Stai pensando di mettere in liquidazione una SRL che ha ancora debiti con l’Agenzia delle Entrate?
Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in chiusura di società indebitate e contenzioso fiscale – è pensata per aiutarti a evitare errori gravi e tutelare il tuo patrimonio personale.
Scopri come funziona la liquidazione di una SRL con debiti tributari, quali sono i doveri del liquidatore, i rischi per gli amministratori e le possibili azioni del Fisco anche dopo la chiusura della società.
In fondo alla guida troverai tutti i contatti per richiedere una consulenza riservata, analizzare nel dettaglio il tuo caso e gestire la chiusura della società con una strategia legale mirata e sicura.
Liquidazione di una S.r.l. con debiti tributari: La Guida di Studio Monardo
Introduzione
La liquidazione di una società a responsabilità limitata (S.r.l.) con debiti tributari è un processo complesso che richiede di navigare tra norme civilistiche, fiscali e concorsuali. Questa guida, rivolta a imprenditori e professionisti legali, offre un’analisi approfondita e aggiornata alle novità di maggio 2025, includendo le riforme normative recenti e la giurisprudenza più significativa.
Tratteremo i seguenti aspetti:
- Il quadro normativo vigente (Codice Civile, TUIR – Testo Unico Imposte sui Redditi, normativa tributaria e procedure concorsuali).
- Le sentenze e interpretazioni giurisprudenziali aggiornate (comprese pronunce della Corte di Cassazione fino al 2025).
- Gli aspetti fiscali e contabili rilevanti nella fase di liquidazione di una S.r.l.
- Le responsabilità patrimoniali (civili) e penali di amministratori, liquidatori e soci – incluse ipotesi di bancarotta e reati tributari.
- Le modalità di gestione dei debiti verso l’Agenzia delle Entrate e le opzioni possibili (pagamento integrale o parziale, rateazioni, compensazioni, “rottamazione” delle cartelle, ecc.).
- Le procedure alternative alla liquidazione ordinaria, come piani di risanamento aziendale, concordato preventivo e altri strumenti offerti dal nuovo Codice della crisi d’impresa.
- Simulazioni pratiche di tre casi tipici di S.r.l. in liquidazione con debiti tributari:
- Società con patrimonio attivo sufficiente a pagare i debiti tributari;
- Società priva di attivo (solo debiti);
- Società con immobili ipotecati.
- Una sezione di Domande Frequenti (FAQ) con risposte chiare basate su fonti normative e giurisprudenziali.
- Tabelle riepilogative dei vari scenari, con relativi vantaggi, svantaggi e implicazioni fiscali/penali.
- Una sezione finale con tutte le fonti normative, dottrinali e giurisprudenziali citate.
Nota Bene: La guida è aggiornata a maggio 2025, tenendo conto delle riforme fiscali del biennio 2024-2025 e delle più recenti sentenze della Cassazione. Ogni situazione concreta può presentare peculiarità: questa guida fornisce un quadro generale, ma è consigliabile avvalersi di consulenza professionale per i casi specifici.
Quadro Normativo Generale
La liquidazione di una S.r.l. coinvolge sia norme civilistiche (diritto societario e procedure concorsuali) sia norme tributarie (accertamento e riscossione dei tributi). È essenziale comprenderle congiuntamente. Di seguito, riepiloghiamo i riferimenti normativi chiave:
- Norme civilistiche (Codice Civile): la cancellazione di una società di capitali a seguito di liquidazione ne sancisce l’estinzione come soggetto giuridico. L’art. 2495 c.c. prevede che, terminata la liquidazione e cancellata la società dal Registro delle Imprese, i creditori insoddisfatti possano far valere i propri crediti solo verso gli ex soci (nei limiti di quanto questi hanno percepito nel bilancio finale di liquidazione) e verso i liquidatori (se il mancato pagamento dei debiti sociali è dovuto a colpa di questi). Ciò significa che per le società di capitali i debiti non pagati non si estinguono, ma la responsabilità di pagarli può “spostarsi” su soci e liquidatori, entro quei limiti di legge. Analoghe disposizioni valgono per le società di persone (art. 2312 c.c.), con la differenza che in quelle i soci erano già illimitatamente responsabili in ogni caso. Inoltre, il Codice Civile elenca le cause di scioglimento (art. 2484 c.c.), gli obblighi degli amministratori quando si verifica una causa di scioglimento (art. 2485 c.c.), la nomina dei liquidatori e i loro poteri/doveri (artt. 2487-2491 c.c.), e disciplina il bilancio finale di liquidazione e il piano di riparto (art. 2492 c.c.). In particolare, i liquidatori devono pagare i creditori sociali e solo dopo distribuire l’eventuale attivo residuo ai soci. L’art. 2495 c.c. (come visto) regola gli effetti della cancellazione sui rapporti giuridici pendenti e le connesse responsabilità residuali.
