Fondo Impresa Donna: Cosa Succede Se Non Pago Il Finanziamento

Hai ottenuto un finanziamento agevolato con il Fondo Impresa Donna ma ora non riesci più a rimborsarlo?

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in tutela delle imprenditrici e gestione dei debiti da finanziamenti agevolati – è pensata per aiutarti a capire come difenderti e agire in modo strategico.

Scopri cosa succede in caso di mancato rimborso del Fondo Impresa Donna, quali sono i rischi legali ed economici, quando può intervenire la revoca del contributo e quali soluzioni legali puoi valutare per salvare la tua attività.

Alla fine della guida troverai tutti i contatti per richiedere una consulenza riservata, analizzare la tua situazione e trovare con l’aiuto di professionisti esperti una via d’uscita concreta e sostenibile.

Fondo Impresa Donna: Cosa Succede Se Non Pago Il Finanziamento: La Guida di Studio Monardo

Introduzione

Il Fondo Impresa Donna (conosciuto anche come Fondo Impresa Femminile) è un incentivo pubblico istituito per sostenere l’avvio e il consolidamento di imprese guidate da donne. Nato con la Legge di Bilancio 2021 (art. 1, commi 97-105, L.178/2020) e potenziato dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) con una dotazione complessiva di circa 400 milioni di euro, il Fondo offre agevolazioni miste: una parte a fondo perduto (contributo che non va restituito) e una parte come finanziamento agevolato a tasso zero da restituire negli anni.

Queste risorse consentono alle imprenditrici di ottenere capitale per investimenti e spese di avvio, con l’obiettivo di aumentare la partecipazione femminile all’imprenditoria e colmare il divario di genere nel mondo del lavoro. In cambio, le beneficiarie devono rispettare una serie di obblighi e condizioni: realizzare il progetto nei tempi previsti, mantenere requisiti di “impresa femminile” per almeno 3 anni, utilizzare i fondi per le finalità approvate e – per la quota di mutuo agevolato – rimborsare puntualmente le rate secondo il piano di ammortamento concordato.

Ma cosa accade se un’impresa, dopo aver ottenuto l’agevolazione dal Fondo Impresa Donna, non riesce a restituire la parte di finanziamento agevolato? Quali sono le conseguenze per un’inadempienza del genere? In questa guida esamineremo in modo esaustivo le ripercussioni del mancato pagamento del finanziamento, considerando tutte le sanzioni possibili – civili, amministrative, penali – e la procedura di revoca dell’agevolazione, con esempi pratici e riferimenti a normativa aggiornata (maggio 2025) e giurisprudenza rilevante. L’obiettivo è offrire uno strumento informativo a imprenditrici e professionisti legali per capire i rischi di un’eventuale inadempienza e come gestirla o prevenirla.

Importante: le conseguenze del mancato rimborso di un finanziamento pubblico come quello del Fondo Impresa Donna possono essere molto gravi. Si va dalla revoca totale dei benefici con obbligo di restituire anche la parte a fondo perduto, fino a possibili azioni legali di recupero forzoso e, in casi di irregolarità o frode, addirittura responsabilità penali a carico dell’imprenditrice. Nei paragrafi seguenti analizzeremo punto per punto ciascuno di questi aspetti, con riferimento a norme, sentenze e casi concreti, e forniremo consigli pratici su come comportarsi.

Il finanziamento del Fondo Impresa Donna e gli obblighi del beneficiario

Prima di addentrarci nelle sanzioni, è utile chiarire come è strutturata l’agevolazione del Fondo Impresa Donna e quali impegni assume chi ne beneficia. In questo modo sarà più chiaro quando si configura un inadempimento e perché scattano determinate conseguenze.

Struttura dell’agevolazione: Il Fondo Impresa Donna finanzia fino all’80% delle spese ammissibili di un progetto imprenditoriale femminile. L’agevolazione è suddivisa in due componenti:

  • Contributo a fondo perduto: una quota percentuale (tipicamente il 50% delle spese, o anche di più per certe voci) erogata come contributo capitale non restituibile. Questa somma viene erogata in tranche (ad es. un anticipo fino al 20% e saldo a stato avanzamento lavori) e serve a coprire parte degli investimenti senza oneri di rimborso.
  • Finanziamento agevolato a tasso zero: la restante quota (ad esempio l’altro 50% delle spese) concessa sotto forma di mutuo agevolato senza interessi (tasso 0%) da restituire nel tempo. Non sono richieste garanzie personali o reali per questo prestito, ma la legge attribuisce al credito vantato dallo Stato un privilegio generale per tutelarne il recupero.

Esempio: per un nuovo progetto da 100.000 €, il Fondo potrebbe concedere 80.000 € (coprendo l’80% dell’investimento): 40.000 € a fondo perduto e 40.000 € come finanziamento a tasso zero. L’imprenditrice riceve queste somme – solitamente in più tranche man mano che realizza il piano – e si impegna a rispettare le condizioni previste.

Obblighi principali del beneficiario: Accettando l’agevolazione, l’impresa beneficiaria sottoscrive un provvedimento di concessione e/o un contratto con il Soggetto gestore (Invitalia) in cui sono elencati obblighi e condizioni. I principali sono:

  • Realizzare il programma di investimenti approvato entro il termine previsto (in genere 24 mesi dalla concessione, salvo proroghe concesse). Ritardi non giustificati o incompletezze progettuali possono costare la revoca.
  • Mantenere i requisiti di ammissibilità per almeno 3 anni dal completamento del progetto. In particolare, mantenere la qualifica di impresa femminile (assetto societario a prevalenza di donne) per 3 anni, non cessare né vendere l’attività in tale periodo, e non delocalizzare altrove i beni finanziati.
  • Destinare i fondi alle finalità dichiarate. I beni acquistati o le spese fatte con l’agevolazione devono corrispondere al progetto approvato e restare nell’impresa per almeno 3 anni, senza impieghi diversi da quelli autorizzati. Ad esempio, non si possono rivendere macchinari comprati col contributo né usarli per attività estranee.
  • Consentire controlli e monitoraggi: l’impresa deve collaborare con Invitalia e gli organi di controllo, fornendo documentazione (rendiconti, fatture) e permettendo ispezioni, per verificare l’avanzamento del progetto e il rispetto degli obblighi. La mancata cooperazione nei controlli è causa di revoca.
  • Rispettare gli obblighi specifici del PNRR e normative UE (trasparenza, tracciabilità delle spese, principi orizzontali come parità e sostenibilità, etc.), dato che il Fondo è finanziato in parte con risorse europee del Next Generation EU.
  • Rimborsare il finanziamento agevolato alle scadenze previste: questo è l’impegno cruciale ai fini del nostro tema. Il piano standard stabilito dal decreto prevede che il rimborso inizi dopo 12 mesi dall’erogazione finale e si svolga in rate semestrali costanti da pagare il 31 maggio e 30 novembre di ogni anno, per una durata massima di 8 anni. Ad esempio, se l’ultima quota di agevolazione è ricevuta a gennaio 2024, le rate partiranno da giugno 2025 e continueranno ogni semestre fino al 2032 circa. Non sono dovuti interessi (tasso zero), ma il beneficiario ha l’obbligo giuridico di restituire il capitale secondo queste scadenze.

In pratica, la parte a fondo perduto è definitivamente acquisita dall’impresa solo se essa rispetta tutte le condizioni per il periodo richiesto. La parte a mutuo, invece, va restituita come da piano a partire dall’anno successivo alla fine dell’investimento. Dunque l’impresa deve pianificare con attenzione i flussi finanziari per assicurarsi di poter pagare le rate del mutuo pubblico.

Quando si configura l’inadempimento? L’inadempimento può assumere forme diverse:

  • Mancato pagamento delle rate del finanziamento agevolato alle scadenze previste (es. salto di una o più rate semestrali).
  • Altri inadempimenti contrattuali o violazioni degli obblighi elencati sopra: non realizzare integralmente il progetto, ritardi ingiustificati, uso scorretto dei fondi, cessazione anticipata dell’attività, perdita dei requisiti di impresa femminile, mancata collaborazione ai controlli, ecc.

Tutte queste situazioni sono considerate gravi violazioni e possono portare alla decadenza dai benefici concessi. In particolare, il mancato rimborso del finanziamento è tradizionalmente visto dagli enti gestori come un grave inadempimento che giustifica la revoca dell’intera agevolazione (in assenza di tempestivi rimedi come una dilazione concordata). Infatti, già in passato misure analoghe prevedevano espressamente che l’impresa che non paga le rate del mutuo agevolato decade dall’agevolazione e deve restituire tutto. Nel caso del Fondo Impresa Donna, come vedremo, la normativa di riferimento (Decreto MISE 30/09/2021) elenca vari casi di revoca ma non menziona esplicitamente il mancato pagamento, probabilmente perché è dato per implicito tra gli “obblighi a carico dell’impresa beneficiaria” il cui inadempimento comporta revoca.

In sintesi, se un’impresa beneficiaria non paga il finanziamento secondo i termini stabiliti (salvo accordi di rinegoziazione), essa sta violando il patto su cui si basa l’agevolazione. Nei paragrafi che seguono analizzeremo le conseguenze dettagliate di tale violazione: in primis la revoca delle agevolazioni e il consequenziale obbligo di rimborso forzoso, poi le eventuali sanzioni amministrative aggiuntive, le responsabilità civili e i possibili risvolti penali se il mancato pagamento si accompagna a condotte fraudolente o irregolari. Forniremo anche simulazioni pratiche di scenari di default e indicazioni su come gestirli.

Conseguenze del mancato pagamento: revoca e sanzioni amministrative

La prima e più immediata conseguenza di un grave inadempimento (come il mancato pagamento del finanziamento agevolato) è la revoca dell’agevolazione da parte del Soggetto gestore (Invitalia), con relativa applicazione di sanzioni amministrative. Approfondiamo cosa significa revoca e quali effetti comporta.

Revoca totale dell’agevolazione

La revoca è il provvedimento amministrativo con cui l’ente erogatore annulla il contributo concesso e richiede la restituzione di quanto già erogato. Nel caso del Fondo Impresa Donna, l’Art. 20 del Decreto 30/09/2021 disciplina le cause di revoca. In particolare, il Gestore dispone la revoca totale delle agevolazioni (cioè sia della parte a fondo perduto che del finanziamento agevolato) quando si verifica, tra l’altro, una delle seguenti condizioni rilevanti:

  • Perdita dei requisiti di impresa femminile entro 3 anni dal completamento dell’investimento (ad es. cambio della compagine societaria che fa scendere la partecipazione femminile sotto la soglia richiesta). Questa clausola tutela la finalità principale del Fondo: se l’azienda cessa di essere “femminile” troppo presto, decade dal beneficio.
  • Mancata realizzazione del progetto nei tempi previsti (24 mesi dalla concessione, salvo proroga) per cause imputabili all’impresa. In altre parole, se l’impresa non completa l’investimento approvato entro due anni e il ritardo è colpa sua (non dovuto a forza maggiore o atti di terzi), scatta la revoca.
  • Dismissione o destinazione diversa dei beni finanziati entro 3 anni: se i beni acquistati con l’agevolazione (macchinari, attrezzature, licenze, ecc.) vengono trasferiti, venduti o usati per scopi diversi da quelli previsti dal progetto entro il triennio, l’agevolazione viene annullata.
  • Cessazione volontaria, vendita o affitto dell’azienda entro 3 anni: se l’impresa chiude l’attività, la vende o la dà in gestione a terzi prima di 3 anni dal completamento, perde il diritto all’agevolazione. Ciò perché l’incentivo mira a imprese durature, non a operazioni “mordi e fuggi”.
  • Fallimento o liquidazione dell’impresa entro 3 anni: se la beneficiaria fallisce o entra in liquidazione coatta in quel periodo iniziale, si ha la revoca. (Il fallimento, pur essendo una procedura concorsuale, rientra tra gli eventi risolutivi: lo Stato non può mantenere un contributo a un’impresa ormai insolvente).
  • Rifiuto dei controlli o inadempienza agli obblighi di monitoraggio: se l’impresa ostacola i controlli di Invitalia sull’avanzamento del progetto o non trasmette i report richiesti, l’agevolazione può essere revocata.
  • Variazioni sostanziali non autorizzate del progetto: modifiche al piano d’impresa senza approvazione del Gestore, se giudicate incompatibili col mantenimento del contributo, comportano la revoca.
  • Altri casi previsti nel provvedimento di concessione e negli obblighi assunti: una clausola di chiusura prevede la revoca in tutti gli altri casi di violazione delle condizioni o obblighi indicati nei Capi II, III e IV del decreto o nelle norme settoriali. Qui rientra anche il caso del mancato rimborso del finanziamento agevolato, che pur non essendo esplicitato nell’elenco a)–h), è certamente un obbligo posto a carico dell’impresa beneficiaria.

