verbale interno o una relazione spiegando: “ci attendiamo pagamento grosso da cliente X, perciò proseguiamo i lavori per consegnare l’ordine Y che ci darà margine…”. Se poi le cose vanno male, poter esibire questa documentazione mostra che la decisione, sebbene poi rivelatasi sbagliata, era ragionata e non avventata. Questo è un elemento che può fare la differenza tra colpa grave e condotta scusabile.
- Adeguata copertura assicurativa (D&O): Molte società sottoscrivono polizze Directors & Officers a favore degli amministratori, che coprono i danni civili causati a terzi (società o creditori) da atti degli amministratori, salvo dolo. Se presente, tale polizza può finanziare in tutto o in parte il risarcimento richiesto dal curatore, alleviando il peso sull’amministratore. Dal punto di vista difensivo, avere una polizza non evita la causa di responsabilità, ma può incentivare una transazione: il curatore sapendo della polizza potrebbe accettare, ad esempio, il massimale come pagamento a chiusura di ogni pretesa, liberando l’amministratore dal resto. È ovvio che le polizze non coprono atti dolosi (e le sentenze penali di bancarotta di solito escludono la copertura assicurativa), ma per negligenze o colpe, sì. Quindi, stipulare una D&O prima di tempi sospetti è una forma di tutela.
- Dimissioni: Una domanda frequente: “Conviene dimettersi da amministratore prima del fallimento per non aver noie?”. Dimettersi può limitare l’arco temporale della propria responsabilità (dopo le dimissioni subentrerà un liquidatore o altro che avrà la sua fetta di responsabilità). Abbiamo visto però che se le condotte dannose sono avvenute durante la propria gestione, le dimissioni non evitano azioni per quel periodo. Tuttavia, se uno è amministratore da poco e scopre un baratro di cui non era stato avvisato, può considerare di dimettersi per non essere coinvolto nel proseguo. Attenzione: la Cassazione ha stabilito che le dimissioni sono opponibili al fallimento anche se non iscritte al Registro Imprese, purché siano state formalizzate e comunicate alla società. Quindi un amministratore può difendersi da pretese riguardanti il periodo successivo alle sue dimissioni anche se la società non le aveva pubblicate. Ma deve poter provare di averle rassegnate regolarmente. In conclusione, dimettersi è arma a doppio taglio: se c’è ancora speranza di soluzione negoziale, meglio non abbandonare la nave; se è irreversibile e l’amministratore ritiene di aver fatto il possibile, può passare la mano (o chiedere un liquidatore nominato dal tribunale eventualmente). Le dimissioni non lo esonerano però da denunciare lo stato di insolvenza: se tutti gli amministratori si dimettono per non presentare istanza e la società resta senza guida, il tribunale può dichiarare il fallimento d’ufficio e loro risponderanno comunque per il ritardo.
Difesa durante la procedura e nei giudizi successivi
Una volta aperta la liquidazione giudiziale, l’amministratore deve cambiare approccio: ora non è più il timoniere, ma un soggetto sotto esame. Ecco come può difendersi al meglio in questa fase:
- Massima cooperazione col Curatore: Questo non si può enfatizzare abbastanza. Un amministratore collaborativo – che consegna spontaneamente tutti i documenti, fornisce spiegazioni chiare, aiuta il curatore a raccogliere crediti residui, segnala eventuali irregolarità compiute da altri – fa un’impressione nettamente migliore di uno reticente o ostile. Il curatore spesso ha voce in capitolo anche nelle indagini penali (redige relazioni al giudice delegato, può sporgere denuncia). Se percepisce dall’ex amministratore buona fede e collaborazione, potrebbe essere meno incline a spingere per azioni aggressive. Al contrario, amministratori che spariscono o ostacolano portano i curatori a segnalare tutto alla Procura con aggravanti. Inoltre, dal punto di vista pratico, cooperare con il curatore può persino evitare l’azione di responsabilità: può capitare che il curatore valuti che, visto l’atteggiamento costruttivo dell’amministratore (magari questi aiuta a individuare un asset nascosto da altri, o acconsente a mediazioni rapide su contenziosi), proporrà al comitato dei creditori di transigere invece di far causa, ottenendo un indennizzo dall’amministratore magari a fronte di rinuncia a pretese maggiori. Certo, questo dipende dal caso, ma c’è margine per trattative.