- Norme tributarie (TUIR, DPR 600/1973, DPR 602/1973): durante la liquidazione, la società rimane soggetto passivo d’imposta e deve presentare le dichiarazioni fiscali relative al periodo di liquidazione. L’art. 182 del TUIR (DPR 917/1986) disciplina la tassazione dei redditi delle società in liquidazione. Fino al 2024 vigeva un meccanismo di tassazione “provvisoria” annuale con conguaglio finale alla chiusura: i redditi degli esercizi intermedi erano tassati in via provvisoria e poi rideterminati complessivamente nel bilancio finale di liquidazione (consentendo di recuperare eventuali perdite pregresse compensandole con gli utili degli anni di liquidazione). Dal 2025, per effetto della riforma operata dall’art. 18 del D.Lgs. 192/2024, questo meccanismo è cambiato: i redditi di ciascun esercizio di liquidazione sono ora considerati definitivi, senza più ricalcolo globale finale, salvo una facoltà di “carry-back” delle perdite se la liquidazione si chiude entro 5 anni. In pratica ogni anno di liquidazione viene tassato autonomamente e, se la liquidazione dura non oltre 5 anni, è possibile optare per riportare a ritroso un’eventuale perdita finale per compensare gli utili tassati nei 2 esercizi precedenti. Ciò semplifica i calcoli fiscali di chiusura evitando conguagli, pur mantenendo la possibilità di neutralizzare l’ultimo anno in perdita (entro il quinquennio). Sul versante dell’accertamento e riscossione, l’Agenzia delle Entrate deve rispettare i termini generali (DPR 600/1973 per gli accertamenti, DPR 602/1973 per la riscossione) anche se la società viene meno. Un problema pratico notevole era: come notificare avvisi di accertamento o cartelle ad una società ormai estinta? Il legislatore ha risolto la questione con l’art. 28, co. 4, del D.Lgs. 175/2014, introducendo una “finzione giuridica” di sopravvivenza fiscale della società cancellata. Tale norma dispone che “ai soli fini della liquidazione, accertamento, contenzioso e riscossione di tributi e contributi (nonché sanzioni e interessi) l’estinzione della società (ex art. 2495 c.c.) ha effetto trascorsi 5 anni dalla richiesta di cancellazione dal Registro delle Imprese”. In altri termini, fino a 5 anni dopo la cancellazione la società è considerata ancora esistente agli occhi del Fisco, permettendo di notificare atti impositivi e cartelle a nome della società (presso l’ultimo domicilio fiscale noto, tipicamente in persona dell’ultimo liquidatore o legale rappresentante). Questa “sopravvivenza fiscale quinquennale” si applica alle cancellazioni effettuate dopo l’entrata in vigore della norma (13/12/2014). La sua legittimità è stata confermata dalla Corte Costituzionale (sent. n. 142/2020), che l’ha ritenuta una misura ragionevole di bilanciamento tra l’interesse erariale alla riscossione e l’esigenza di certezza delle situazioni giuridiche. In base a questo regime, se una società viene cancellata con debiti tributari, l’Agenzia può ancora agire nei 5 anni seguenti come se la società esistesse, e parallelamente iniziare le azioni verso soci e liquidatori previste dalla legge (come dettagliato più avanti).
- Norme concorsuali (crisi d’impresa e insolvenza): se la S.r.l. versa in uno stato di insolvenza (incapacità di pagare regolarmente i propri debiti), entrano in gioco le procedure previste dal Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (CCII) – D.Lgs. 14/2019, in vigore dal 15 luglio 2022 e modificato dai decreti correttivi del 2020-2021 e dal D.Lgs. 83/2022 e D.Lgs. 136/2024. Il CCII ha sostituito la vecchia Legge Fallimentare e ha introdotto strumenti per la gestione anticipata della crisi. Gli amministratori di una società hanno oggi il dovere legale di attivarsi tempestivamente quando si manifestano indizi di crisi o insolvenza, valutando strumenti di risanamento o regolazione concordata della crisi, invece di lasciare aggravare la situazione. Se l’insolvenza è conclamata, la società può accedere a procedure concorsuali come il concordato preventivo o la liquidazione giudiziale (termine che ha sostituito la parola fallimento), oppure subire l’iniziativa dei creditori che chiedono l’apertura della liquidazione giudiziale. È importante notare che la legge consente la dichiarazione di fallimento/liquidazione giudiziale anche di società già cancellate dal Registro Imprese, purché l’istanza venga proposta entro un anno dalla cancellazione (ricordando che l’insolvenza doveva sussistere già prima dell’estinzione). Questo significa che tentare di eludere il fallimento cancellando la società non mette completamente al riparo: i creditori (incluso il Fisco) possono ottenere l’apertura di una procedura concorsuale postuma entro l’anno, per far accertare lo stato d’insolvenza e perseguire eventuali responsabilità. In ogni caso, anche al di fuori di procedure formali, molti principi della Legge Fallimentare continuano a rilevare: ad esempio il divieto di pagamenti preferenziali violando la par condicio tra creditori, l’ordine dei privilegi nei pagamenti e la responsabilità per atti di mala gestio (che vedremo in dettaglio).