In base a quest’ultima lettera (i), il contratto di finanziamento firmato con Invitalia contiene la clausola che permette la revoca/decadenza se il beneficiario non rimborsa le somme dovute. Ad esempio, nei contratti di altri incentivi Invitalia è prevista la facoltà di revoca e risoluzione in caso di inadempimento dell’obbligo di rimborso rateale. È quindi implicito che il mancato pagamento delle rate configuri una grave violazione che legittima il Gestore a revocare l’intera agevolazione, anche se il progetto fosse stato completato con successo.

Effetti della revoca totale: La revoca “totale” significa che l’impresa perde completamente il beneficio ottenuto e deve restituire tutte le somme ricevute. In particolare, l’Art. 20 comma 2 stabilisce che la revoca totale comporta l’obbligo di restituire l’intero ammontare delle agevolazioni erogate in ogni forma: contributo a fondo perduto, finanziamento agevolato ed eventuali servizi di assistenza. Ciò avviene secondo le modalità definite dal provvedimento di concessione.

Se nel frattempo l’impresa aveva già iniziato a restituire parte del finanziamento (pagando alcune rate), non sarà ovviamente tenuta a pagare due volte: dovrà restituire solo l’eventuale debito residuo del mutuo non ancora rimborsato, oltre naturalmente all’intera parte di contributo a fondo perduto (che inizialmente non doveva restituire, ma che diventa ora anch’essa esigibile). In altri termini, viene annullato il carattere di “non ripetibilità” del fondo perduto: esso si trasforma in un debito restitutorio come il mutuo.

Con il provvedimento di revoca totale, inoltre, l’impresa perde il diritto a ricevere eventuali quote non ancora erogate. Ad esempio, se aveva ottenuto un anticipo e doveva ancora ricevere il saldo a collaudo, quel saldo non verrà più corrisposto. Anzi, potrebbe essere usato in compensazione: l’ente può trattenerlo (se non versato) per coprire parte di quanto da restituire.

Va sottolineato che la revoca parziale (ad esempio per piccole irregolarità) comporta la ricalibrazione dell’incentivo e la richiesta di restituire solo la quota indebitamente goduta. Nel nostro contesto, però, l’ipotesi più probabile in caso di insolvenza sul finanziamento è una revoca totale, poiché il venir meno dell’impegno di rimborso mina l’intera operazione agevolativa.

Sanzioni amministrative e altre conseguenze extra-contrattuali

Oltre alla revoca del contributo, il mancato pagamento del finanziamento può comportare ulteriori sanzioni di natura amministrativa. Per sanzioni amministrative intendiamo provvedimenti o effetti sfavorevoli imposti da autorità pubbliche, diversi dalle azioni civili di recupero del credito (di cui diremo in seguito) e dalle sanzioni penali. Vediamo quali possono essere:

  • Interessi e maggiorazioni su quanto da restituire: Il decreto prevede che le somme da recuperare a seguito di revoca siano maggiorate degli interessi al tasso ufficiale di riferimento (TUR) vigente alla data di erogazione. Dunque, anche se il finanziamento era a tasso zero, dal momento in cui si delibera la revoca, gli importi dovuti vengono caricati di interessi calcolati al TUR (il TUR è il tasso base fissato dalla BCE per l’Italia, usato come riferimento negli aiuti di Stato). Anche se tale tasso negli ultimi anni è stato molto basso (vicino allo zero), la clausola serve a riconoscere un interesse legale al credito pubblico. Ad esempio, se la prima tranche fu erogata nel 2023 e la revoca avviene nel 2025, verranno applicati interessi su quella somma per il periodo in questione al tasso ufficiale medio di quel periodo. Ciò è formalmente una sanzione economica aggiuntiva, sebbene rappresenti più che altro il riconoscimento di un interesse per il ritardo.
  • Esclusione da future agevolazioni pubbliche: Un’impresa che incorre in revoca per inadempimento potrebbe incontrare difficoltà ad ottenere altri contributi in futuro. Spesso, nei bandi pubblici e incentivi è prevista come condizione di accesso la regolarità del richiedente rispetto ad agevolazioni precedenti. Ad esempio, nei moduli di domanda è frequente una dichiarazione di non essere incorsi in provvedimenti di revoca per motivi imputabili al richiedente. Aver avuto un contributo revocato per propria colpa (come il mancato rimborso di un finanziamento) può portare ad esclusione da nuovi bandi o quantomeno a una valutazione negativa. Non esiste una norma generale che interdica formalmente l’impresa (a meno di frodi gravi con sentenze penali), ma di fatto l’ente gestore sarà diffidente nel concedere nuovi aiuti a chi ha precedenti di inadempienza. Inoltre, alcune normative settoriali vietano l’accesso a chi abbia “pendenze” con la Pubblica Amministrazione. Ad esempio, il Fondo di Garanzia PMI non ammette imprese con esposizioni classificate come sofferenze, e analogamente Invitalia potrebbe non ammettere domande da soggetti revocati in precedenza per insolvenza (salvo eccezioni normative).
  • Segnalazioni a banche dati pubbliche: In caso di crediti non onorati verso lo Stato, l’Agenzia delle Entrate Riscossione (ex Equitalia) potrà iscrivere a ruolo il debitore (persona fisica o giuridica). Questo comporta che il nominativo e il debito compaiano nelle banche dati dei carichi pendenti fiscali. Non è una “centrale rischi” finanziaria, ma di fatto se l’impresa o la sua titolare chiedono in futuro certificazioni di regolarità fiscale o contributiva (DURC, ecc.), il debito emerso per il contributo revocato potrebbe emergere come irregolarità. Inoltre, se si tentasse di partecipare a gare pubbliche, potrebbe costituire causa ostativa per difetto dei requisiti di ordine generale (per esempio, avere debiti liquidi ed esigibili verso lo Stato oltre certe soglie potrebbe impedire contratti con la PA ai sensi delle norme antimafia o dei contratti pubblici). Non pagare il finanziamento dunque può “macchiare” la reputazione amministrativa dell’azienda e della imprenditrice nei rapporti con il settore pubblico.
  • Segnalazione a organi di controllo e possibili ispezioni: Un mancato rimborso prolungato può attivare l’attenzione della Guardia di Finanza, in quanto corpo deputato al controllo sulla spesa pubblica. In particolare, il Nucleo speciale spesa pubblica della GdF effettua verifiche sulle agevolazioni per scongiurare truffe o utilizzi illeciti. Se un’impresa non paga le rate, ciò potrebbe indurre i controllori a sospettare problemi o abusi e avviare accertamenti sul caso, esaminando come sono stati usati i fondi, se vi sono state false dichiarazioni, ecc. In sé l’inadempimento finanziario non è reato, ma potrebbe essere il sintomo di irregolarità (ad es. l’impresa ha incassato l’anticipo e non ha fatto gli investimenti, oppure ha simulato spese). Dunque, aspettarsi controlli approfonditi è un’ulteriore conseguenza indiretta.
  • Eventuale sanzione amministrativa pecuniaria per indebita percezione: Se dal controllo risultasse che l’impresa non aveva diritto al contributo (per false dichiarazioni in domanda o altri motivi), si può configurare l’illecito di indebita percezione di erogazioni pubbliche. In base all’art. 316-ter c.p., quando l’importo indebitamente percepito è inferiore a 4000 euro si applica solo una sanzione amministrativa dal doppio al triplo di quanto indebitamente ottenuto. Nel nostro caso, gli importi sono ben superiori a 4000 €, quindi questa soglia non si applica; tuttavia, se parte del contributo non spettava, oltre alla revoca, l’Agenzia delle Entrate (o l’ente erogatore) può irrogare una sanzione amministrativa pari al 100-200% delle somme non spettanti, secondo la normativa sui contributi pubblici indebiti. Ad esempio, se fosse accertato che 10.000 € di contributo non erano dovuti, potrebbe essere comminata una multa da 10.000 a 20.000 € in aggiunta al recupero dei 10.000 €. Questo scenario attiene più alla percezione indebita per requisiti mancanti, ma è da menzionare tra le possibili sanzioni collaterali.

In generale, la sanzione amministrativa più grave è proprio la revoca, che trasforma un beneficio in un debito da restituire. La revoca è spesso chiamata anche decadenza dal beneficio o risoluzione del contratto di concessione nei provvedimenti ufficiali. Da notare che, a rigore di legge, una volta che il contributo è revocato per inadempienza del beneficiario, non ci sono margini di “sanatoria” amministrativa: il provvedimento può essere impugnato (come vedremo in seguito), ma non esistono procedure automatiche per riottenere il beneficio se non pagando quanto dovuto o ottenendo una transazione (che richiede disposizioni normative ad hoc, come avvenuto in passato per favorire la rinegoziazione di alcune misure in crisi).

Riassumendo, se non si paga il finanziamento agevolato del Fondo Impresa Donna:

  • Si va incontro quasi certamente alla revoca totale dell’agevolazione, con obbligo di restituire anche la parte a fondo perduto oltre al mutuo residuo.
  • Si dovranno pagare interessi di mora (al TUR) sugli importi da restituire.
  • L’impresa verrà sottoposta a procedura di recupero coattivo (che affronteremo nel prossimo capitolo).
  • Si rischia di essere esclusi da futuri incentivi o di avere difficoltà con la PA a causa dello storico negativo.
  • L’inadempimento potrebbe attirare verifiche e, se emergono irregolarità sostanziali, ulteriori sanzioni amministrative o giudiziarie.

Dal punto di vista amministrativo, è una situazione estremamente penalizzante: ciò che era un supporto diventa un debito potenzialmente molto gravoso, mettendo l’azienda in seria difficoltà. Nei prossimi paragrafi vedremo come avviene in concreto il procedimento di revoca e recupero forzoso (profilo civilistico) e poi tratteremo i possibili risvolti penali di comportamenti fraudolenti eventualmente connessi al mancato pagamento.

Procedura di revoca e recupero forzoso: come avviene in concreto

Abbiamo visto cosa comporta la revoca (restituzione integrale con interessi). Esaminiamo ora come si svolge la procedura, dal momento in cui l’impresa salta un pagamento alla fase di recupero coattivo delle somme. Questa ricostruzione è utile per capire tempistiche, atti e margini di intervento.