- Comunicare per tempo eventuali situazioni personali: Se l’amministratore è nullatenente o ha già altri creditori personali, farlo presente al curatore (documentatamente) può dissuaderlo dal spendere soldi della massa in cause lunghe. Ad esempio: se l’amministratore mostra di avere unicamente la casa con ipoteca e uno stipendio pignorato, il curatore valuterà che un giudizio di responsabilità potrebbe portare a un titolo inesigibile. Il curatore, pur avendo dovere di tutela creditori, deve valutare costi/benefici. Ci sono curatori che non citano amministratori palesemente incapienti perché è inutile. Per convincerlo dell’incapienza, la trasparenza dell’amministratore è utile (fornire la propria situazione patrimoniale, magari a seguito di un invito del curatore stesso a dichiarare i beni ex art. 242 L.F. prev.). Attenzione però: dichiarare il falso su proprio patrimonio può avere risvolti penali (reato di falsa informazione al curatore), quindi va fatto solo dicendo il vero.
- Impugnare tempestivamente eventuali provvedimenti esagerati: Se il tribunale fallimentare emette nei confronti degli ex amministratori provvedimenti di sequestro conservativo dei loro beni (possibile ex art. 273 Codice Crisi, su istanza del curatore, come misura cautelare per assicurare future azioni), l’amministratore può proporre reclamo per rimuoverli se ritiene manchi il fumus o il periculum. Non subire passivamente tali misure è importante: ad esempio, un sequestro sui beni può preludere a un’azione e a un giudizio in cui quella misura anticipa la condanna. Opporsi può far revocare o ridurre il sequestro, togliendo pressione.
- Negoziato per una transazione sulla responsabilità civile: Il Codice consente al curatore, con l’autorizzazione degli organi della procedura, di transigere le controversie. Ciò include le azioni di responsabilità. Spesso, se l’amministratore ha disponibilità limitate ma immediate (o una polizza assicurativa attivabile), può proporre di pagare una certa somma “a saldo e stralcio” per evitare la causa. Se la somma appare ragionevole, i creditori (o il giudice delegato) potrebbero approvare. Questo risolve definitivamente le pretese civili. Bisogna fare attenzione: transigere con il curatore non blocca eventuali procedimenti penali. Però, se l’amministratore risarcisce il danno ai creditori tramite transazione, in sede penale ciò sarà visto positivamente (poteva essere circostanza attenuante dell’avvenuto risarcimento del danno).
- Difesa legale nei giudizi civili: Se il curatore avvia la causa di responsabilità, l’amministratore dovrà difendersi attivamente in tribunale civile. È essenziale farsi assistere da avvocati esperti di diritto fallimentare e societario, per contestare sul merito e sul diritto le accuse (come discutevamo: mancanza nesso causale, applicare business judgment rule, prescrizione se possibile, ecc.). A volte, una robusta difesa può portare il curatore a più miti consigli e considerare un accordo. Ricordiamo anche che la prova spetta in parte al curatore. Se questi non riesce a dimostrare il nesso tra condotta e danno, l’amministratore può vincere. Ad esempio, ci sono stati casi in cui i giudici hanno rigettato azioni di responsabilità perché, pur accertata la mala gestio, il curatore non ha provato che l’attivo sarebbe stato sufficiente a pagare i creditori anche se l’amministratore avesse agito diversamente.
- Difesa penale: Sul fronte penale, la prima cosa è nominare un avvocato penalista esperto di reati fallimentari appena si viene a sapere di indagini (di solito l’ex amministratore viene convocato per interrogatorio dal curatore o dalla GdF come persona informata, o vede la perquisizione). Mai affrontare questi interrogatori senza consulenza: ogni parola può avere impatto. Spesso conviene collaborare anche con la Procura se si hanno spiegazioni plausibili, ma vanno calibrate con strategia. L’avvocato potrà consigliare se conviene patteggiare, o puntare a un proscioglimento per mancanza di dolo, ecc. Inoltre, patteggiare in sede penale per un amministratore che voglia voltare pagina può essere utile: definisce la vicenda con sentenza concordata (magari 2 anni con pena sospesa), ed evita un lungo processo mediatico. Però patteggiare significa ammettere colpa – ciò potrebbe avere riflessi nel civile (la sentenza penale di patteggiamento è pur sempre una condanna, sebbene non contenga accertamento dettagliato, può essere usata dal curatore come prova nel civile per dire “vedete, lui ha patteggiato la bancarotta, quindi è responsabile”). Bisogna valutare tempi: se il civile è già definito magari patteggiare non nuoce più.