Riassumendo, la cornice normativa prevede che: (a) la società, una volta liquidata e cancellata, non esiste più ma i suoi debiti insoddisfatti “migrano” su soci e liquidatori nei limiti di legge; (b) per il Fisco la società resta “vivente” per 5 anni dopo la cancellazione ai fini di accertamenti e riscossioni; (c) se vi è insolvenza, occorre utilizzare gli strumenti concorsuali appropriati, altrimenti soci e organi possono andare incontro a responsabilità ulteriori. Nei paragrafi seguenti approfondiremo ciascuno di questi aspetti.
Procedura di liquidazione ordinaria di una S.r.l.
La liquidazione volontaria di una S.r.l. è la procedura con cui, una volta deciso lo scioglimento della società, si procede a chiudere tutti i rapporti in corso, a realizzare l’attivo, pagare i debiti e ripartire l’eventuale residuo tra i soci. Ecco, in sintesi, i passi principali previsti dal Codice Civile:
- Causa di scioglimento: si verifica una causa di scioglimento della società (art. 2484 c.c.). Alcune cause comuni sono: decisione dei soci di sciogliere anticipatamente la società; il conseguimento dell’oggetto sociale o la sopravvenuta impossibilità di conseguirlo; l’impossibilità di funzionamento o la continuata inattività dell’assemblea; la riduzione del capitale sociale sotto il minimo legale; altre cause previste dallo statuto.
- Accertamento dello scioglimento e nomina del liquidatore: gli amministratori, appena conosciuta la causa di scioglimento, devono convocare l’assemblea dei soci per deliberare lo scioglimento formale e nominare uno o più liquidatori (artt. 2484-2487 c.c.). La delibera di scioglimento con liquidazione va iscritta al Registro Imprese; da quel momento la denominazione sociale deve indicare la dicitura “in liquidazione”. I liquidatori subentrano agli amministratori nella gestione sociale (che da quel momento è limitata agli atti di liquidazione).
- Poteri e doveri dei liquidatori: i liquidatori hanno il compito di definire tutte le pendenze della società. In particolare devono: raccogliere i crediti (far pagare i debitori della società), liquidare i beni sociali (vendere gli asset societari, se necessario), e soprattutto pagare i creditori sociali utilizzando le risorse disponibili. I liquidatori devono anche gestire gli adempimenti contabili e fiscali durante la liquidazione (redigono il bilancio iniziale di liquidazione, i bilanci durante la liquidazione se questa si protrae più esercizi, e il bilancio finale di liquidazione). Devono inoltre conservare e aggiornare i libri sociali e contabili e, al termine, depositarli presso il Registro Imprese o l’autorità competente. Durante la liquidazione, non possono ripartire alcuna somma tra i soci se prima non sono stati soddisfatti tutti i creditori o accantonate le somme necessarie per pagarli (art. 2491 c.c.).
- Bilancio finale e piano di riparto: ultimata la realizzazione dell’attivo e il pagamento del passivo, i liquidatori redigono il bilancio finale di liquidazione, accompagnato dal piano di riparto tra i soci di quanto residua (art. 2492 c.c.). Questo bilancio finale va comunicato ai soci. Se, entro 90 giorni, non vengono contestazioni, esso si intende approvato. L’eventuale attivo residuo viene quindi distribuito ai soci secondo le percentuali di partecipazione al capitale (salvo patti diversi). È proprio in base a questo bilancio finale che si determina l’importo ricevuto dai soci in liquidazione, rilevante ai fini dell’art. 2495 c.c. e delle eventuali azioni dei creditori insoddisfatti. Se non residua nulla (perché tutte le attività sono state assorbite dai debiti), ai soci non spetta nulla. Se residuano beni non liquidi da assegnare, questi possono essere ripartiti tra i soci in natura (assegnazione di beni sociali).
- Cancellazione della società: una volta approvato (o decorsi i termini) il bilancio finale, i liquidatori richiedono la cancellazione della società dal Registro delle Imprese (art. 2495 c.c.). Contestualmente, devono comunicare all’Agenzia delle Entrate la cessazione dell’attività ai fini IVA e fiscali, presentare l’ultima dichiarazione dei redditi e versare eventuali imposte dovute sul risultato finale di liquidazione (ad esempio tassazione di riserve distribuite ai soci, ecc.). Con l’iscrizione della cancellazione al Registro, la società si estingue definitivamente. I libri sociali devono essere depositati e conservati per legge (generalmente presso la Camera di Commercio o un notaio designato).
