Liquidazione Giudiziale: Costi, Tempi E Procedura

La tua impresa non riesce più a far fronte ai debiti e temi l’apertura di una liquidazione giudiziale?

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati con esperienza diretta nella gestione delle crisi aziendali – è stata pensata per accompagnarti passo dopo passo in una fase delicata, evitando errori e proteggendo ciò che conta davvero.

Scopri cos’è la liquidazione giudiziale, quali sono le conseguenze concrete per l’azienda, gli amministratori e i soci, cosa puoi fare prima che venga aperta la procedura e quali strumenti legali ti permettono di gestire il debito in modo alternativo, come il sovraindebitamento o la transazione fiscale.

Alla fine della guida troverai tutti i riferimenti per richiedere una consulenza riservata, confrontarti con un avvocato esperto e valutare insieme la soluzione più adatta per limitare i danni e difendere il tuo futuro.

Guida di Studio Monardo alla Liquidazione Giudiziale (ex “Fallimento”)

Introduzione

La liquidazione giudiziale è la procedura concorsuale introdotta dal Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (D.Lgs. 12 gennaio 2019 n. 14, di seguito CCII), che ha sostituito il tradizionale fallimento a partire da luglio 2022. Si tratta di uno strumento giuridico finalizzato alla liquidazione del patrimonio di un imprenditore insolvente (persona fisica o società) e alla ripartizione del ricavato tra i creditori secondo le regole di legge. In altri termini, la liquidazione giudiziale è una procedura collettiva che mira a soddisfare in modo ordinato i creditori di un debitore non più in grado di far fronte regolarmente alle proprie obbligazioni.

Il CCII ha modernizzato la disciplina delle crisi d’impresa, mantenendo però l’impianto concettuale fondamentale del fallimento: la liquidazione giudiziale rimane la procedura liquidatoria per eccellenza, attivabile in presenza dello stato d’insolvenza di un’impresa commerciale. Il termine insolvenza indica la situazione di definitiva incapacità del debitore di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni con mezzi normali, manifestata da inadempimenti o da altri fatti esteriori rivelatori di tale incapacità. Questo stato, che va ben oltre la semplice crisi temporanea di liquidità, è il presupposto oggettivo essenziale per l’apertura della liquidazione giudiziale. La finalità pubblicistica della procedura è duplice: rimuovere dal mercato l’impresa insolvente (evitando che continui ad aggravare la propria esposizione) e tutelare paritariamente i creditori, impedendo che alcuni possano soddisfarsi in via privilegiata a scapito di altri.

La guida che segue, scritta in linguaggio tecnico-giuridico ma con intento divulgativo, offre un quadro completo della liquidazione giudiziale nell’ordinamento italiano (aggiornato a maggio 2025). Verranno esaminati i presupposti per l’accesso alla procedura, il suo iter nelle varie fasi, gli attori coinvolti e i relativi ruoli, nonché gli effetti patrimoniali e personali prodotti dalla dichiarazione di liquidazione giudiziale. Saranno inoltre analizzati i costi della procedura e i tempi medi di svolgimento, con il supporto di tabelle riepilogative che sintetizzano fasi, attori, costi, tempistiche e obblighi. Una sezione di FAQ (domande frequenti) affronterà i dubbi più comuni di imprenditori e professionisti. Non mancheranno, nel corso della trattazione, i riferimenti alla normativa vigente (CCII e leggi collegate) e alle principali pronunce giurisprudenziali (Corte di Cassazione e tribunali di merito) che hanno chiarito aspetti rilevanti della materia. In fondo, una Bibliografia elencherà tutte le fonti normative, dottrinali e giurisprudenziali citate.

Presupposti per l’apertura della liquidazione giudiziale

Perché un’impresa possa essere assoggettata a liquidazione giudiziale occorre la presenza di specifici presupposti, sia di carattere soggettivo (relativi alla natura e dimensione del debitore) sia oggettivo (lo stato d’insolvenza dell’impresa). Inoltre, la legge individua chi sono i soggetti legittimati a richiedere l’apertura della procedura e disciplina il procedimento con cui il tribunale accerta i presupposti e dichiara eventualmente la liquidazione giudiziale.

Presupposti soggettivi

La liquidazione giudiziale riguarda gli imprenditori commerciali insolventi che superino determinate soglie dimensionali. In linea con la previgente legge fallimentare, sono esclusi dall’ambito di applicazione gli imprenditori “minori” di piccola dimensione e alcuni soggetti particolari. In sintesi:

  • Imprenditori soggetti: può essere dichiarato in liquidazione giudiziale l’imprenditore che esercita un’attività d’impresa commerciale, individuale o collettiva (società di persone o di capitali), incluse le società cooperative. Restano esclusi gli imprenditori agricoli (tutelati da un’esenzione storica) e gli enti pubblici.
  • Dimensioni dell’impresa: l’imprenditore commerciale è assoggettabile alla procedura solo se non si qualifica come “piccolo” ai sensi di legge. Il CCII riprende la definizione di impresa minore già prevista in passato: sono considerati di piccole dimensioni (e dunque non fallibili) coloro che, negli ultimi tre esercizi (o dall’inizio attività, se più breve), non hanno superato congiuntamente i seguenti parametri: (1) attivo patrimoniale annuo ≤ €300.000, (2) ricavi lordi annui ≤ €200.000, (3) debiti totali ≤ €500.000. Se l’impresa rientra in tutti questi limiti, non è soggetta a liquidazione giudiziale ordinaria – le crisi di tali micro-imprese possono eventualmente trovare soluzione nelle procedure di sovraindebitamento (oggi liquidazione controllata del debitore) previste per i soggetti non fallibili.
  • Soggetti particolari: restano esclusi dalla liquidazione giudiziale gli altri debitori civili non imprenditori (consumatori, professionisti, start-up innovative non commerciali, etc.), i quali però dispongono di strumenti concorsuali ad hoc (accordi di ristrutturazione per alcuni, oppure le procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento ora riordinate nel CCII). Inoltre, imprese sottoposte a vigilanza pubblica come banche, intermediari finanziari, assicurazioni e altri enti speciali seguono procedure liquidatorie proprie (ad es. liquidazione coatta amministrativa o amministrazione straordinaria) e non la liquidazione giudiziale ordinaria. In caso di dubbi sulla qualificazione dell’attività (commerciale vs agricola) o sulle dimensioni, sarà il tribunale a valutare se il soggetto rientra nell’ambito della procedura concorsuale.

Da quanto sopra emerge che la liquidazione giudiziale si applica principalmente alle imprese commerciali medio-grandi insolventi. Ad esempio, una società di capitali insolvente sarà generalmente soggetta a liquidazione giudiziale, mentre un piccolo imprenditore individuale con debiti modesti potrebbe essere esentato e semmai accedere alla liquidazione controllata (ex legge sul sovraindebitamento).

Presupposto oggettivo: lo stato d’insolvenza

Il presupposto oggettivo indefettibile per l’apertura della procedura è lo stato di insolvenza del debitore. L’art. 2, comma 1, lett. b) CCII definisce l’insolvenza in modo analogo alla vecchia legge fallimentare: essa si manifesta con inadempimenti od altri fatti esteriori che dimostrino che il debitore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni. In sostanza, l’impresa si trova in una situazione di grave e non transitoria difficoltà economico-patrimoniale, tale da rendere impossibile far fronte ai debiti alle scadenze concordate con i mezzi finanziari ordinari.

È importante sottolineare che l’insolvenza va distinta dalla mera crisi o difficoltà temporanea: la crisi indica uno squilibrio reversibile (ad esempio tensione di liquidità), mentre l’insolvenza è uno squilibrio strutturale e definitivo, in cui l’imprenditore ha perso la normale capacità di pagamento. Spesso l’insolvenza si manifesta con il mancato pagamento di debiti scaduti, protesti, decreti ingiuntivi non onorati, pignoramenti infruttuosi, fuga o chiusura improvvisa dell’azienda, ecc. Tali indici sono sintomatici e possono essere utilizzati dal tribunale per accertare la sussistenza dello stato d’insolvenza. La Corte di Cassazione ha chiarito che la valutazione è complessiva: non conta solo l’eventuale insufficienza patrimoniale (passivo eccedente l’attivo), ma soprattutto l’incapacità funzionale di soddisfare regolarmente i creditori, desunta dal comportamento con i creditori e dall’analisi finanziaria globale.

Accanto all’insolvenza, la legge richiede un ulteriore parametro oggettivo di sbarramento: l’entità minima dei debiti scaduti e non pagati. Attualmente (2025) la soglia è fissata in €30.000: non si procede alla liquidazione giudiziale se il debitore ha debiti scaduti complessivamente inferiori a 30.000 euro. Questa soglia di “non fallibilità” evita di coinvolgere il tribunale per insolvenze di importo trascurabile. Va precisato che si considera l’ammontare globale dei debiti scaduti: ad esempio, se il debitore ha più debiti che sommati superano €30.000, la soglia è superata, anche se singolarmente i crediti fossero inferiori. La Cassazione ha infatti affermato che il limite va riferito al totale dell’esposizione debitoria scaduta, non essendo necessario che il singolo creditore istante vanti un credito sopra soglia. La verifica di tale requisito avviene nella fase prefallimentare (istruttoria): se dall’istruttoria risulta che i debiti scaduti del debitore non raggiungono €30.000 in totale, il tribunale non dichiara la liquidazione giudiziale (dovendo respingere l’istanza per difetto del presupposto quantitativo).

Ricapitolando, i due requisiti oggettivi-quantitativi sono: insolvenza conclamata + debiti scaduti ≥ €30.000. In presenza di questi (e dei requisiti soggettivi visti sopra), l’impresa è fallibile e può essere avviata la procedura concorsuale.

Soggetti legittimati a richiedere la procedura

L’iniziativa per l’apertura della liquidazione giudiziale può provenire da diversi soggetti espressamente indicati dalla legge (art. 40 CCII). In particolare, sono legittimati a presentare ricorso al tribunale per ottenere la dichiarazione di liquidazione giudiziale:

  • Il debitore stessoIstanza di autofallimento: l’imprenditore insolvente può chiedere al tribunale di essere assoggettato a liquidazione giudiziale, presentando un ricorso volontario. Spesso ciò avviene quando l’imprenditore prende atto dell’insolvenza irreversibile e sceglie di collaborare attivamente aprendo la procedura (ad esempio, per evitare aggravamenti o iniziative esecutive disordinate). L’istanza del debitore non è un’ammissione di responsabilità, ma una facoltà prevista per consentire una gestione più ordinata della crisi.
  • Uno o più creditoriIstanza di fallimento da creditori: qualunque creditore non soddisfatto alle scadenze (fornitori, banche, dipendenti per stipendi, Fisco per tasse, ecc.) può depositare ricorso per la dichiarazione di insolvenza del debitore, al fine di attivare la tutela concorsuale. È questa la situazione più frequente nella prassi: il fallimento (ora liquidazione giudiziale) è spesso provocato da un creditore esasperato dall’inadempimento. Più creditori possono presentare istanza congiunta, ma ne basta anche uno solo (purché munito di credito certo, scaduto, non interamente soddisfatto). In genere è escluso l’abuso: non è lecito minacciare strumentalmente il fallimento se non vi è reale insolvenza, ma è lecito usarne la prospettiva come pressione, tanto che molti creditori insinuano il timore della procedura per ottenere pagamenti.
  • Il Pubblico Ministero (PM): il Procuratore della Repubblica presso il tribunale competente può attivarsi richiedendo la dichiarazione di liquidazione giudiziale, quando emergono notizie di insolvenza nell’esercizio delle sue funzioni (ad esempio in sede penale o di vigilanza). Tipicamente, il PM presenta istanza se rileva situazioni di insolvenza durante indagini su reati societari o tributari, oppure in caso di fuga dell’imprenditore, irregolarità gravi, ecc. Il suo intervento è d’ufficio a tutela di interessi generali (prevenire dissesti fraudolenti). Va ricordato che il PM può agire solo se l’insolvenza risulta da fonti qualificate (come denunce, processi in corso, verbali di autorità di vigilanza, segnalazioni dei giudici civili).
  • Gli organi di controllo e vigilanza dell’impresa: il CCII prevede espressamente che i soggetti che svolgono funzioni di controllo sull’impresa possono attivare la procedura. Ci si riferisce, ad esempio, ai membri degli organi di controllo societario interno (come il collegio sindacale o il revisore contabile), i quali hanno il dovere di segnalare la crisi ai sensi dell’art. 25 CCII e, in casi estremi, possono informare il tribunale. Inoltre, in certi settori, autorità di vigilanza esterne (es. Banca d’Italia, IVASS) possono segnalare al PM o attivare le procedure specifiche di liquidazione coatta. In generale, questa categoria sottolinea come anche chi controlla l’impresa dall’interno (sindaci, revisori) abbia l’onere di non restare inerte di fronte all’insolvenza conclamata, potendo persino promuovere la liquidazione giudiziale per salvaguardare i creditori.

Si noti che i soci di società di persone illimitatamente responsabili (ad es. soci di SNC) non rientrano tra i legittimati autonomi a chiedere il fallimento della società, sebbene la loro insolvenza sia collegata a quella sociale. Tuttavia, qualora la società venga dichiarata insolvente, la sentenza si estende di diritto anche ai soci illimitatamente responsabili (art. 256 CCII, già art. 147 l.f.), comportando la liquidazione congiunta dei patrimoni dei soci. I singoli soci di società di capitali invece non hanno legittimazione a chiedere il fallimento della propria società (possono semmai deliberarne la liquidazione volontaria se solvibile, ma non attivare la procedura concorsuale).

Infine, non è ammessa in Italia la dichiarazione di fallimento d’ufficio da parte del tribunale senza istanza di parte: occorre sempre l’iniziativa di uno dei soggetti sopra indicati. Se nessuno agisce, l’insolvenza, per quanto grave, non sfocia in liquidazione giudiziale (salvo eventuali responsabilità degli organi per omessa attivazione).

Competenza territoriale e procedimento dichiarativo

La domanda (ricorso) di apertura della liquidazione giudiziale va presentata dinanzi al Tribunale competente per territorio, individuato normalmente nel luogo in cui l’impresa ha il centro principale dei suoi interessi. Per le imprese iscritte nel Registro delle Imprese, coincide di regola con la sede legale; per l’imprenditore individuale, con la sede effettiva dell’attività (domicilio dell’impresa). Tale criterio di competenza territoriale è stabilito dall’art. 27 c.p.c. e recepito dal CCII, ed è armonizzato con il concetto di COMI (center of main interests) previsto dal Regolamento UE 2015/848 in caso di insolvenze transfrontaliere. Dunque, un imprenditore italiano verrà dichiarato insolvente dal tribunale del luogo della sede principale dell’impresa. Se la competenza è italiana ma esistono stabilimenti secondari all’estero, potrà esservi coordinamento con eventuali procedure estere secondarie, secondo il diritto UE.

Procedimento prefallimentare: ricevuto il ricorso (sia esso del debitore, di un creditore o del PM), il tribunale deve prima verificare i presupposti in contraddittorio con il debitore. Si apre così una fase istruttoria detta comunemente fase prefallimentare o fase di accertamento, regolata dagli artt. 40-43 CCII. Il tribunale fissa con decreto la data dell’udienza in cui discutere l’istanza, ordinando la notifica del ricorso e del decreto al debitore insolvente (a cura della parte istante). Il termine di comparizione è di almeno 15 giorni liberi (salvo riduzioni in caso d’urgenza). In udienza, il collegio (Tribunale in composizione collegiale) sente il debitore e le parti: il debitore può costituirsi sino a 7 giorni prima depositando documenti contabili e difese. Questa udienza è fondamentale: il debitore può opporsi contestando lo stato d’insolvenza o chiedendo soluzioni alternative (ad esempio l’ammissione a un concordato preventivo se ne ha fatto domanda tempestivamente). Il tribunale ha poteri ufficiosi di istruttoria: può assumere informazioni, acquisire d’ufficio documenti (es. bilanci, protesti, rapporto centrale rischi), sentire testimoni, disporre consulenze tecniche per valutare lo stato d’insolvenza.

Al termine dell’istruttoria, il tribunale decide con sentenza (in Camera di consiglio, collegiale) se dichiarare o meno l’apertura della liquidazione giudiziale. Se i presupposti sono accertati (insolvenza, qualifica di imprenditore commerciale non minore, debiti ≥ 30.000), viene emessa sentenza dichiarativa di liquidazione giudiziale. In caso contrario (ad esempio insolvenza non provata, importo debiti inferiore al minimo, difetto di competenza, errore sul soggetto), il tribunale rigetta l’istanza con decreto motivato. Contro il provvedimento di rigetto il creditore istante (o il PM) possono proporre reclamo in corte d’appello. Se invece il tribunale accoglie l’istanza, si apre la procedura concorsuale con la pubblicazione della sentenza.

È importante segnalare che, durante la pendenza di un’istanza di fallimento, il debitore può attivarsi per percorrere soluzioni alternative: ad esempio può presentare domanda di concordato preventivo o di omologazione di un accordo di ristrutturazione del debito. In tal caso, l’art. 43 CCII dispone che la trattazione dell’istanza di liquidazione giudiziale sia sospesa in attesa dell’esito della procedura alternativa richiesta. Se il concordato o l’accordo vengono ammessi e poi omologati, il fallimento viene evitato; se invece l’alternativa fallisce (non omologazione, revoca o rinuncia), il tribunale può riprendere l’istruttoria e pronunciarsi sull’insolvenza. Inoltre, il CCII incentiva la soluzione negoziata della crisi: l’imprenditore può aver avviato una composizione negoziata della crisi (strumento stragiudiziale introdotto nel 2021) e chiedere misure protettive; anche in questo caso l’istanza di liquidazione può essere temporaneamente sospesa per consentire la riuscita delle trattative. In ogni caso, se non vi sono percorsi alternativi efficaci e l’insolvenza risulta conclamata, si arriverà alla dichiarazione giudiziale.

Nei paragrafi che seguono esamineremo in dettaglio gli effetti e le fasi della procedura una volta emessa la sentenza dichiarativa di liquidazione giudiziale.

La sentenza dichiarativa di liquidazione giudiziale

La sentenza con cui il Tribunale dichiara aperta la liquidazione giudiziale è l’atto che segna l’inizio ufficiale della procedura concorsuale. Essa ha un contenuto complesso, in parte analogo alla vecchia “sentenza di fallimento”, e produce immediatamente una serie di effetti sia sul piano organizzativo (nomina degli organi della procedura) sia sul piano sostanziale (spossessamento del debitore, sospensione delle azioni esecutive, ecc.). Analizziamo i punti salienti:

  • Forma e contenuto: la sentenza è emessa dal Tribunale in composizione collegiale. Deve contenere, oltre alle generalità del debitore, la dichiarazione dello stato d’insolvenza e l’ordine di liquidazione del patrimonio con procedura concorsuale (art. 49 CCII). Nella sentenza il Tribunale nomina il Giudice Delegato e il Curatore della procedura, designando altresì i membri del Comitato dei creditori se già disponibili (di solito il Comitato verrà nominato successivamente, su proposta del Curatore). Inoltre, il Tribunale può inserire disposizioni particolari: ad esempio, può autorizzare la continuazione provvisoria dell’esercizio dell’impresa da parte del Curatore, se ritiene che la prosecuzione temporanea dell’attività non rechi pregiudizio ai creditori. Questa possibilità – già prevista dalla legge fallimentare come “esercizio provvisorio” – viene adottata quando è vantaggioso mantenere in funzione l’azienda (o rami di essa) per preservarne il valore in vista di una cessione, evitando che la cessazione immediata dell’attività ne deprezzi gli asset. La sentenza fissa anche il termine entro cui i creditori devono presentare le domande di insinuazione al passivo e la data dell’udienza di verifica dei crediti (cd. stato passivo). Infine, la sentenza indica il termine (non superiore a 30 giorni) per il deposito da parte del debitore di bilanci, scritture contabili e fiscali obbligatorie non ancora presentate (se il debitore non lo avesse già fatto in sede prefallimentare).
  • Pubblicazione, comunicazioni e registrazioni: la sentenza dichiarativa viene immediatamente pubblicata mediante deposito in cancelleria. Da quel momento produce effetti erga omnes. La cancelleria del tribunale cura la trasmissione della sentenza per l’annotazione nel Registro delle Imprese (se il debitore è un soggetto iscritto) e per la pubblicazione nell’Albo online delle procedure concorsuali (gestito dal Ministero della Giustizia). Inoltre, il Curatore – non appena accetta la nomina – deve notificare e comunicare l’apertura della procedura ai creditori conosciuti, al debitore e ai principali soggetti interessati (ad esempio l’agenzia delle entrate, gli uffici previdenziali, ecc.), di regola tramite PEC o altro domicilio digitale. L’iscrizione nel Registro delle Imprese e la pubblicazione su appositi registri assicurano la pubblicità legale della dichiarazione di insolvenza, rendendola opponibile a terzi (nessuno può dire di ignorare il fallimento una volta pubblicato). La sentenza deve anche essere annotata nei registri immobiliari per i beni immobili del fallito e nei registri dei beni mobili registrati (PRA per autoveicoli, registro navale, ecc.), su iniziativa del Curatore. Tali annotazioni tutelano i terzi: ad esempio, chi intenda acquistare un immobile del debitore vedrà dalla visura che su di esso grava la procedura concorsuale. La pubblicazione della sentenza comporta anche la sospensione degli eventuali procedimenti esecutivi individuali pendenti e l’inefficacia (relativa) degli atti di disposizione compiuti dal debitore dopo la sentenza (vedremo a breve).
  • Nomina e accettazione del Curatore: come detto, la sentenza nomina il Curatore (di regola scelto tra gli iscritti all’apposito albo dei gestori della crisi, tipicamente un commercialista o avvocato esperto in procedure concorsuali). Il Curatore deve, entro due giorni, comunicare l’accettazione dell’incarico, attestando di avere i requisiti e la disponibilità di tempo e mezzi per svolgere diligentemente il compito. In mancanza di accettazione, il Tribunale provvede a nuova nomina. La tempestiva accettazione è fondamentale perché solo da quel momento il Curatore assume formalmente le sue funzioni e può iniziare a operare (prima, la gestione rimane in capo al debitore anche se limitata). Contestualmente, la sentenza nomina il Giudice Delegato (GD), ovvero il magistrato (uno dei giudici del tribunale) incaricato di vigilare e dirigere la procedura. Il GD avrà il compito di autorizzare gli atti del Curatore che richiedono autorizzazione e di decidere sulle ammissioni dei crediti, tra le altre funzioni.
  • Esercizio provvisorio e custodia dei beni: se la sentenza dispone l’esercizio provvisorio dell’impresa, il Curatore dovrà proseguire temporaneamente l’attività aziendale alle condizioni e nei limiti fissati dal tribunale (spesso sotto supervisione del Comitato dei creditori). In mancanza di tale disposizione, l’attività caratteristica dell’impresa cessa automaticamente, salvo che il Curatore successivamente ottenga autorizzazione per farla ripartire in via temporanea. Anche senza esercizio provvisorio, il Curatore dalla nomina assume la custodia e gestione conservativa di tutti i beni dell’attivo fallimentare: ad esempio farà mettere in sicurezza i locali, prenderà possesso di magazzini, sigillerà beni di valore se necessario, e comunque impedirà qualsiasi sottrazione o deterioramento. Può chiedere l’intervento della forza pubblica per recuperare i beni in possesso del debitore o di terzi.
  • Impugnazioni: contro la sentenza di apertura della liquidazione giudiziale il debitore (o qualunque interessato) può proporre reclamo avanti la Corte d’Appello entro 30 giorni. Il reclamo non sospende automaticamente gli effetti della sentenza, salvo diversa disposizione della Corte d’Appello in casi eccezionali. Questo significa che, nelle more di un eventuale appello, la procedura va avanti (il Curatore opera, i creditori presentano le domande, ecc.), e solo se la Corte d’Appello successivamente revoca la sentenza si tornerà allo status quo ante. Contro la decisione della Corte d’Appello è poi ammesso ricorso per Cassazione. In caso di definitiva revoca della sentenza (perché magari l’insolvenza era insussistente), si avrà la chiusura della procedura con effetto retroattivo ed eventualmente la restituzione dei beni al debitore, salvi gli atti compiuti in buona fede nel frattempo.