- Esdebitazione personale: Questo strumento riguarda il fallito (persona fisica). Se l’amministratore è anche fallito personalmente (caso tipico: amministratore di SNC o SAS, fallisce anche lui), può chiedere l’esdebitazione a fine procedura per liberarsi dai debiti residui. Ma se era solo amministratore di S.r.l./S.p.A., lui personalmente non è fallito e non ha accesso a esdebitazione. Potrà tuttavia, se condannato a risarcimenti, cercare un concordato nelle esecuzioni con i creditori personali, etc. Non c’è un esdebitazione per amministratori, è per debitori insolventi.
- Reputazione: l’amministratore deve gestire anche l’impatto reputazionale. Spesso nei fallimenti di rilievo, la stampa locale cita i nomi. Se l’amministratore ritiene di avere valide giustificazioni, può considerare – previo parere legale – di rilasciare dichiarazioni pubbliche prudenti (ad es. “Abbiamo fatto il possibile, la crisi di settore ci ha travolti… coopererò con le autorità”). Ciò non influisce legalmente ma può mitigare il danno d’immagine e predisporre l’opinione pubblica a vederlo non come un truffatore a priori.
Dopo la chiusura del fallimento
Le vicende di responsabilità potrebbero protrarsi anche dopo la chiusura della procedura concorsuale. Ad esempio, se il curatore non ha agito o ha abbandonato l’azione di responsabilità, i singoli creditori potrebbero tentare causa diretta contro l’amministratore entro i termini di prescrizione. In tal caso, l’amministratore può eccepire che il curatore aveva esclusiva legittimazione durante la procedura (principio del paralisi delle azioni individuali in costanza di fallimento). Però a fallimento chiuso, se un creditore non soddisfatto vuole agire, c’è dibattito se possa farlo. La Cassazione sembrerebbe dire di sì, entro i 5 anni dal momento di percezione dell’insufficienza. In pratica, dunque, l’amministratore potrebbe dover difendersi da cause post-fallimentari isolate. In genere, se il curatore ha deciso di non agire è perché riteneva la causa debole; quindi un singolo creditore raramente avrà miglior fortuna (anche perché i documenti li ha il curatore, non il singolo). Comunque, l’amministratore dovrebbe conservare tutta la documentazione per diversi anni, anche dopo la fine, per poter eventualmente ancora difendersi.
Domande Frequenti (FAQ)
Q: Un amministratore di S.r.l. fallita risponde con il proprio patrimonio di tutti i debiti sociali?
A: No, non automaticamente. Gli amministratori non diventano garanti universali dei debiti della società per il solo fatto del fallimento. Rispondono però se viene accertato che hanno violato i loro doveri causando danni ai creditori o alla società. In tal caso, un giudice può condannarli a risarcire quei danni con il loro patrimonio. Quindi, non c’è responsabilità oggettiva per i debiti, ma c’è responsabilità soggettiva per mala gestione. Se hanno amministrato diligentemente e la società è fallita per cause esterne, l’amministratore non dovrà coprire i debiti residuali.
Q: Che differenza c’è tra le responsabilità in una S.r.l. e in una S.p.A. in caso di fallimento?
A: Le basi giuridiche sono simili: in entrambe gli amministratori rispondono verso la società (azione sociale) e verso i creditori (azione ex art. 2394 c.c.) in caso di cattiva gestione. Nelle S.p.A., l’azione è tipicamente esercitata per via istituzionale (assemblea o curatore). Nelle S.r.l., i singoli soci e anche terzi possono essere più attivi: ogni socio può denunciare il malfattore prima, e i soci o creditori possono essere coinvolti anche come bersagli (ad es. soci che hanno deciso atti dannosi possono essere citati). Ma concettualmente, le conseguenze per l’amministratore (civili e penali) non dipendono dal tipo di società di capitali. In cooperative, analogamente, i doveri sono quelli amministrativi e la responsabilità si configura allo stesso modo. La vera differenza è con le società di persone: lì i soci amministratori sono personalmente debitori per tutti i debiti sociali (illimitatamente), oltre a poter essere accusati di bancarotta come falliti personali. Nelle società di capitali c’è schermatura patrimoniale, salvo azioni di responsabilità per inadempienze.
Q: La liquidazione giudiziale comporta per l’amministratore un divieto di assumere altre cariche sociali in futuro?