- Effetti della cancellazione: dal momento dell’estinzione, la società non può più essere parte di procedimenti giudiziari né titolare di rapporti: eventuali nuove pretese creditorie dovranno indirizzarsi verso i soggetti successori individuati dalla legge (ex soci e liquidatori, nei limiti fissati). I creditori rimasti insoddisfatti non vengono automaticamente pagati dallo Stato o cancellati: restano non soddisfatti, ma la legge dà loro alcuni rimedi (che vedremo a breve). È importante evidenziare che l’estinzione non equivale a una rinuncia ai crediti dei creditori: questi potranno ancora agire, se ne hanno titolo, contro soci o liquidatori.
In sintesi, la liquidazione ordinaria mira a soddisfare integralmente i creditori prima di chiudere la società. In condizioni ideali (attivo sufficiente a pagare tutti i debiti), i creditori verranno tutti pagati e l’eventuale surplus andrà ai soci. In condizioni meno favorevoli (attivo insufficiente), alcuni debiti rimarranno insoluti al termine della liquidazione: sarà allora necessario considerare le implicazioni legali di lasciare creditori insoddisfatti, specie se tra essi vi è l’Erario, come vedremo nelle sezioni seguenti.
Debiti tributari nella fase di liquidazione
Durante la liquidazione, i debiti tributari (imposte, IVA, ritenute, ecc.) seguono un destino in parte analogo a quello degli altri debiti, ma con alcune particolarità: in genere godono di una certa priorità di pagamento e, se restano impagati, esistono strumenti specifici per il recupero. Analizziamo come gestire tali debiti nella liquidazione di una S.r.l.:
- Verifica e accertamento dei debiti tributari: il liquidatore dovrebbe anzitutto fare il punto della situazione fiscale della società. Ciò include i debiti tributari già noti (es. cartelle esattoriali da Agenzia Entrate Riscossione, avvisi di accertamento definitivi, debiti IVA risultanti dall’ultima liquidazione, ritenute non versate, ecc.) e anche la potenziale emersione di nuovi debiti in sede di controllo fiscale. Va ricordato che il Fisco ha fino a 5 anni (o 7, se dichiarazione omessa) per accertare imposte dovute: questo termine inizia dall’anno in cui la dichiarazione avrebbe dovuto essere presentata. Se la società si liquida e chiude prima che l’Agenzia delle Entrate effettui un accertamento (ad esempio, su utili non dichiarati di anni precedenti), l’accertamento potrà comunque essere notificato nei confronti della società “estinta” entro il quinquennio grazie alla fictio iuris di cui sopra. Dunque il liquidatore deve tenere conto che potrebbero arrivare accertamenti fiscali anche dopo la chiusura, riferiti a periodi passati, e predisporre adeguati accantonamenti se possibile. In sede di bilancio finale, è prudente considerare eventuali contingenze fiscali in corso (accertamenti pendenti, liti tributarie in cui la società è coinvolta, ecc.), perché una volta distribuito l’attivo ai soci, la società non avrà più risorse per farvi fronte. Distribuire beni ai soci ignorando un debito fiscale emergente potrebbe configurare colpa del liquidatore.
- Pagamento delle imposte dovute: se la società dispone di liquidità sufficiente, i debiti tributari andrebbero pagati integralmente durante la liquidazione. I debiti verso l’erario spesso hanno privilegio generale sui beni mobili del debitore (ad esempio, l’IVA e le ritenute non versate godono di privilegio sui mobili ai sensi dell’art. 2752 c.c.) e quindi, in caso di incapienza, devono essere soddisfatti prima dei crediti chirografari (non privilegiati). Alcuni debiti tributari, come l’IVA e i contributi previdenziali, sono considerati debiti prededucibili se contratti per la procedura stessa o privilegiati di legge, quindi vengono dopo gli eventuali creditori con garanzia reale (es. banche con ipoteca) ma prima dei creditori ordinari. Il liquidatore deve rispettare l’ordine delle cause di prelazione: se paga altri creditori lasciando indietro il Fisco quando c’era attivo sufficiente a soddisfarlo (anche parzialmente), rischia una violazione della par condicio creditorum. Ad esempio, pagare interamente fornitori non privilegiati e non pagare l’IVA arretrata sarebbe un pagamento preferenziale illecito se l’attivo non basta per tutti. In presenza di debiti tributari rilevanti, spesso il liquidatore sospende qualsiasi distribuzione ai soci fino a quando questi debiti non siano saldati o quantomeno definita la loro sorte.