Riassumendo, la sentenza dichiarativa è l’atto formale che apre la liquidazione giudiziale, nominando gli organi e delineando le prime direttrici della procedura. Essa segna il momento in cui l’autorità giudiziaria prende il controllo della situazione d’insolvenza, spossessando l’imprenditore e attivando gli strumenti per la gestione collettiva del dissesto.

Nei capitoli successivi descriveremo i vari organi della procedura e approfondiremo gli effetti immediati che la dichiarazione di liquidazione giudiziale produce sul debitore, sui creditori e sui rapporti pendenti, per poi seguire passo dopo passo lo svolgimento delle fasi che porteranno, auspicabilmente, alla definizione della procedura stessa (liquidazione attivo, distribuzione e chiusura).

Organi della procedura concorsuale

Una volta aperta la liquidazione giudiziale, subentrano nella gestione del patrimonio del debitore alcuni organi nominati dal tribunale, che cooperano tra loro secondo le rispettive competenze. Gli organi fondamentali della procedura sono: il Giudice Delegato, il Curatore e il Comitato dei Creditori. Accanto ad essi, il tribunale stesso mantiene un ruolo di vigilanza e decisione sui punti nodali, e il Pubblico Ministero può intervenire per la tutela della legalità. Vediamoli in dettaglio:

Tribunale e Giudice Delegato

Il Tribunale (in composizione collegiale) è l’organo giurisdizionale che emette i provvedimenti più importanti nella procedura: in primis la sentenza dichiarativa di apertura e, successivamente, le decisioni su eventuali concordati nel fallimento, la chiusura della procedura e le pronunce in sede di reclamo sui provvedimenti del GD. Tuttavia, la gestione ordinaria della procedura è demandata al Giudice Delegato (GD), figura chiave prevista dall’art. 125 CCII (già art. 25 l.f.). Il GD è un giudice (di norma appartenente alla sezione specializzata in materia di impresa) delegato dal collegio a seguire da vicino l’andamento del fallimento.

Le funzioni del Giudice Delegato comprendono:

  • Vigilare sull’operato del Curatore e indirizzarlo affinché la procedura si svolga speditamente e nel rispetto della legge.
  • Autorizzare gli atti del Curatore che non può compiere di propria iniziativa. Ad esempio, il GD autorizza la vendita dei beni (previa approvazione del Comitato dei creditori), l’esercizio provvisorio, la stipula di transazioni, l’assunzione di finanziamenti prededucibili, etc., secondo quanto previsto dai vari articoli del CCII.
  • Presiedere all’udienza di verifica dello stato passivo (esame delle domande dei creditori) e decidere sull’ammissione o esclusione dei crediti insinuati, formando lo stato passivo definitivo con decreto. Il GD esamina ogni domanda di credito insieme al Curatore, accogliendola o respingendola motivatamente. Le sue decisioni in questa fase possono essere impugnate nelle forme di legge (vedi oltre).
  • Prendere provvedimenti urgenti per conservare il patrimonio (può emettere ordini per bloccare beni, sospendere aste già in corso, etc., nelle prime fasi).
  • In generale, “dirigere” la procedura in tutti gli aspetti, facendo rapporto al tribunale in caso di questioni straordinarie.

Il GD, pur avendo questi ampi poteri di direzione e controllo, non sostituisce il Curatore nella gestione diretta: non interviene operativamente negli atti di amministrazione (che spettano al Curatore), ma li sovrintende. Ogni tre mesi circa il Curatore deve presentare al GD un rapporto sulle operazioni svolte, e il GD può dargli istruzioni. In caso di inerzia o irregolarità del Curatore, il GD può segnalarlo al Tribunale per la sua eventuale rimozione.

Curatore

Il Curatore è l’organo centrale della procedura, a cui è affidata l’amministrazione e la liquidazione del patrimonio del debitore dichiarato insolvente. Viene nominato dal Tribunale nella sentenza dichiarativa e, una volta accettato l’incarico, diviene il gestore della massa attiva nell’interesse di tutti i creditori. Si può dire che il Curatore è il “regista” operativo del fallimento, soggetto a controllo del GD e del Comitato dei creditori. I requisiti per svolgere la funzione sono stabiliti dagli artt. 358-359 CCII: possono essere curatori gli avvocati, dottori commercialisti, studi professionali anche associati o società tra professionisti, aventi specifiche competenze in materia. È istituito un albo dei gestori della crisi dove devono essere iscritti i curatori. Il Curatore deve svolgere il compito con diligenza professionale, trasparenza e imparzialità, perseguendo l’interesse della massa dei creditori. All’atto dell’accettazione, il nuovo art. 126 CCII richiede che dichiari di avere il tempo e le risorse adeguate per adempiere ai compiti tempestivamente, introducendo una sorta di “presa d’impegno” formale a gestire con cura la procedura.

Le attribuzioni e attività del Curatore sono molteplici e attraversano tutte le fasi della procedura. In sintesi, il Curatore:

  • Amministrazione dell’impresa e dei beni: il Curatore prende in consegna tutti i beni del debitore e ne assume la gestione. Esegue l’inventario dei beni il prima possibile, per avere un quadro dell’attivo. Se è autorizzato l’esercizio provvisorio, egli gestisce temporaneamente l’azienda insolvente, come amministratore aziendale sotto controllo, per mantenere in vita l’attività (ad es. continuando la produzione o le vendite). In assenza di esercizio provvisorio, il Curatore comunque custodisce e amministra i beni: può affittare rami d’azienda in attesa della vendita, deve curare la manutenzione di immobili, la conservazione di merci deperibili (o la pronta vendita se opportuno), etc. Egli rappresenta legalmente l’impresa fallita per gli atti inerenti alla procedura e, negli atti compiuti, agisce come pubblico ufficiale (le sue attestazioni fanno fede fino a querela di falso).
  • Accertamento del passivo: è compito del Curatore attivarsi per individuare tutti i creditori del fallito e i debiti da soddisfare. Non appena nominato, il Curatore raccoglie le informazioni sui rapporti debitori: può interrogare le banche dati pubbliche e gli archivi finanziari per reperire dati sui conti bancari, sui creditori noti (clienti, fornitori) e sull’indebitamento. Egli invia a tutti i creditori individuati un avviso dell’avvio della procedura e dell’apertura del termine per presentare domanda di insinuazione (art. 200 CCII). Successivamente, una volta ricevute le domande di insinuazione dei creditori, il Curatore le esamina una per una e predispone un progetto di stato passivo, esprimendo il proprio parere motivato su ciascuna richiesta (ammissione totale, parziale o esclusione). Nell’udienza di verifica, il GD si baserà anche sul lavoro preparatorio del Curatore per decidere in merito. Dunque il Curatore ha un ruolo di filtro e proposta nella formazione dello stato passivo. Deve anche esaminare i titoli di prelazione addotti (ipoteche, pegni, privilegi) e contestare eventuali pretese infondate.
  • Liquidazione dell’attivo: dopo la formazione dello stato passivo (o parallelamente), il Curatore si dedica principalmente a convertire in denaro tutti i beni dell’impresa fallita. Redige un programma di liquidazione (ex art. 213 CCII) dove propone le modalità e i tempi con cui intende vendere i vari cespiti: ad esempio, se conviene vendere l’azienda intera in blocco, oppure per singoli beni, o ancora procedere per lotti omogenei; se avvalersi di procedure competitive, aste telematiche, trattative private, etc.. Il programma di liquidazione va approvato dal Comitato dei creditori e autorizzato dal Giudice Delegato. Una volta approvato, il Curatore pone in essere tutti gli atti dispositivi previsti: bandisce aste per gli immobili o i beni mobili registrati (avvalendosi delle piattaforme telematiche o dei professionisti delegati se del caso), vende i beni mobili e le merci con incanto o trattativa, riscuote i crediti vantati dal fallito (anche tramite azioni giudiziarie se i debitori del fallito non pagano spontaneamente). Egli può anche cedere crediti in blocco o affittare/vendere rami d’azienda secondo il programma. Il Curatore deve svolgere queste operazioni cercando di massimizzare il ricavato nell’interesse dei creditori, con trasparenza e competitività. La legge fissa un termine di due anni dall’apertura per completare la liquidazione dell’attivo, prorogabile in casi complessi su richiesta motivata. (Nota: una recente riforma del 2024 ha confermato il limite di cinque anni massimo, prorogabile solo per difficoltà di vendita, come vedremo oltre). Il Curatore relazione periodicamente al Comitato e al GD sullo stato delle vendite e adotta le strategie concordate per superare eventuali difficoltà (ad esempio, può chiedere al GD di rinunciare all’acquisizione di beni di scarso valore rispetto ai costi, così da chiudere prima la procedura).
  • Distribuzione dell’attivo: man mano che vengono realizzate somme in cassa, il Curatore procede a predisporre i piani di riparto del denaro ai creditori. Egli deve rispettare l’ordine delle cause di prelazione: prima vanno pagate le spese di procedura e i crediti prededucibili, quindi i creditori privilegiati (ipotecari, pignoratizi, privilegiati generali e speciali) in base al loro grado, e infine gli eventuali creditori chirografari con il residuo. Il Curatore redige uno schema di ripartizione delle somme, sottoponendolo al Comitato dei creditori e poi al GD per l’autorizzazione. Effettuati i riparti (possono esservi più riparti parziali durante la procedura e un riparto finale), il Curatore cura i pagamenti ai creditori ammessi. Se qualche credito è oggetto di contestazione o causa pendente, accantona la relativa somma in attesa della definizione.
  • Azioni giudiziarie: il Curatore ha la legittimazione ad esercitare una serie di azioni legali nell’interesse della massa. In particolare:
    • Le azioni revocatorie fallimentari (ora chiamate azioni di inefficacia ex artt. 164-168 CCII) per far dichiarare inefficaci gli atti compiuti dal debitore prima del fallimento in pregiudizio dei creditori (es. pagamenti preferenziali, atti di disposizione a titolo gratuito, garanzie anomale, ecc.). Il Curatore può richiedere al tribunale la revoca di tali atti entro i termini di legge (solitamente 6 mesi o 1 anno a ritroso per i pagamenti preferenziali, 2 anni per gli atti gratuiti, con un limite massimo di 3 anni dall’apertura). L’azione revocatoria serve a far rientrare nell’attivo beni o somme uscite indebitamente prima della procedura, cosicché possano essere ripartite tra tutti i creditori. Il CCII ha sostanzialmente mantenuto l’impianto delle revocatorie come da legge fallimentare, prevedendo eccezioni (pagamenti effettuati nell’esercizio ordinario, ecc.) e limiti temporali chiari (decadenza triennale dall’apertura).
    • Le azioni di responsabilità verso gli amministratori o altri organi sociali, se l’impresa è societaria, per ottenere risarcimento di danni causati da gestione fraudolenta o gravemente negligente. Il Curatore può promuovere, su autorizzazione del GD, l’azione sociale di responsabilità contro gli ex amministratori (art. 255 CCII) o l’azione verso i sindaci/revisori se hanno contribuito al dissesto. L’eventuale risarcimento ottenuto confluisce nell’attivo da distribuire ai creditori. Si pensi ad esempio al caso di amministratori che abbiano aggravato il dissesto continuando ad operare in perdita: il Curatore potrà citarli in giudizio per ristoro ai creditori.
    • Altre azioni: il Curatore rappresenta il debitore anche nelle cause pendenti. Se c’erano cause attive (in cui il fallito era attore per un credito), può subentrare e proseguirle o valutarne la rinuncia transattiva; se c’erano cause passive (contro il fallito), queste per legge si interrompono e i relativi attori devono insinuarsi al passivo (salvo che siano cause relative a diritti reali o di stato). Inoltre, il Curatore può promuovere azioni di recupero crediti verso debitori della massa che non adempiono (ingiunzioni, esecuzioni). Egli può anche instaurare giudizi di merito per accertare crediti dubbi, opporsi a pretese di terzi sui beni (es. rivendiche), intervenire nei giudizi tributari del fallito se sorgono controversie fiscali, ecc. A tal fine, la legge gli riconosce l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato nei giudizi attivi della procedura se manca liquidità.
  • Relazioni e adempimenti finali: il Curatore entro 60 giorni dall’apertura deposita una relazione particolareggiata (art. 130 CCII) sulle cause del dissesto e sulle responsabilità, utile anche per il PM ai fini penali. Durante la procedura tiene informati i creditori con relazioni periodiche. Al termine, redige il conto della gestione e la relazione finale, da sottoporre al GD e al Comitato. Una volta chiuso il fallimento, deposita gli atti e chiede la propria liquidazione del compenso.

In tutto ciò, il Curatore agisce quale organo imparziale: pur operando nell’interesse dei creditori, deve anche considerare i diritti del debitore e dei terzi, rispettando la legge. È soggetto a responsabilità civile se cagiona danni per colpa nell’esercizio delle sue funzioni (potrebbe essere chiamato a rispondere verso i creditori o il debitore per negligenze gravi). Perciò è un ruolo di grande responsabilità. Riassumendo con le parole di una guida recente: il Curatore riveste il ruolo di legale rappresentante dell’impresa insolvente per specifiche attività connesse alla procedura e, nell’ambito di tali attività, assume la qualifica di pubblico ufficiale. Egli ha centralità assoluta nella verifica dei crediti, nella liquidazione dell’attivo e nella distribuzione del ricavato.

Comitato dei Creditori

Il Comitato dei Creditori è l’organo collegiale di consultazione e controllo che rappresenta gli interessi della massa dei creditori. Esso è composto generalmente da tre membri scelti tra i creditori maggiormente significativi (per importanza del credito o natura del credito), in modo da rappresentare le diverse categorie (ad esempio un creditore bancario, un fornitore chirografario, un dipendente privilegiato). La nomina del Comitato avviene da parte del Giudice Delegato, su proposta del Curatore, tipicamente dopo l’esame dello stato passivo (quando è più chiaro il panorama dei creditori ammessi). Durante la fase iniziale, il GD può anche decidere di non nominare alcun comitato se ritiene che la presenza di pochi creditori o la semplicità della procedura lo renda superfluo: in tal caso le funzioni consultive sono svolte dal GD stesso.

Le funzioni del Comitato sono principalmente:

  • Esprimere pareri su determinate operazioni del Curatore, quando la legge lo prevede. Ad esempio, l’art. 213 CCII richiede il parere favorevole del Comitato per l’approvazione del programma di liquidazione predisposto dal Curatore. Anche per autorizzare l’esercizio provvisorio, il GD normalmente acquisisce il parere del Comitato. Pareri sono richiesti per atti di straordinaria amministrazione: vendite a trattativa privata, continuazione di contratti, transazioni, rinuncia ad azioni, etc. Il parere del Comitato non è vincolante giuridicamente per il GD, ma ha un peso significativo in quanto espressione della volontà dei creditori.
  • Sorvegliare l’operato del Curatore: i membri del Comitato possono in qualsiasi momento controllare lo stato della gestione, esaminare le scritture contabili della procedura e chiedere chiarimenti al Curatore. Se riscontrano irregolarità gravi, possono riferirle al Giudice Delegato. In questo senso, il Comitato funge da organo di controllo decentrato, analogo ad un collegio sindacale.
  • Autorizzare anticipazioni e spese: in alcune ipotesi, specie se manca liquidità, il Curatore può chiedere al Comitato di autorizzare il ricorso a finanziamenti prededucibili o l’utilizzo di somme vincolate. Il Comitato inoltre approva i piani di riparto predisposti dal Curatore (prima che vadano al GD).
  • Tutela dell’interesse della massa: più in generale, il Comitato è un interlocutore del Curatore per orientare la gestione verso scelte che massimizzino il soddisfacimento dei creditori. I suoi componenti agiscono in rappresentanza di tutti i creditori (non solo del proprio interesse particolare) e devono comportarsi con buona fede e prudenza.

I membri del Comitato dei creditori svolgono la loro funzione a titolo gratuito (salvo un rimborso spese); essi hanno il dovere di riservatezza sulle informazioni acquisite e sono responsabili se con dolo o colpa compromettono gli interessi dei creditori. Possono dimettersi o essere sostituiti dal GD se inerti o in conflitto. Va notato che, con le riforme del 2022-2023, anche le comunicazioni e riunioni del Comitato avvengono preferibilmente in via telematica, per semplificare la partecipazione.

In sintesi, il Comitato dei creditori è uno strumento di partecipazione dei creditori alla procedura: pur non avendo poteri decisionali vincolanti (che spettano sempre al GD o al Tribunale), il suo apporto consultivo orienta le scelte e garantisce trasparenza. Ad esempio, il Curatore di prassi non intraprende mai una vendita importante senza aver prima ottenuto il parere positivo del Comitato e l’autorizzazione del GD, a pena di irregolarità.

Altri soggetti e ausiliari

Oltre agli organi principali sopra descritti, nella procedura intervengono altri soggetti con ruoli specifici:

  • Il fallito (debitore): pur non essendo un “organo” attivo, il debitore dichiarato insolvente rimane parte del procedimento. Ha l’obbligo di collaborare col Curatore e con gli organi della procedura, fornendo informazioni e documenti. Può assistere all’udienza di verifica del passivo, presentare osservazioni, proporre opposizioni o reclami contro atti che lo riguardano. L’imprenditore persona fisica conserva una limitata capacità giuridica (ad esempio può promuovere un reclamo contro la sentenza, può essere interrogato in sede penale per eventuali reati, ecc.), ma perde la disponibilità del suo patrimonio (vedi effetti sul debitore, infra). Nel caso di società, gli amministratori in carica al momento del fallimento decadono dalle loro funzioni, ma anch’essi hanno obbligo di collaborazione e possono rappresentare la società in alcuni atti residuali (es. impugnazioni, istanze di concordato nella liquidazione, etc., se autorizzati dall’assemblea).
  • Pubblico Ministero (PM): dopo aver eventualmente promosso l’istanza iniziale, il PM può intervenire in ogni fase successiva quando ravvisi interessi pubblici in gioco. Ad esempio, partecipa alle udienze di omologa di un concordato fallimentare, può segnalare condotte penalmente rilevanti del fallito o del Curatore. Ha il potere di proporre reclamo avverso la sentenza dichiarativa (se ritiene erronea la mancata dichiarazione di fallimento). In pratica, la sua presenza è costante soprattutto negli aspetti penali: riceve la relazione del Curatore sulle cause di insolvenza e, se emergono ipotesi di reato (bancarotta, distrazioni), avvia o prosegue l’azione penale. Il PM vigila insomma che la procedura non venga deviata a fini fraudolenti e che eventuali reati concorsuali siano perseguiti.
  • Creditori: tutti i creditori concorsuali, pur non essendo “organi”, sono parte della procedura. Essi esercitano i loro diritti presentando la domanda di insinuazione al passivo per essere ammessi al concorso. Una volta ammessi, possono partecipare alle decisioni collettive ove previste (ad esempio votano nell’eventualità di un concordato proposto durante la liquidazione giudiziale). I creditori inoltre possono fare istanze al GD (es. chiedere la sostituzione del Curatore per giusta causa), proporre reclamo contro provvedimenti che li ledono (es. un’ordinanza di approvazione di un riparto, o la mancata revoca dell’esercizio provvisorio, ecc.), nonché impugnare lo stato passivo se il loro credito è stato escluso. Sono dunque attori importanti: la legge richiede che collaborino secondo buona fede con gli organi della procedura, evitando azioni o pretese dilatorie. In generale, una cooperazione attiva dei creditori (fornendo informazioni su beni del fallito, segnalando atti sospetti, ecc.) può facilitare il recupero dell’attivo.
  • Ausiliari e altri professionisti: il Curatore può, se autorizzato, avvalersi di coadiutori o esperti per svolgere specifiche operazioni che richiedono competenze tecniche (periti stimatori per valutare un immobile, legali per cause particolari, notai per predisporre vendite complesse, ecc.). L’art. 49 co. 3 lett. b) CCII prevede che già con la sentenza il Tribunale possa nominare “ulteriori professionisti esperti per l’esecuzione di specifici compiti, che andranno ad affiancarsi al curatore”. Ad esempio, in un fallimento con molti immobili, potrebbe essere designato fin da subito un ausiliario per supportare il Curatore nelle vendite immobiliari. Questi ausiliari sono soggetti al controllo del Curatore e del GD. Il loro compenso, come quello del Curatore, è a carico della massa (in prededuzione) ed è liquidato dal Tribunale a fine lavoro.
    Inoltre, nell’accertamento del passivo, il GD può farsi assistere da esperti estimatori per valutare l’attivo o da commissioni speciali se la mole di crediti è enorme (come fu per grandi crack). Questi restano comunque eccezioni.