  1. Mancato pagamento di una rata: Il punto di partenza è il mancato versamento di una rata semestrale alla scadenza (31 maggio o 30 novembre). Spesso, il contratto prevede un breve periodo di tolleranza (ad esempio qualche giorno di calendario) ma, essendo un debito verso ente pubblico, la scadenza è perentoria. Se la rata non viene pagata entro la data prevista, l’impresa è formalmente in mora.
  2. Sollecito o diffida ad adempiere: In molti casi, Invitalia invia un sollecito di pagamento poco dopo la scadenza non rispettata. Questo sollecito (via PEC o raccomandata) ricorda all’impresa l’obbligo di pagare la rata e le concede un breve termine per regolarizzare, avvisando che in difetto si procederà alla revoca. Può assumere la forma di una diffida ad adempiere, ossia una comunicazione ufficiale in cui il Gestore intima il pagamento entro un certo termine (es. 15 giorni) pena la decadenza dal beneficio. La diffida è prevista da prassi e contratto per tutelare il contraddittorio: si dà all’impresa una ultima chance di mettersi in regola prima di attivare la revoca. Ad esempio, la Convenzione MIMIT-Invitalia per questi fondi prevede la gestione di processi di diffida per le inadempienze in caso di mancato pagamento, segno che l’invio di diffide è parte integrante della procedura.
  3. Eventuale richiesta di dilazione: Se l’impresa è in temporanea difficoltà di liquidità ma vuole evitare la revoca, può in questa fase chiedere al Gestore una dilazione o un piano di rientro. Invitalia ha facoltà, su richiesta motivata, di concedere soluzioni come: una dilazione a breve termine (ad esempio pagare la rata dovuta suddividendola in sottorate mensili) oppure una rinegoziazione dell’intero piano di ammortamento se la situazione è più seria. Ad oggi (2025) non risultano misure ad hoc per il Fondo Impresa Donna, ma Invitalia applica linee guida generali per gestire crediti in sofferenza: se il ritardo è inferiore a 12 mesi, si può proporre una dilazione delle rate scadute mantenendo invariata la durata del mutuo; se il ritardo supera 12 mesi (ovvero almeno 2 rate semestrali saltate), si può richiedere una rinegoziazione con allungamento del piano. Ad esempio, per altri incentivi come “Nuove imprese a tasso zero”, Invitalia consente di posticipare la fine del piano di qualche anno ricalcolando le rate. Tali strumenti potrebbero essere concessi anche alle imprese femminili in difficoltà, previo accordo. È fondamentale dunque che l’imprenditrice, se prevede di non riuscire a pagare, contatti immediatamente Invitalia per cercare una soluzione bonaria. Ignorare il sollecito senza rispondere equivale a aggravare la posizione.
  4. Provvedimento di revoca/decadenza: Se trascorso il termine della diffida il pagamento non è avvenuto (e non sono state accolte richieste di dilazione), Invitalia emette il provvedimento di revoca delle agevolazioni. Si tratta di un atto formale, solitamente firmato dal dirigente responsabile, che constata l’inadempimento (es. “mancato pagamento della rata X entro il termine diffidato”) e dichiara la decadenza dell’impresa da tutti i benefici, quantificando l’importo totale da restituire. Nel nostro caso, la lettera di revoca specificherà: importo del contributo a fondo perduto percepito, importo del finanziamento erogato (o eventualmente il residuo se qualche rata fu pagata), interessi dovuti, e indicherà le modalità e i termini per restituire. Spesso, la revoca viene comunicata via PEC e raccomandata A/R all’impresa. Da questo momento, l’impresa non è più titolare dell’agevolazione ma è un debitore verso il Gestore per le somme indicate.
  5. Termine per il rimborso volontario: Il provvedimento di revoca in genere concede un termine (ad esempio 30 giorni) entro cui il debitore può spontaneamente versare quanto dovuto, tramite bonifico alle casse dello Stato o altra modalità indicata. Questo è l’ultimo momento in cui l’impresa può evitare misure coercitive, pagando di propria iniziativa. Qualora l’importo sia elevato, si può in questa fase tentare un’ulteriore richiesta di rateizzazione al concessionario per la riscossione (ne parliamo tra poco), ma formalmente, dopo la revoca, tutto il debito è già esigibile in una soluzione unica.
  6. Iscrizione a ruolo e titolo esecutivo: Se trascorre il termine senza che il pagamento sia pervenuto, il Gestore passa al recupero coattivo. L’art. 20 comma 5 del decreto prevede espressamente che Invitalia proceda al recupero anche mediante iscrizione a ruolo, ai sensi del DPR 29 settembre 1973 n.602 e del D.Lgs. 26 febbraio 1999 n.46. Ciò significa che il credito viene affidato all’agente della riscossione (Agenzia Entrate Riscossione). In pratica, Invitalia prepara un ruolo (elenco dei debitori e somme dovute) e l’AdER emette la relativa cartella esattoriale o avviso di addebito. La cartella di pagamento è un atto che ingiunge al debitore di pagare le somme entro 60 giorni, con valore di titolo esecutivo. Non è necessario un decreto ingiuntivo del tribunale: la legge consente a questi crediti pubblici di essere riscossi come fossero imposte, tramite cartella. Questo velocizza enormemente il recupero. Ad esempio, nel caso INPS (altro ente pubblico), per i contributi non pagati l’importo viene richiesto con Avviso di Addebito immediatamente esecutivo. Analogamente, Invitalia – autorizzata dall’art.20 citato – può utilizzare la stessa procedura fiscale. Dunque l’imprenditrice si vedrà notificare (tipicamente a mezzo PEC se impresa, o raccomandata se persona fisica) una cartella esattoriale indicante il debito verso Ministero/Invitalia per “recupero agevolazione revocata”.
  7. Misure di recupero forzoso: Decorso il termine della cartella (60 giorni) senza pagamento, l’agente della riscossione può attivare le azioni esecutive previste per legge. Ciò include: il fermo amministrativo di veicoli di proprietà, il pignoramento di beni mobili e immobili, il pignoramento presso terzi (ad esempio prelievo forzoso da conti correnti, stipendio, crediti verso clienti) fino a concorrenza dell’importo dovuto. Essendo un debito verso lo Stato, il recupero è particolarmente incisivo. In caso di imprese, l’AdER può pignorare conti aziendali o chiedere il pignoramento di macchinari (se non funzionali all’attività primaria, vi sono alcuni limiti), oppure iscrivere ipoteca su immobili societari. Se il soggetto debitore è una ditta individuale o la titolare come persona fisica (in caso di impresa individuale), anche il patrimonio personale è aggredibile. Ad esempio, se l’imprenditrice possiede una casa, l’agente può ipotecarla e, per debiti sopra una certa soglia (attualmente ~€120.000), avviare l’esecuzione immobiliare. Tutte queste azioni sono possibili senza passare dal giudice, perché la cartella costituisce di per sé un titolo esecutivo in base alle norme speciali. L’impresa può evitare le azioni esecutive solo chiedendo e ottenendo un piano di rateazione della cartella (di solito fino a 72 rate mensili standard, o 120 rate in casi di grave difficoltà). Il piano di rateazione, se concesso, blocca i pignoramenti a patto di pagare le rate concordate. Questa è dunque un’ultima spiaggia per chi non può saldare subito: rivolgersi all’AdER per dilazionare il debito fiscale. Ciò tuttavia formalizza l’intero importo come debito tributario.
  8. Privilegio speciale sui beni dell’impresa: Vale la pena ricordare che i crediti da restituzione di agevolazioni godono di un privilegio generale mobiliare ai sensi dell’art. 24 comma 33 L. 449/1997. Questo privilegio dà al creditore pubblico una posizione preferenziale su molti beni mobili del debitore, simile a quella di crediti per imposte. In caso di fallimento dell’azienda debitrice, Invitalia (o il Ministero) sarà un creditore privilegiato e verrà soddisfatto prima dei creditori chirografari (ordinari). Ciò aumenta le chance di recupero per lo Stato, a scapito degli altri creditori privati. Per l’imprenditrice ciò significa che, se la sua azienda dovesse fallire con un debito verso lo Stato per l’agevolazione revocata, quel debito avrà precedenza nel riparto dell’attivo, riducendo la possibilità di “farla franca” con la procedura concorsuale. Insomma, lo Stato si è riservato un titolo preferenziale per riavere i suoi soldi.
  9. Chiusura della procedura: Una volta recuperati (in tutto o in parte) gli importi, il procedimento si chiude. Le somme incassate, come prevede la norma, ritornano nella disponibilità del Fondo Impresa Femminile per essere riassegnate eventualmente ad altre iniziative. Se dopo tutti i tentativi coattivi parte del debito risulta irrecuperabile (ad es. l’azienda non ha più nulla e la titolare è nullatenente), lo Stato subirà una perdita (danno erariale). In tal caso, potrebbe essere interessata persino la Corte dei Conti (ne parleremo più avanti) per accertare responsabilità erariali.

Da questo iter risulta evidente che il mancato pagamento trasforma la beneficiaria in una debitrice soggetta alla riscossione esattoriale. Si passa dall’avere un sostegno finanziario al dover affrontare ingiunzioni di pagamento. È cruciale notare che non c’è bisogno di una causa in tribunale: la pubblica amministrazione ha strumenti amministrativi per recuperare il dovuto in via diretta. Questo è un vantaggio per lo Stato, ma può essere un trauma per l’imprenditrice che si vede arrivare cartelle esattoriali e atti di pignoramento.

Diritti di difesa: L’impresa inadempiente ha comunque delle possibilità di difesa legale. Può impugnare il provvedimento di revoca se ritiene che sia illegittimo (ad esempio, perché magari aveva pagato e c’è stato un errore, oppure perché il ritardo era dovuto a causa di forza maggiore non considerata). Tale ricorso va presentato al giudice competente: la giurisprudenza – come vedremo – orienta verso il giudice ordinario (tribunale civile) in quanto si discute di diritti soggettivi e di un rapporto contrattuale di finanziamento. In parallelo, può contestare la cartella esattoriale con i mezzi propri (ricorso tributario o opposizione all’esecuzione) se ci sono vizi formali o sostanziali (per esempio, se l’importo è sbagliato). Tuttavia, impugnare la revoca non sospende automaticamente il dovere di restituire, a meno che non si ottenga una sospensiva dal giudice. Spesso, per evitare le vie giudiziarie, l’unica soluzione efficace è trovare un accordo di rientro (rateizzazione). Nella sezione Consigli pratici riprenderemo queste opzioni.

In conclusione, il procedimento di revoca e recupero forzoso è un percorso rapido e incisivo che dall’inadempienza porta, in pochi mesi, al pignoramento dei beni del debitore. Perciò, l’imprenditrice deve essere consapevole che saltare i pagamenti del finanziamento innesca meccanismi automatici, difficili da contrastare dopo. Molto meglio agire prima (chiedendo dilazioni) o onorare gli impegni, piuttosto che dover poi fronteggiare una cartella esattoriale.

Conseguenze civilistiche: responsabilità patrimoniale e profili giuridici

Nel paragrafo precedente abbiamo visto la pratica del recupero coattivo. Approfondiamo ora le conseguenze civilistiche in senso lato: cosa comporta per il patrimonio dell’imprenditrice e dell’azienda l’inadempimento, e quali responsabilità civili possono sorgere. Inoltre, toccheremo la questione di quale giudice sia competente in caso di contenzioso (TAR o giudice ordinario), tema rilevante per gli avvocati.

Responsabilità patrimoniale e rischi per il patrimonio

Quando l’impresa non rimborsa il finanziamento, l’obbligo di restituzione di tutte le somme diventa un debito esigibile. Giuridicamente, il debitore risponde con tutti i suoi beni presenti e futuri dell’adempimento (art. 2740 c.c.). Ciò significa che, se l’impresa è una società, risponde il patrimonio sociale; se è una ditta individuale, risponde anche il patrimonio personale dell’imprenditrice. Vediamo alcuni casi:

  • Impresa individuale: La titolare è una persona fisica. Il debito derivante dalla revoca è un debito personale dell’imprenditrice. I suoi beni privati (conto corrente personale, immobili intestati, auto, ecc.) possono essere aggrediti dai creditori (lo Stato). Ad esempio, la sua casa di abitazione potrebbe essere ipotecata/pignorata (salvo i limiti normativi: l’AdER non espropria l’unica casa se non di lusso, ma può ipotecarla). Anche eventuali altri redditi o stipendi della titolare (qualora abbia un lavoro dipendente altrove) possono essere pignorati in misura proporzionale.
  • Società di persone (SNC, SAS): I soci, in particolare quelli illimitatamente responsabili (come i soci di SNC e i soci accomandatari di SAS), rispondono con il loro patrimonio personale se il patrimonio sociale non è sufficiente. Dunque, se la società non paga e non ha beni, il creditore Stato potrebbe rivalersi sui soci illimitatamente responsabili, attivando il meccanismo di escussione previsto dal codice civile. Ciò esporrebbe i beni personali dei soci (incluse le socie imprenditrici).
  • Società di capitali (SRL, SRLS, SPA): Qui la responsabilità è limitata al patrimonio societario. Dunque formalmente lo Stato potrà aggredire i beni della società (macchinari, merci, immobili aziendali, crediti verso clienti, denaro su conti societari). I soci non sono tenuti a ripianare col proprio patrimonio, a meno che abbiano prestato garanzie personali o vi siano profili di abuso di personalità giuridica. In assenza di garanzie personali (e ricordiamo che il Fondo Impresa Donna non richiedeva garanzie in fase di concessione), la socia rischia economicamente “solo” quanto investito nella società. Tuttavia, in pratica, se la società non ha risorse per restituire e subisce pignoramenti, potrebbe trovarsi insolvente e finire in fallimento. In caso di fallimento, come detto, lo Stato avrà privilegio nel riparto. Se il fallimento si chiude con insufficienza dell’attivo, il debito residuo non potrà più essere escusso verso i soci (a differenza delle società di persone). La socia potrebbe dunque evitare il tracollo personale ma vedrebbe la sua impresa fallire e perderebbe l’attività e il capitale sociale investito. Attenzione però: se emergessero condotte distrattive o irregolarità gestionali, potrebbero profilarsi responsabilità personali (es. azione di responsabilità verso gli amministratori o azioni revocatorie di atti compiuti per sottrarre beni).
  • Garanti o coobbligati: Nel nostro caso non sono richiesti garanti, ma in altri finanziamenti pubblici talvolta vi è una coobbligazione dei soci. Se per ipotesi l’imprenditrice avesse firmato come garante (non è prassi qui, ma supponiamo), allora risponderebbe personalmente anche se l’impresa è società di capitali.