A: Di per sé, la semplice dichiarazione di fallimento di una società non inibisce legalmente l’amministratore dal ricoprire altri ruoli in altre aziende (salvo settori specifici regolamentati che lo vietino per prassi). Tuttavia, se all’amministratore vengono contestati reati fallimentari e viene condannato, allora scattano le interdizioni: ad esempio condanna per bancarotta fraudolenta implica interdizione a esercitare uffici direttivi di imprese per 10 anni. Inoltre, anche senza condanna, è possibile che durante indagini gli venga applicata una misura interdittiva temporanea (es. sospensione dalle cariche fino a 1 anno). Quindi in pratica, se si verificano ipotesi di reato, può esserci un ban temporaneo o decennale. Se invece l’amministratore esce “pulito” dal fallimento (nessuna condanna), formalmente può amministrare altre società. Ovviamente però la sua reputazione creditizia potrebbe essere compromessa: banche, fornitori o partner saranno diffidenti sapendo del precedente fallimento.
Q: L’amministratore può evitare i reati di bancarotta dimettendosi prima che la società fallisca?
A: Le dimissioni non cancellano le responsabilità per gli atti compiuti durante la gestione. Un amministratore che abbia commesso distrazioni o irregolarità non si “immunizza” dimettendosi poco prima. Potrà semmai non essere coinvolto in ciò che succede dopo (es. atti compiuti dal successore). Ma se il crac deriva anche dalle sue azioni passate, ne risponderà lo stessoQ: L’amministratore deve pagare personalmente i debiti fiscali rimasti dopo il fallimento?
A: In generale no. I debiti tributari (IVA, imposte sui redditi, contributi) sono della società e con la chiusura del fallimento la società viene estinta anche per il Fisco. Tuttavia esiste un’eccezione: l’art. 36 del DPR 602/1973 prevede che se l’amministratore (o il liquidatore) ha ripartito attivi a soci o pagato taluni creditori in pregiudizio del Fisco negli ultimi due anni prima della liquidazione, l’Erario può chiedere a lui il pagamento delle imposte non soddisfatte, fino a concorrenza di quanto indebitamente destinato altrove. Quindi, se l’amministratore ha distratto risorse dal soddisfacimento delle imposte, rischia un’obbligazione personale verso l’Erario (di natura civilistica). Se invece ha agito correttamente e le imposte restano impagate solo perché l’attivo era insufficiente, il Fisco non può aggredire il suo patrimonio (salvo il caso di condotte penalmente rilevanti, in cui il giudice penale potrebbe imporre il risarcimento del danno all’Erario). In pratica, le cartelle esattoriali all’amministratore a posteriori si hanno solo in caso di comportamenti colpevoli ex art. 36 DPR 602/73.
Q: Cosa può fare un amministratore per tutelarsi se l’azienda è in difficoltà?
A: La parola d’ordine è tempestività. L’amministratore dovrebbe: 1) monitorare costantemente gli indici finanziari dell’impresa (liquidità, solvibilità) grazie ad adeguati assetti organizzativi introdotti dal Codice della Crisi; 2) appena emergono segnali di tensione, informare gli organi societari (soci, sindaci) e valutare con esperti le opzioni (piano di risanamento, ricerca nuovi soci, ristrutturazione del debito); 3) se la situazione degenera, attivare gli strumenti di allerta e composizione negoziata (richiedere l’esperto indipendente, tentare accordi con creditori) per evitare il default; 4) non aggravare il passivo: evitare nuove spese se non strettamente necessarie alla conservazione del valore, non accumulare ulteriori debiti insostenibili, non pagare preferenzialmente soggetti non autorizzati; 5) se non c’è alternativa, richiedere egli stesso il concordato preventivo o la liquidazione giudiziale senza indugio. Così facendo, l’amministratore si conforma ai suoi doveri di legge e può evitare di incorrere in responsabilità: ad esempio, attivando un concordato evita le contestazioni di ritardato fallimento; collaborando nella crisi mostra buona fede, il che esclude il dolo dei reati fallimentari (niente bancarotta fraudolenta se non ci sono atti distrattivi). In breve, la miglior difesa è una gestione proattiva e trasparente della crisi.
Fonti
Fonti normative:
- Codice Civile: artt. 2086 (obbligo assetti adeguati), 2381, 2392 (responsabilità amministratori verso la società), 2393 (azione sociale di responsabilità), 2394 (responsabilità verso creditori), 2394-bis c.c. (legittimazione del curatore nelle azioni di responsabilità in caso di liquidazione giudiziale), 2407 (responsabilità sindaci), 2476 (responsabilità amministratori S.r.l. verso società, soci e creditori), 2484-2486 (cause di scioglimento e doveri conseguenti; in particolare art.2486 comma 3 quantificazione del danno per gestione continuata oltre causa di scioglimento), 2495 (effetti della cancellazione della società e responsabilità di liquidatori e soci).