In definitiva, la procedura di liquidazione giudiziale instaura un sistema organizzato in cui il tribunale e il giudice delegato esercitano la funzione giurisdizionale e di vigilanza, il curatore svolge la funzione gestionale, il comitato quella consultiva, i creditori partecipano al concorso e il debitore è spossessato ma tenuto a cooperare. Questo corpo organico di soggetti assicura che il procedimento si svolga nell’interesse collettivo, con controlli incrociati e bilanciamento di ruoli (ad esempio, il curatore decide ma sotto autorizzazione del GD e con parere dei creditori, il debitore subisce la spossessione ma è tutelato da eventuali abusi tramite reclami al tribunale, e così via).

Effetti dell’apertura della liquidazione giudiziale

La dichiarazione di liquidazione giudiziale (fallimento) produce immediatamente molteplici effetti giuridici sia sul patrimonio e sulla persona del debitore, sia sui rapporti con i creditori e sui contratti in corso. In sostanza, dall’istante in cui è pronunciata la sentenza di apertura, si crea una sorta di “cristallizzazione” della situazione patrimoniale: il patrimonio del debitore diventa massa fallimentare destinata ai creditori, il debitore viene privato dei poteri di gestione, i creditori individuali non possono più agire singolarmente e tutte le situazioni giuridiche in essere devono essere riordinate secondo le regole concorsuali. Di seguito esaminiamo i principali effetti, distinguendo tra quelli che riguardano il debitore (fallito), quelli sui creditori e quelli sui rapporti contrattuali e processuali pendenti.

Effetti sul debitore (imprenditore dichiarato insolvente)

Il primo effetto fondamentale è il cosiddetto spossessamento: con la sentenza di liquidazione giudiziale, il debitore perde la disponibilità e l’amministrazione dei suoi beni e dei crediti esistenti alla data della sentenza. Tutto il patrimonio diviene oggetto della procedura, da quel momento gestito unicamente dal Curatore. In pratica:

  • Il debitore non può più validamente compiere atti di disposizione del proprio patrimonio. Tutti gli atti compiuti dal fallito dopo la dichiarazione – pagamenti, vendite, contratti – sono giuridicamente inefficaci nei confronti dei creditori (art. 166 CCII, già art. 44 l.f.). Ad esempio, se dopo la sentenza il fallito tentasse di vendere un suo bene o di pagare un creditore fuori concorso, tale atto sarebbe nullo o revocabile: il bene resta nella massa e il pagamento va restituito. Questo per evitare che il debitore sottragga risorse dovute alla massa o alteri la parità tra creditori. I terzi che contrattano col fallito dopo la sentenza lo fanno a loro rischio: se vogliono acquisire un bene del fallito devono rivolgersi alla procedura tramite il Curatore.
  • Il fallito viene privato della gestione: se è una società, gli amministratori decadono e perdono ogni potere di amministrazione, che passa al Curatore; se è un imprenditore individuale, egli personalmente non può più amministrare i propri beni d’impresa. Può tuttavia continuare a compiere atti strettamente personali e non patrimoniali (es. sposarsi, riconoscere un figlio, fare testamento per i beni futuri). Inoltre, mantiene la capacità processuale in ambiti estranei al patrimonio concorsuale: ad esempio può impugnare un avviso di accertamento fiscale relativo a debiti personali post-fallimento, oppure può stare in giudizio se accusato penalmente. Ma per ogni questione economica riguardante il patrimonio dichiarato fallito, la legittimazione è del Curatore.
  • Dal lato civilistico, il fallito subisce alcune limitazioni di capacità. Storicamente, il fallimento comportava una forma di interdizione legale: al fallito era vietato esercitare una nuova impresa commerciale, ricoprire cariche societarie o uffici direttivi fintanto che durava la procedura e fino alla riabilitazione. Anche sotto il CCII, l’imprenditore dichiarato insolvente è soggetto a divieti ed incapacità temporanee: ad esempio, non può assumere o mantenere cariche di amministratore, sindaco o liquidatore in società di capitali o cooperative; se ricopriva tali cariche, la sentenza di fallimento determina la sua decadenza automatica. Non può inoltre acquisire la qualità di imprenditore individuale in una nuova attività commerciale sino a quando non ottiene l’esdebitazione o, in mancanza, per un periodo determinato dalla legge dopo la chiusura (generalmente 5 anni in base alla disciplina previgente). Tali limitazioni intendono evitare che un soggetto ancora formalmente “fallito” possa amministrare patrimoni altrui o svolgere attività che richiedono fiducia creditizia.
  • Obblighi di cooperazione: il debitore fallito ha precisi obblighi di legge nei confronti degli organi della procedura. Deve essere a disposizione del Curatore, del GD e del Comitato per fornire chiarimenti e informazioni. Ad esempio, è tenuto a consegnare al Curatore i libri e le scritture contabili, la documentazione amministrativa e fiscale (fatture, estratti conto, bilanci), nonché a fornire l’elenco dei creditori e dei debitori, entro il termine stabilito dal GD. Deve inoltre comparire personalmente per essere interrogato dal GD o dal Curatore sulle cause dell’insolvenza e su qualsiasi aspetto attinente ai suoi rapporti di affari. È obbligato a segnalare eventuali sopravvenienze attive (ad es. un credito che si incassa post-sentenza) e a collaborare attivamente nel recupero dei beni. La mancata cooperazione ingiustificata può comportare sanzioni: in sede concorsuale, può precludere il beneficio dell’esdebitazione (si considera il debitore non meritevole se ha tenuto comportamenti ostruzionistici); in sede penale, taluni comportamenti omissivi integrano reati (ad es. la mancata consegna dei libri può costituire bancarotta semplice documentale).
  • Residenza e comunicazioni: il fallito persona fisica è tenuto a comunicare tempestivamente ogni cambiamento di residenza o domicilio al Curatore e al GD. Nella legge previgente esisteva persino il divieto per il fallito di lasciare il proprio comune di residenza senza autorizzazione del GD (vecchio art. 49 l.f.), pena l’arresto. Il CCII ha attenuato questo retaggio: non vi è più un divieto formale di espatrio o di allontanamento per il fallito, salvo specifiche disposizioni in sede penale. Tuttavia, se la sua presenza è necessaria (ad es. per l’esame in camera di consiglio), il GD può ordinargli di comparire. In ogni caso, qualora l’imprenditore si renda irreperibile o non collabori, il Curatore potrà comunque proseguire la gestione, e l’inerzia del fallito potrà rilevare negativamente in sede di valutazione della sua condotta.
  • Effetti sul patrimonio futuro: i beni che il fallito dovesse acquistare o ereditare durante la procedura (cosiddetti sopravvenienze attive) entrano a far parte della massa fallimentare, se acquisiti prima della chiusura. Ad esempio, se mentre il fallimento è in corso il debitore riceve un’eredità o vince alla lotteria, tali cespiti vengono assorbiti dal fallimento e messi a disposizione dei creditori (a meno che l’eredità sia rinunciata nei limiti in cui la legge glielo consente senza arrecare danno ai creditori ereditari). Questo principio serve a evitare che il debitore possa nuovamente disporre di ricchezze mentre i creditori sono insoddisfatti. Fanno eccezione solo i beni impignorabili per legge (vedi oltre) e i redditi da lavoro che maturano dopo l’apertura (che di norma restano al fallito, salvo il minimo vitale).
  • Beni e crediti esclusi dal fallimento: va infatti ricordato che non tutti i beni del fallito sono aggredibili dalla procedura. Restano esclusi i beni strettamente personali e impignorabili ai sensi di legge (artt. 545 c.p.c. e T.U. esecuzione): ad esempio, gli abiti, gli oggetti di uso personale e domestico indispensabili, i generi di prima necessità, eventuali stipendi/pensioni per la parte minima vitale, gli assegni di mantenimento, crediti alimentari, etc. Questi beni non entrano nella massa e rimangono nella disponibilità del fallito. Inoltre, non rientrano i nuovi redditi da lavoro che il fallito persona fisica produce dopo l’apertura: se, ad esempio, durante la procedura il fallito trova un impiego, i suoi stipendi futuri non vanno al Curatore (fatte salve le quote eventualmente pignorabili secondo le norme generali per i debiti verso terzi, ma in concorso si tende a non toccarli per incoraggiare la ripresa del debitore).
  • Sanzioni penali: l’apertura della liquidazione giudiziale espone l’imprenditore insolvente a possibili conseguenze sul piano penale, qualora vi siano state condotte illecite nella gestione aziendale antecedente o durante la procedura. I reati fallimentari previsti dagli artt. 322 e seguenti CCII (che riprendono in gran parte gli artt. 216-223 della vecchia l.f.) puniscono, tra gli altri, la bancarotta fraudolenta (distrazione di beni, documentazione contabile falsificata o occultata, dolosa decapitalizzazione del patrimonio, pagamenti preferenziali dolosi, etc.) con pene detentive rilevanti (fino a 6-10 anni di reclusione nei casi più gravi) e la bancarotta semplice (negligenze gravi come spese personali eccessive, ritardo ingiustificato nell’aver chiesto il fallimento, mancanza di libri senza dolo, etc.) con pene minori. Inoltre, è reato il mancato deposito dei bilanci da parte del fallito (art. 324 CCII) se ne deriva pregiudizio, e integrano reato le false attestazioni al GD, la distruzione di documenti, l’omessa custodia di beni, e così via. Appositi reati puniscono anche i favori particolari a creditori (cosiddetta bancarotta preferenziale) e le condotte di mala gestio anteriore (come l’infedeltà patrimoniale di soci o liquidatori). Il fallito, quindi, in presenza di irregolarità, rischia procedimenti penali: questo effetto indiretto della dichiarazione è molto importante, perché spesso porta all’emersione di veri e propri crimini commessi dall’imprenditore durante la crisi. Il Curatore è obbligato a segnalare alla Procura eventuali fatti di rilevanza penale emergenti dalla sua relazione sulle cause del dissesto.

In sintesi, per l’imprenditore dichiarato insolvente la liquidazione giudiziale rappresenta una situazione di spossessamento e di limitazione dei propri diritti patrimoniali: egli viene estromesso dalla gestione e non può più disporre dei beni, dovendo sottostare agli obblighi di collaborazione. Al tempo stesso, è protetto da ulteriori aggressioni individuali dei creditori (che non possono più perseguitarlo personalmente fuori dalla procedura) e, al termine, potrà aspirare a liberarsi dai debiti residui tramite l’esdebitazione (v. infra). L’ordinamento cerca dunque un equilibrio tra l’esigenza di tutelare i creditori e quella di offrire al debitore onesto ma sfortunato una chance di ripartenza dopo la chiusura.

Effetti nei confronti dei creditori

Con l’apertura della liquidazione giudiziale muta radicalmente la posizione giuridica dei creditori dell’imprenditore insolvente. I creditori chirografari e anche quelli muniti di garanzie reali vedono sospese le loro azioni individuali e devono necessariamente partecipare al concorso collettivo, secondo le regole di graduazione e parità di trattamento stabilite dalla legge. In particolare:

  • Divieto di azioni esecutive individuali: dal giorno della sentenza di fallimento nessun creditore può iniziare o proseguire azioni esecutive individuali sul patrimonio del debitore (art. 150 CCII, ex art. 51 l.f.). Ciò significa che sono vietati nuovi pignoramenti, sequestri, iscrizioni ipotecarie, e quelli già in corso sono automaticamente sospesi. Ad esempio, se un creditore aveva avviato un’esecuzione immobiliare contro il debitore, questa si interrompe e l’immobile verrà venduto dal Curatore nell’ambito concorsuale. Questo automatic stay garantisce l’uguaglianza tra creditori: nessuno può soddisfarsi da solo, ma tutti devono concorrere nell’unica procedura.
  • Divieto di azioni cautelari sul patrimonio: similmente, sono inibite ai creditori iniziative cautelari (sequestri conservativi, arresti) sui beni compresi nel fallimento. L’unica possibilità di tutela per i creditori è insinuarsi al passivo e far valere eventualmente i propri privilegi o cause di prelazione in sede di riparto.
  • Concentrazione del soddisfacimento nel concorso: ogni creditore che vanti un credito anteriore alla data della sentenza (detto credito concorsuale) deve presentare domanda di insinuazione al passivo per essere ammesso a concorrere. Non potrà ottenere il pagamento altrimenti, se non partecipando alla distribuzione delle somme ricavate dal Curatore. Anche i creditori muniti di pegno o ipoteca (creditori garantiti) sono soggetti al concorso, sebbene abbiano un diritto di prelazione sul ricavato del bene su cui insiste la garanzia. Essi non possono procedere autonomamente alla vendita del bene (il c.d. automatic stay si applica anche a loro, a differenza di altri ordinamenti): sarà il Curatore a vendere l’immobile ipotecato o il bene pignorato, però il creditore ipotecario o pignoratizio mantiene la preferenza sul prezzo ricavato (detratte le spese). In pratica, i creditori con garanzia reale partecipano alla liquidazione ma avranno soddisfazione prioritaria sul ricavato del loro collaterale. Se la garanzia non copre l’intero credito, per la parte residua diventano chirografari.
  • Cristallizzazione dei crediti: alla data di apertura, i crediti pecuniari chirografari cessano di produrre interessi verso il fallito (art. 153 CCII, ex art. 55 l.f.). Ciò significa che gli interessi maturati successivamente non sono ammessi al passivo, salvo che – evento raro – dopo aver pagato tutto il capitale si avanzi ancora attivo per coprirli. Questa regola impedisce che gli interessi facciano lievitare i debiti durante la procedura a detrimento di altri creditori. I creditori privilegiati con diritto agli interessi (es. ipotecari) possono invece accumulare interessi entro i limiti di capienza della garanzia.
  • Compensazione: se un creditore era anche debitore del fallito, può operare la compensazione tra debito e credito secondo le regole generali, purché il fatto genetico della compensazione sia anteriore alla dichiarazione (art. 155 CCII, ex art. 56 l.f.). Ad esempio, se Tizio fallisce ed era creditore verso Caio di €100 e debitore verso Caio di €80, Caio può insinuarsi solo per €20 dopo aver compensato €80. La compensazione consente ai creditori in posizione di debito/credito reciproco col fallito di non dover pagare l’intero debito e poi sperare di ricevere il credito in minima percentuale. Tuttavia, non è ammessa se il credito verso il fallito è stato acquistato dal debitore del fallito dopo la dichiarazione o in prossimità di essa (divieto di compensazione artificiosa).
  • Sospensione delle prescrizioni: dalla data di apertura e fino alla chiusura della procedura, sono sospesi i termini di prescrizione dei crediti verso il fallito (art. 153 CCII). Inoltre, le eventuali decadenze per mancato esercizio di diritti restano sospese. Ciò per evitare che i creditori debbano intraprendere azioni (impossibili) solo per interrompere la prescrizione. Basterà l’insinuazione al passivo per preservare il diritto.
  • Crediti post-fallimentari: i creditori i cui crediti sorgono dopo l’apertura (ad es. fornitori del Curatore durante l’esercizio provvisorio, professionisti che assistono la procedura, spese di giustizia) non devono insinuarsi, ma saranno pagati in prededuzione con preferenza assoluta. Essi partecipano però al concorso per la parte di soddisfo insieme agli altri, qualora l’attivo sia insufficiente (cioè se l’attivo non basta a pagarli integralmente, concorreranno tra loro in proporzione).

In definitiva, i creditori concorsuali vedono trasformare i loro diritti di credito individuali in diritti di partecipazione al concorso fallimentare. Devono attivarsi presentando domanda al passivo nei termini stabiliti e attendere i tempi della procedura per ottenere (di solito parzialmente) soddisfazione. La legge impone loro una condotta corretta: ad esempio, se un creditore ha ricevuto un pagamento di favore dal debitore nei mesi precedenti il fallimento, potrebbe doverlo restituire (azione revocatoria) e quindi il creditore onesto non deve confidare in trattamenti preferenziali fuori concorso, pena la loro inefficacia.

Un ulteriore effetto riguarda i garanti e coobbligati: la dichiarazione di fallimento del debitore principale non impedisce ai creditori di agire contro eventuali coobbligati o fideiussori. Ad esempio, se un socio illimitatamente responsabile non è stato dichiarato fallito insieme alla società (cosa rara, perché di norma viene incluso automaticamente) o se un terzo ha garantito un debito, il creditore può escutere il garante al di fuori del fallimento. Tuttavia, il garante escusso avrà diritto poi di insinuarsi al passivo in surroga (subentrando nelle ragioni del creditore soddisfatto). Diversamente, i debitori del fallito (chi deve soldi al fallito) sono tenuti a pagare solo al Curatore: se pagassero al fallito direttamente, tale pagamento non li libererebbe (sarà inefficace ex lege) e potrebbero essere costretti a pagare due volte. Perciò, tutti coloro che devono prestazioni al fallito devono eseguirle verso la massa, su istruzione del Curatore, liberandosi così correttamente. Questa disposizione (art. 150 co.2 CCII) viene generalmente portata a conoscenza dei debitori tramite comunicazioni del Curatore.

In sintesi, per i creditori l’apertura della procedura comporta il passaggio dalla prospettiva di un’azione individuale a quella della soddisfazione collettiva. Ciò può essere visto come una limitazione (non possono più scegliere le tempistiche e modalità di riscossione), ma è bilanciato dalla tutela dell’uguaglianza: tutti concorrono par condicio salvo le prelazioni. Inoltre, la procedura consente di esplorare attivamente eventuali asset nascosti (tramite le azioni del Curatore) e distribuisce in modo ordinato quanto ricavato.