- Insufficienza dell’attivo e insolvenza: se appare evidente che l’attivo non copre tutti i debiti (inclusi quelli tributari), la società è tecnicamente insolvente. In tal caso, come accennato, gli amministratori/liquidatori dovrebbero valutare una procedura concorsuale invece della semplice liquidazione ordinaria. Proseguire con la liquidazione volontaria nonostante l’insolvenza espone a rischi: i creditori potrebbero chiedere un fallimento d’ufficio entro un anno; inoltre, i pagamenti fatti durante la liquidazione volontaria potrebbero essere soggetti a revocatoria fallimentare (se preferenziali e la società poi fallisce). La prassi mostra però che talvolta, per evitare i costi e la complessità di un fallimento, i liquidatori portano avanti la liquidazione pur in assenza di patrimonio, chiudendo la società “a zero”. È ammesso chiudere una S.r.l. lasciando debiti tributari impagati? Formalmente sì, se tutti i beni sono stati liquidati e non c’è modo di pagare oltre; la legge non impedisce la cancellazione di società insolventi (Cass. SU 4060/2010 ha sancito che la cancellazione ha effetto estintivo anche se restano debiti). Tuttavia, ciò non “condona” i debiti: semplicemente, resteranno insoddisfatti e i creditori potranno attivare le tutele previste (verso soci/liquidatori). Un liquidatore diligente, se sceglie questa via, deve assicurarsi di non aver aggravato il dissesto e di non aver leso le pari opportunità dei creditori (ad esempio, distribuendo attivo ai soci o pagando solo alcuni creditori preferenzialmente). Se l’attivo è zero, la liquidazione si chiude con un nulla di fatto per i creditori: i debiti fiscali rimangono insoluti, e saranno poi gestiti nella fase post-estinzione secondo le norme che vedremo (azioni contro soci/liquidatori).
- Accordi con il Fisco durante la liquidazione: se c’è parziale capacità di pagamento, il liquidatore può valutare strumenti per gestire i debiti fiscali. Ad esempio, è possibile chiedere una rateizzazione delle cartelle esattoriali all’Agente della Riscossione (Agenzia Entrate Riscossione): ordinariamente, se il debito supera certi importi, sono concesse fino a 72 rate mensili (6 anni), estendibili a piani straordinari fino a 120 rate (10 anni) in caso di grave difficoltà. La richiesta di rateazione può essere fatta anche da una società in liquidazione, purché ancora iscritta (la rateazione decade se la società viene cancellata prima di completare i pagamenti). Un’altra opzione, se la legge lo consente, è aderire a una “definizione agevolata” o rottamazione delle cartelle: negli ultimi anni ci sono state varie edizioni (rottamazione-ter nel 2018, rottamazione-quater prevista dalla Legge di Bilancio 2023) che permettono di estinguere i debiti iscritti a ruolo pagando solo l’imposta senza sanzioni né interessi. Se una rottamazione è attiva, la società può presentare istanza prima di chiudere, riducendo l’ammontare dovuto. Ancora, la società potrebbe avvalersi di compensazioni tra crediti e debiti tributari: ad esempio utilizzare eventuali crediti IVA o crediti verso l’Erario (come rimborsi fiscali attesi) in compensazione dei debiti durante la liquidazione, così da abbattere l’esposizione. Infine, se la situazione è grave ma si prospetta una possibile continuità aziendale o accordo con i creditori, il liquidatore può proporre una transazione fiscale nell’ambito di un concordato preventivo o accordo di ristrutturazione (strumenti discussi più avanti), per pagare solo parzialmente i tributi col consenso (o la coazione per via giudiziale) dell’Agenzia delle Entrate.
In conclusione, l’impossibilità di estinguere integralmente i debiti tributari non blocca la liquidazione, ma impone al liquidatore di agire con estrema cautela e correttezza: non deve pregiudicare il Fisco rispetto ad altri creditori e deve rispettare gli obblighi di legge (se ricorre l’insolvenza, attivare procedure concorsuali appropriate). I debiti fiscali residui non pagati in sede di liquidazione sopravviveranno alla società e saranno richiesti, entro i limiti di legge, a soci e liquidatori o gestiti in procedure concorsuali postume.
Responsabilità patrimoniale post-liquidazione: soci, liquidatori e amministratori
Una volta cancellata la società, eventuali debiti sociali non pagati potranno essere reclamati dai creditori nei confronti di ex soci e liquidatori, secondo quanto previsto dall’art. 2495 c.c. e dalla legislazione speciale tributaria. Esaminiamo separatamente la posizione degli ex soci e quella di liquidatori e amministratori, alla luce della normativa e delle più recenti sentenze.
Ex soci della S.r.l.