In sintesi, la responsabilità patrimoniale è molto estesa: lo Stato creditore cercherà qualunque bene aggredibile per soddisfarsi. Un rischio particolare è per chi possiede immobili o asset di valore: quelli sono bersagli tipici. Al contrario, chi non possiede nulla di intestato può risultare “nullatenente”, rendendo di fatto infruttuoso il recupero (ma attenzione: lo Stato può tenere aperto il ruolo per anni, aggredendo futuri guadagni o eredità).

Controversie e giurisdizione: TAR o giudice ordinario?

Nel malaugurato caso in cui si voglia impugnare il provvedimento di revoca o la richiesta di rimborso, è fondamentale rivolgersi al giudice competente. La materia delle agevolazioni pubbliche, a metà tra provvedimento amministrativo e rapporto contrattuale, ha generato dispute sulla giurisdizione. La domanda è: la controversia su una revoca per inadempimento va al TAR (giustizia amministrativa) o al Tribunale civile?

La questione è stata chiarita da importanti pronunce: la Cassazione a Sezioni Unite e il Consiglio di Stato (Adunanza Plenaria) hanno delineato i confini. In generale:

  • Le fasi iniziali di concessione dell’agevolazione, implicando valutazioni discrezionali (graduatorie, punteggi, ammissione al contributo), ricadono nella giurisdizione amministrativa: il beneficiario contesterebbe un atto autoritativo (es. esclusione dalla graduatoria) ed è tutelabile come interesse legittimo davanti al TAR.
  • Le controversie relative alla fase esecutiva dell’agevolazione – erogazione delle somme, adempimento delle condizioni, eventuale revoca per inadempimento – attengono invece a diritti soggettivi e competono al giudice ordinario (salvo eccezioni per aiuti di Stato illegittimi). Questo perché, dopo la concessione, tra amministrazione e beneficiario si instaura un rapporto negoziale vincolato: se la PA revoca per inadempimento contrattuale, sta esercitando un diritto derivante da quel rapporto, che è di natura privatistica (ancorché regolato da una legge). Si parla infatti spesso di “risoluzione” o “decadenza” per inadempimento.

L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 6/2014 ha affermato che è giudice ordinario quando il finanziamento è riconosciuto direttamente per legge e l’amministrazione svolge solo verifica di requisiti, oppure quando la controversia riguarda la fase di ripetizione del contributo per inadempimento del beneficiario, anche se formalmente c’è un atto di revoca. Questo orientamento è stato confermato da Cass. SS.UU. n. 150/2013 e altre pronunce. Ad esempio, TAR Lazio, sez. III-ter, sent. 10529/2020 in un caso di revoca di contributo (gestito da Invitalia) per cessazione anticipata dell’attività finanziata, ha dichiarato il ricorso inammissibile per difetto di giurisdizione, indicando che la competenza era del giudice civile ordinario. Il TAR ha applicato proprio i criteri sopra: l’atto di revoca per inadempimento non è espressione di potere amministrativo discrezionale, ma attuazione di una clausola risolutiva di un rapporto obbligatorio, quindi spetta al tribunale civile decidere su eventuali contestazioni.

Cosa significa in pratica? Che se l’impresa intende opporsi alla revoca sostenendo, ad esempio, che l’inadempimento non sussiste o è scusabile, dovrà verosimilmente agire davanti al Tribunale civile competente per territorio, citando il Ministero/Invitalia per far accertare l’illegittimità della revoca e magari ottenere l’annullamento dell’obbligo di restituzione. Un ricorso al TAR verrebbe con ogni probabilità dichiarato inammissibile (tranne casi peculiari in cui la revoca sia motivata da ragioni di pubblico interesse o illegittimità originaria dell’atto di concessione, ma non è questo il caso tipico).

Questa distinzione rileva per gli avvocati: occorre scegliere il foro giusto e impostare l’azione come inadempimento contrattuale o illegittima risoluzione contrattuale. Nel giudizio civile, l’impresa potrà far valere ad esempio la eccessiva onerosità o la forza maggiore (art. 1256 c.c.) che ha impedito il pagamento, oppure contestare aspetti formali (es. mancato invio della diffida ex art. 1454 c.c., se applicabile). In sede amministrativa questi argomenti non troverebbero spazio poiché non vi è giurisdizione.

Va però segnalato che, a volte, i beneficiari fanno comunque ricorso al TAR per sospendere immediatamente gli effetti della revoca, data la celerità del cautelare amministrativo. Alcuni TAR in passato hanno trattato nel merito revoche di contributi, specie se contestavano profili procedimentali (ad esempio, mancata comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7 L.241/90). In effetti, la revoca è pur sempre un atto amministrativo e come tale soggetto alle garanzie procedimentali: se l’ente non avvisa l’interessato e non consente memorie prima di revocare, si potrebbe eccepire violazione del giusto procedimento. Ad esempio, in un caso diverso, un Comune ha impugnato la revoca di un contributo lamentando il mancato rispetto della procedura, ma la questione era intrecciata a profili pubblicistici. Tuttavia, nel contesto odierno, gli orientamenti sono netti nel dire che una volta erogato il contributo, la posizione del privato è di diritto soggettivo perfetto, quindi le garanzie procedimentali sono attenuate e il rimedio è civilistico.

In ogni caso, come consiglio pratico: prima di contenziosi, meglio cercare soluzioni stragiudiziali. L’impugnazione di una revoca comporta tempi e costi, e se nel frattempo parte il recupero esattoriale, l’impresa deve comunque pagare o subire pignoramenti (salvo sospensive). Spesso, l’azione civile serve più a negoziare un accordo (ad esempio, transare per pagare in parte) che a ripristinare l’agevolazione, che di rado viene riattivata giudizialmente se l’inadempimento c’è stato.

Danno erariale e intervento della Corte dei Conti

Un ultimo aspetto civilistico-contabile: il danno erariale. Se il mancato rimborso causa una perdita per lo Stato (ad esempio, nonostante i tentativi di recupero rimane un buco), potrebbe entrare in gioco la Corte dei Conti. Di solito la Corte dei Conti esercita giurisdizione sui funzionari pubblici e amministratori che, con dolo o colpa grave, arrecano un danno alle casse pubbliche. Nel caso di contributi pubblici, la responsabilità contabile è spesso in capo al beneficiario solo se questi riveste un ruolo pubblico (non il nostro caso). Tuttavia, esistono esempi di giudizi contabili contro privati beneficiari, soprattutto quando si configurano condotte illecite come truffa o uso distorto dei fondi.

Ad esempio, la Corte dei Conti – Sezione giurisdizionale Lazio, sentenza n. 329/2020, ha condannato una beneficiaria di contributo (concesso da Invitalia ex D.Lgs.185/2000) a risarcire il danno erariale causato allo Stato a seguito di revoca dell’agevolazione. In quel caso, l’impresa aveva cessato anticipatamente l’attività finanziata e posto in essere condotte intenzionali contrarie alla legge, rendendo vane le possibilità di recupero. La Corte ha ravvisato nella cessazione prematura dell’attività, unita a condotte intenzionali dell’imprenditrice, una “condotta contra ius” generatrice di danno. È un caso in cui il procuratore contabile ha agito direttamente contro la beneficiaria per recuperare somme perdute.

Questo insegna che, se il comportamento della beneficiaria travalica nel fraudolento (es. ottiene i fondi, chiude la ditta e sparisce coi soldi), la Corte dei Conti può ritenere configurato un danno pubblico e chiedere al giudice contabile di condannare la responsabile al pagamento in favore dello Stato. La particolarità è che la Corte dei Conti non necessita di una condanna penale per agire; basta provare l’arricchimento illecito a scapito delle finanze pubbliche. La difesa potrebbe obiettare il difetto di giurisdizione contabile sul privato estraneo alla PA, ma la giurisprudenza contabile ha talora esteso la giurisdizione a privati percettori di fondi pubblici, specie se c’è un vincolo di destinazione non rispettato.

Nel contesto del Fondo Impresa Donna, ciò potrebbe avvenire se, ad esempio, la titolare avesse simulato un’impresa solo per prendere il contributo e, una volta incassato, non solo non rimborsa il mutuo ma non attua nemmeno il progetto. In aggiunta alle azioni penali (fraudolente), la Procura contabile potrebbe citarla per il danno allo Stato (somma erogata e non recuperata) chiedendone la condanna al risarcimento in sede contabile. Questo scenario è in parte sovrapponibile al recupero civile, ma ha presupposti di colpa grave/dolo.

Per una imprenditrice onesta ma semplicemente in difficoltà economica, il rischio di Corte dei Conti è remoto: se l’insolvenza è frutto di sfortuna o crisi di mercato, non c’è di norma colpa grave. Tuttavia, sapere che anche la magistratura contabile vigila disincentiva eventuali furbizie.

Conseguenze penali: quando il mancato pagamento diventa reato

Di per sé, non pagare un debito (anche verso lo Stato) non configura automaticamente un reato. Il diritto penale non punisce l’insolvenza civile, a meno che dietro vi sia una condotta fraudolenta o un uso illecito dei fondi pubblici. Tuttavia, nel contesto di contributi e finanziamenti pubblici esistono diverse fattispecie penali che possono entrare in gioco se l’inadempimento è accompagnato da dolo o irregolarità. Esaminiamo le principali:

Indebita percezione di erogazioni pubbliche (art. 316-ter c.p.)

Se l’impresa ha ottenuto l’agevolazione senza averne diritto, ad esempio presentando dichiarazioni false o omettendo informazioni dovute (ma senza artifici fraudolenti elaborati), può configurarsi il reato di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato previsto dall’art. 316-ter del Codice Penale. Questa norma punisce chi, senza utilizzare artifici o raggiri, ottiene contributi, finanziamenti o altre erogazioni pubbliche non spettanti, per un importo superiore a 4.000 euro. La pena prevista è la reclusione da 6 mesi a 3 anni. Se l’importo indebitamente ottenuto è pari o inferiore a 4.000 euro, non c’è reato ma solo una sanzione amministrativa (come accennato prima).

Nel caso del Fondo Impresa Donna, viste le cifre in gioco, qualsiasi ottenimento indebito sarebbe sicuramente sopra la soglia penale. Un esempio: l’impresa dichiara falsamente di avere una compagine femminile al 100% per accedere al fondo riservato, ma in realtà dietro c’è un uomo che finanzia e controlla (prestanome). Se scoperto, il contributo verrebbe revocato e si contesterebbe l’indebita percezione. Attenzione: questo reato si consuma nel momento in cui si riceve l’ultima erogazione indebita. Quindi non è direttamente il “mancato pagamento” a costituire reato, ma il fatto di aver ottenuto i fondi senza averne diritto.

Nel contesto del nostro tema, potrebbe accadere che durante le indagini sul mancato rimborso emerga che l’impresa non aveva fin dall’inizio i requisiti o ha ottenuto il contributo con qualche dichiarazione mendace. In tal caso, la titolare può essere imputata per 316-ter c.p. e rischia la reclusione. Esempio concreto: un’imprenditrice presenta fatture gonfiate per ottenere una quota maggiore di contributo a fondo perduto; quando non riesce a restituire il finanziamento e scattano controlli, si scopre la falsità delle spese. Ciò integra un’indebita percezione (se fatta senza altri artifici) o addirittura truffa aggravata (se c’erano stratagemmi, vedi oltre).

Truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640-bis c.p.)

Se per ottenere l’agevolazione l’impresa ha messo in atto artifizi o raggiri, ad esempio un progetto fittizio, documenti falsificati ad arte, simulazione di investimenti, allora si configura la truffa aggravata ai danni dello Stato ai sensi dell’art. 640-bis c.p. Questa è una fattispecie più grave di 316-ter. La pena prevista è la reclusione da 2 a 7 anni, e si procede d’ufficio (cioè scatta la denuncia anche senza querela).