- Regio Decreto 16 marzo 1942 n. 267 (vecchia Legge Fallimentare): artt. 16-17 (sentenza dichiarativa di fallimento), 42 (effetti sui poteri del fallito e degli amministratori), 49 (obblighi del fallito, richiamati per gli amministratori dall’art.146 L.F.), 146 (azione di responsabilità contro amministratori, sindaci e soci di S.r.l., ora trasfuso negli artt.254-255 Cod. Crisi), 216-217 (reati di bancarotta fraudolenta e semplice commessi da amministratori di società fallita), 218 (ricorso abusivo al credito), 223 (estensione ai non imprenditori, es. direttori generali e sindaci, delle pene di bancarotta). (NB: Queste disposizioni penali della L.F. del 1942 restano in vigore anche dopo l’entrata in vigore del Codice della Crisi, con adeguamento terminologico da “fallimento” a “liquidazione giudiziale”).
- D.Lgs. 12 gennaio 2019 n. 14 – Codice della Crisi d’impresa e dell’Insolvenza (CCI): art. 375 (modifica art.2086 c.c.), art. 378 (modifica art.2486 c.c. introducendo il co.3 sulla presunzione di danno), art. 40 (obbligo di presentazione dell’istanza di liquidazione giudiziale), art. 54 (doveri di gestione e obbligo di segnalazione degli organi di controllo, entrata in vigore posticipata), art. 115 CCI (azioni del liquidatore giudiziale in caso di concordato con cessione di beni: legittimazione a esercitare l’azione sociale di responsabilità e legittimazione concorrente dei creditori all’azione ex 2394 c.c.), artt. 254-255 CCI (Liquidazione giudiziale delle società – Doveri di collaborazione degli amministratori e azioni di responsabilità verso amministratori, organi di controllo e soci di S.r.l. – sostanzialmente riproducono l’art.146 L.Fall. in vigenza), art. 256 (sospensione delle azioni esecutive e di iniziative individuali dei creditori in pendenza di liquidazione giudiziale), art. 268 (liquidazione controllata per debitori minori), art. 270 (esdebitazione dell’imprenditore insolvente). (Codice come da ultimo modificato dal D.Lgs. 17 giugno 2022 n. 83 – c.d. “Correttivo 2022”, e dal D.Lgs. 13 settembre 2024 n. 136 – “Correttivo 2024”).
- D.P.R. 29 settembre 1973 n. 602, art. 36 (“Responsabilità ed obblighi dei liquidatori e degli amministratori” in caso di mancato pagamento di imposte sul reddito) – esteso dall’ art. 2 D.Lgs. 26/02/1999 n. 46 anche ad IVA e contributi – che pone a carico di amministratori e liquidatori un’obbligazione per le imposte non pagate dalla società di cui hanno soddisfatto altri creditori (responsabilità “per obbligazione propria ex lege”).
- D.Lgs. 10 marzo 2000 n. 74 (reati tributari): art. 10-bis (omesso versamento di ritenute fiscali), art. 10-ter (omesso versamento IVA oltre soglia) – soglia €250.000 –, art. 10-quater (indebita compensazione crediti inesistenti), art. 11 (sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte). Prevede causa di non punibilità se i debiti tributari vengono integralm. pagati prima del dibattimento (per i reati omissivi).
- D.Lgs. 8 giugno 2001 n. 231: art. 25-ter (responsabilità amministrativa dell’ente per reati societari come false comunicazioni sociali); NB: i reati fallimentari non rientrano nel catalogo 231, ma es. il falso in bilancio sì.
- Leggi speciali rilevanti: D.L. 118/2021 conv. L. 147/2021 (introduzione composizione negoziata), D.Lgs. 147/2020 (primo correttivo Codice Crisi), L. 3/2012 (procedure da sovraindebitamento per soggetti non fallibili), Codice Penale art.2621-2622 (false comunicazioni sociali), art.640 (truffa), ecc., per eventuali condotte criminose connesse.
Fonti giurisprudenziali:
- Cassazione Civile, Sez. I, 17/05/2021 n. 13221 – In tema di azione di responsabilità esercitata dal curatore, le dimissioni dell’amministratore sono opponibili al fallimento anche se non iscritte al Registro Imprese, purché l’amministratore le abbia ritualmente rassegnate (non può estendersi la sua responsabilità ai fatti avvenuti dopo le dimissioni per sola mancata pubblicità).