Per i soci di una società di capitali estinta, vige il principio generale della responsabilità limitata: essi rispondono dei debiti sociali solo entro quanto riscosso in sede di liquidazione. In altre parole, se dal bilancio finale hanno ricevuto distribuzioni di attivo, quei fondi possono essere aggrediti dai creditori insoddisfatti; ma se non hanno ricevuto nulla, non possono essere obbligati a pagare di tasca propria (salvo casi eccezionali di abuso della personalità giuridica, come vedremo). Questo principio, stabilito dall’art. 2495 comma 2 c.c., è stato al centro di un vivace dibattito giurisprudenziale. La Corte di Cassazione nel corso degli anni aveva oscillato tra tre orientamenti: uno restrittivo (responsabilità dei soci solo se provato che hanno riscosso somme, in base all’art. 2495), uno estensivo (successione automatica dei soci nei debiti sociali a prescindere dalla riscossione) e uno intermedio (soci responsabili nei limiti di quanto ricevuto). Le Sezioni Unite della Cassazione, con la sentenza n. 3625 del 12/02/2025, hanno composto il contrasto confermando l’orientamento intermedio: gli ex soci non sono automaticamente responsabili di tutti i debiti della società estinta, ma lo diventano se – e nei limiti in cui – hanno percepito somme dalla liquidazione. In particolare, gli Ermellini hanno affermato che:
- Il Fisco può notificare avvisi di accertamento anche agli ex soci (per evitare decadenze), anche se non è certo che abbiano ricevuto utili in liquidazione; tuttavia ciò serve solo ad attivare il contraddittorio, perché la responsabilità patrimoniale effettiva “esiste solo se si dimostra” la percezione di somme da parte del socio. Dunque grava sull’Agenzia delle Entrate l’onere di provare che un dato ex socio ha ottenuto un attivo di liquidazione (onere che può essere assolto, ad esempio, esibendo il bilancio finale o altri atti da cui risulti il riparto ai soci).
- Gli ex soci non possono essere considerati debitori illimitati: rispondono solo “fino a concorrenza dell’attivo percepito”. Se un socio non ha ricevuto nulla, non può essergli chiesto nulla. Questo introduce un principio di equità: evitare che il Fisco o altri creditori colpiscano l’ex socio che non ha tratto beneficio dalla liquidazione.
- È richiesto un atto impositivo specifico per coinvolgere il socio: l’Agenzia non può semplicemente continuare la procedura iniziata contro la società estinta, ma deve emettere un avviso ad hoc verso ciascun ex socio se intende esigerne la responsabilità. Le SU 2025 hanno infatti chiarito che bisogna tutelare il contraddittorio di ogni socio, notificandogli un atto motivato sulla sua pretesa quota di debito. Questo esclude prassi scorrette come intimare il pagamento ai soci senza formale accertamento individuale.
In sostanza, per un ex socio il quadro è il seguente: se ha ricevuto, ad esempio, 10.000 € di attivo finale e la società aveva un debito tributario impagato di 15.000 €, il Fisco potrà chiedergli al massimo 10.000 € (oltre eventualmente interessi). Se ha ricevuto 0, dovrà opporsi in giudizio facendo valere di non aver percepito somme, e in tal caso non potrà essergli imputato alcun pagamento. Questa regola dei “limiti di quota” vale per tutti i crediti (non solo tributi) sul piano civilistico. Nel campo tributario specifico, vi sono però ulteriori considerazioni:
- L’art. 36 del DPR 602/1973 prevede espressamente la responsabilità dei soci per i debiti tributari non soddisfatti, con un’estensione temporale: vengono considerati non solo gli utili ricevuti al momento dello scioglimento, ma anche quelli distribuiti nei due esercizi anteriori alla messa in liquidazione. Ciò per evitare che i soci svuotino la società prima della liquidazione formale: ad esempio, dividendi o restituzioni di riserve assegnati nell’ultimo biennio prima dello scioglimento possono essere “revocati” dal Fisco, rientrando nel calcolo delle somme di cui il socio deve rispondere. In pratica: se una S.r.l. decide di liquidare nel 2025 ma nel 2024 aveva distribuito utili ai soci, l’erario può tenere conto anche di quei utili pre-liquidazione per chiedere ai soci il pagamento dei tributi rimasti insoluti.
- Vi sono casi particolari in cui la giurisprudenza ha riconosciuto una responsabilità del socio anche in assenza di formale distribuzione: tipicamente per le S.r.l. a ristretta base (società familiari o con pochissimi soci). In tali casi, la Cassazione ha ritenuto legittimo presumere che l’evasione fiscale della società abbia avvantaggiato direttamente i soci (sotto forma di utili occulti) e quindi questi possano essere chiamati a rispondere dei debiti tributari anche se il bilancio finale non mostrava riparti a loro favore. Ad esempio, Cass. ord. 20840/2023 ha affermato che i soci di una S.r.l. a base familiare rispondono verso l’Erario anche senza aver ricevuto utili formalmente, se ci sono “presunzioni gravi e concordanti” che abbiano beneficiato dell’evasione (utile extracontabile). In tali casi si inverte un po’ l’onere: sarà il socio a dover provare di non aver effettivamente incassato nulla. Questo orientamento però si colloca prima dell’intervento chiarificatore delle SU 2025, che hanno comunque rimarcato la necessità della prova effettiva della percezione di somme.