La differenza tra truffa aggravata e indebita percezione sta nei mezzi fraudolenti. Per esempio:

  • Indebita percezione (316-ter): la beneficiaria ha presentato un’autocertificazione falsa ma senza inscenare nulla di complesso (semplice false dichiarazioni).
  • Truffa aggravata (640-bis): la beneficiaria ha creato una messa in scena fraudolenta per ottenere i fondi (fatture false, società di comodo, collusioni, ecc.).

Nel contesto del Fondo, se il mancato pagamento è dovuto al fatto che l’impresa era in realtà un guscio vuoto creato solo per prendere soldi pubblici, e magari ha presentato un piano aziendale finto e spese inventate, la GdF e la magistratura potrebbero contestare la truffa aggravata. Ad esempio, 11 titolari di ditte nel settore nautico a Viareggio sono stati denunciati per malversazione e indebita percezione avendo scambiato fatture false per intascare fondi startup: questo è uno schema truffaldino.

Per un’imprenditrice onesta che ha usato i fondi correttamente ma poi non è riuscita a ripagarli, non vi sarà truffa. La truffa richiede il dolo iniziale di ingannare lo Stato. Tuttavia, se la mancata restituzione è frutto di un piano deliberato (prendere il fondo e non pagarlo volutamente), è facile che vi siano state falsità a monte.

Malversazione a danno dello Stato (art. 316-bis c.p.)

Questo reato si verifica dopo l’ottenimento dei fondi, quando chi ha ricevuto finanziamenti pubblici vincolati a una certa finalità li destina a fini diversi da quelli per cui sono stati concessi. L’art. 316-bis c.p. punisce con la reclusione da 6 mesi a 4 anni chi, avendo ottenuto dallo Stato contributi o finanziamenti destinati a favorire iniziative di pubblico interesse, non li utilizza per le finalità previste.

È un reato che colpisce il comportamento dell’impresa durante la fase di utilizzo del denaro pubblico. Esempio classico: ottengo 100.000 € per aprire un asilo nido (finalità sociale), ma poi uso quei soldi per comprarmi una casa o per attività completamente diverse – questo è malversazione. Non importa se all’inizio ero in buona fede: conta che alla fine ho deviato i fondi.

Nel nostro caso, se l’imprenditrice ha ricevuto le somme ma non le ha impiegate nel progetto approvato – magari li ha dirottati altrove – e di conseguenza l’azienda non ha prodotto quanto doveva (finendo per non generare redditi per rimborsare), potrebbe essere accusata di malversazione. Ad esempio, se i macchinari da acquistare non sono mai stati comprati e il denaro è sparito in spese non attinenti, la fattispecie è integrata. Questo reato non riguarda specificamente il fatto di non restituire il mutuo, ma spesso si accompagna: chi non rimborsa potrebbe non aver potuto rimborsare perché i soldi sono stati distolti dall’investimento. Malversazione e revoca per inadempimento vanno a braccetto: se non porti a termine il progetto e i soldi sono spariti, avrai la revoca e penalmente la malversazione.

Una particolarità: la Cassazione nel 2021 (sentenza n. 22119/2021) ha escluso la malversazione per certi prestiti COVID garantiti dallo Stato, ritenendo che mancasse uno specifico vincolo di destinazione stringente. Ma nel caso del Fondo Impresa Donna il vincolo c’è eccome (spendere per quel progetto). Quindi non ci sono scappatoie: se la destinazione viene tradita, il reato sussiste.

Riassumendo i tre reati principali:

  • Art. 316-ter c.p. (indebita percezione): punisce come si è ottenuto il fondo (dichiarazioni mendaci). Pena fino a 3 anni.
  • Art. 640-bis c.p. (truffa aggravata): punisce come si è ottenuto il fondo (inganni fraudolenti). Pena da 2 a 7 anni.
  • Art. 316-bis c.p. (malversazione): punisce come si è usato il fondo (destinazione illecita). Pena da 6 mesi a 4 anni.

A questi, se ne possono aggiungere altri in contesti specifici:

  • Falso ideologico o materiale (artt. 481, 482 c.p.) per eventuali documenti falsificati.
  • Bancarotta fraudolenta (artt. 216-217 L.F.) se l’impresa fallisce e si scopre che l’imprenditrice ha distratto attivi (i fondi pubblici dirottati altrove potrebbero costituire distrazione fallimentare). Quindi se l’azienda va in fallimento dopo aver bruciato il finanziamento pubblico, l’imprenditrice rischia anche imputazioni per bancarotta, con pene severe (anche superiori a 316-bis).
  • Reati minori: ad esempio falso in autodichiarazione (art. 483 c.p.), se dichiarazioni al funzionario pubblico risultano false.

Va sottolineato: il semplice non pagare le rate per difficoltà finanziarie, senza alcun elemento di frode o di uso illecito delle risorse, NON costituisce reato. L’ordinamento non punisce chi fa un investimento ma poi, causa mercato negativo o sfortune, non riesce a restituire il prestito pubblico. In tali casi ci sarà la revoca e il recupero forzoso, ma non un processo penale, a meno che l’imprenditrice non si macchi di altri illeciti (ad es. per evitare i pignoramenti trasferisce tutti i beni a terzi – ciò potrebbe configurare reati come sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte ex art. 11 D.Lgs.74/2000, se equiparato a debiti fiscali, o comunque comportamenti censurabili).

Tuttavia, l’attenzione investigativa sui fondi pubblici è aumentata. La Guardia di Finanza effettua controlli incrociati e collabora con le autorità (ANPAL, Ministero) per individuare possibili anomalie nelle spese e nell’andamento dei progetti finanziati. Dunque, se un’impresa abbandona il progetto e non ripaga, quasi certamente verrà ispezionata nei dettagli. Se tutto è in regola salvo la sfortuna, non avrà conseguenze penali; ma se emergono spese fantasma, sovrafatturazioni, girate di denaro sospette, partiranno segnalazioni di reato.

Conseguenze penali indirette: L’iscrizione nel registro degli indagati e un eventuale processo penale sono di per sé eventi molto gravosi per un’imprenditrice: implicano costi legali, possibili misure cautelari (sequestri preventivi dei beni equivalenti al profitto del reato – ad esempio se accusata di truffa per 80k, può essere sequestrato il suo conto o immobile per quel valore), danno di immagine e rischi personali (fino alla detenzione in caso di condanna). Inoltre, una condanna per reati contro la PA comporta interdizioni dai pubblici uffici e l’incapacità di contrattare con la PA per un certo periodo, il che chiuderebbe definitivamente le porte a future agevolazioni.

In conclusione, non esiste un reato di “mancato rimborso di finanziamento pubblico”; ma quel mancato rimborso, se inserito in un contesto di mendacia o sperpero dei fondi, può costituire la spia di reati come 316-bis o 640-bis c.p. Dunque la soglia penale viene superata quando all’inadempimento si associa dolo: dolo nel conseguire indebitamente, o dolo nel dissipare intenzionalmente le risorse pubbliche ricevute.

Simulazioni pratiche di scenari di inadempimento

Per comprendere meglio le conseguenze fin qui descritte, presentiamo alcune simulazioni pratiche con scenari realistici di inadempimento da parte di imprese beneficiarie del Fondo Impresa Donna. Ogni scenario illustra una situazione-tipo, evidenziando il percorso che ne segue in termini di sanzioni e provvedimenti.

Caso 1: Ritardo temporaneo nel pagamento di una rata“Ritardo sanato senza revoca”
L’impresa Alpha S.r.l., beneficiaria del Fondo, deve rimborsare una rata semestrale di €5.000 il 31 maggio 2025. A causa di temporanea carenza di liquidità, Alpha non paga puntualmente. Dopo 15 giorni, Invitalia le invia una lettera di sollecito via PEC, ricordando la scadenza e intimando il pagamento entro 20 giorni. Nel frattempo, Alpha riceve dei pagamenti da clienti e, pur con difficoltà, riesce entro i 20 giorni a pagare la rata scaduta (magari con qualche piccolo interesse per i giorni di ritardo, se previsto). Invitalia prende atto del pagamento tardivo. Conseguenze: In questo scenario, non scatta alcuna revoca poiché l’inadempimento è stato sanato prima del provvedimento. Alpha S.r.l. magari ha dovuto chiedere una dilazione breve (pagando in due tranche ravvicinate la rata dovuta) secondo le linee guida Invitalia, ma una volta regolarizzata la posizione, prosegue normalmente con il suo piano di rimborso. Imparerà la lezione gestendo meglio la cassa per le prossime scadenze. Sanzioni applicate: praticamente nessuna, a parte eventuali interessi di mora per il ritardo (e il sollecito morale ricevuto). – Questo scenario mostra che un piccolo ritardo, se recuperato velocemente, non comporta la catastrofe, anche se è bene evitarlo per non destare sospetti e per non accumulare interessi.

Caso 2: Inadempimento totale e revoca dell’agevolazione“Default e recupero coattivo”
La ditta individuale Beta di Rossi Maria ha ricevuto un’agevolazione di €80.000 (di cui €50.000 fondo perduto e €30.000 finanziamento) per avviare un laboratorio artigianale. Completato il progetto, Beta inizia il rimborso del mutuo nel 2024. Purtroppo l’attività va male: i ricavi sono scarsi e Maria Rossi sospende i pagamenti dopo aver versato solo la prima rata. Restano impagate 3 rate semestrali per un totale di €25.000. Invitalia invia ripetuti solleciti nel 2025, ma Maria non ha liquidità e di fatto interrompe ogni contatto, sperando invano di risollevarsi. Nel marzo 2026, constatatane l’inadempimento grave, Invitalia adotta il provvedimento di revoca totale: Beta decade da tutto il contributo e deve restituire €50.000 (fondo perduto) + €30.000 (finanziamento erogato) – €5.000 (l’unica rata pagata) = €75.000, oltre interessi. Maria non dispone di questa cifra e non paga entro i 30 giorni concessi. A giugno 2026, il debito viene iscritto a ruolo: l’Agenzia Entrate Riscossione le notifica una cartella esattoriale di circa €77.000 (comprensivi di interessi e aggi). Maria Rossi non può far altro che chiedere un piano di rateazione lungo, che fortunatamente AdER le concede: 72 rate mensili da ~€1.070 l’una per 6 anni. Nel frattempo, però, l’AdER ha iscritto ipoteca sulla casa di Maria (del valore di €120.000) a garanzia del credito e un fermo amministrativo sulla sua auto. Finché Maria paga puntualmente le rate della cartella, non subisce ulteriori azioni, ma se saltasse quelle, partirebbe il pignoramento dell’immobile. Conseguenze: Beta ha perso definitivamente il contributo, che si è trasformato in un debito esattoriale. La sua attività ne risente enormemente, e di fatto Maria valuta di chiudere il laboratorio perché l’onere delle rate è insostenibile con i magri profitti. Non vi sono conseguenze penali perché Maria non ha commesso reati – il suo è un caso di insuccesso imprenditoriale. Tuttavia, il suo nome risulterà nei database come soggetto revocato (cosa che le precluderà nuovi finanziamenti pubblici in futuro) e dovrà convivere per anni con un debito elevato. – Questo scenario illustra il tipico caso di default: revoca totale, cartella esattoriale, debito da rimborsare forzosamente. Da notare che, essendo Beta una ditta individuale, Maria risponde con tutti i suoi beni personali, infatti le hanno ipotecato la casa. Se fosse stata una SRL, probabilmente la società Beta sarebbe fallita e il recupero si sarebbe svolto in tribunale fallimentare (dove lo Stato avrebbe avuto privilegio). In ogni caso, l’imprenditrice si trova a perdere sia i fondi avuti sia l’attività costruita.