Effetti sui rapporti giuridici preesistenti

La dichiarazione di fallimento incide anche sui contratti e sulle situazioni giuridiche in corso di svolgimento al momento dell’apertura. La logica generale è di evitare che il fallimento pregiudichi l’altra parte del contratto oltre misura, ma al tempo stesso di preservare l’interesse della massa dei creditori, decidendo caso per caso se proseguire o sciogliere i rapporti pendenti. Vediamo i casi principali:

  • Contratti in corso di esecuzione bilaterale (art. 172 CCII, ex art. 72 l.f.): se alla data del fallimento un contratto a prestazioni corrispettive non è stato eseguito interamente da entrambe le parti (ad es. un contratto di fornitura in cui il fallito non ha ancora pagato tutto e il fornitore non ha ancora consegnato tutto), la legge dà facoltà al Curatore, con autorizzazione del GD, di subentrare nel contratto in luogo del fallito ovvero di scioglierlo. In pratica, il Curatore valuta se il contratto è vantaggioso da mantenere (ad esempio perché la continuazione porta utilità all’attivo, come nel caso di una locazione di immobile a canone inferiore al mercato che conviene conservare) oppure se è oneroso (ad esempio un leasing costoso, che conviene sciogliere). Se il Curatore subentra, il contratto prosegue regolarmente ed egli paga le prestazioni dell’altro contraente in prededuzione; se invece opta per lo scioglimento, il contratto si intende risolto alla data della sentenza e l’altro contraente ha diritto ad insinuarsi al passivo per l’eventuale danno derivante dal mancato adempimento. Questa facoltà permette di ottimizzare il patrimonio: continuare solo i contratti utili e troncare quelli svantaggiosi. Un esempio comune: i contratti di fornitura continuativa (utenze, materie prime) – il Curatore li proseguirà se c’è esercizio provvisorio, altrimenti li risolve.
  • Contratti con effetti traslativi non eseguiti: caso particolare è il contratto preliminare di vendita immobiliare in cui il fallito era venditore. Se prima del fallimento il promissario acquirente aveva già pagato in tutto o in parte il prezzo e chiede l’esecuzione, la legge consente in certi casi la esecuzione specifica: ad esempio, per gli immobili da costruire e per la prima casa del promissario acquirente che abbia pagato almeno un quarto del prezzo, il GD può autorizzare il Curatore a trasferire la proprietà all’acquirente, che poi si insinuerà per eventuali somme versate in più. Se tali condizioni non ricorrono, il Curatore di solito scioglie il preliminare e l’acquirente diventa un creditore chirografario per le somme versate a titolo di caparra o acconto (godendo comunque di privilegio speciale se trattasi di immobili da costruire, ex art. 2775-bis c.c.). La ratio è tutelare per quanto possibile chi ha pagato anticipatamente per un bene, evitando l’ingiustizia di perdere sia soldi che bene. La riforma del CCII ha accentuato le tutele per gli acquirenti di immobili da costruire e in genere per i consumatori in contratti pendenti.
  • Contratti di lavoro subordinato: il fallimento di per sé non scioglie automaticamente i rapporti di lavoro dipendenti. Tuttavia, il Curatore, con l’autorizzazione del GD, può procedere al licenziamento dei dipendenti se ritiene di non poter proseguire l’attività. In caso di esercizio provvisorio, i contratti di lavoro possono proseguire alle dipendenze della curatela. In ogni caso, i lavoratori hanno diritto per i crediti maturati ante fallimento (stipendi arretrati, TFR) a insinuarsi al passivo come creditori privilegiati. Il fallimento non costituisce giusta causa di licenziamento in sé, ma la cessazione dell’attività sì: dunque il Curatore in genere intima il licenziamento collettivo per cessazione azienda (seguendo le procedure di legge, L. 223/1991). I lavoratori licenziati possono attivare il Fondo di garanzia INPS per ottenere in tempi rapidi il pagamento del TFR e delle ultime mensilità insolute (nei limiti di legge), subentrando poi l’INPS come creditore privilegiato nel fallimento. Questo meccanismo garantisce ai dipendenti una tutela immediata, atteso che le procedure concorsuali spesso durano anni.
  • Locazioni di immobili: se il fallito è locatore di un immobile, il contratto di locazione prosegue con il Curatore subentrante come locatore, salvo recesso del Curatore (con preavviso di 90 giorni ex art. 177 CCII, simile all’art. 80 l.f.). Se il fallito è conduttore (inquilino) di un immobile, il Curatore può sciogliere il contratto liberando la massa dall’onere dei canoni futuri, con preavviso di 90 giorni al locatore. Anche qui la valutazione sarà: l’immobile serve all’eventuale esercizio provvisorio? Se sì, mantenere; se è inutile, disdire per non accumulare affitti. Il locatore avrà diritto all’indennità di fine locazione come credito concorsuale.
  • Contratti bancari: la dichiarazione di fallimento implica la chiusura dei conti correnti intestati al fallito e l’obbligo per la banca di congelare i depositi e restituirli al Curatore. Anche gli affidamenti bancari (fidi, anticipi) sono revocati di diritto, e sta al Curatore valutare se negoziare con la banca una continuazione temporanea delle linee di credito per l’esercizio provvisorio (spesso la banca acconsente se viene riconosciuta prededuzione). Le fideiussioni rilasciate dal fallito non sono onorate dalla curatela (il creditore garantito deve insinuarsi; l’eventuale fideiussore terzo diventa obbligato principale).
  • Procedure esecutive e liti pendenti: come già accennato, le esecuzioni forzate individuali pendenti vengono assorbite. Se un bene era già stato pignorato e magari messo all’asta prima del fallimento, l’asta viene sospesa e il bene passa al Curatore (anche se in custodia a un delegato alle vendite) per essere liquidato nell’ambito concorsuale. Riguardo alle cause civili pendenti: quelle di natura recuperatoria di crediti contro il fallito si spengono (gli attori dovranno insinuarsi). Le cause in cui il fallito è attore possono proseguire, ma subentra il Curatore il quale, valutati costi e benefici, può anche rinunciarvi o transigere. Le cause in cui il fallito è convenuto per diritti patrimoniali (es. risarcimento danni) si interrompono; l’attore dovrà insinuarsi come creditore per la somma che spera di ottenere, oppure se la causa verte su accertamento di un diritto (non mero credito) può chiedere al giudice istruttore di separare le due fasi (ma in genere confluisce tutto nel passivo). Se ci sono liti pendenti che riguardano diritti o beni della massa (es. una causa di revindica di un terzo su un bene in possesso del fallito), il Curatore subentra e la causa prosegue davanti al giudice naturale, ma soggetta a coordinamento col fallimento (spesso il GD fissa un termine perché il terzo promuova il giudizio di accertamento del suo diritto). Rileva segnalare che, proprio per evitare che lunghe cause ritardino la chiusura, il legislatore nel 2022-24 ha introdotto la possibilità per il Curatore di cedere a terzi le cause risarcitorie o revocatorie pendenti (art. 215 CCII modificato). In questo modo, un creditore o un finanziatore esterno può rilevare la lite, versando subito una somma alla massa e proseguendo la causa a proprio rischio: ciò “monetizza” subito quel contenzioso ed evita di dover attendere l’esito incerto per chiudere la procedura. Le nuove norme hanno esteso questa facoltà a quasi tutte le azioni (non solo revocatorie, ma anche azioni di responsabilità) per agevolare la rapida conclusione del fallimento. Infatti, cause di responsabilità contro amministratori possono durare anni in appello e Cassazione; vendendole, il Curatore incassa subito e chiude prima, lasciando al cessionario l’alea.

In generale, l’effetto del fallimento sui rapporti giuridici è improntato alla continuità condizionata: i contratti non vengono annullati in blocco, ma si dà al Curatore la possibilità di scegliere se subentrare o sciogliere in funzione dell’interesse della massa. Ciò evita sia il pregiudizio automatico all’altra parte (che se il contratto prosegue non subisce danno) sia il trascinarsi di obblighi svantaggiosi per la massa (in caso di scioglimento, l’altra parte ha solo un credito risarcitorio). La controparte contrattuale non fallita ha comunque un certo diritto di reazione: può sollecitare il Curatore a dichiarare cosa intende fare entro termini brevi (di solito tramite istanza al GD), in modo da non restare in sospeso troppo a lungo. Se il Curatore tace, talvolta la legge prevede che lo scioglimento si intenda avvenuto o, in altri casi, che il GD possa fissare un termine per decidere.

Un discorso a parte meritano i rapporti societari: in caso di fallimento di una società, la società per azioni o a responsabilità limitata non viene estinta immediatamente, ma prosegue in stato di fallimento sino alla chiusura, quando poi sarà cancellata dal Registro Imprese. Gli effetti sul capitale sono indiretti: le azioni o quote dei soci diventano economicamente prive di valore (salvo remotissime ipotesi di surplus attivo), ma formalmente i soci mantengono la titolarità delle partecipazioni. Tuttavia, gli organi sociali decadono: amministratori e liquidatori perdono le cariche, mentre l’assemblea dei soci rimane priva di funzioni salvo quelle eventuali inerenti al concordato fallimentare (ad es., in SRL il socio unico potrebbe proporre un concordato). I soci non hanno un ruolo nella procedura, se non come possibili responsabili (soci illimitatamente responsabili falliscono anch’essi; soci di Srl/SpA possono essere chiamati a versare i decimi non versati o a rispondere di finanziamenti postergati). La società fallita, essendo persona giuridica, con la chiusura del fallimento viene normalmente dissolta e cancellata d’ufficio dal Registro Imprese per impossibilità di conseguire l’oggetto sociale (non avendo più patrimonio né organi).

Abbiamo così esaminato gli effetti principali del fallimento sul debitore, sui creditori e sui rapporti in corso. Questi effetti definiscono il quadro entro cui poi si svolgeranno le singole fasi procedurali: dal momento della dichiarazione, infatti, prende avvio l’iter che porterà alla liquidazione di tutti i beni attivi e alla soddisfazione, almeno parziale, delle ragioni creditorie. Nella sezione seguente entriamo nel vivo del procedimento, delineando passo dopo passo le fasi della liquidazione giudiziale, i tempi e le attività previste in ciascuna di esse.

Fasi della procedura di liquidazione giudiziale

La procedura di liquidazione giudiziale si articola in una serie di fasi successive, disciplinate dettagliatamente dal Codice della crisi. Dalla pronuncia della sentenza dichiarativa si passa alla fase di raccolta dell’attivo e accertamento del passivo, quindi alla liquidazione dei beni, per concludere con la ripartizione e la chiusura. Esponiamo di seguito tali fasi in ordine cronologico, ricordando che alcune possono svolgersi in parallelo (ad esempio, l’accertamento del passivo può avvenire mentre inizia già la custodia e valutazione dell’attivo). Indicativamente, le macro-fasi sono: istruttoria prefallimentare (già trattata), apertura e prime attività, verifica dei crediti, liquidazione dei beni, riparti ai creditori, chiusura.

1. Apertura della procedura e prime attività del Curatore

Questa fase coincide con le prime settimane successive alla sentenza di apertura. Gli step principali sono:

  • Notifica e pubblicazione della sentenza: come visto, la cancelleria notifica la sentenza al debitore e la comunica ai competenti registri (imprese, immobiliari, ecc.). Il Curatore, appena nominato e accettato l’incarico, invia l’avviso ai creditori conosciuti e ai terzi interessati (ad es. attuali e passati amministratori, soci di società di persone, ecc.), informandoli dell’apertura della liquidazione giudiziale. L’avviso ai creditori contiene l’invito a presentare domanda di insinuazione entro il termine stabilito (generalmente 30 giorni prima dell’udienza di verifica). In questa fase, il termine per le domande viene reso noto anche tramite pubblicazione sul portale delle procedure concorsuali.
  • Inventario e custodia dei beni: il Curatore, di concerto col GD, si reca presso le sedi dell’impresa fallita per prendere possesso dei beni mobili, macchinari, scorte, documenti. Procede all’inventario (spesso con l’ausilio di un notaio o di collaboratori): cioè redige un elenco dettagliato di tutti i beni individuati, con stima sommaria del valore. Deve farlo nel più breve tempo possibile per assicurare la conservazione dei beni e la trasparenza. Nel caso di beni immobili, il curatore provvede subito a trascrivere la sentenza nei registri immobiliari per opponibilità ai terzi. I contanti e i valori trovati sono depositati su un conto bancario intestato alla procedura. Se vi erano casseforti o depositi, vengono aperti alla presenza di testimoni e inventariati. Gli eventuali stabilimenti vengono messi in sicurezza (si cambiano serrature se necessario, per evitare accessi del fallito non autorizzati). In parallelo, il Curatore raccoglie i libri contabili e la documentazione aziendale dal debitore o dai locali: libri sociali, registri IVA, fatture, estratti conto. Tutto ciò servirà per predisporre la sua relazione e per l’esame del passivo. Contestualmente, il Curatore spesso interroga informalmente gli ex amministratori o il fallito sulle principali questioni (dov’è la merce, dove sono i crediti da riscuotere, ci sono beni depositati altrove, ecc.). In caso di rifiuto, il curatore può chiedere al GD di emettere decreto ingiuntivo di consegna o ordine di esibizione dei libri.
  • Prime misure cautelari: se ci sono beni pericolanti o deperibili, il Curatore può chiedere al GD di autorizzare una vendita immediata per evitarne il deterioramento (esempio: prodotti alimentari prossimi alla scadenza). Se vi sono conti bancari attivi, il Curatore invia ingiunzioni alle banche per bloccare i fondi e trasferirli sul conto della procedura (il cosiddetto conto della curatela). Se vi sono beni dati in pegno o presso terzi, notifica l’apertura perché li tengano a disposizione. Insomma, mette in sicurezza l’attivo.
  • Relazione iniziale e programma di liquidazione (bozza): il Curatore entro 60 giorni deve consegnare al GD la relazione ex art. 130 CCII sulle cause del dissesto e la presenza di eventuali ipotesi di reato. Entro 180 giorni dall’apertura (termine modificato dal D.Lgs. 83/2022), deve presentare il programma di liquidazione dell’attivo (art. 213 CCII). In realtà, in queste prime settimane, il curatore già inizia a delineare una bozza del programma: valuta quali beni vendere subito, quali in un secondo momento, se è opportuno esercitare provvisoriamente l’impresa (magari in attesa di cessione d’azienda). Sottopone tali idee al Comitato dei creditori (se già nominato, altrimenti consultando ufficiosamente i creditori più rilevanti) e al GD, che deve autorizzare il piano definitivo. Oggi la norma prevede che il curatore invii la bozza al GD per le verifiche prima di sottoporla al Comitato. Il programma contiene anche l’elenco delle eventuali azioni risarcitorie o revocatorie che il curatore intende promuovere.
  • Comitato dei creditori (costituzione): spesso nella fase iniziale il GD nomina subito un Comitato provvisorio, scegliendo alcuni creditori tra i più esposti e facilmente individuabili (come banche o erario) per affiancare il Curatore nelle prime decisioni urgenti (ad es. autorizzare l’esercizio provvisorio se non già disposto). Successivamente, il Comitato potrà essere confermato o modificato dopo la verifica del passivo, quando si conoscerà con esattezza quali crediti sono stati ammessi e in quali ranghi.
  • Esercizio provvisorio (se del caso): se il tribunale lo ha autorizzato nella sentenza, il Curatore fin dal primo giorno si occupa di proseguire l’attività aziendale. Ciò implica magari riaprire lo stabilimento, far lavorare gli operai sulle commesse in corso, continuare a vendere prodotti in magazzino. Egli deve però operare con prudenza, evitando di aggravare il dissesto: ogni spesa deve essere valutata e coperta con le risorse disponibili o con credito di esercizio autorizzato (prededuzione). L’esercizio provvisorio può anche essere richiesto dal Curatore post sentenza, se inizialmente non concesso: in tal caso, previa autorizzazione GD e parere Comitato, il Curatore avvia o riavvia temporaneamente l’attività quando “appare non pregiudizievole per i creditori”. Questa fase attiva può essere limitata a singoli rami d’azienda o a commesse specifiche (per esempio completare alcune lavorazioni già pagate, per poter incassare il saldo). Se invece non c’è esercizio provvisorio, il Curatore in genere sospende tutti i pagamenti non necessari e disdice i contratti in essere (appalti, forniture) per minimizzare i costi, mantenendo solo quelli utili alla conservazione del valore (es. mantiene un custode per i beni, l’assicurazione anti-incendio sugli immobili, etc.).

Questa fase iniziale è cruciale per impostare correttamente la procedura. In un certo senso, qui si fotografa lo stato dell’impresa al momento del dissesto e si pongono le basi per la successiva liquidazione. La durata tipica della fase iniziale è di pochi mesi (2-3 mesi per completare inventario, rapporto iniziale e stesura programma).

2. Accertamento del passivo (verifica dei crediti)

Parallelamente alla sistemazione dell’attivo, il Curatore e il Giudice Delegato procedono all’accertamento dello stato passivo, ossia alla raccolta, esame e ammissione delle domande di credito presentate dai creditori. Questa fase garantisce la formazione di un elenco ufficiale dei crediti partecipanti al concorso, con indicazione per ciascuno dell’importo e dell’eventuale diritto di prelazione. Ecco come si svolge:

  • Presentazione delle domande di insinuazione: i creditori devono inviare entro il termine fissato (indicato nella sentenza e comunicato nell’avviso) la propria domanda di ammissione al passivo, preferibilmente in via telematica (PEC al curatore o deposito sul portale concorsuale). Nella domanda ciascun creditore indica l’ammontare del credito, la causa (fornitura merci, prestito, danno, ecc.), ed eventuali garanzie (ipoteche, privilegi) o titoli di prelazione invocati, allegando i documenti giustificativi (fatture, contratti, cambiali, decreti ingiuntivi, ecc.). Il termine è generalmente di 30 giorni prima dell’udienza di verifica (che a sua volta di solito viene fissata circa 60-120 giorni dopo la sentenza). Ad esempio, se l’udienza è fissata al 30 settembre, il termine per le domande sarà il 31 agosto. Le domande giunte oltre il termine ma prima dell’udienza si considerano comunque tardive semplici, ma vengono trattate lo stesso all’udienza se possibile. Le domande molto tardive (dopo l’udienza di verifica) sono ammissibili solo con procedure di insinuazione tardiva separate (entro un anno dalla chiusura riparto, con possibile postergazione sui riparti già effettuati). È dunque fondamentale per i creditori rispettare i termini iniziali per non perdere quote di riparto. I lavoratori dipendenti sono esonerati dal contributo unificato e possono presentare la domanda anche personalmente, sebbene sia consigliabile l’assistenza di un legale o sindacato.
  • Esame delle domande da parte del Curatore: ricevute le istanze, il Curatore ne registra i dati (utilizzando software gestionali), e comincia a valutarle. Con l’accesso ai documenti contabili del fallito, il Curatore può confrontare le pretese con le scritture: verifica ad esempio se un fornitore che chiede €50.000 risulta effettivamente debitore in contabilità, se vi sono contestazioni, note di credito, ecc. Per i crediti privilegiati (es. ipoteca) controlla i registri (conservatoria RR.II.) per vedere se l’ipoteca era valida e per quale importo. Può chiedere chiarimenti ai creditori o documenti integrativi. Alla fine, redige per il Giudice Delegato un progetto di stato passivo, elencando i creditori e per ciascuno formulando una proposta: ammettere (in tutto o in parte, e con quale grado di privilegio) oppure escludere. Ad esempio: “Creditor Alfa S.p.A.: chirografo €100.000, si propone l’ammissione per €80.000 e l’esclusione per €20.000 per mancanza di prova” oppure “Beta Banca: ipotecario €200.000, si propone ammissione in privilegio ipotecario grado I per €150.000 (capitale) + chirografo €5.000 (interessi)”. Questo progetto non è vincolante, ma aiuta il GD ad esaminare le posizioni. Il Curatore deve depositare e far comunicare ai creditori le osservazioni alle domande prima dell’udienza, in modo che ciascun creditore sappia la proposta sul proprio credito e su quelli concorrenti (il nuovo CCII richiede di comunicare a ogni creditore l’intero stato passivo provvisorio, non solo la sua posizione, per trasparenza).
  • Udienza di verifica dello stato passivo: nel giorno stabilito, il Giudice Delegato tiene l’udienza di esame. In realtà, data la mole di crediti in molti fallimenti, spesso l’udienza formale è breve: il GD esamina in camera di consiglio le domande insieme al Curatore ed emette mano a mano i provvedimenti di ammissione o esclusione, magari riservandosi per questioni complesse. I creditori raramente si presentano personalmente (possono mandare un avvocato, ma il più delle volte l’esito è già delineato nelle proposte del Curatore). Il GD può comunque ascoltare i creditori presenti e il fallito se comparso. Se vi sono contestazioni serie su un credito (ad es. un creditore chiede €100.000 ma il Curatore eccepisce che il contratto è nullo), il GD può escluderlo e lasciare il creditore a far causa ordinaria oppure, se la questione è matura, ammettere con riserva.
    L’udienza iniziale spesso non basta a esaminare tutti i crediti, per cui il GD può aggiornarla a più date successive finché tutte le domande (presentate tempestive e tardive fino a quel momento) siano trattate.
  • Decreto di esecutività dello stato passivo: completato l’esame, il GD forma lo stato passivo, elenco definitivo dei crediti ammessi, e lo dichiara esecutivo con un proprio decreto. Da quel momento, lo stato passivo è vincolante per la procedura: il Curatore dovrà attenersi a esso per i pagamenti. Contestualmente, il GD motiva sommariamente le esclusioni o le ammissioni parziali, così che i creditori eventualmente esclusi sappiano perché. Il decreto che rende esecutivo lo stato passivo viene comunicato a tutti i creditori (almeno a quelli che hanno fatto domanda) e al debitore.
  • Impugnazioni dei crediti esclusi o ammessi: i creditori insoddisfatti (esclusi o ammessi in misura ridotta, o con grado inferiore a quello richiesto) possono proporre opposizione allo stato passivo entro 30 giorni dalla comunicazione (art. 206 CCII, simile all’art. 98 l.f.). L’opposizione si propone davanti al Tribunale in composizione collegiale e si svolge come un giudizio civile ordinario contro la curatela. Anche il debitore può proporre opposizione contro crediti che ritiene non dovuti (ma raramente lo fa, essendo spossessato). Inoltre, i creditori ammessi possono impugnare l’ammissione di altri creditori se le contestano (impugnazione di crediti), ad esempio un chirografario può impugnare l’ammissione altrui in privilegio se ritiene inesistente la causa di prelazione (questo perché riduce la sua percentuale di incasso). Queste cause vengono decise dal tribunale in via separata; nel frattempo, lo stato passivo rimane efficace salvo modifiche dopo sentenza passata in giudicato. La riforma ha cercato di velocizzare tali impugnazioni (art. 207 CCII prevede forme semplificate e decisioni concentrate).
  • Insinuazioni tardive: i creditori che non hanno presentato domanda in tempo o che scoprono tardi il fallimento possono ancora insinuarsi tardivamente, pagando però un contributo di bollo più elevato (se non esenti) e, soprattutto, rischiando di ricevere solo i riparti futuri senza riaprire quelli già fatti. Se la domanda tardiva arriva prima che siano iniziati i riparti finali, di norma viene esaminata comunque in un’udienza apposita di verifica tardiva e, se ammessa, partecipa ai successivi riparti (non potrà reclamare su somme già distribuite). Le domande ultra-tardive (oltre l’anno dal deposito del decreto di esecutività dello stato passivo) sono ammesse solo in casi eccezionali di forza maggiore. Tutto ciò incentiva i creditori a vigilare attivamente e insinuarsi per tempo.

L’accertamento del passivo è dunque la fase in cui si definisce chi ha diritto a quanto sul ricavato. Dal punto di vista temporale, in procedure medio-grandi questa fase può durare diversi mesi: ad esempio, se la sentenza è in gennaio, si fissa l’udienza a giugno, poi possibili udienze successive fino a settembre e decreto entro fine anno. In procedure minori con pochi creditori può chiudersi in uno-due mesi. Talora la presenza di opposizioni allo stato passivo prolunga la definizione di alcune posizioni per anni, ma ciò non blocca la successiva liquidazione dell’attivo (si possono accantonare le quote contestate). Una novità del CCII (2022) è la previsione del decreto di non luogo a procedere all’accertamento del passivo (art. 209 CCII) se risulta che non ci sono attivi da distribuire: in casi estremi, se il Curatore constata subito che non esistono beni recuperabili e che le spese supererebbero l’attivo, può chiedere al GD di omettere l’intera fase di verifica crediti e di chiudere anticipatamente il fallimento. Questo avviene per evitare costi inutili quando comunque i creditori non riceverebbero nulla: i creditori in tal caso restano insoddisfatti ma con possibilità di riprendere le azioni dopo la chiusura (anche se il debitore spesso è nullatenente). L’istituto è poco usato, perché il Curatore cerca quasi sempre qualche attivo; ma serve in quei fallimenti “deserti” dove neppure le spese di pubblicazione sono coperte.