- Un altro tema delicato è quello delle sanzioni tributarie: per molto tempo si è ritenuto che le multe fiscali (sanzioni amministrative per violazioni tributarie) non si trasmettessero ai soci né ad altri, essendo di natura personale. Tale principio trova fondamento nell’art. 7 del DL 269/2003 conv. L. 326/2003 e nell’art. 2 c.2 D.Lgs. 472/97, che affermano il principio di personalità della sanzione (il trasgressore paga, altri no). Pertanto, tradizionalmente si è sostenuto che se una società si estingue, le sanzioni pecuniarie comminate ad essa “muoiono” con essa, analogamente a quanto avviene per una persona fisica deceduta. La Cassazione ha confermato questo in alcune pronunce (es. Cass. 24316/2023) sostenendo che le sanzioni non si trasmettono né ai soci né al liquidatore. Tuttavia, una sentenza del 2024 ha adottato un approccio diverso: la Cass. 23341 del 29/08/2024 ha stabilito che “i soci della società estinta pagano le sanzioni tributarie, nei limiti di quanto riscosso in liquidazione”. In questa visione, l’estinzione è vista come un fenomeno successorio sui generis e, se le sanzioni non venissero richieste ai soci che si sono avvantaggiati dell’evasione, la sanzione rimarrebbe priva di effetto sanzionatorio. In pratica la Corte ha ritenuto che il socio, avendo beneficiato dell’evasione (perché ha ricevuto un attivo maggiore grazie al mancato pagamento di imposte), debba subirne anche la sanzione, altrimenti nessuno verrebbe punito. Questa divergenza giurisprudenziale (sanzioni che muoiono vs sanzioni che seguono il socio) è attuale e non ancora risolta dalle Sezioni Unite. Dunque ad oggi (maggio 2025) vi è incertezza: un ex socio potrebbe vedersi chiedere anche il pagamento proporzionale delle sanzioni fiscali, a seconda dell’orientamento applicato nel caso concreto. In attesa di chiarimenti, resta ferma almeno la limitazione quantitativa: in nessun caso al socio potrà essere richiesto più di quanto ha ricevuto (sommando imposte e eventuali sanzioni).
Riassumendo la posizione degli ex soci: essi non sono “eredi” universali della società estinta, ma possono essere coinvolti come debitori sussidiari e pro quota. Devono pagare i debiti (tributari e non) della società solo se e nei limiti in cui hanno ritirato valori dalla liquidazione. Tale responsabilità è di natura civilistica ex lege (cioè deriva dalla legge, non da una garanzia volontaria), ed è subordinata alla prova dell’avvenuto incasso di attivo. L’Erario può agire contro di loro notificando atti entro 5 anni (grazie alla fictio), ma la difesa del socio sarà appunto dimostrare l’assenza di distribuzioni in suo favore o l’errata quantificazione. Se il socio perde la causa e paga, potrà eventualmente rivalersi sui coobbligati (altri soci, liquidatore) come vedremo. Nel complesso, le più recenti pronunce – culminate con la SU 3625/2025 – tutelano gli ex soci innocenti (che non hanno beneficiato), evitando responsabilità ultra vires, ma al contempo non lasciano scappatoie ai soci che invece abbiano effettivamente ottenuto l’attivo della società evitando il pagamento di debiti fiscali.
Liquidatori e amministratori
La posizione di liquidatori e amministratori (intendendo per questi ultimi gli amministratori in carica prima della liquidazione) è diversa da quella dei soci, poiché il loro coinvolgimento nelle obbligazioni sociali discende da possibili profili di colpa o mala gestione. Principi generali:
- I liquidatori, per legge (art. 2495 c.c.), rispondono personalmente verso i creditori insoddisfatti se il mancato pagamento dei debiti sociali è dovuto a una loro colpa. Ciò significa che se la società si chiude insolvente per ragioni non imputabili ai liquidatori (ad es. insufficienza patrimoniale preesistente e liquidazione condotta correttamente), i liquidatori non subiscono conseguenze patrimoniali personali; ma se hanno gestito male la liquidazione, violando i loro doveri e causando danno ai creditori, possono dover rispondere dei debiti rimasti. Esempi di colpa del liquidatore: aver distribuito somme ai soci nonostante vi fossero debiti (in violazione dell’art. 2491 c.c.); aver privilegiato alcuni creditori rispetto ad altri senza rispettare i privilegi di legge; non aver riscosso crediti esigibili dilapidando l’attivo; aver omesso di dichiarare l’insolvenza quando necessario. In tali casi, i creditori pregiudicati (incluso il Fisco) possono agire contro il liquidatore per il risarcimento del danno. Ad esempio, se il liquidatore paga i soci anziché versare l’IVA dovuta, l’Agenzia delle Entrate potrà chiedere al liquidatore (oltre che ai soci per le somme ricevute) di rispondere per quel debito, perché la sua condotta negligente ne è stata causa.