- Cassazione Civile, Sez. I, 06/02/2023 n. 3552 – L’azione ex art. 2394 c.c. (responsabilità verso creditori sociali), ancorché esercitata dal curatore ai sensi dell’art.146 L.F., si prescrive in 5 anni dal momento in cui i creditori possono percepire l’insufficienza patrimoniale (presuntivamente dalla sentenza di fallimento). La decorrenza può individuarsi nel fallimento salvo prova di conoscenza anticipata; grava sull’amministratore l’onere di provare un dies a quo anteriore (insorgenza conclamata del deficit prima della procedura).
- Cassazione Civile, Sez. V – Tributaria, 04/06/2024 n. 15580 – La responsabilità del liquidatore ex art.36 DPR 602/73 ha natura civilistica autonoma, per obbligazione propria ex lege (in base agli artt.1176 e 1218 c.c.), e non configura una coobbligazione solidale nel debito tributario originario. Essa richiede due condizioni: che il credito tributario sia iscritto a ruolo e non soddisfatto con l’attivo della liquidazione, e che vi sia prova che il liquidatore (o gli amministratori negli ultimi 2 esercizi) abbia ripartito attivo ad altri o occultato cespiti durante la liquidazione. (Conforme Cass. SS.UU. 1985 n. 2820; Cass. 2019 nn.17020 e 29969).
- Cassazione Penale, Sez. V, 31/08/2023 n. 36416 – In tema di bancarotta fraudolenta, spetta al giudice valutare se il prelievo di somme da parte dell’amministratore in assenza di delibera assembleare costituisca una distrazione sanzionabile o piuttosto una semplice soddisfazione anticipata di un credito verso la società: “la condotta di un amministratore che preleva somme dalle casse sociali senza delibera, ma proporzionate al lavoro svolto, integra bancarotta preferenziale e non distrattiva, qualora il pagamento configuri una preferenza indebita verso se stesso e non sia volto a sottrarre risorse alla società”. (Principio di distinzione tra distrazione patrimoniale e soddisfacimento preferenziale: in questo caso il compenso congruo è considerato pagamento preferenziale).
- Cassazione Penale, Sez. II, 23/01/2024 n. 2885 – In tema di responsabilità penale dell’amministratore “di diritto” di una società per fatti commessi dall’“amministratore di fatto”: “va escluso che l’amministratore formale debba rispondere automaticamente, per il solo titolo formale, dei reati commessi da altri soggetti nell’attività societaria; occorre invece la piena prova della sua compartecipazione materiale e morale al fatto”. (Nella specie, annullata la condanna dell’amministratore di diritto perché il giudice di merito si era limitato a ritenere “implausibile” la sua estraneità senza prove concrete di suo apporto alla condotta illecita).
- Cassazione Penale, Sez. V, 29/01/2021 n. 4865 – In tema di amministratore di fatto, ai fini della configurabilità dei reati fallimentari, è necessaria la prova dello svolgimento in modo continuativo e significativo dei poteri tipici della funzione gestionale. Inoltre, la tenuta irregolare delle scritture dopo le dimissioni dell’amministratore di diritto non può comportare responsabilità di quest’ultimo per bancarotta documentale, a meno di prova di sua ingerenza prolungata.
- Cassazione Penale, Sez. I, 20/04/2021 n. 14704 – (Massima Ufficiale) In ipotesi di azione di responsabilità ex art. 146 l.f. per prosecuzione abusiva dell’attività (ricorso abusivo al credito) violando l’obbligo di cui all’art. 2486 c.c., è legittimo il criterio equitativo del differenziale dei netti patrimoniali per liquidare il danno, qualora la ricostruzione analitica sia impossibile. (Conferma la liceità dell’applicazione presuntiva poi normativizzata dall’art. 2486 c.3 c.c.).
(Altre pronunce rilevanti: Cass. SS.UU. civ. 7029/2006 su legittimazione esclusiva del curatore ex art.146 L.F.; Cass. civ. 7327/2012 e SS.UU. 22413/2018 su natura dell’azione ex art.36 DPR 602/73; Cass. pen. 13227/2016 su attenuanti in bancarotta fraudolenta, etc.)
Liquidazione Giudiziale: Difendi Subito Te Stesso e la Tua Azienda con Studio Monardo
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Conclusione
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Agire subito è l’unico modo per proteggere la tua impresa, i tuoi beni e il tuo futuro.
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