3. Liquidazione dell’attivo

Parallelamente (o subito dopo) alla verifica dei crediti, si svolge la fase centrale: la liquidazione dei beni del fallimento. Questa fase ha l’obiettivo di trasformare tutti i cespiti – beni mobili, immobili, crediti, azienda, partecipazioni – in denaro liquido da distribuire. Il CCII, con gli artt. 212 e ss., disciplina analiticamente le modalità di vendita, prevedendo principi di pubblicità, competitività e celerità. Ecco le principali attività in questa fase:

  • Programma di liquidazione: come anticipato, il Curatore deve redigere un programma che illustri come intende liquidare l’attivo (art. 213 CCII). Egli valuta la natura dei beni: se c’è un’azienda in grado di proseguire, il curatore proporrà se cederla in blocco (magari previa affitto d’azienda se opportuno per mantenerla operativa fino alla vendita). Se vi sono immobili, deciderà se venderli con procedure competitive (aste pubbliche) o affidare a società specializzate le vendite, eventualmente valutando la possibilità di vendite in blocco di più immobili. Per i beni mobili (macchinari, arredi, merci) sceglierà tra vendita in lotti tramite commissionari, oppure rottamazione se di valore nullo. Per i crediti da incassare: valuterà se riscuoterli direttamente (se debitori solvibili) o cederli pro-soluto ad un factor o in asta tra investitori (specie se crediti deteriori). Per le azioni legali (revocatorie, risarcitorie) deciderà se perseguirle lui stesso o, come detto, se cederle a terzi. Il programma, una volta steso, è trasmesso al GD per un controllo formale e quindi al Comitato dei creditori per l’approvazione. Il Comitato può suggerire modifiche. Ottenuto il parere positivo, il GD lo autorizza (emanando un decreto di approvazione). Entro 10 giorni dall’autorizzazione, il programma deve essere comunicato al fallito e al PM (art. 213 co.3 CCII). Se il Comitato nega l’approvazione, il curatore riferisce al tribunale. In assenza di Comitato, decide il GD. Il termine di legge per completare la liquidazione è fissato (dopo il correttivo 2024) in 5 anni dalla sentenza, prorogabili dal GD solo in caso di particolare complessità o difficoltà nelle vendite. Non c’è più il riferimento a 7 anni: quindi il GD deve motivare le eventuali proroghe, e solo se servono a concludere vendite di beni difficili. In caso di contenziosi ancora pendenti, come già accennato, la soluzione prospettata è anticipare la chiusura cedendo tali azioni o facendo chiusura anticipata (art. 234 CCII) con riserva di riapertura.
  • Esecuzione delle vendite: una volta operativo il programma, il Curatore dà corso alle vendite secondo le modalità previste. Le vendite dei beni maggiori (immobili, macchinari, interi rami) devono avvenire tramite procedure competitive e con adeguata pubblicità. Oggi si ricorre a portali di aste telematiche, con avvisi sul sito del Ministero (portale delle vendite pubbliche) e su siti specializzati. Il Curatore può essere delegato dal GD a svolgere direttamente la vendita oppure può avvalersi di soggetti specializzati (notai per aste immobiliari, società di auction per attrezzature, ecc.) dietro compenso prededucibile. In ogni caso, la vendita trasferisce la proprietà libera dai gravami: ad esempio, se un immobile aveva ipoteche, queste saranno cancellate d’ufficio post-vendita e il credito ipotecario si soddisferà sul prezzo. Questo è un vantaggio per gli acquirenti, che ottengono beni “puliti” da pendenze. Il Curatore può scegliere tra asta competitiva (con rilanci) o vendita a trattativa privata (se autorizzato) qualora un’asta fosse infruttuosa e vi sia un compratore serio. In genere, se un’asta va deserta si riduce il prezzo base e si tenta di nuovo. Il GD può autorizzare anche la vendita senza incanto (offerte in busta chiusa da valutare). Tutte queste opzioni mirano a massimizzare il ricavato. Nel vendere l’azienda o rami, il Curatore deve tener conto anche degli aspetti occupazionali: la cessione di azienda può prevedere il passaggio dei dipendenti all’acquirente ex art. 2112 c.c., cosa che spesso rende più appetibile l’offerta (chi compra l’azienda fallita spesso rileva anche il personale, se qualificato). In caso di affitto d’azienda temporaneo (spesso effettuato per preservare l’avviamento in attesa della cessione definitiva), il contratto di affitto sarà anch’esso posto all’asta o mediante trattativa vigilata.
  • Realizzazione di altri attivi: per i crediti da incassare, il Curatore può procedere ingiungendo i debitori e pignorandoli se non pagano. Se i crediti sono tanti e di importo ridotto, può cederli in blocco ad una società di recupero crediti, previa stima. Gli strumenti finanziari (azioni, partecipazioni) del fallito possono essere venduti: per le partecipazioni societarie spesso occorre valutare se hanno un valore (in caso di altre società fallende, saranno carte inutili). Il Curatore può anche transigere cause in corso (incassando meno del preteso ma subito, se conviene).
  • Custodia somme: i proventi via via incassati vengono depositati sul conto bancario intestato alla procedura. Il Curatore deve evitare accumulo di liquidità per troppo tempo senza distribuirla, quindi appena opportuno predisporrà riparti parziali ai creditori (vedi fase successiva). Intanto, con l’autorizzazione del Comitato/GD, può utilizzare parte dei fondi incassati per pagare le spese prededucibili via via maturate: ad esempio, pagare le fatture dell’asta, i compensi dell’esperto stimatore, le utenze attivate per la custodia dei beni, e così via. Tali pagamenti in prededuzione, se effettuati, saranno poi rendicontati nel riparto, essendo comunque prioritari per legge. In casi di attivo insufficiente inizialmente, il Curatore può accedere al fondo spese giustizia per talune anticipazioni: la legge prevede infatti che se non c’è cassa nemmeno per gli atti essenziali (inventario, comunicazioni, ecc.), alcune spese vengano anticipate dall’Erario (D.P.R. 115/2002, art. 146). Ad esempio, l’imposta di registro della sentenza, l’imposta ipotecaria per le trascrizioni sono “prenotate a debito” e pagate dallo Stato, e i compensi di avvocati del curatore nei giudizi possono andare a gratuito patrocinio. Quando poi entrerà liquidità, il Curatore dovrà rimborsare prioritariamente tali anticipazioni erariali. Questo meccanismo evita che procedure povere restino bloccate per mancanza di fondi per iniziare.
  • Tempistiche: il CCII, come detto, auspicava inizialmente la liquidazione in 2 anni, poi portati a 5 anni massimi con possibili proroghe. In realtà, la durata effettiva dipende molto dalla composizione dell’attivo: se è composto solo da crediti liquidi, si chiude in poco tempo; se ci sono immobili di difficile collocazione o contenziosi pendenti, può richiedere vari anni. La riforma 2024 punta a impedire procrastinazioni oltre 5 anni salvo vendite complesse da completare. Ciò spingerà i curatori a vendere anche a prezzi ribassati pur di chiudere entro i termini, oppure a chiedere la chiusura anticipata cedendo i beni residui ai creditori (capita che, non riuscendo a vendere un bene, lo si assegni ai creditori interessati alla pari del loro credito).

La liquidazione dell’attivo è, in sostanza, la fase più operativa: il patrimonio dell’impresa insolvente viene smembrato e convertito in contante. L’efficienza di questa fase incide direttamente sul saggio di recupero dei creditori: più alto il ricavato, maggiore (si spera) la percentuale di credito che verrà pagata. Per questo motivo, il legislatore impone al Curatore di agire con rapidità ma anche di perseguire il massimo realizzo, bilanciando le due esigenze.

Un ulteriore elemento in questa fase è la possibile presentazione di un concordato nella liquidazione giudiziale (ex “concordato fallimentare”): in ogni momento dopo la formazione dello stato passivo e prima che siano iniziate le operazioni di riparto finale, il debitore o un terzo possono proporre un concordato ai creditori, offrendo una certa utilità (es. pagamento di una percentuale dei crediti, o altre risorse) in cambio della chiusura anticipata del fallimento. I creditori votano sull’offerta e, se approvata a maggioranza e omologata dal tribunale, la procedura di liquidazione giudiziale viene chiusa mediante concordato. Tuttavia, con il CCII questa ipotesi è divenuta meno frequente, perché spesso la composizione negoziata o il concordato preventivo vengono tentati prima della dichiarazione di liquidazione. Il concordato nella liquidazione resta possibile soprattutto su iniziativa di terzi interessati (ad es. soci illimitatamente responsabili che vogliano evitare azioni di responsabilità, oppure soggetti coinvolti in azioni risarcitorie che preferiscono transare con un concordato). La riforma consente di cedere le cause proprio per togliere motivazione a concordati opportunistici di questo tipo. In ogni caso, se un concordato nella liquidazione viene omologato, il fallimento si chiude, e il concordato diviene il titolo per i pagamenti ai creditori secondo le sue condizioni.

4. Ripartizione dell’attivo (pagamento dei creditori)

Man mano che la liquidazione dell’attivo produce incassi, il Curatore deve procedere a distribuire le somme ai creditori, rispettando l’ordine delle prelazioni. La normativa (artt. 227-230 CCII) prevede la formazione di piani di riparto parziali e un piano di riparto finale. Ecco come funziona:

  • Predisposizione del piano di riparto: Il Curatore, raccolto un certo ammontare di liquidità (ad esempio dopo aver venduto alcuni beni immobili, o incassato crediti rilevanti), predispone uno schema di distribuzione delle somme fra i creditori. Prima di tutto, deve accantonare gli importi per le spese di procedura e i crediti prededucibili (che vanno soddisfatti integralmente). Quindi, sulle somme residue destinate ai creditori concorsuali, applica la graduazione: paga integralmente i creditori con garanzie reali dal ricavato dei beni vincolati (se sufficiente), poi i crediti privilegiati secondo il loro grado (ci sono privilegi generali sul patrimonio, come quelli dei lavoratori e alcuni crediti fiscali, e privilegi speciali su determinati beni, come i crediti dell’erario su beni specifici). I privilegi speciali vengono soddisfatti col ricavato di quel bene; se residua eccedenza, va ai creditori di grado inferiore. Infine i creditori chirografari ricevono la quota proporzionale sul residuo attivo (spesso purtroppo molto esigua). In pratica il curatore redige una tabella: in colonna i creditori ammessi, l’importo del credito, la categoria (prededuzione, privilegio ipotecario, privilegio generale, chirografo, ecc.) e l’importo che si propone di pagare in quel riparto. Ad esempio, se ci sono €100 da distribuire e creditori prededucibili per €10, privilegiati per €30, chirografari per €60, il curatore destina 10 ai prededucibili (pagati al 100%), 30 ai privilegiati (pagati al 100%) e i restanti 60 li distribuisce pro-quota ai chirografari (pagati in ragione del 100% – in questo esempio eccezionalmente c’è capienza anche per loro!). Spesso la situazione reale è: prededuzioni e privilegi assorbono tutto, e ai chirografari nulla. Oppure: i privilegi soddisfatti al X% e nulla ai chirografari. In ogni caso, il piano di riparto deve attenersi rigidamente alle prelazioni riconosciute nello stato passivo. Se durante la liquidazione il Curatore ha venduto un bene con riserva di prezzo (ad esempio una dilazione) o ha accantonato per un creditore sub iudice, quelle somme restano accantonate e non vanno distribuite finché la questione non si risolve. Spesso il primo riparto parziale riguarda i creditori prededucibili e privilegiati lavoratori: grazie all’intervento del Fondo di garanzia, i lavoratori già hanno avuto dall’INPS TFR e stipendi, quindi il curatore nel primo riparto restituirà all’INPS quelle somme (subentrata essa come privilegiata) e pagherà eventuali altri privilegi (es. spese di giustizia, compensi ausiliari).
  • Approvazione del piano di riparto: il progetto di riparto elaborato dal Curatore deve essere comunicato al Comitato dei creditori per eventuale parere e presentato al Giudice Delegato che, verificata la conformità, lo approva con decreto (salvo opposizioni). Il Curatore comunica il piano approvato a tutti i creditori. Da quel momento, se non vi sono reclami in 15 giorni, il Curatore può eseguire i pagamenti. Se un creditore ritiene errata la ripartizione (ad es. contesta il calcolo degli interessi o l’omesso accantonamento per un credito in causa), può proporre reclamo al tribunale collegiale (art. 230 CCII). Il reclamo, però, non sospende l’esecuzione del riparto salvo diverso ordine: questo per non rallentare la procedura. Quindi il curatore tende a eseguire subito, accantonando magari la quota contestata.
  • Pagamenti: il Curatore esegue quindi i pagamenti secondo il piano. Oggi tutto avviene con metodi tracciati: bonifici o assegni circolari. Il Curatore deve farsi rilasciare quietanza dai creditori (o comunque tenere la prova dei bonifici). Se un creditore non risponde, la somma resta depositata su un conto a sua disposizione. Se ci sono creditori irreperibili, il curatore deposita le somme a loro nome in un libretto di deposito giudiziario. I crediti privilegiati parzialmente soddisfatti restano per il residuo come chirografari (ma se come spesso accade non residua niente per i chirografari, il loro residuo è di fatto perduto salvo esdebitazione del debitore).
  • Riparti parziali successivi: il numero di riparti dipende da come e quando entrano le somme. In un fallimento di medie dimensioni possono esservi 2-3 riparti parziali (ad esempio dopo aver venduto immobili, poi dopo aver concluso cause, ecc.) e poi un riparto finale. In piccoli fallimenti con pochi asset, può farsi direttamente un riparto unico finale. La regola è che il curatore non deve attendere di avere realizzato tutto per iniziare a pagare, specie i creditori prelazionati, a meno che vi sia incertezza su qualche contestazione. Ad esempio, se in cassa c’è già abbastanza per pagare integralmente dipendenti e una parte di Fisco, non ha senso attendere la vendita dell’ultimo macchinario: si fa un riparto intermedio. La prassi, e ora anche la legge, spinge per riparti più frequenti, così i creditori ricevono acconti e la durata pesa meno.
  • Riparto finale e chiusura: quando tutti i beni risultano liquidati o quando rimangono solo residui irrilevanti, il Curatore effettua il riparto finale: distribuisce tutte le giacenze (tranne eventuali accantonamenti per cause in corso) e allega un conto finale della gestione, rendicontando tutte le entrate e le uscite durante il fallimento. Il GD convoca il fallito (e il Comitato) per l’approvazione del conto finale; i creditori possono fare osservazioni. Se il conto è approvato e il riparto finale eseguito, il GD dichiara conclusa la procedura emettendo decreto di chiusura (art. 232 CCII). Nel decreto di chiusura vengono liberati da ogni vincolo i beni eventualmente rimasti non liquidati (ad esempio crediti non riscossi per inesigibilità, o beni non venduti per mancanza di offerte) e restituite le somme accantonate ai creditori aventi diritto se nel frattempo le loro cause si sono definite, altrimenti depositate a disposizione. La chiusura segna il termine ufficiale del fallimento. Da notare: se durante la procedura tutti i creditori sono stati soddisfatti integralmente, l’eventuale attivo residuo va restituito al debitore fallito (caso teorico rarissimo, succede solo se si scoprono beni molto ingenti rispetto ai debiti).

A procedura chiusa, decadono tutti gli organi (il Curatore esaurisce il suo compito e cessa, salvo quanto necessario per la fase di esdebitazione dell’ex fallito). Gli effetti di spossessamento sul debitore cessano (i beni eventualmente non liquidati tornano in sua disponibilità, anche se spesso non ce ne sono). I creditori per la parte non soddisfatta riacquistano la libertà di agire individualmente contro il debitore, ma solo se il debitore non ottiene l’esdebitazione; se invece viene esdebitato, i creditori chirografari perdono definitivamente il diritto di pretendere il residuo.

5. Chiusura della procedura e riapertura

La chiusura formale della liquidazione giudiziale avviene, come detto, con decreto del Giudice Delegato (o del Tribunale in alcuni casi) che accerta il completamento delle operazioni e dichiara terminata la procedura (art. 232 CCII). Le cause tipiche di chiusura sono:

  • Integrale soddisfacimento dei creditori (eventualità rara);
  • Ripartizione dell’attivo disponibile (anche se i creditori non sono pagati integralmente, la procedura chiude per esaurimento delle risorse);
  • Concordato fallimentare omologato (chiusura anticipata ex art. 234 CCII);
  • Insufficienza dell’attivo a proseguire, rilevata anche prima della liquidazione totale (ad esempio, art. 232 co.1, se durante la procedura si constata che le spese residue supererebbero l’attivo rimasto, il tribunale può chiudere anticipatamente per incapienza). Quest’ultima ipotesi è simile alla “chiusura per insufficienza dell’attivo” del vecchio art. 118 n.4 l.f. e mira a evitare costi inutili: se restano solo spiccioli insufficienti a remunerare ulteriori atti di liquidazione, meglio chiudere e non accumulare altre spese. Naturalmente i creditori insoddisfatti rimangono tali.

Altra ipotesi di chiusura è la revoca del fallimento in sede di reclamo o impugnazione: se la sentenza di apertura viene annullata in appello o cassazione, il tribunale emette decreto di chiusura per revoca (con efficacia ex tunc, come se il fallimento non fosse mai avvenuto, salvo la tutela dei terzi in buona fede). In tal caso, il fallito rientra nei suoi beni, ma dovrà pagare le spese fatte dal curatore e può agire per eventuali danni se il fallimento fu dichiarato senza presupposti.

Una volta chiuso, il fallimento può essere riaperto solo in situazioni specifiche: la classica è se si scopre, entro l’anno dalla chiusura, l’esistenza di nuovi beni dell’ex fallito non noti durante la procedura (art. 237 CCII, ex art. 119 l.f.). In tal caso, su istanza del debitore o di un creditore, il tribunale dispone la riapertura della liquidazione giudiziale, nominando eventualmente un nuovo curatore (spesso lo stesso di prima se disponibile). La riapertura consente di liquidare i beni sopravvenuti a beneficio dei creditori ancora insoddisfatti. Se invece la scoperta avviene oltre l’anno, non è più prevista riapertura: i nuovi beni restano in capo al debitore e i vecchi creditori potrebbero solo agire individualmente (salvo che egli sia stato esdebitato).
Un caso assimilabile è la risoluzione o annullamento di un concordato fallimentare: se dopo la chiusura per concordato l’accordo non viene rispettato o risulta viziato da frode, il tribunale, su istanza di creditori, può risolverlo o annullarlo e conseguentemente dichiarare la riapertura del fallimento, riprendendo da dove si era lasciato (artt. 241-243 CCII).

Per quanto riguarda le società fallite, la chiusura del fallimento comporta la fine della loro esistenza se tutte le attività sono state liquidate. Il curatore, nel depositare il decreto di chiusura, cura che esso sia iscritto nel Registro Imprese: ciò vale come atto di cancellazione della società (art. 2495 c.c.), salvo che residuino attivi da gestire in sede societaria (ipotesi improbabile). I soci di società di persone tornano liberi nei loro beni personali (salvo i creditori particolari che possono agire su di essi se rimasti insoddisfatti e se non c’è esdebitazione). L’eventuale attivo residuo dopo aver pagato i creditori (caso di surplus) spetta ai soci secondo le quote sociali.

Il fallito persona fisica, con la chiusura, riacquista la piena capacità di agire sui propri beni futuri e cessano le incapacità personali (può nuovamente esercitare attività d’impresa senza restrizioni legali e assumere cariche sociali). Tuttavia, come vedremo subito, egli rimane obbligato verso i creditori per l’eventuale debito insoddisfatto, a meno che non ottenga l’esdebitazione.

6. Esdebitazione del debitore

L’esdebitazione è l’istituto che consente al debitore persona fisica, dopo la chiusura del fallimento, di essere liberato dai debiti residui non soddisfatti nella procedura. Si tratta di un fresh start, introdotto originariamente nel 2006 e ora disciplinato dagli artt. 278-281 CCII. L’esdebitazione ha lo scopo di dare al fallito onesto la possibilità di riprendersi economicamente, cancellando le obbligazioni pregresse (salvo quelle che la legge esclude, come debiti alimentari o da risarcimento danni da fatto illecito).

Condizioni: Il nuovo CCII ha reso l’esdebitazione più accessibile rispetto alla legge fallimentare previgente. I requisiti principali sono:

  • la procedura si deve essere chiusa con la liquidazione dell’attivo (non per revoca o annullamento);
  • il debitore deve aver collaborato ed essersi comportato correttamente durante il fallimento, senza aver commesso atti di frode o gravi violazioni. Viene valutata la sua meritevolezza: ad esempio, non deve aver distratto beni, né ostacolato l’operato del curatore, né riportato condanne per bancarotta fraudolenta. Il CCII conferma questa valutazione soggettiva, allineandosi alla vecchia normativa;
  • non deve aver già beneficiato di esdebitazione nei 10 anni precedenti (per evitare abusi reiterati);
  • se sono pendenti procedimenti penali per reati fallimentari, di solito si tende a sospendere la decisione sull’esdebitazione in attesa dell’esito (una condanna per bancarotta fraudolenta, ad esempio, di norma preclude l’esdebitazione, mentre una condanna per bancarotta semplice può lasciar margine).