Caso 3: Chiusura anticipata dell’attività e perdita del beneficio“Revoca per cessazione entro 3 anni”
La società Gamma SNC, composta da due socie, ottiene €60.000 (40k fondo perduto + 20k mutuo) per ampliare un negozio. Dopo 1 anno dal completamento del progetto, le socie decidono di chiudere l’attività perché non più redditizia. Nel dicembre 2024 cessano la partita IVA e liquidano la SNC, pensando di “liberarsi” del peso. Ma la cessazione volontaria dell’attività entro 3 anni costituisce causa di revoca ex art.20 lett. e). Invitalia infatti, venuta a sapere della chiusura (attraverso la camera di commercio), emette a maggio 2025 un provvedimento di decadenza dal contributo per cessazione anticipata. Gamma SNC, che aveva pagato regolarmente le rate fino alla chiusura (diciamo 2 rate per 5k totali), si vede richiedere indietro tutto: i 40k a fondo perduto e i 20k di finanziamento residuo (15k non ancora rimborsati). Le socie, che nel frattempo hanno incassato qualcosa dalla liquidazione (vendita delle merci e arredi), usano quei fondi per restituire parte del dovuto, ma non coprono l’intero importo. Rimangono €30.000 non pagati. Segue quindi l’iscrizione a ruolo e il recupero coattivo sulle socie in solido, essendo SNC (i soci di SNC sono illimitatamente responsabili). Una delle due socie ha un altro negozio personale: l’AdER le blocca il conto e preleva forzosamente su incassi futuri; l’altra socia, pensionata, subisce un pignoramento del quinto della pensione. Conseguenze: In questo scenario, l’errore fatale è stato cessare l’attività troppo presto pensando magari di cavarsela restituendo il solo finanziamento. Invece la revoca ha imposto di restituire anche il fondo perduto, vanificando tutto l’aiuto ricevuto. Le socie perdono non solo l’impresa ma devono anche pagare per anni il debito residuo. Sanzioni penali: nessuna, perché la chiusura anticipata non è reato (a meno che fosse preordinata a frodare, ma non pare questo il caso). – Questo scenario evidenzia l’importanza di mantenere l’impegno temporale: anche se la restituzione del mutuo fosse regolare, la chiusura anticipata fa perdere il contributo. L’impresa avrebbe dovuto cercare altre soluzioni (vendere l’attività magari trasferendola mantenendo la partita IVA attiva, o attendere la fine del vincolo triennale).

Caso 4: Utilizzo improprio dei fondi e mancato rimborso“Malversazione e ricadute penali”
La startup Delta S.r.l.s. ottiene €100.000 (60k fondo perduto + 40k finanziamento) per sviluppare una piattaforma digitale. Subito dopo aver incassato le somme, però, l’amministratore di Delta (socia unica) impiega gran parte del denaro per scopi personali: acquista un’auto di lusso intestata a sé stessa per €30k, e altri €20k li trasferisce a un’altra sua società senza legame col progetto. Alla piattaforma dedica poche risorse e di fatto non la realizza. Quando dopo un anno sarebbe ora di iniziare a restituire le rate del mutuo, Delta è praticamente inattiva e non paga nulla. Invitalia avvia un controllo sullo stato di avanzamento e scopre che i soldi sono stati spesi in modo anomalo. Scatta la revoca per mancata realizzazione dell’iniziativa e uso non conforme dei fondi (art.20 lett. c e d). Si richiede a Delta la restituzione integrale dei 100k. Nel frattempo, la Guardia di Finanza su segnalazione avvia un’indagine: dai documenti contabili emergono chiaramente le spese estranee (auto, bonifici non giustificati). La titolare viene indagata per malversazione a danno dello Stato (art.316-bis c.p.), avendo destinato a finalità private ben più che una minima parte del finanziamento. Viene disposto anche un sequestro preventivo sulla sua auto e sul conto corrente fino a concorrenza di €50k (ritenuti profitto del reato). Dal lato amministrativo, Delta non rimborsa nulla spontaneamente, e quindi l’AdER procede col recupero coattivo: pignorando i crediti sui conti di Delta (che però sono vuoti) e poi attaccando beni della socia se possibile – essendo SRLs, la socia non è obbligata, ma essendo anche imputata penalmente, le sono già stati sequestrati beni personali. Conseguenze: la titolare di Delta affronta un processo penale per malversazione, con rischio concreto di condanna (nel frattempo, per evitare il carcere, prova a risarcire lo Stato restituendo quanto sequestrato). Inoltre, ha perso il contributo e la sua startup è fallita (il suo comportamento disonesto l’ha condotta al disastro). Sanzioni: Penale in primis (potrebbe patteggiare una pena di 1 anno e 6 mesi, ad esempio, con restituzione del maltolto). Amministrativamente, revoca come negli altri casi e recupero forzoso, anche se probabilmente lo Stato recupererà solo in parte (tramite il sequestro/trattenimento di beni). – Questo scenario estremo mostra come l’inadempimento unito a malversazione porti a conseguenze penali serie: l’imprenditrice ha praticamente commesso un illecito penale e ne risponde. Il mancato pagamento qui è quasi una conseguenza inevitabile dell’uso distorto dei fondi.

Caso 5: Insolvenza e fallimento dell’impresa beneficiaria“Procedura concorsuale e ruolo dello Stato creditore”
La società Epsilon S.p.A. ottiene €200.000 di agevolazione (metà fondo perduto, metà finanziamento) per un progetto industriale. Dopo alcuni anni, complici shock economici, Epsilon accumula debiti e nel 2026 fallisce in Tribunale. A quella data, non aveva ancora finito di rimborsare il finanziamento agevolato: restavano €50.000 da pagare e ovviamente con il fallimento interrompe i pagamenti. Invitalia avvia la revoca per fallimento (causa di revoca automatica ex art.20 lett. f)) e si insinua nel passivo fallimentare come creditore per l’importo dovuto (comprensivo anche del fondo perduto, essendo revoca totale). Grazie al privilegio ex L.449/97, il credito dello Stato viene ammesso come privilegiato generale sui mobili. Nel riparto dell’attivo fallimentare, l’attivo ricavato dalla vendita dei macchinari permette di soddisfare parzialmente i creditori privilegiati, tra cui Invitalia, che recupera ad esempio €30.000 dei €80.000 richiesti. Il residuo rimane insoddisfatto e verrà stralciato con la chiusura del fallimento. Conseguenze: Epsilon S.p.A. cessa di esistere; lo Stato recupera solo parte del suo credito, subendo un danno erariale da revoca per la quota scoperta. Le responsabilità potrebbero spostarsi sugli amministratori di Epsilon se emergessero condotte di mala gestione: in sede fallimentare, il curatore potrebbe intentare un’azione di responsabilità per aver causato la perdita del contributo, oppure la Corte dei Conti potrebbe valutare se c’è stato dolo nel far fallire la società con soldi pubblici a bordo. Ma se il fallimento è dovuto a sfortune di mercato, nessuna sanzione ulteriore, a parte la normale interdizione dei responsabili come da legge fallimentare. – Questo scenario mette in luce che la revoca opera anche nel contesto concorsuale, e lo Stato si tutela col privilegio, ma comunque il recupero può essere solo parziale. Per l’impresa, il danno reputazionale è meno rilevante perché già fallita; per i suoi esponenti, rimane il rimorso di aver sprecato un contributo pubblico. Notare che se l’insolvenza fosse stata pilotata o accompagnata da distrazioni, scattano i reati fallimentari oltre a quelli già citati.

Queste simulazioni, pur semplificate, coprono un ampio ventaglio di situazioni. In tutti i casi appare evidente come non pagare il finanziamento del Fondo Impresa Donna porti a conseguenze negative importanti: dalla semplice mora con interessi, alla revoca dell’intero contributo, fino a procedure esecutive e possibili implicazioni penali se ci sono irregolarità. L’entità delle conseguenze dipende molto dal comportamento del beneficiario: chi cerca di rimediare al ritardo limitando il danno può salvarsi, chi invece ignora gli obblighi o – peggio – li viola deliberatamente, incorre in sanzioni severe e pluri-livello.

Giurisprudenza rilevante in materia di revoca e inadempimenti

In questo paragrafo riepiloghiamo alcune pronunce giurisprudenziali significative riguardanti la revoca di finanziamenti pubblici e le conseguenze degli inadempimenti, utili per inquadrare i principi applicati dai giudici nei casi concreti. Divideremo gli spunti tra giustizia amministrativa (TAR e Consiglio di Stato), contabile (Corte dei Conti) e penale.

Giurisprudenza amministrativa (TAR e Consiglio di Stato)

  • TAR Lazio, Sez. III-ter, sentenza 12 ottobre 2020 n.10529Giurisdizione sulle revoche per inadempimento.
    Il caso riguardava la revoca di agevolazioni concesse ai sensi del D.Lgs.185/2000 (imprenditoria giovanile) decisa da Invitalia per cessazione anticipata dell’attività finanziata. Il beneficiario fece ricorso al TAR. Il TAR Lazio ha dichiarato il ricorso inammissibile per difetto di giurisdizione, statuendo che la controversia appartiene al giudice ordinario poiché vertente sulla fase esecutiva del rapporto contributivo. Nella motivazione richiama l’orientamento dell’Adunanza Plenaria 6/2014 e Cass. SS.UU. 150/2013: in caso di revoca per inadempimento di obblighi assunti dal privato, la posizione giuridica è di diritto soggettivo e la PA agisce in funzione paritetica, quindi la giurisdizione è ordinaria. Questo precedente conferma che chi intende contestare la revoca di un contributo per mancato pagamento (od altri obblighi non rispettati) dovrà farlo davanti al tribunale civile, non al TAR. Rilevanza: orientamento consolidato sul riparto di giurisdizione, fondamentale per impostare la difesa.
  • Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria 29 gennaio 2014 n.6Criteri di riparto giurisdizionale.
    Pronuncia storica che ha fissato i criteri generali seguiti poi dai giudici. Stabilisce tra l’altro che: a) spetta sempre al giudice ordinario quando il finanziamento è previsto dalla legge con requisiti vincolati e l’amministrazione svolge solo compiti attuativi senza discrezionalità sull’an o il quantum; b) spetta al giudice ordinario quando la controversia riguarda la fase di esecuzione o ripetizione del contributo per inadempienze del beneficiario, anche se formalmente l’atto impugnato è una “revoca” amministrativa. Fa salve solo le ipotesi di aiuti di Stato illegittimi (giurisdizione esclusiva TAR ex art.133 c.1 lett. z-sexies c.p.a.). Rilevanza: è la base dottrinaria applicata nei casi come quello del Fondo Impresa Donna, ribadendo che una volta concesso il contributo, eventuali revoche per violazioni contrattuali non sono esercizio di potere autoritativo discrezionale, bensì atti dovuti su risoluzione di rapporti obbligatori, quindi rimedi ordinari.
  • TAR Puglia, Bari, Sez. I, sentenza 15 aprile 2014 n.843Legittimità della revoca e proporzionalità.
    In questo caso una società contestava la revoca di un contributo ad essa concesso, sostenendo di non aver commesso violazioni tali da giustificare l’atto. Il TAR Puglia ha colto l’occasione per ribadire che la revoca per inadempimento va valutata anche sotto il profilo della proporzionalità (principio comunitario recepito nel nostro ordinamento). Se l’amministrazione applica una sanzione rigida senza considerare la gravità dell’inadempimento, potrebbe agire in modo sproporzionato. Tuttavia, nel caso specifico, il TAR rilevò che nessuna delle violazioni previste dal regolamento si era verificata, quindi la revoca era illegittima e la annullò. Rilevanza: questo precedente indica che, in sede di sindacato (sia pure di merito qui al TAR, ma analogamente un giudice ordinario lo farebbe), occorre verificare se effettivamente l’impresa ha commesso una violazione contrattuale che rientra tra quelle previste per la revoca. Se l’ente revoca senza causa reale, l’atto è annullabile. Inoltre, suggerisce che anche il concetto di proporzionalità potrebbe entrare in gioco: ad esempio, revocare l’intero contributo per un inadempimento minimo potrebbe essere ritenuto eccessivo, anche se la norma lo prevede rigidamente. Nel contesto del mancato pagamento, però, è difficile invocare proporzionalità, perché il mancato pagamento di rate è normalmente considerato grave (essendo obbligo fondamentale).
  • Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza 29 febbraio 2016 n.835Natura dell’atto di revoca e contraddittorio procedimentale.
    Questo caso (Seagull Yachting) ha affrontato un diniego di agevolazione, ma toccando temi generali. Il Consiglio di Stato ha sottolineato come negli atti di autotutela sui contributi (revoca, diniego, decadenza) non sempre sia obbligatoria la comunicazione di avvio del procedimento ex art.7 L.241/90, specie quando l’atto è vincolato. Tuttavia, laddove possano esistere margini di valutazione o elementi da chiarire, il contraddittorio procedimentale va rispettato. Rilevanza: per le revoche del Fondo Donna, se l’amministrazione non ha inviato una diffida o comunicazione di avvio, il beneficiario potrebbe lamentare la violazione del giusto procedimento. La PA replicherà che la revoca per inadempimento è atto dovuto e l’invio di precedenti solleciti soddisfa l’esigenza. In genere, i giudici tendono a ritenere sufficiente la diffida di pagamento come forma di partecipazione procedimentale; non occorre un preavviso di revoca ulteriore.