Novità del CCII: è stato eliminato l’originario requisito oggettivo che condizionava l’esdebitazione al soddisfacimento almeno parziale dei creditori. In passato, l’art. 142 l.f. stabiliva che se i creditori non avevano ricevuto “neppure in parte” il pagamento, l’esdebitazione non poteva essere concessa. Ciò significava che se il fallimento si chiudeva con zero distribuzione, il debitore non veniva liberato (a meno di circostanze straordinarie). Ora, l’art. 281 CCII non contempla più tale divieto: anche il debitore il cui fallimento non ha consentito alcun pagamento ai creditori può essere esdebitato, purché meritevole. Questo cambiamento è fondamentale: riconosce che anche l’insolvente privo di beni merita il fresh start se la sua insolvibilità non è dovuta a dolo o colpa grave. La giurisprudenza di merito recente ha già applicato questa regola anche a fallimenti chiusi sotto la vecchia legge ma con domanda presentata dopo il 15/07/2022, segno di un orientamento chiaro verso la massima estensione del beneficio.

Procedura per l’esdebitazione: il debitore deve presentare domanda di esdebitazione al tribunale entro un anno dalla chiusura del fallimento (termine previsto dall’art. 279 CCII). La domanda si propone con ricorso, allegando documenti e indicando le circostanze a supporto (ad es. evidenziando la propria condotta collaborativa, l’assenza di condanne, etc.). Il tribunale, valutati i requisiti, può accogliere l’istanza con decreto motivato, dichiarando inesigibili i debiti concorsuali non soddisfatti. Prima di decidere, il tribunale sente il curatore e il comitato dei creditori (se ancora esistente) e verifica se qualcuno dei creditori si è opposto: i creditori infatti hanno facoltà di opporsi all’esdebitazione se adducono elementi contrari (p. es. accusano il debitore di mala fede non emersa). Il contraddittorio è dunque garantito. Se il tribunale rigetta l’istanza, il debitore può reclamare in corte d’appello. Se la concede, diventa definitiva trascorsi i termini di legge.

Effetti: con il decreto di esdebitazione, il debitore è liberato da tutti i debiti verso i creditori concorsuali rimasti insoddisfatti. Significa che tali creditori non possono più perseguirlo per ottenere il pagamento del residuo. Ad esempio, se Caio fallito aveva 100 di debiti e ha pagato 20 in fallimento (20%), con l’esdebitazione i restanti 80 diventano inesigibili: i creditori non possono né agire giudizialmente né iscrivere ipoteche sui suoi futuri beni per quei crediti. L’esdebitazione non copre però i debiti verso i coobbligati e fideiussori del fallito: questi restano obbligati per l’intero (la liberazione è solo per il debitore fallito). E non copre i debiti “extraconcorsuali” come alimenti dovuti per legge, sanzioni penali/amm.ve inflitte al fallito, risarcimenti per danni da fatto illecito nonché obblighi di mantenimento e alimentari: tali debiti, se esistevano, restano. Ma la maggior parte delle obbligazioni commerciali e finanziarie viene spazzata via.

Importanza pratica: l’esdebitazione è essenziale per permettere all’ex fallito di ricominciare l’attività o comunque reinserirsi nell’economia senza portarsi dietro una zavorra di debiti impagabili. La normativa attuale la concepisce quasi come un esito “normale” per il fallito meritevole. Ciò in linea con la direttiva UE 2019/1023, che incentra sul fresh start l’efficienza delle procedure. Non tutti i debitori falliti ne beneficiano: ad esempio, restano esclusi le società (che si estinguono, e comunque non hanno persona fisica da liberare) e i soggetti colpevoli di frodi gravi. Ma per i piccoli imprenditori individuali onesti, è una seconda opportunità.

Va ricordato infine che esiste un procedimento speciale per il debitore incapiente (c.d. esdebitazione “di diritto” del povero): l’art. 283 CCII consente, una volta ogni 10 anni, al debitore persona fisica meritevole che non abbia alcun patrimonio da liquidare di ottenere ugualmente la liberazione dai debiti, prestando un minimo di collaborazione (ad es. pagamento di parte dei crediti se la situazione economica glielo consente nei 4 anni successivi). Questo istituto – parallelo e complementare all’esdebitazione classica – accentua il favor verso il debitore onesto ma sfortunato anche quando il fallimento non produce nulla. Si applica tuttavia in ambito di sovraindebitamento e procedure minori più che nel fallimento degli imprenditori commerciali.

Con l’esdebitazione, possiamo dire che la parabola della liquidazione giudiziale giunge a conclusione: da un lato i creditori hanno ottenuto il massimo ricavabile dal patrimonio disponibile; dall’altro, il debitore persona fisica, scontata la procedura concorsuale, ottiene la “clearance” dai debiti residui, potendo tornare ad essere economicamente attivo senza gli stigmi del fallimento (è anche riabilitato sul piano civile e commerciale).

Abbiamo così percorso l’intero iter della liquidazione giudiziale, dalle condizioni di apertura fino agli esiti finali. Nei paragrafi seguenti proponiamo alcune tabelle riepilogative che sintetizzano le principali informazioni (fasi, attori, costi, tempi, obblighi), e una sezione FAQ con domande frequenti per chiarire i dubbi più comuni di imprenditori e professionisti sul tema.

Tabelle riepilogative

Tabella 1 – Principali fasi della procedura di liquidazione giudiziale e tempistiche

FaseDescrizioneTempistiche indicative
Fase prefallimentare (ricorso e istruttoria)Presentazione dell’istanza (da creditore, debitore o PM) e udienza di discussione davanti al Tribunale. Accertamento di insolvenza e presupposti.~30-60 giorni dal ricorso alla sentenza (il tempo può variare in base alla complessità; la legge impone termini brevi, di solito udienza entro 45 giorni dal deposito).
Sentenza di aperturaSentenza collegiale dichiara aperta la liquidazione giudiziale, nomina Curatore e Giudice Delegato, fissa termini per insinuazioni e data udienza verifica crediti.Contestuale alla decisione sull’istanza (subito dopo l’udienza prefallimentare). Effetti immediati dalla pubblicazione.
Comunicazioni iniziali e inventarioNotifiche della sentenza al debitore; comunicazioni ai creditori noti (avviso di fallimento). Il Curatore accetta la nomina, prende possesso dei beni, effettua inventario, mette in sicurezza l’attivo.Prime settimane dalla sentenza (inventario da compiere il prima possibile; entro 60 gg Curatore redige relazione iniziale).
Insinuazione dei creditiCreditori presentano domande di ammissione al passivo con documenti. Curatore raccoglie ed esamina le istanze.Termine per domande: fissato dal tribunale (tipicamente 30 giorni prima dell’udienza di verifica). Generalmente 60-90 gg dopo la sentenza di apertura.
Verifica dello stato passivoUdienza davanti al Giudice Delegato per esaminare le domande di credito. Formazione stato passivo: ammissione o esclusione dei crediti con decreto.Udienza di verifica: di solito 90-120 gg dopo la sentenza. Decreto di esecutività entro pochi giorni dalla chiusura dell’udienza (massimo 30 gg). Possibili udienze aggiuntive se crediti numerosi.
Impugnazioni dello stato passivoCreditori esclusi o parzialmente ammessi (e il debitore) possono proporre opposizione allo stato passivo in tribunale collegiale.Entro 30 giorni dalla comunicazione del decreto di esecutività del passivo. Durata del giudizio di opposizione: variabile (può protrarsi 6-12 mesi o più).
Redazione programma di liquidazioneCuratore redige piano dettagliato per la liquidazione dei beni (modalità di vendita, eventuale esercizio provvisorio, azioni legali, ecc.), lo sottopone al Comitato creditori e al GD per approvazione.Entro 180 giorni dalla sentenza di apertura (termine di legge) per presentare il programma. Approvazione nelle settimane successive (dopo parere comitato).
Liquidazione dell’attivoEsecuzione delle vendite di beni mobili, immobili, aziende; incasso crediti; eventuale affitto d’azienda; esercizio provvisorio se autorizzato. Realizzazione graduale di tutto il patrimonio fallimentare.Inizio subito dopo approvazione programma. Durata effettiva: di regola 1-3 anni per attivi ordinari; per attivi complessi (molti immobili o contenziosi) 3-5 anni. Limite legale: 5 anni dall’apertura (proroghe solo per vendite difficili).
Riparti parziali ai creditoriDistribuzione ai creditori delle somme via via recuperate, secondo ordine di prelazione. Curatore propone piani di riparto, GD li approva, si effettuano i pagamenti (acconti).Durante la liquidazione, appena c’è cassa sufficiente. Tipicamente 1° riparto entro 12-18 mesi dall’inizio, successivi man mano (ogni volta che si monetizza una parte consistente di attivo).
Eventuale concordato fallimentarePossibilità di proposta di concordato nella liquidazione da parte del debitore o di terzi: offerta ai creditori di un pagamento parziale in cambio della chiusura anticipata. Se approvato da creditori e omologato dal tribunale, la procedura si chiude.Può intervenire in qualsiasi momento dopo l’esecutività dello stato passivo e prima del riparto finale. Procedura di concordato: ~2-4 mesi tra proposta, votazione e omologa.
Chiusura della proceduraEsaurita la liquidazione, Curatore presenta conto finale e piano di riparto finale. GD emette decreto di chiusura per completamento operazioni (o per concordato omologato, o per insufficienza attivo). La società fallita viene cancellata, il fallito persona fisica torna in bonis (fatti salvi i debiti residui).Quando tutti i beni sono liquidati e distribuiti. Nel caso di normale completamento: di solito entro 2-5 anni dall’apertura (coincide con l’esaurimento attivo). In caso di concordato: anche prima. In caso di insufficienza attivo: può avvenire precocemente (anche <1 anno) se si riscontra subito la mancanza di qualsiasi attivo utile.
Riapertura (eventuale)Se dopo la chiusura si scoprono nuovi beni o sopravvenienze significative, il tribunale può disporre la riapertura del fallimento per liquidare tali cespiti a favore dei creditori.Entro 1 anno dalla chiusura (istanza di parte). La riapertura ha propria durata a seconda dei beni scoperti (di solito breve se è un singolo cespite da vendere).
Esdebitazione (persona fisica)Liberazione del debitore dagli eventuali debiti rimasti insoddisfatti, su decisione del tribunale, se il debitore è meritevole (nessuna frode, cooperazione durante la procedura). Cancella i debiti residui verso i creditori concorsuali.Domanda da presentare entro 1 anno dalla chiusura. Decisione del tribunale in qualche mese. Efficacia definitiva decorso termine reclami (oppure subito se non vi sono opposizioni).

Tabella 2 – Attori della procedura di liquidazione giudiziale e principali ruoli/obblighi

SoggettoRuolo e funzioni principaliObblighi e responsabilità
Tribunale (collegio)Giudice competente a dichiarare la liquidazione giudiziale con sentenza; decide sui reclami contro la sentenza o altri provvedimenti del GD; nomina e revoca il Curatore; può autorizzare atti di particolare rilevanza (es. concordato fallimentare).Deve assicurare il corretto svolgimento della procedura e il rispetto della legge. Responsabile della nomina di curatori qualificati. Decide con provvedimenti motivati.
Giudice Delegato (GD)Magistrato delegato alla procedura: dirige le operazioni correnti. Autorizza gli atti del Curatore che richiedono permesso (vendite, esercizio provvisorio, transazioni, ecc.); sovrintende alla formazione dello stato passivo (presiede udienza verifica crediti, emette decreto stato passivo); vigila sull’operato del Curatore; emette decreto di chiusura.Obbligo di imparzialità e tempestività. Deve esaminare attentamente le domande di credito, garantire il contraddittorio, motivare decisioni di esclusione. Vigila che il Curatore agisca con diligenza; può sostituirlo se negligente.
CuratoreOrgano gestore della procedura: amministra e liquida il patrimonio del fallito. Prende possesso dei beni, compie l’inventario; prosegue l’eventuale esercizio dell’impresa se autorizzato; predispone il programma di liquidazione; individua i creditori e verifica i crediti; forma proposta di stato passivo; realizza l’attivo (vende beni, riscuote crediti, promuove azioni revocatorie e di responsabilità); ripartisce il ricavato tra i creditori; redige il rendiconto finale.Deve svolgere l’incarico con diligenza e trasparenza. Obbligo di informare costantemente il GD e il Comitato; di astenersi da conflitti di interesse; di rispettare i termini di legge (60 gg per relazione iniziale, 180 gg per programma, ecc.). È pubblico ufficiale negli atti compiuti. Responsabile civilmente per danni causati da negligenza grave nella gestione. Deve garantire parità di trattamento ai creditori e massimizzazione dell’attivo, evitando favoritismi.
Comitato dei CreditoriCollegio di 3 membri scelti tra i creditori, rappresentativo delle varie categorie (se nominato). Formula pareri non vincolanti su atti del Curatore: es. approvazione programma di liquidazione, autorizzazione esercizio provvisorio, vendite a trattativa privata, transazioni, rinuncia ad azioni, riparti. Vigila sull’operato del Curatore (può ispezionare conti e documenti).Membri hanno obbligo di agire nell’interesse della massa dei creditori e con buona fede. Divieto di disclosure: devono mantenere riservate le informazioni acquisite. Devono esprimere pareri motivati in tempi rapidi per non rallentare la procedura. Nessun compenso (solo rimborso spese): svolgono funzione pubblicistica. Possono essere rimossi dal GD se inattivi o in conflitto.
Debitore (fallito)Una volta dichiarato il fallimento, il debitore perde la gestione dei propri beni ma rimane parte formale della procedura. Può essere interrogato dal GD e dal Curatore; può proporre eventuale concordato fallimentare; può presentare osservazioni allo stato passivo; può impugnare decisioni (reclamo contro la sentenza, opposizioni a stato passivo per crediti contestati, reclami su riparti se crede). Se persona fisica, può chiedere l’esdebitazione dopo la chiusura.Obbligo di collaborazione leale: deve consegnare al Curatore libri contabili e documenti; fornire informazioni veritiere su attività e passività; comparire alle convocazioni del GD; segnalare eventuali beni sopravvenuti; non sottrarre né occultare beni. Divieto di gestire o disporre dei beni inclusi nel fallimento: ogni atto compiuto dopo la sentenza è inefficace. Obbligo di comunicare eventuale cambio di residenza. Se inadempie ai doveri, rischia sanzioni: preclusione all’esdebitazione, possibili conseguenze penali (bancarotta). Persona fisica soggetta inoltre a incapacità temporanee: non può avviare nuova impresa né assumere cariche societarie durante la procedura.
Creditori concorsualiTutti i creditori aventi cause o titoli anteriori all’apertura partecipano al concorso. Devono presentare domanda di insinuazione per essere ammessi al passivo e poi ricevono distribuzioni in base al rango e proporzione. Possono costituire Comitato (se nominati). Votano su eventuale concordato fallimentare. Possono proporre iniziative: es. istanza di fallimento, istanze di revoca del curatore, reclami su atti lesivi, ecc.Obbligo di insinuarsi entro termini se vogliono far valere il credito: chi non si attiva perde il diritto di partecipare ai riparti. Una volta insinuati, non possono intraprendere azioni esecutive individuali (divieto ex lege) né perseguire autonomamente il fallito per il credito concorsuale. Devono comportarsi secondo buona fede anche nelle impugnazioni, evitando di intralciare indebitamente la procedura. Se fanno parte del Comitato, hanno gli obblighi visti sopra (diligenza, riservatezza).
Creditori prededucibili(Fornitori e professionisti della procedura, lavoratori dell’esercizio provvisorio, ecc.) Quelli il cui credito nasce durante la procedura o è così qualificato dalla legge. Hanno diritto a essere pagati prima dei crediti concorsuali, con preferenza assoluta sul ricavato.Devono cooperare affinché la procedura sia efficiente (es. fornire beni o servizi concordati col Curatore). Non soggiacciono all’insinuazione (di regola il curatore li paga man mano previa autorizzazione GD), ma potrebbero dover insinuarsi se rimangono insoddisfatti.
Pubblico MinisteroOrgano che può aver iniziato la procedura segnalando l’insolvenza. Durante il fallimento, vigila sul rispetto della legalità. Può intervenire nelle udienze importanti (es. concordato fallimentare). Riceve la relazione del Curatore sulle cause di insolvenza e verifica la sussistenza di reati; in caso positivo, avvia o prosegue l’azione penale (es. indaga per bancarotta). Può proporre reclamo contro la sentenza se ravvisa errori.Il PM ha potere-dovere di intervento quando emergono fatti penalmente rilevanti (richiede misure cautelari, se del caso, verso il fallito indagato). Deve astenersi dall’interferire nella gestione economica (che spetta al curatore), salvo agire per tutela di interessi generali (es. può chiedere la revoca di un concordato se fraudolento). Obbligo di segnalare all’autorità giudiziaria eventuali illeciti commessi da curatore o altri organi.
Ausiliari e peritiProfessionisti nominati dal Tribunale o dal GD per coadiuvare il Curatore in specifiche attività (es. stima di un immobile, conduzione di esercizio provvisorio, supporto legale in cause). Non sono organi autonomi, ma figure di supporto tecnico.Devono svolgere l’incarico conferito con perizia e diligenza tecnica. Rispondono al Curatore e al GD. Sono soggetti a obblighi di riservatezza e imparzialità. Il loro compenso è pagato dalla procedura in prededuzione e dev’essere proporzionato all’opera svolta.

Tabella 3 – Costi e oneri economici della procedura di liquidazione giudiziale

Voce di costoImporto/criterioChi paga / Note
Contributo unificato e bolli iniziali€98,00 (contributo unificato fisso per il ricorso) + €27,00 (marca da bollo). Esenti da CU alcune categorie (lavoratori che chiedono fallimento del datore).Anticipato da chi presenta il ricorso (creditore istante o debitore in autofallimento). Se più creditori intervengono, in genere ognuno il suo CU. Costo contenuto (circa €125 totali).
Eventuale fondo spese inizialiIn alcuni tribunali si richiede all’istante (creditore) un deposito cauzionale per spese vive (es. €500-1.000), se si presume l’assenza di liquidità immediata nel fallimento.Anticipato dal creditore istante; servirà a coprire le prime spese (notifiche, sopralluoghi). Se poi la massa ha attivo, questo anticipo verrà rimborsato all’istante in prededuzione; se no, il creditore ne sopporta la perdita. (Prassi non uniforme: formalmente il CCII prevede l’intervento del Fondo Giustizia per spese, ma spesso i tribunali cautelano con questi depositi).
Compenso del CuratoreLiquidato dal Tribunale a fine procedura (o acconti in corso) secondo parametri di legge (D.M. 21/06/2021). È calcolato a scaglioni percentuali sull’attivo realizzato + passivo esaminato. Es: 12% sui primi €15.000 attivo, 9% da 15k a 75k, a scalare fino ~1% su eccedenze oltre €50 mln (valori indicativi). Minimo €800. Possibili maggiorazioni o riduzioni (max ±40%) a discrezione del giudice per complessità, risultati, tempestività.Pagato dalla massa attiva in prededuzione (priorità assoluta). Se l’attivo non basta a remunerare interamente il curatore, egli può accedere al Fondo di Garanzia dello Stato per la parte non coperta (nei limiti di legge). Se la procedura non ha attivo (chiusura insufficienza), il curatore ha diritto a un compenso ridotto stabilito normativamente (oggi può essere chiesto allo Stato un importo fisso modesto).
Spese generali di proceduraSpese di giustizia: marche, diritti, contributi per iscrizioni, pubblicazioni sul Registro Imprese, tasse di registrazione atti. – Spese di custodia e amministrazione: es. affitto magazzini per beni, assicurazioni, vigilanza, utenze (luce, gas) se c’è esercizio provvisorio, costi di manutenzione beni.- Spese di vendita: compensi ai delegati alle vendite (notai), commissioni d’asta, perizie di stima, pubblicità dei bandi, bolli per trasferimenti immobiliari (registro, ipocatastali).Tutte a carico della massa attiva (prededuzione). Il Curatore le paga con i fondi della procedura. Se manca liquidità iniziale, alcune sono prenotate a debito (anticipate dallo Stato): es. imposta di registro della sentenza, imposta ipotecaria per trascrizioni – verranno recuperate se entra attivo. Le spese di giustizia hanno priorità su ogni altro pagamento.
Compensi altri organi (Comitato dei creditori)I membri del Comitato non percepiscono compenso per la loro funzione. Solo il rimborso delle spese vive documentate eventualmente sostenute per partecipare alle attività (es. viaggi per riunioni).
Compensi ausiliari e consulenti del CuratoreSe nominati: periti stimatori, coadiutori tecnici, avvocati per cause, ecc. Liquidati dal GD di regola al termine dell’incarico, secondo tariffe professionali (es. per avvocati, DM parametri forensi; per periti, parametri CTU).Pagati dalla massa in prededuzione. Il Curatore deve chiedere autorizzazione per assumere consulenti e per transigere eventuali parcelle. Anche questi compensi, se la massa è incapiente, possono in parte gravare sul Fondo di Stato (specie patrocinio a spese Stato per cause attive del fallimento).
Credito IVA e altre imposteLa procedura fallimentare ha partita IVA propria (subentra nella gestione del soggetto fallito per operazioni durante il fallimento). Può maturare debito IVA su vendite attivo o altre imposte (es. registro sulle vendite).Le imposte relative alle operazioni concorsuali sono spese di procedura (prededotte). L’IVA sulle vendite di beni fallimentari spesso è neutralizzata dal regime del reverse charge o split payment. Le imposte di registro ipotecarie/catastali sulle vendite giudiziarie immobiliari sono pagate dall’acquirente per legge (imposte a carico di chi compra).
Fondo di Garanzia INPS (TFR e stipendi)Se presenti lavoratori dipendenti non soddisfatti all’apertura, essi possono chiedere al Fondo di Garanzia Inps il TFR e max 3 mensilità di retribuzione. L’INPS paga i lavoratori e subentra come creditore privilegiato nel fallimento per gli importi versati.Il ricorso al Fondo non è un costo per la procedura: agevola i lavoratori anticipando loro somme. L’INPS recupererà in prededuzione (per le ultime 3 mensilità, privilegio generale) e privilegio sul TFR (privilegio generale entro massimale) durante i riparti. In pratica, nelle spese il Curatore considera l’INPS come creditore privilegiato al posto dei lavoratori pagati dal Fondo.
Altre spese eventualiProcedure collegate: es. costi di fallimenti estesi a soci illimitatamente responsabili (unica massa, quindi costi unificati).- Spese legali di creditori opponenti: se il creditore fa opposizione allo stato passivo e vince, le spese legali a suo favore sono a carico della massa (prededuzione). Viceversa, se il fallimento vince, può recuperare spese dall’opponente (ma di fatto è lo stesso attivo che non viene decurtato).- Eventuale concordato fallimentare: i costi di convocazione e voto dei creditori, compensi del commissario giudiziale (se nominato) – sono spese a carico del fallimento, prededucibili.Tutte ricadono sulla massa attiva. Se attivo incapiente, si applicano le regole generali: lo Stato interviene per le spese essenziali, il resto rimane non pagato se non ci sono fondi. In caso di concordato fallimentare, di solito si prevede nel piano il pagamento di tutte le spese in prededuzione al 100%.