In sintesi, la giurisprudenza amministrativa recente converge su: giurisdizione ordinaria per revoche da inadempimento; legittimità della revoca se effettivamente c’è stata violazione di obblighi essenziali; necessità che l’azione sia proporzionata e rispettosa del contraddittorio (ad es. diffida preventiva). Un’impresa colpita da revoca potrà dunque far leva, nell’eventuale giudizio civile, su eventuali vizi procedimentali o sulla mancanza dei presupposti (se ritiene di aver adempiuto o di avere valide giustificazioni).

Giurisprudenza contabile (Corte dei Conti)

  • Corte dei Conti, Sez. giurisd. Lazio, sentenza 26 giugno 2020 n.329Danno erariale da revoca per condotte contra ius.
    Riferita già in precedenza, questa sentenza riguarda una beneficiaria di fondi autoimprenditorialità (Invitalia) che aveva chiuso l’attività finanziata e non restituito le somme. La Procura contabile la citò per danno erariale. La Corte dei Conti ha affermato che la convenuta (beneficiaria) aveva tenuto una condotta contra ius – la “cessazione prematura dell’attività finanziata, accompagnata da intenzionali condotte…” – che ha causato un danno allo Stato. Di conseguenza, l’ha condannata al risarcimento in favore di Invitalia del danno erariale quantificato (sottraendo quanto recuperato). Rilevanza: è un precedente concreto di intervento della magistratura contabile direttamente sul beneficiario privato inadempiente. Significa che, in casi di particolare gravità e colpa, anche chi non è dipendente pubblico può essere chiamato dalla Corte dei Conti a risarcire, sovrapponendosi all’azione di recupero amministrativo. Questo rinforza l’idea che chi riceve fondi pubblici assume una sorta di responsabilità verso la collettività: se li disperde, ne risponde non solo contrattualmente ma anche sul piano contabile. Per un’avvocato difensore, in simili cause è importante provare l’assenza di colpa grave: ad esempio, che la cessazione fu forzata da cause esterne e non per dolo o negligenza. Se si riesce a dimostrare che l’imprenditrice ha fatto di tutto per salvare l’azienda e restituire, magari la Corte potrebbe riconoscere l’assenza di responsabilità erariale. Altrimenti, come in questo caso, la condanna è quasi inevitabile.
  • Corte dei Conti, deliberazione 7/2022/G (Sezione centrale di controllo)Monitoraggio PNRR e rilievi sui fondi.
    Non una sentenza giurisdizionale, ma un atto di controllo significativo in cui la Corte dei Conti esamina lo stato di attuazione di misure come il Fondo Nuove Competenze e altri incentivi PNRR. Tali deliberazioni spesso segnalano criticità e raccomandano maggiore vigilanza su possibili usi distorti. Rilevanza: indica che la Corte dei Conti è attivamente impegnata nel monitorare che i fondi PNRR (di cui fa parte il Fondo Impresa Donna) siano ben spesi. Questo contesto di controllo aumenta la probabilità che casi di mancato utilizzo o inadempimento finiscano sotto la lente contabile. In altre parole, l’imprenditrice deve sapere che il suo operato potrebbe essere scrutinato non solo dal Gestore e dalla GdF, ma anche dalla Corte dei Conti in sede di controllo: una revoca può far scattare domande sul perché e su chi ha sbagliato, e se del caso portare all’apertura di un fascicolo per danno.
  • Corte dei Conti, Sez. giurisd. Abruzzo, sentenza 20 aprile 2018 n.214Responsabilità amministrativa del funzionario concessionario.
    Questa pronuncia (in Abruzzo) ha visto la condanna di un funzionario pubblico responsabile di aver concesso indebitamente contributi poi non recuperati. Nella vicenda, alcuni contributi erano stati erogati a imprese non in possesso dei requisiti, e poi non erano stati recuperati dopo la revoca. La Corte condannò il dirigente per il danno derivato dalla mancata attivazione tempestiva delle procedure di recupero. Rilevanza: sebbene riguardi il lato opposto (il pubblico ufficiale), è il contraltare: evidenzia che le amministrazioni sono obbligate a recuperare con solerzia i fondi revocati, altrimenti ne rispondono. Questo spiega perché Invitalia e Ministero sono molto attivi e rapidi nel recupero: se non lo facessero, i loro dirigenti potrebbero incorrere in responsabilità contabile. Di riflesso, il beneficiario non può sperare in “lassismi”: c’è un interesse pubblico forte a recuperare.

In sintesi, la giurisprudenza contabile lancia un messaggio chiaro: il denaro pubblico va restituito se non usato come dovuto, altrimenti qualcuno – beneficiario o funzionario – ne risponde. Per l’imprenditrice, ciò significa che eventuali comportamenti opportunistici verranno perseguiti anche su questo fronte.

Giurisprudenza penale

  • Cassazione Penale, Sez. Unite, sentenza 21 gennaio 2021 n.331Momento consumativo della malversazione (art.316-bis c.p.).
    Le Sezioni Unite penali## Consigli pratici per prevenire o gestire il mancato pagamento
    Le conseguenze del mancato pagamento del finanziamento possono essere devastanti per l’imprenditrice e la sua azienda. È quindi fondamentale adottare misure preventive e strategie di gestione per evitare di giungere all’inadempimento o, se ciò accade, mitigarne gli effetti. Di seguito alcuni consigli pratici, rivolti sia alle imprenditrici beneficiarie che ai professionisti legali che le assistono:
  • Pianificazione finanziaria rigorosa: sin dall’inizio, occorre prevedere nei piani finanziari dell’impresa le uscite per il rimborso del mutuo agevolato. Accantonare periodicamente una quota dei ricavi per le rate semestrali è buona prassi. Il fatto che il finanziamento sia a tasso zero non deve indurre a sottovalutarlo: è pur sempre un debito. Inserire nel budget aziendale una voce fissa per “rimborso Invitalia” come se fosse un costo operativo può aiutare a non trovarsi senza liquidità alle scadenze.
  • Controllo dell’investimento: non utilizzare l’intera liquidità dell’agevolazione immediatamente se non necessario. Evitare sprechi o sovra-investimenti che potrebbero mettere in crisi la cassa. Meglio completare gli acquisti gradualmente, monitorando che l’attività generi flussi di cassa in linea con le previsioni. In pratica, allineare le spese ai ricavi: se un macchinario costoso può essere preso più avanti, non bruciare subito tutta la cassa solo perché c’è il contributo. Mantenere una riserva di emergenza può servire per pagare le rate nei primi tempi se i ricavi stentano.
  • Rispetto rigoroso delle condizioni di progetto: attenersi fedelmente all’uso dei fondi per le finalità approvate. Non distrarre le somme per esigenze diverse dall’investimento previsto (se serve liquidità extra per altre cose, meglio ricorrere a fonti alternative). Ogni euro speso deve poter essere rendicontato e giustificato. Questo non solo eviterà malversazioni, ma farà sì che l’azienda produca effettivamente valore dall’investimento, rendendo più probabile disporre di mezzi per rimborsare. Se vi sono margini di aggiustamento del progetto, chiedere autorizzazione al Gestore (ad es. rivedere voci di spesa): mantenere il dialogo può prevenire violazioni inconsapevoli.
  • Monitorare l’andamento e attivarsi ai primi segnali di difficoltà: se i ricavi sono inferiori alle attese e si prevede difficoltà a pagare la prossima rata, non aspettare di essere insolventi. Contattare subito Invitalia per informali delle difficoltà e valutare possibili soluzioni (richiedere una dilazione per quella rata, o concordare il pagamento parziale immediato e il resto entro qualche mese). Mostrare proattività e buona fede può spingere il Gestore a non procedere immediatamente con la revoca ma a cercare insieme una via d’uscita. Dal lato legale, l’avvocato può aiutare a predisporre un’istanza motivata di rinegoziazione, allegando magari un piano di risanamento o nuove garanzie. Spesso il silenzio o l’inerzia aggravano la posizione; al contrario, segnalare i problemi e proporre soluzioni è visto positivamente.
  • Ricorrere per tempo agli strumenti di rinegoziazione: come visto, Invitalia (in base anche a norme introdotte negli ultimi anni) può concedere sospensioni o allungamenti del piano di ammortamento. Informarsi su queste possibilità e, se il decreto lo consente, presentare domanda di rinegoziazione prima di accumulare troppo ritardo. Ad esempio, se l’impresa vede che per un anno non riuscirà a pagare, può chiedere la sospensione della quota capitale per 12 mesi (se attivassero una misura analoga a quella del DM 7/8/2019 citato in precedenza). Oppure chiedere di estendere la durata del mutuo da 8 a, poniamo, 10 anni per abbassare l’importo semestrale delle rate. Qualunque respiro in più può fare la differenza.
  • Evitare la chiusura anticipata o cambi societari nei primi 3 anni: se possibile, non cessare l’attività prima del termine di vincolo e non modificare l’assetto di impresa femminile. Se proprio si intende dismettere, valutare soluzioni alternative: ad esempio, cedere l’azienda a terzi (subentro) invece di cessarla, cercando di ottenere dal Gestore l’autorizzazione a trasferire l’agevolazione al subentrante (non sempre possibile, ma tentabile); oppure attendere i 3 anni prima di vendere quote a soci maschi. Queste accortezze evitano la revoca automatica del contributo. Ovviamente, non sempre è nelle corde dell’imprenditrice sostenere un’attività in perdita per altri 2 anni, ma prima di chiudere valutare i costi-benefici: chiudere subito fa scattare revoca e debito immediato; tentare di resistere (magari ridimensionando l’attività) fino a fine vincoli potrebbe far maturare il diritto a non restituire il fondo perduto.
  • Se la revoca è avviata, attivarsi subito legalmente: appena si riceve una diffida o (peggio) un provvedimento di revoca, consultare immediatamente un legale esperto in diritto amministrativo/contabile. Ci sono termini brevi per impugnare o presentare memorie. L’avvocato potrà valutare se ci sono margini per opporsi (ad esempio, se la diffida è viziata o se la revoca è eccessiva rispetto a una violazione minore) e magari chiedere una sospensione dell’atto in via d’urgenza al giudice competente. In parallelo, l’avvocato può trattare con l’amministrazione per una soluzione transattiva: ad esempio, proporre il pagamento immediato di una parte del dovuto e la rinuncia ad ulteriori pretese, in cambio della revoca solo parziale. Va detto che la P.A. ha poteri limitati di transigere crediti erariali, ma in alcuni casi (previa autorizzazioni ministeriali) sono stati conclusi accordi bonari per chiudere contenziosi su agevolazioni (come il famoso saldo al 25% concesso con la L.178/2020 per vecchi mutui Invitalia).
  • Rateizzare il debito con l’Agenzia delle Entrate Riscossione: se si è arrivati alla cartella esattoriale, non c’è vergogna a chiedere un piano di rateazione fiscale. È un diritto del contribuente-dittà se in regola con i requisiti (importo sotto soglia o dimostrando difficoltà). Questo consente di evitare azioni esecutive e diluire il pagamento fino a 6–10 anni. Bisogna però essere scrupolosi poi nel pagare le rate della cartella, altrimenti si decade dal piano e il debito torna esigibile in blocco. Inoltre, verificare se si può beneficiare di eventuali rottamazioni o definizioni agevolate dei debiti: talvolta il legislatore introduce sanatorie sui carichi affidati all’AdER (stralcio interessi, sanzioni, ecc.). Ad esempio, nel 2023 c’è stata la Rottamazione-quater per cartelle: se per ipotesi la cartella include sanzioni, potrebbe esserci spazio per ridurle. Un legale o commercialista può aiutare a esplorare queste opportunità.
  • Trasparenza e documentazione in caso di problemi: se l’inadempimento è dovuto a cause di forza maggiore (es. calamità naturale, pandemia, furto di macchinari), è importante documentare accuratamente tali eventi e notificarli subito al Gestore chiedendo clemenza o estensioni. Un evento straordinario potrebbe non evitare la revoca, ma fornire materiale per un’eventuale difesa (es. invocare causa di forza maggiore per non pagare penali o interessi). L’importante è che la PA non percepisca l’inadempimento come semplice negligenza: fornire spiegazioni formali e tracciabili può solo giovare.
  • Polizze assicurative su investimenti e attività: valutare la stipula di assicurazioni che possano attivarsi in casi di eventi che compromettono la capacità di rimborso. Ad esempio, una polizza su macchinari (furto/incendio) garantirà un indennizzo se tali beni – cruciali per produrre reddito – vengono meno, permettendo di onorare comunque i debiti. Esistono anche polizze di credit insurance o business interruption che, pur non specifiche per il mutuo pubblico, possono dare liquidità all’azienda in momenti critici. Non esiste una polizza “che paga il mutuo Invitalia al posto tuo”, ma tutelare i flussi di cassa dell’impresa con coperture assicurative generali può indirettamente assicurare che le rate possano essere pagate anche in scenari avversi.
  • Consulta preventiva con un legale in fase di richiesta e gestione contributo: infine, il consiglio è di coinvolgere un professionista legale sin dal momento in cui si ottiene il contributo, per comprendere bene tutti gli obblighi e vincoli. Un avvocato può spiegare in parole semplici il contenuto del provvedimento di concessione (spesso denso di riferimenti normativi) e mettere in guardia su cosa assolutamente non fare. Inoltre, può aiutare a predisporre la compliance: ad esempio, verificare a cadenze regolari se l’impresa sta rispettando tutti gli obblighi (rendicontazioni, mantenimento requisiti, ecc.), fungendo da “controllore interno” prima che arrivi il controllore esterno. Questa consulenza proattiva è un investimento che può prevenire errori costosi.

In sostanza, prevenire è molto meglio che curare in questo campo: evitare l’inadempimento è la strategia vincente. Ma se proprio ci si trova in difficoltà, comunicare, negoziare e prendere misure immediate può spesso evitare il peggio (o almeno evitare conseguenze penali). Per le imprenditrici, la parola chiave è responsabilità: gestire con disciplina i fondi pubblici come se fossero un prestito bancario da restituire (per la parte di mutuo) e un privilegio da meritare (per la parte a fondo perduto). Per i professionisti, la parola chiave è diligenza: accompagnare la cliente in ogni fase, assicurandosi che sia consapevole di obblighi e scadenze, e intervenire non appena c’è odore di crisi.

Fonti e riferimenti normativi

  • Legge 30 dicembre 2020 n.178 (Legge di Bilancio 2021), art. 1 commi 97-105: Istituzione del Fondo a sostegno dell’impresa femminile e relativa dotazione finanziaria. Questa è la norma primaria che ha creato il Fondo Impresa Femminile (Fondo Impresa Donna).
  • Decreto MISE 30 settembre 2021 (pubblicato in G.U. n.296 del 14-12-2021): Regolamento attuativo del Fondo Impresa Femminile. In particolare: Capo II e III disciplinano le agevolazioni per nuove imprese e imprese avviate; Art. 13 definisce le agevolazioni concedibili e le spese ammissibili (con percentuali di contributo a fondo perduto e finanziamento agevolato, durata e condizioni del mutuo); Art. 20 detta le cause di revoca totale o parziale e le modalità di recupero.
  • Decreto direttoriale MISE 30 marzo 2022: Avviso per la presentazione delle domande al Fondo Impresa Femminile. Definisce termini e modalità di domanda. (Chiuso per esaurimento risorse).
  • Decreto interministeriale 3 ottobre 2023 e D.I. 7 agosto 2024: Rifinanziamento e rimodulazione delle risorse PNRR destinate al Fondo Impresa Femminile. Hanno incrementato la dotazione (265 milioni PNRR + 33,8 milioni nazionale) e ridefinito allocazioni.
  • Circolare Invitalia 10 febbraio 2020 n. ____: (richiamata dal DM 7/8/2019) – Istruzioni per la rinegoziazione dei finanziamenti agevolati. Ha aperto, in via straordinaria, alla possibilità di sospendere 12 mesi le rate o allungare il piano fino a 15 anni per imprese in temporanea difficoltà, anche se già revocate solo per mancato pagamento.
  • FAQ Invitalia sul Fondo Impresa Femminile (aggiornate 2022): Domande frequenti pubblicate sul sito Invitalia. In particolare, chiariscono che la perdita dei requisiti di “impresa femminile” entro 3 anni comporta la revoca delle agevolazioni. Forniscono dettagli anche su rendicontazione, erogazioni SAL, ecc. (Invitalia.it).
  • Sito MIMIT – sezione PNRR “Imprenditoria femminile” (Italia Domani): Descrizione della Missione 5 Component 1 Investimento 1.2 “Creazione di imprese femminili” con obiettivi e milestone. Conferma denominazione Fondo Impresa Donna, target di imprese da finanziare e suddivisione risorse.
  • Codice Penale: Art. 316-bis (Malversazione a danno dello Stato); Art. 316-ter (Indebita percezione di erogazioni pubbliche); Art. 640-bis (Truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche). Norme richiamate per descrivere le sanzioni penali in caso di uso illecito o ottenimento fraudolento dei contributi.
  • Cass. Pen. Sez. Unite n. 33041/2021 (dep. 6/9/2021): (cfr. nota Digital4.biz) Ha escluso la configurabilità del reato di malversazione per i prestiti COVID garantiti dallo Stato quando manca uno specifico vincolo di destinazione. Sentenza citata per differenziare contesto (nel Fondo Donna il vincolo c’è).
  • Cass. SS.UU. Civili 7 gennaio 2013 n. 150: Pronuncia cardine sul riparto di giurisdizione in materia di contributi pubblici, citata dall’Ad. Plen. 6/2014. Stabilisce la giurisdizione ordinaria nelle controversie su revoca per inadempimento.
  • Cons. Stato Adunanza Plenaria 29 gennaio 2014 n. 6: Vedi sopra, criterio riparto giurisdizione e natura dei provvedimenti di revoca come atti paritetici vincolati in queste materie.
  • TAR Lazio, Sez. III-ter, 12 ottobre 2020 n. 10529: Caso Garofalo c. Invitalia – revoca contributo D.Lgs.185/2000 per cessazione attività. Giurisdizione ordinaria affermata; in motivazione, dettagli sul riparto e sul fatto che la controversia attiene a diritti soggettivi del privato beneficiario.
  • TAR Puglia, Bari, Sez. I, 15 aprile 2014 n. 843: Concetto di proporzionalità nella revoca di contributi e necessità di effettiva violazione. Nel caso concreto il TAR annulla la revoca poiché “non si è verificata alcuna delle violazioni che giustificano la revoca”.
  • Corte dei Conti, Sez. giur. Lazio, 26 giugno 2020 n. 329: Condanna per danno erariale di beneficiaria di contributo revocato. Individua nella cessazione anticipata e condotte intenzionali della convenuta una condotta contra ius produttiva di danno.
  • Corte dei Conti, Sez. controllo, Delib. n. 7/2022/G: Analisi sul Fondo Nuove Competenze e altri fondi PNRR, segnala “segnalazioni di criticità” anche dal MiSE su vari fondi tra cui imprenditoria femminile. Evidenzia l’attenzione della GdF e della Corte su possibili abusi.

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Hai ottenuto un finanziamento agevolato dal Fondo Impresa Donna per avviare o rafforzare la tua attività, ma oggi ti chiedono di restituirlo?

Molte imprenditrici si trovano in difficoltà dopo aver beneficiato di fondi pubblici per cause spesso indipendenti dalla propria volontà: ritardi nei pagamenti, difficoltà nel mercato, errori nella rendicontazione o nella gestione delle spese ammissibili.

Quando non si rispettano tutte le condizioni, il Ministero può revocare il contributo o la garanzia, e in poco tempo arriva la richiesta di rimborso integrale, con sanzioni e interessi.
In certi casi, il debito viene trasmesso all’Agenzia delle Entrate Riscossione, con conseguenze gravi.

Cosa può fare per te l’Avvocato Monardo

Verifica la legittimità della revoca o della richiesta di rimborso ricevuta dall’ente erogatore

Contesta la pretesa economica, quando fondata su errori tecnici, spese interpretate erroneamente o difetti procedurali

Blocca le azioni esecutive come cartelle, fermi, pignoramenti o iscrizioni ipotecarie

Propone soluzioni sostenibili: saldo e stralcio, piano di rientro o, nei casi più gravi, procedura di esdebitazione

Ti rappresenta nei rapporti con il Ministero, Invitalia, AdER o altri enti coinvolti

Le qualifiche dell’Avvocato Giuseppe Monardo

🔹 Avvocato esperto in finanziamenti agevolati e contenzioso con enti pubblici
🔹 Gestore della Crisi da Sovraindebitamento, iscritto al Ministero della Giustizia
🔹 Esperto Negoziatore della Crisi d’Impresa
🔹 Fiduciario OCC – Organismo di Composizione della Crisi
🔹 Coordinatore nazionale di legali e consulenti specializzati in diritto bancario, tributario e fondi pubblici

Perché agire subito

⏳ Dopo la revoca, hai pochi giorni per presentare osservazioni o fare opposizione
⚠️ Il debito può passare all’Agenzia delle Entrate Riscossione e diventare immediatamente esecutivo
📉 Rischi concreti: pignoramento del conto corrente, fermo dell’auto, blocco dell’attività
🔐 Solo una difesa legale tempestiva ti consente di salvarti da un debito ingiusto o sproporzionato

Conclusione

Se non riesci a rimborsare il Fondo Impresa Donna, non sei sola e non sei senza alternative.
Accettare passivamente la revoca significa rischiare tutto: la tua impresa, il tuo lavoro, il tuo futuro.

Affidarsi all’Avvocato Giuseppe Monardo significa avere al tuo fianco un esperto in grado di difenderti, trattare con gli enti pubblici e chiudere la questione legalmente e senza rovinare il tuo progetto imprenditoriale.

Qui sotto trovi tutti i riferimenti per richiedere una consulenza dedicata. Agisci adesso: ogni giorno di ritardo può costarti molto di più.

Leggi con attenzione: Se stai affrontando difficoltà con il Fisco e hai bisogno di una rapida valutazione delle tue cartelle esattoriali e dei debiti, non esitare a contattarci. Siamo pronti ad aiutarti immediatamente! Scrivici su WhatsApp al numero 351.3169721 oppure inviaci un’e-mail all’indirizzo info@fattirimborsare.com. Ti ricontatteremo entro un’ora per offrirti supporto immediato.

Informazioni importanti: Studio Monardo e avvocaticartellesattoriali.com operano su tutto il territorio italiano attraverso due modalità.

  1. Consulenza digitale: si svolge esclusivamente tramite contatti telefonici e successiva comunicazione digitale via e-mail o posta elettronica certificata. La prima valutazione, interamente digitale (telefonica), è gratuita, ha una durata di circa 15 minuti e viene effettuata entro un massimo di 72 ore. Consulenze di durata superiore sono a pagamento, calcolate in base alla tariffa oraria di categoria.
  2. Consulenza fisica: è sempre a pagamento, incluso il primo consulto, il cui costo parte da 500€ + IVA, da saldare anticipatamente. Questo tipo di consulenza si svolge tramite appuntamento presso sedi fisiche specifiche in Italia dedicate alla consulenza iniziale o successiva (quali azienda del cliente, ufficio del cliente, domicilio del cliente, studi locali in partnership, uffici temporanei). Anche in questo caso, sono previste comunicazioni successive tramite e-mail o posta elettronica certificata.

La consulenza fisica, a differenza di quella digitale, viene organizzata a partire da due settimane dal primo contatto.

Disclaimer: Le opinioni espresse in questo articolo rappresentano il punto di vista personale degli Autori, basato sulla loro esperienza professionale. Non devono essere intese come consulenza tecnica o legale. Per approfondimenti specifici o ulteriori dettagli, si consiglia di contattare direttamente il nostro studio. Si ricorda che l’articolo fa riferimento al quadro normativo vigente al momento della sua redazione, poiché leggi e interpretazioni giuridiche possono subire modifiche nel tempo. Decliniamo ogni responsabilità per un uso improprio delle informazioni contenute in queste pagine.
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