FAQ – Domande frequenti sulla liquidazione giudiziale

D: La “liquidazione giudiziale” è la stessa cosa del fallimento?
R: Sostanzialmente sì. Il nuovo Codice della crisi (in vigore dal 2022) ha rinominato il fallimento in “liquidazione giudiziale”. La struttura della procedura è rimasta molto simile: dichiarazione giudiziale d’insolvenza, spossessamento del debitore, nomina di un curatore, formazione del passivo e liquidazione dell’attivo per pagare i creditori. Dunque, a livello pratico, parlare di fallimento o di liquidazione giudiziale equivale a riferirsi allo stesso istituto (solo aggiornato nelle regole). Il legislatore ha voluto eliminare il termine “fallito” per attenuare lo stigma(letteralmente di “fallimento”) associato a un discredito personale. La sostanza giuridica però non cambia: la liquidazione giudiziale rimane la procedura concorsuale liquidatoria applicabile all’imprenditore insolvente, come era il fallimento. In pratica, si può usare ancora il termine fallimento per farsi capire (tanto che molti provvedimenti parlano di “già fallimento”), ma nei documenti ufficiali odierni troverete “liquidazione giudiziale”. Ad esempio, un’istanza di creditore sarà intitolata a chiedere la liquidazione giudiziale del debitore, e la sentenza dichiarativa ne decreterà l’apertura. Dunque fallimento = liquidazione giudiziale (solo che dal 2022 bisognerebbe dire quest’ultimo, nome più “neutro”).

D: Chi può essere dichiarato in liquidazione giudiziale? Un privato cittadino può “fallire”?
R: Possono essere assoggettati alla liquidazione giudiziale solo gli imprenditori che esercitano attività d’impresa commerciale (società o ditte individuali) e che superino certi limiti dimensionali. Un privato consumatore o, ad esempio, un professionista (avvocato, medico) non può essere dichiarato fallito, anche se indebitato: per loro esistono le procedure di sovraindebitamento (accordi o liquidazione controllata) distinte dal fallimento. Allo stesso modo, un imprenditore agricolo (coltivatore diretto, azienda agricola) è escluso dal fallimento per espressa esenzione di legge. In generale, la legge fallimentare (ora CCII) ha sempre escluso i debitori non commerciali e i piccoli imprenditori: se un soggetto non ha superato congiuntamente €300.000 di attivo, €200.000 di ricavi annui e €500.000 di debiti totali, è considerato “imprenditore minore” e non fallisce. Quindi, ad esempio, un artigiano individuale di piccolissime dimensioni (sotto quelle soglie) non è soggetto a liquidazione giudiziale: i suoi eventuali creditori dovranno agire con strumenti ordinari (esecuzioni individuali) o, se vuole lui stesso gestire la crisi, potrà chiedere la liquidazione controllata (ex legge 3/2012). Invece, un commerciante o una società di capitali insolvente normalmente può essere dichiarato in liquidazione giudiziale, a meno che sia anch’esso sotto soglia. Ricordiamo anche che alcune categorie seguono procedure proprie: ad esempio banche, assicurazioni, società finanziarie non falliscono secondo il CCII ma sono liquidate con la liquidazione coatta amministrativa (procedura gestita dalle Autorità di vigilanza). Le società pubbliche (partecipate dallo Stato) hanno regimi speciali. Dunque il fallimento è pensato soprattutto per le imprese private medio-grandi. Una persona fisica “qualunque” non può fallire; se però quella persona fisica esercitava un’impresa commerciale (es. un commerciante al dettaglio) sopra soglia e diviene insolvente, allora sì, verrà dichiarato fallito come imprenditore. In pratica, il tribunale valuta se il soggetto è fallibile quando esamina l’istanza: se non lo è, rigetta l’istanza (es. un creditore non può far fallire un consumatore per debiti di condominio o di carte di credito, perché non è imprenditore).

D: Quali sono i costi di un fallimento? Il debitore fallito deve pagare qualcosa?
R: Le spese della procedura comprendono i compensi del curatore e degli altri organi, i costi delle perizie, delle aste, i contributi fiscali, ecc., ma non ricadono direttamente sul debitore in proprio. Si pagano infatti con le risorse ricavate dal patrimonio fallimentare. La legge prevede che tutte queste spese siano debiti in prededuzione, da soddisfare con priorità assoluta sull’attivo. Quindi, ad esempio, se la curatela incassa €50.000 vendendo i beni, prima verranno pagate le spese (supponiamo €10.000 tra compensi e costi vari) e solo il rimanente €40.000 andrà ai creditori. Se l’attivo è molto piccolo e non copre neanche le spese, la procedura verrà chiusa per insufficienza e i professionisti (curatore, ecc.) riceveranno un compenso minimo eventualmente a carico dello Stato. Il debitore persona fisica dunque non deve sborsare nulla di tasca propria per le spese di procedura: paga indirettamente cedendo il suo patrimonio alla massa. L’unico esborso che potrebbe avere è se lui stesso chiede il fallimento (autofallimento): in tal caso anticipa il contributo unificato di €98 e la marca da bollo €27 per il ricorso – importi molto contenuti. Anche un creditore istante affronta costi modesti: contributo unificato (€98) ed eventuale piccola cauzione iniziale (in alcuni tribunali qualche centinaio di euro) per le spese vive immediate. Se il fallito possiede beni, tali anticipi saranno rimborsati. Diciamo che, diversamente da un concordato preventivo dove l’impresa deve accollarsi costi notevoli di consulenze e depositare fondi, nel fallimento il debitore insolvente non deve avere liquidità: la procedura si autofinanzia (realizzando i beni) o, in mancanza, viene abortita in breve tempo.

D: Quanto dura la procedura di liquidazione giudiziale?
R: La durata può variare molto in base alla complessità del caso. Mediamente, un fallimento di media dimensione in Italia è durato in passato tra i 3 e i 5 anni. Oggi il Codice della crisi ha posto dei limiti temporali: in origine si auspicava di liquidare l’attivo in 2 anni, poi con le modifiche si è fissato un tetto di 5 anni massimo per completare la liquidazione, prorogabile solo in circostanze eccezionali. In realtà, non tutte le procedure riescono a stare entro questo termine (si pensi a casi con contenziosi decennali), ma l’intento del legislatore è di evitare i fallimenti “infiniti”. Le fasi iniziali sono abbastanza rapide: la sentenza si ottiene spesso in pochi mesi dall’istanza; la verifica dei crediti entro 4-6 mesi dall’apertura; già entro un anno spesso si fanno i primi riparti. La vendita dei beni è ciò che tipicamente richiede più tempo: ad esempio, vendere vari immobili con aste deserte può prolungare la procedura. Oppure azioni di responsabilità contro amministratori possono durare anni in tribunale. Con le nuove norme, il curatore è incentivato a chiudere presto anche cedendo quelle cause e quei beni che richiederebbero troppo tempo. Quindi è verosimile che nei prossimi anni la durata media effettiva si riduca. Ci sono comunque casi semplici che si chiudono in 1-2 anni (fallimenti di piccole aziende con pochi beni, o chiusure per insufficienza attivo dove dopo la verifica crediti non c’è nulla da fare). E poi ci sono casi complessi che sconfinano oltre i 5 anni: ma dopo 5 anni il curatore dovrà chiedere al giudice delegato un’estensione giustificata, altrimenti si andrà a chiusura comunque. In sintesi: qualche anno è quasi inevitabile per esaurire tutte le operazioni, ma rispetto al passato la procedura è più incalzata a concludersi. Va detto che per il debitore persona fisica l’attesa per l’esdebitazione è breve: lui può chiederla subito dopo la chiusura, quindi anche se i creditori non han preso molto, almeno il debitore entro quel lasso di tempo viene liberato. Per i creditori, purtroppo, la tempistica di soddisfo dipende dall’andamento delle vendite: possono ricevere acconti durante il fallimento (se c’è attivo) e il saldo alla fine.

D: Che differenza c’è tra la liquidazione giudiziale e la liquidazione volontaria di una società?
R: La liquidazione giudiziale (fallimento) presuppone l’insolvenza e comporta la spossessione del debitore a favore di un curatore nominato dal tribunale. È coatta e concorsuale: decisa dal giudice su istanza di parte, vincola tutti i creditori. Invece la liquidazione volontaria è la procedura di scioglimento ordinario di una società quando i soci decidono di cessare l’attività pur essendo la società solvibile. In tal caso, l’assemblea nomina un liquidatore volontario, che paga i debiti con il patrimonio sociale e poi distribuisce l’eventuale residuo ai soci. Non c’è dichiarazione d’insolvenza né intervento del tribunale (se non un controllo finale), e soprattutto i creditori non concorrono tra loro: devono essere soddisfatti integralmente, altrimenti la liquidazione volontaria si trasforma in concorsuale. Dunque, la liquidazione volontaria è una procedura “in bonis”, scelta libera e interna alla società, mentre la liquidazione giudiziale è per situazioni di crisi irreversibile e mira a tutelare i creditori in modo imparziale. Spesso, se durante la liquidazione volontaria emerge che la società non può pagare tutti i debiti, il liquidatore volontario deve chiedere l’apertura del fallimento (o i creditori lo faranno). In pratica: liquidazione volontaria = chiusura ordinata di una società solvibile; liquidazione giudiziale = fallimento per società insolvente.

D: In caso di fallimento di una società di persone (snc, sas), cosa succede ai soci?
R: Nelle società di persone i soci hanno responsabilità illimitata per i debiti sociali (i soci accomandanti di S.a.s. limitata). Se fallisce una SNC o una S.a.s., per legge il fallimento si estende automaticamente ai soci illimitatamente responsabili, anche se non esplicitamente dichiarati nella sentenza (art. 256 CCII). Ciò significa che il patrimonio personale dei soci illimitati viene incluso nella massa e anch’esso liquidato dal curatore per pagare i creditori sociali. In pratica curatore gestirà due masse (società e soci) ma coordinate. Il socio fallito ha poi gli stessi effetti personali di un fallito qualsiasi (spossessamento dei suoi beni, ecc.). Se la società era già in liquidazione volontaria e i soci hanno pagato alcuni debiti, quell’aver pagato potrebbe aver ridotto la loro esposizione. Ma in generale, i creditori della società potranno rivalersi sui beni sociali e, se non bastano, su quelli dei soci (attraverso la procedura fallimentare unificata). Quanto ai soci accomandanti (responsabilità limitata), non falliscono di riflesso la società: rispondono solo nei limiti dei conferimenti, quindi se li hanno versati del tutto, non rischiano altro (a meno che abbiano compiuto atti da accomandatari di fatto, caso in cui potrebbero essere considerati illimitatamente responsabili). Per le società di capitali (SRL, SPA), i soci non rispondono dei debiti sociali (salvo particolari eccezioni come soci garante): dunque se fallisce la SRL, i soci non falliscono e non devono pagare i debiti sociali con il proprio patrimonio (perdono solo l’investimento nelle quote/azioni). In sintesi: società di persone insolvente = falliscono società e soci illimitati; società di capitali insolvente = fallisce solo la società, i soci stanno fuori (a meno abbiano garanzie personali).

D: Se un imprenditore individuale fallisce, i suoi beni personali vengono venduti? Cosa può trattenere?
R: Quando fallisce un imprenditore individuale, tutto il suo patrimonio personale diventa parte della massa fallimentare, ad eccezione di alcuni beni impignorabili per legge. In pratica, il curatore prende possesso sia dei beni d’impresa (magazzino, attrezzature, ecc.) sia dei beni privati del titolare (conto corrente personale, immobili intestati a lui, auto personale, ecc.), perché per i creditori non c’è distinzione: rispondono tutti i beni presenti e futuri del debitore (art. 2740 c.c.). Ci sono però beni che per legge non possono essere toccati nemmeno dai creditori, e quindi restano al fallito. Sono i beni indicati dall’art. 545 c.p.c.: ad esempio, i vestiti, i mobili ed elettrodomestici indispensabili per la vita quotidiana, ricordi di famiglia, medaglie, e in generale gli oggetti di uso personale del debitore e della famiglia non di lusso. Anche eventuali strumenti di lavoro indispensabili per il debitore (se è un lavoratore dipendente, i suoi attrezzi del mestiere) sarebbero impignorabili, ma se quell’attività coincide con l’impresa fallita, di fatto li prende il curatore per liquidarli salvo lasciargli quelli strettamente necessari per vivere. Inoltre, sono protette le somme a titolo di mantenimento/alimenti (es. assegno divorzile che il fallito riceve non glielo tolgono per pagare i creditori). Anche una parte degli stipendi/pensioni eventualmente percepiti dal fallito durante la procedura non viene toccata: la legge vieta di pignorare l’ultimo stipendio e comunque consente la pignorabilità solo di una parte (di solito 1/5) degli stipendi mensili. Il curatore di norma lascia al fallito quanto necessario per il sostentamento minimo. Quindi, sì: l’imprenditore persona fisica in fallimento perde casa, auto, conti correnti, ecc. se sono di valore. Ma non gli verranno portati via i letti, il frigorifero, i vestiti, e magari neppure l’auto se dimostra che è strumentale per accompagnare un familiare disabile (situazioni da valutare). Se è coniugato in comunione dei beni, attenzione: la metà dei beni comuni entra nel fallimento, l’altra metà resta al coniuge. Se è in separazione dei beni, i beni intestati al coniuge sono fuori. Infine, dopo la chiusura del fallimento, l’ex fallito torna in possesso dei (pochi) beni eventualmente non liquidati (ad esempio crediti inesigibili o beni rimasti invenduti perché senza mercato).

D: I debiti fiscali (Erario) e i debiti verso enti previdenziali (INPS) passano nel fallimento? Vengono cancellati?
R: Sì, anche lo Stato e gli enti pubblici devono partecipare al concorso fallimentare per i crediti di imposte, tasse e contributi sorti prima del fallimento. Essi si insinuano come tutti i creditori, di solito con privilegi: ad esempio, l’IVA e le ritenute non versate hanno privilegio generale sui beni mobili (fino al 50% dell’attivo) e altri crediti tributari hanno gradi di privilegio più bassi o sono chirografari. I contributi INPS hanno anch’essi privilegio generale. In sostanza, il curatore quando elabora lo stato passivo include anche l’Agenzia Entrate (spesso per IVA, IRES, IRPEF non pagati) e l’INPS (contributi), Equitalia/Riscossione (cartelle). Questi enti verranno soddisfatti in sede di riparto secondo il loro grado di privilegio (di solito dopo i lavoratori e le spese, ma prima dei chirografari comuni). Se il patrimonio non basta, la parte non pagata dei loro crediti rimane insoddisfatta. Va sottolineato che con l’eventuale esdebitazione, il debitore persona fisica viene liberato anche dai debiti tributari residui (salvo che siano derivati da condotte illecite fiscali: ad es. multe penali o sanzioni amministrative non tributarie restano fuori). Quindi, se un imprenditore fallisce con debiti fiscali enormi, il Fisco prende quello che può nella procedura e per il resto – a fallimento chiuso ed esdebitato – non può più perseguitarlo (il CCII elimina anche il vecchio requisito del pagamento parziale minimo, quindi l’esdebitazione può riguardare anche debiti erariali non pagati affatto per mancanza di attivo). Diverso è il caso di sanzioni penali o amministrative inflitte personalmente al debitore (es. multa per reato tributario, ammenda, sanzione amministrativa antitrust): quelle non sono debiti “concorsuali” perché nascono dopo ed essendo punizioni personali non sono scaricabili sui creditori; il fallimento non le tocca e il debitore ne risponde anche post-esdebitazione (art. 279 CCII). Ma parliamo di situazioni particolari. Insomma, le tasse “morte” muoiono con il fallimento, in massima parte. Attenzione: se il debitore non è persona fisica (società), la questione esdebitazione non si pone – la società una volta finito il fallimento si estingue e i crediti fiscali insoddisfatti rimangono inesigibili, salvo garanzie o obblighi dei soci.

D: Il fallimento comporta conseguenze penali per l’imprenditore?
R: Il semplice fatto di fallire non è di per sé reato, ma il codice penale (e il CCII) prevede una serie di reati fallimentari collegati alle condotte del debitore prima o durante la procedura. Il più grave è la bancarotta fraudolenta: ad esempio, se l’imprenditore prima del fallimento ha distratto o sottratto beni dell’azienda per non farli trovare ai creditori, oppure ha falsificato i libri contabili per nascondere ammanchi, o ha fatto sparire documenti, commette bancarotta fraudolenta patrimoniale o documentale (punita con reclusione fino a 6-10 anni). Anche pagare preferenzialmente un creditore a discapito degli altri, quando si era già in insolvenza, costituisce bancarotta fraudolenta preferenziale (se c’è intenzione dolosa di favorirlo). Se queste azioni non sono dolose ma c’è stata imprudenza, si può configurare la bancarotta semplice (ad es. l’imprenditore ha aggravato il dissesto con spese personali eccessive o ha ritardato la dichiarazione di fallimento senza mala fede): è reato minore, punito fino a 2 anni. Inoltre, il fallito che non collabora può incorrere in reati: se non consegna i libri o non fornisce spiegazioni, può integrare bancarotta semplice. Durante la procedura, se nasconde beni al curatore o li distrae, è bancarotta (continuata). Ci sono poi reati per chi favorisce il fallito (es. favoreggiamento reale) e per l’eventuale curatore infedele. Ma per l’imprenditore tipicamente la Procura valuta la bancarotta. Va detto: non tutti i fallimenti sfociano in un procedimento penale! Solo quelli dove emergono anomalie gravi. Se l’imprenditore ha gestito male ma onestamente e la crisi è dovuta a sfortuna o mercato, potrebbe non esservi imputazioni (o al più bancarotta semplice per aver tardato la richiesta di fallimento). La gran parte delle bancarotte fraudolente riguardano distrazioni di beni o contabilità sparita. Quindi, al fallito onesto non “capita automaticamente il carcere”. Tuttavia, chi fallisce è soggetto a indagini d’ufficio: il curatore stila una relazione con sospetti di reato e la manda al PM, il quale spesso apre un fascicolo per verificare. Se tutto è regolare, archivia. Se trova dolo, chiede rinvio a giudizio. Queste vicende penali sono indipendenti dalla procedura: possono proseguire anche dopo la chiusura del fallimento. Un fallito condannato per bancarotta fraudolenta, tra l’altro, non otterrà l’esdebitazione (considerato non meritevole).

D: Che alternative ci sono al fallimento? È possibile evitare la liquidazione giudiziale di un’azienda in crisi?
R: Sì, l’ordinamento mette a disposizione varie procedure concorsuali alternative che il debitore può utilizzare prima di finire in insolvenza conclamata, per evitare il fallimento. Ad esempio: il concordato preventivo, gli accordi di ristrutturazione dei debiti, il piano di risanamento attestato. Questi strumenti puntano a ristrutturare i debiti con il consenso dei creditori, eventualmente con continuità aziendale. Dal 2021 c’è anche la composizione negoziata della crisi, una procedura stragiudiziale di allerta in cui un esperto aiuta l’impresa a trovare un accordo con i creditori ed evitare l’insolvenza. Se l’imprenditore intraprende per tempo una di queste soluzioni e riesce, il fallimento viene scongiurato. Ad esempio, presentando domanda di concordato preventivo prima che il tribunale dichiari il fallimento, si blocca la procedura fallimentare e si cerca di soddisfare i creditori con un piano (magari pagando una percentuale). Il CCII incoraggia molto la soluzione anticipata della crisi: l’imprenditore dovrebbe attivarsi ai primi segnali (indici di crisi) e non aspettare di essere portato in tribunale dai creditori. Purtroppo, molti piccoli imprenditori arrivano in ritardo e a quel punto l’unica opzione è la liquidazione giudiziale. Va ricordato che se un creditore deposita istanza di fallimento ma nel frattempo l’impresa ha già avviato un concordato preventivo o un piano di ristrutturazione omologato, il tribunale non può dichiarare il fallimento (lo dichiarerà solo se anche il concordato fallisce). Quindi la cosa migliore per un imprenditore in difficoltà è giocare d’anticipo: riconoscere la crisi e negoziare con i creditori un accordo prima che il dissesto diventi irreversibile. Spesso si riesce a evitare il fallimento con percentuali di soddisfo modeste concordate ma con l’assenso dei creditori, il che consente di proseguire l’attività (vedasi concordato in continuità). Se invece la situazione è compromessa e nessun accordo è fattibile, la liquidazione giudiziale sarà l’esito naturale. Un’ulteriore via, se i debiti non sono troppo alti e il soggetto è non fallibile, è la liquidazione controllata del sovraindebitato (ex legge 3/2012): procedura concorsuale minore in cui si liquida il patrimonio davanti all’OCC (Organismo di Composizione Crisi) e si ottiene esdebitazione. È il “fallimento dei non fallibili”.

D: Cosa succede ai dipendenti quando l’azienda fallisce?
R: La dichiarazione di fallimento non scioglie automaticamente i contratti di lavoro in essere. Tuttavia, se non viene autorizzato l’esercizio provvisorio, il curatore in genere interrompe l’attività e quindi procede al licenziamento dei dipendenti per cessazione dell’impresa (seguendo le procedure di legge, ad es. licenziamento collettivo). I lavoratori perdono il posto, ma possono attivare subito gli strumenti di tutela: la NASpI (indennità di disoccupazione) e soprattutto il Fondo di Garanzia INPS che interviene a pagare i loro crediti. In particolare, i dipendenti di un’azienda fallita possono chiedere all’INPS il pagamento del TFR maturato e delle ultime retribuzioni rimaste insolute (fino a 3 mensilità). L’INPS, verificati i requisiti, eroga queste somme direttamente al lavoratore nel giro di qualche mese, al fine di non lasciarlo privo di mezzi. Dopodiché l’INPS si inserisce nel fallimento al posto del lavoratore, come creditore privilegiato (subentrando nei privilegi sul TFR e sui salari). In questo modo i dipendenti ricevono gran parte di quanto spettante senza attendere anni la chiusura del fallimento. Eventuali crediti ulteriori (es. più di 3 mensilità arretrate) restano a carico del fallimento: il lavoratore può insinuarsi per essi e verrà soddisfatto – parzialmente – come creditore privilegiato. Se invece il tribunale o il curatore dispongono l’esercizio provvisorio dell’impresa, i contratti di lavoro proseguono temporaneamente sotto la gestione del curatore. In tal caso i dipendenti continuano a percepire stipendio (che è spesa prededucibile) e mantengono il posto almeno per la durata dell’esercizio provvisorio. Se poi l’azienda viene venduta ad un terzo in blocco, può accadere che il terzo si accordi per assumere (in tutto o in parte) i dipendenti, garantendo continuità occupazionale ex art. 2112 c.c. – ma questo dipende dalle circostanze. In sintesi: nella maggior parte dei fallimenti l’attività cessa e i lavoratori vengono licenziati, attivando le tutele INPS. Non è un licenziamento per giusta causa imputabile al lavoratore (è per chiusura azienda), quindi dà diritto a disoccupazione. I loro crediti sono privilegiati e tendenzialmente vengono pagati (in parte dallo Stato, in parte dal fallimento).

D: Dopo il fallimento, il debitore è ancora tenuto a pagare i debiti che non sono stati soddisfatti?
R: Se il debitore è una società, dopo il fallimento la società viene cancellata dal registro imprese e cessa di esistere: i debiti sociali rimasti insoddisfatti si estinguono con essa (i creditori non possono più agire perché il soggetto è estinto). I soci di società di capitali non rispondono oltre, i soci di persone potevano essere già falliti a loro volta. Se invece il debitore è una persona fisica, i debiti residui sussistono giuridicamente anche dopo la chiusura del fallimento, ma la persona può ottenere l’esdebitazione chiedendola al tribunale. L’esdebitazione, se concessa, libera il debitore da tutti i debiti concorsuali residui (cioè quelli originari anteriori al fallimento non soddisfatti integralmente). Il creditore non potrà più pretenderli. Quindi in pratica, per la maggior parte dei casi, un ex fallito persona fisica non dovrà più pagare nulla ai vecchi creditori dopo il fallimento, a condizione che si sia comportato correttamente (requisito di meritevolezza). La nuova legge consente l’esdebitazione anche se i creditori non hanno ricevuto nulla dal fallimento, quindi anche il fallito totalmente incapiente viene liberato (mentre prima serviva avessero avuto almeno un soddisfacimento parziale). Se però l’esdebitazione non è concessa (ad es. perché il fallito ha commesso frodi, o non la chiede affatto), allora i debiti residui tornano esigibili contro di lui: i creditori potrebbero nuovamente fargli causa o pignorargli beni futuri (però spesso costui non avrà più nulla). Da notare: l’esdebitazione non copre eventuali obblighi di mantenimento o alimentari e, in linea di massima, le sanzioni penali/amm.ve a carico del debitore. Copre invece i debiti bancari, commerciali, fiscali, ecc. Infine, l’esdebitazione riguarda i debiti del fallito verso i suoi creditori concorsuali: non libera eventuali coobbligati o garanti. Ad esempio, se Tizio fallito aveva Caio come fideiussore verso una banca, la banca dopo il fallimento potrebbe comunque rivalersi su Caio per la parte non pagata (il fallimento libera Tizio ma non Caio).

D: Conviene presentare istanza di fallimento contro un debitore? I creditori cosa ottengono in un fallimento?
R: Dipende. Il fallimento non crea denaro dal nulla: se il debitore non ha beni, i creditori chirografari rischiano di non vedere un euro. Però il fallimento può scoprire attivi nascosti o azioni risarcitorie che altrimenti un singolo creditore non potrebbe efficacemente perseguire. Quindi, se ci sono beni significativi o sospetto di atti distrattivi, l’istanza di fallimento è utile: mette un professionista (curatore) a indagare e recuperare quanto possibile, e blocca l’ulteriore depauperamento. Inoltre, in caso di insolvenze con molti creditori, evita la corsa disordinata: ciascuno avrà la sua parte proporzionale. Se invece il debitore è un cosiddetto “nullatenente” e i creditori sono pochi, può essere non conveniente avviare il fallimento, perché si aggiungerebbero spese (sebbene come visto sono basse per l’istante) e sforzo, per poi magari chiuderlo subito per mancanza di attivo. In quei casi spesso il tribunale neanche dichiara il fallimento (non si fa luogo a procedura sotto €30.000 debiti e se non c’è attivo). I creditori privilegiati (es. una banca ipotecaria) talvolta preferiscono agire individualmente (pignoramento dell’immobile ipotecato) piuttosto che il concorso, perché nel concorso subiscono magari ritardi o spese. Ma se la situazione è complessa (tanti beni, contenziosi, ecc.), il fallimento offre una gestione unitaria e professionale. In sintesi: per un creditore chirografario con un debitore insolvente, il fallimento è spesso l’unica speranza di recuperare qualcosa (anche se potrebbe essere poco); può valere anche come leva di pressione – spesso la minaccia di istanza di fallimento spinge il debitore a trovare soldi per pagare quel creditore onde evitare guai più grossi. Per un creditore ipotecario con pegno su bene specifico, il vantaggio del fallimento è che quell’immobile verrà venduto libero da vincoli e con certezza giuridica (cosa che anche nell’esecuzione forzata accade, ma nel fallimento viene gestito il riparto se ci sono più ipoteche). C’è da dire che, una volta aperto il fallimento, il singolo creditore non può più muoversi in autonomia: deve attendere il lavoro del curatore e l’eventuale distribuzione. Quindi “conviene” se il curatore riesce a far emergere valore (clausola: ubi nihil, nihil). I creditori generalmente in un fallimento con attivo recuperano percentuali variabili: i privilegiati spesso integralmente o buona parte, i chirografari poco (a volte zero, altre volte 5-10-20%, dipende dall’attivo disponibile dopo i privilegi). Statistiche mostrano che in molti fallimenti minori i chirografari rimangono insoddisfatti. Però ottengono almeno la certezza giuridica dell’insolvenza (utile se ad esempio c’è una fideiussione escutibile). Dunque la valutazione deve farla il creditore: se il debitore ha anche solo beni immobili ipotecati che però non coprono tutto il debito, il fallimento può recuperare altri asset (magari azioni di responsabilità) e permettere di rastrellare fondi aggiuntivi. Se è proprio incapiente, l’istanza può rivelarsi un buco nell’acqua e anzi venire respinta.

D: Che differenza c’è tra liquidazione giudiziale e liquidazione coatta amministrativa?
R: La liquidazione coatta amministrativa (LCA) è un’altra forma di procedura concorsuale liquidatoria, però gestita da un’Autorità amministrativa anziché dall’Autorità giudiziaria ordinaria. Si applica a particolari categorie di imprese pubblicamente vigilate (banche, assicurazioni, cooperative, imprese di trasporto pubblico, etc.) quando vanno in insolvenza o comunque ricorrono presupposti di legge. In pratica, invece di dichiarare il fallimento in tribunale, interviene l’Autorità di settore (es. Banca d’Italia per le banche, IVASS per assicurazioni, Ministero per le cooperative) che dispone la LCA e nomina uno o più commissari liquidatori al posto del curatore. La procedura poi è simile: i commissari accertano passivo e liquidano attivo sotto la supervisione dell’Autorità. Anche qui i creditori concorrono e vengono soddisfatti secondo prelazioni. La differenza sta nel soggetto attivante e vigilante: nella LCA il controllo è amministrativo (c’è un Comitato di sorveglianza nominato dall’ente di vigilanza, e gli atti più importanti vanno approvati dal Ministero/ente), mentre nel fallimento è il giudice delegato. In LCA di solito non c’è esdebitazione perché riguarda entità (società) non persone fisiche. In sintesi, LCA è il “fallimento amministrativo” di enti speciali. Per un creditore, in termini di outcome, cambia poco: dovrà insinuarsi presso i commissari e attenderne i riparti. Un imprenditore ordinario non può chiedere la LCA; se rientra nelle categorie previste, sarà l’Autorità a disporla. Ad esempio, un istituto di credito insolvente non fallisce con curatore ma viene posto in LCA con commissari nominati da Banca d’Italia, e ai depositanti verranno applicate le norme speciali di quell’ambito (Fondo di tutela depositi etc.). In conclusione, la LCA è parallelamente un’altra strada per la liquidazione concorsuale, ma riservata a determinati soggetti e con regìa pubblica (da qui il nome coatta amministrativa).

D: Ho versato un acconto per acquistare un immobile da un’impresa edile, ma questa è fallita prima del rogito. Perdo i miei soldi?
R: Situazione purtroppo frequente. La legge negli anni ha introdotto tutele per i promissari acquirenti di immobili da costruire. Se lei ha stipulato un contratto preliminare per una casa non ancora ultimata, e il costruttore fallisce, può chiedere al curatore di essere ammesso al passivo per le somme versate e l’eventuale danno. In teoria, se l’immobile non è stato trasferito prima del fallimento, il contratto preliminare viene sciolto, salvo lei scelga la via dell’esecuzione specifica ex art. 2932 c.c. Tuttavia, per favorire i casi meritevoli, l’art. 173 CCII consente al promissario acquirente di richiedere il trasferimento dell’immobile (subentrando nel pagamento) se ricorrono certe condizioni: principalmente che l’immobile sia destinato ad abitazione sua o di un prossimo congiunto, e che abbia già pagato almeno il 25% del prezzo con modalità tracciabili. In tal caso il tribunale può autorizzare la cessione dell’immobile in suo favore, escludendo quell’immobile dalla massa (ovviamente dovrà pagare l’eventuale saldo del prezzo). Se queste condizioni non ci sono, purtroppo il preliminare viene sciolto e lei diventa un creditore chirografario del fallimento per l’acconto versato. Potrà insinuarsi al passivo chiedendo la restituzione di €X di acconto e magari un risarcimento per il mancato affare, ma sarà soddisfatto solo pro-quota come chirografario (spesso con poco o nulla). Per evitare questi rischi, oggi è obbligatorio per i costruttori rilasciare una fideiussione a garanzia degli acconti incassati su immobili da costruire: se ciò è stato fatto, lei può escutere la fideiussione (banca/assicurazione) per riavere i soldi fuori dal fallimento. Inoltre, se il costruttore le aveva già consegnato l’immobile e lei ci abita, c’è un diritto di prelazione sull’acquisto all’asta. In sintesi: senza tutele, l’acquirente rischia di perdere l’anticipo; con le tutele nuove (fideiussione obbligatoria, e privilegio per acquirente di abitazione – introdotto dal D.lgs 122/2005) il danno può essere contenuto. Negli altri casi di acconti per forniture generiche (es. ho dato caparra per merce mai consegnata), quel credito si insinua al passivo come chirografo.

D: Dopo il fallimento potrò aprire una nuova attività o ricoprire cariche societarie?
R: Durante la procedura concorsuale, no: il fallito imprenditore individuale è interdetto dall’esercitare una nuova impresa commerciale o dall’assumere cariche in società (amministratore, sindaco, liquidatore). Questa incapacità dura per tutto il tempo del fallimento. Se cercasse di aprire una partita IVA a suo nome, incontrerebbe ostacoli (e comunque qualsiasi nuovo bene prodotto verrebbe catturato dal fallimento in corso). Anche diventare amministratore di una società è vietato. Ciò per evitare che continui ad accumulare debiti altrove mentre non ha saldato i precedenti. Dopo la chiusura, invece, riacquista la piena capacità, salvo il fatto che se non è esdebitato, i vecchi creditori potrebbero perseguitarlo su ciò che di nuovo dovesse guadagnare. Ma sul piano formale, una volta chiuso il fallimento (e ancor più se esdebitato), può tornare a fare impresa. La legge fallimentare prevedeva un periodo di inabilitazione di 5 anni post-fallimento salvo riabilitazione; il CCII con l’esdebitazione rimuove subito le limitazioni una volta concesso il beneficio. Quindi, se lei fallisce come persona fisica, chiude il fallimento e ottiene esdebitazione, può aprire subito una nuova ditta. Ovviamente dovrà conquistarsi la fiducia dei fornitori e del sistema creditizio da capo (il precedente fallimento potrebbe renderlo più difficile ottenere credito, ma legalmente nulla osta). Per quanto riguarda le cariche societarie, c’è una norma nel Codice Civile (art. 2382) che vieta di assumere la carica di amministratore di S.p.A. a chi è interdetto o inabilitato o dichiarato fallito, finché non sia ottenuta la riabilitazione. Con l’esdebitazione, di fatto si ottiene l’equivalente di una riabilitazione. Quindi, l’ex fallito meritevole può tornare anche alla guida di società, mentre chi non ha ottenuto esdebitazione deve aspettare 5 anni dalla chiusura o ottenere dal tribunale la riabilitazione civile. In pratica il CCII ha semplificato: l’esdebitazione funge anche da riabilitazione. Dunque non c’è una condanna a vita: molti imprenditori famosi sono falliti e poi sono ripartiti (in forme giuridiche diverse magari). L’importante è risolvere bene la procedura precedente.

Riferimenti normativi, giurisprudenziali e bibliografici

Fonti normative:

  • Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267Legge Fallimentare, articoli più volte modificati (sostituita dal Codice della crisi nel 2022).
  • Decreto Legislativo 12 gennaio 2019, n. 14Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (CCII), in vigore dal 15 luglio 2022, articoli 1-374. In particolare: art. 2 (definizioni di crisi e insolvenza), art. 40 (soggetti legittimati all’istanza), art. 43 (rapporti col concordato preventivo), artt. 49-50 (contenuto sentenza dichiarativa), art. 125 (funzioni Giudice Delegato), art. 126 (dichiarazione di adeguatezza risorse del curatore), artt. 152-154 (effetti sul debitore e atti compiuti), artt. 150-151 (sospensione azioni esecutive dei creditori), art. 155 (compensazione), art. 189 (effetti sui contratti pendenti), art. 172-173 (rapporti pendenti e preliminari immobiliari), artt. 201-208 (domande di insinuazione e verifica passivo), art. 213 (programma di liquidazione, termini 5 anni), art. 215 (cessione azioni giudiziarie), art. 216-217 (vendite beni), art. 223 (concordato nella liquidazione), artt. 227-230 (riparti), art. 232 (chiusura per riparto finale), art. 234 (chiusura anticipata per concordato omologato), art. 237 (riapertura fallimento), artt. 278-281 (esdebitazione), art. 283 (esdebitazione del sovraindebitato incapiente).
  • Decreto Legislativo 17 giugno 2022, n. 83Primo correttivo al CCII, ha anticipato l’entrata in vigore del Codice e recepito la direttiva UE 2019/1023. Ha modificato varie disposizioni: es. ridotto a 180 gg il termine per programma di liquidazione, ampliato l’ambito di esdebitazione, ecc.
  • Decreto Legislativo 15 settembre 2022, n. 147 – Ulteriori modifiche al CCII (in attuazione della direttiva europea).
  • Decreto Legislativo 6 ottobre 2023, n. 136Secondo correttivo al CCII, in vigore dal ottobre 2024, ha introdotto novità mirate: es. abrogato obbligo attivo digitale in art. 199, introdotto dichiarazione del curatore di adeguatezza risorse, eliminato obbligo curatore di redigere bilanci omessi, disciplinato termine massimo di 5 anni per liquidazione attivo (art. 213 modificato), ampliata possibilità di cedere azioni risarcitorie, previsto “non farsi luogo a accertamento passivo” (art. 209).
  • Codice Civile, in particolare: art. 2082 (nozione di imprenditore), 2083 (piccolo imprenditore), 2448-2496 (liquidazione volontaria società), 2497 (responsabilità soci accomandatari), 2740 (patrimonio garante dei debiti), 2743 (insolvenza del debitore), 2915 (effetti pignoramento), 2929 bis (distrazione beni).
  • D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115Testo Unico Spese di Giustizia, art. 146 (prenotazione a debito spese necessari) e art. 144 (gratuito patrocinio in procedure concorsuali).
  • Decreto Interministeriale 21 giugno 2021 (Min. Giustizia – MISE) – Parametri compenso curatore e organi procedurali, modifica DM 2016. Stabilisce criteri percentuali decrescenti per il compenso del curatore in base a attivo e passivo liquidati.
  • D.Lgs. 122/2005 (tutela acquirenti immobili da costruire) – prevede fideiussione obbligatoria e privilegio per acconti, nonché possibilità subentro assegnatario in fallimento.
  • Legge 3/2012 e D.Lgs. 14/2019 (Titolo II) – Norme sul sovraindebitamento e liquidazione controllata per soggetti non fallibili (procedura parallela).

Giurisprudenza (Corte di Cassazione e di merito):

  • Cass., Sez. I, 03/03/2022 n. 7087: definisce insolvenza come “incapacità strutturale e non transitoria di adempiere regolarmente le obbligazioni, manifestata da inadempimenti od altri fatti esteriori”. Conferma che non basta uno squilibrio patrimoniale, rileva l’impossibilità funzionale (anche società in bonis contabile può essere insolvente se priva di liquidità).
  • Cass., Sez. VI-1, 24/09/2019 n. 23660: sulla soglia di €30.000 di debiti scaduti (ex art. 15 l.f., ora art. 2 CCII), afferma che essa va riferita all’esposizione complessiva scaduta e non pagata, non importa se un singolo debito è inferiore. Rileva inoltre che crediti contestati vanno considerati se certi nell’an (non basta contestare per sottrarsi alla soglia).
  • Cass., Sez. Un., 27/01/2010 n. 1521: (Principio applicabile ante CCII) ha stabilito che per una società già in liquidazione volontaria lo stato di insolvenza può emergere anche da incapienza patrimoniale rispetto ai debiti, senza necessità di inadempimenti attuali (c.d. insolvenza prospettica). Tesi poi ripresa dall’art. 2 CCII definendo “crisi” come probabilità di futura insolvenza.
  • Cass., Sez. I, 04/08/2022 n. 23993: ha ribadito che l’insolvenza va valutata globalmente: per società in bonis contabile, contano indici finanziari (crisi di liquidità protratta). (Massimata su Dir. Bancario 2022).
  • Cass., Sez. I, 22/04/2016 n. 8202: sulla “meritevolezza” nell’esdebitazione ex art. 142 l.f., conferma che non aver pagato nulla ai creditori non è più ostativo di per sé (dopo modif. 2015), conta la condotta del fallito (collaborativa, nessun dolo o colpa grave). Principio assorbito dall’art. 281 CCII.
  • Tribunale di Ferrara, 20/02/2024 (decr.): ha applicato in via retroattiva i requisiti dell’art. 281 CCII a un fallimento chiuso sotto la vecchia legge, concedendo l’esdebitazione anche se i creditori non erano stati soddisfatti affatto, ritenendo superato l’art. 142 l.f. previgente. Conferma l’orientamento favorevole del nuovo regime verso il fresh start del fallito onesto.
  • Tribunale di Verona, ord. 30/11/2023 (rimessione Corte Cost.): ha sollevato questione di legittimità cost. sulla mancata inclusione del debitore civile non fallibile nelle norme del T.U. spese di giustizia, rilevando disparità di trattamento con il curatore fallimentare quanto all’ammissione al gratuito patrocinio in certe controversie. Caso di conflitto interpretativo tra liquidazione controllata e fallimento sul tema spese anticipate dallo Stato.
  • Cass., Sez. V pen., 05/10/2017 n. 46041: in tema di reati, ha chiarito che l’omessa consegna dei libri contabili al curatore integra bancarotta documentale semplice se non c’è dolo di frode. E Cass., Sez. V, 29/09/2020 n. 27165: precisato che pagamenti preferenziali effettuati poco prima del fallimento con intento di favorire un creditore integrano bancarotta preferenziale fraudolenta se consapevoli dello stato d’insolvenza.
  • Cass., Sez. I, 23/05/2018 n. 12949: ha affermato che la compensazione ex art. 56 l.f. (ora art. 155 CCII) è ammessa solo se al momento del fallimento sussistevano i requisiti, e che il creditore non può creare artificiosamente la posizione di debitore del fallito dopo l’apertura per compensare.
  • Cass., Sez. Un., 26/05/2022 n. 16925: in tema di soci illimitatamente responsabili, ha stabilito che dopo il fallimento della società i creditori sociali non possono agire esecutivamente verso il socio illimitato non fallito se non nei limiti e condizioni previsti (ora superato dal CCII che impone il fallimento in estensione del socio ex lege).

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