- Gli amministratori (prima della liquidazione) rispondono anch’essi dei danni causati alla società, ai soci o ai creditori sociali per violazione dei loro obblighi gestori. In fase di liquidazione, un amministratore potrebbe essere chiamato in causa se, ad esempio, ha aggravato il dissesto non convocando tempestivamente l’assemblea per la liquidazione o continuando l’attività imprudente in presenza di cause di scioglimento (violando l’art. 2486 c.c., che impone agli amministratori, dopo lo scioglimento, di operare solo ai fini della conservazione dell’integrità patrimoniale). Inoltre, la legge fallimentare (ora CCII) prevede specifiche azioni di responsabilità verso amministratori che abbiano concorso a cagionare il fallimento con colpa grave (azione ex art. 2486 c.c. o 146 l.f. / 255 CCII da parte del curatore). Nel contesto dei debiti tributari, gli amministratori potrebbero essere ritenuti responsabili se, ad esempio, hanno omesso di versare imposte dovute pur avendo risorse in società o hanno nascosto ricavi generando poi un carico fiscale non pagato. Tuttavia, sul piano civilistico, in assenza di insolvenza conclamata, difficilmente il singolo creditore può agire direttamente contro l’amministratore (salvo ipotesi di azione del creditore sociale ex art. 2394 c.c., ammissibile se il patrimonio risulta insufficiente per colpa degli amministratori).
- Art. 36 DPR 602/1973: questa norma fiscale specifica estende la responsabilità personale anche a liquidatori e amministratori per i debiti tributari non pagati dalla società. In base all’art. 36, i liquidatori di società che, nel ripartire l’attivo, non soddisfano crediti tributari dovuti, sono personalmente responsabili in solido fino a concorrenza dei crediti tributari rimasti insoddisfatti, se il mancato pagamento deriva dalla loro decisione di destinare le risorse ad altro (tipicamente, distribuire ai soci o pagare debiti di ordine inferiore). Similmente, gli amministratori che nei due anni precedenti lo scioglimento hanno restituito conferimenti o ripartito utili ai soci lasciando poi insoluti tributi, ne rispondono verso il Fisco. La responsabilità ex art. 36 è definita come “autonoma obbligazione sussidiaria” dei liquidatori e amministratori, di natura civilistica (non è il debito fiscale in sé, ma un’obbligazione derivata da violazione di obblighi legali). Anche essa va fatta valere dall’Agenzia Entrate con un atto motivato notificato all’interessato (non basta iscrivere a ruolo automaticamente il nome del liquidatore). Cassazione SU 2025 ha sottolineato che la posizione del liquidatore non è affatto di successore nei debiti, bensì di responsabile per inadempimento se ha violato l’ordine di soddisfazione dei creditori. Ne deriva anche che, in giudizio, il liquidatore può difendersi provando di non aver colpa (onere della prova invertito: spetta al liquidatore dimostrare di non aver potuto pagare il Fisco per insufficienza di attivo senza sua colpa, oppure di aver rispettato l’ordine dei privilegi). In pratica, la sua responsabilità scatta nella maggior parte dei casi solo se non ha rispettato la par condicio creditorum e l’ordine dei privilegi (quest’ultimo esplicitamente citato nella responsabilità verso l’Erario dall’art. 36 DPR 602) – ad esempio pagando un debito postergato anziché un debito fiscale preferenziale – o se ha agito con dolo o colpa grave.
- Azioni di responsabilità e di regresso: nel momento in cui un ex socio o liquidatore viene condannato a pagare un debito sociale, possono sorgere ulteriori azioni civilistiche. Un socio che abbia pagato ai creditori più di quanto di sua spettanza (oltre la propria “quota”) può esercitare azione di regresso verso gli altri soci per la parte eccedente (analogo al contributo tra condebitori). I soci o i creditori (surrogandosi ad essi, ad esempio un creditore che paga può surrogarsi) possono promuovere azioni di responsabilità verso i liquidatori o amministratori che con la loro condotta hanno causato il danno (ad esempio: i soci pagano i debiti tributari perché il liquidatore aveva distribuito indebitamente l’attivo; potranno chiedergli la restituzione di quanto pagato per colpa sua). Queste cause seguono le regole generali di responsabilità civile e vanno intraprese davanti al tribunale civile competente, con onere di provare la colpa del convenuto e il nesso con il danno (nel caso esemplificato, la violazione degli obblighi di liquidazione e la perdita subìta dai soci costretti a pagare il Fisco).
In definitiva, liquidatori e amministratori non diventano debitori dei creditori sociali per il solo fatto della cancellazione (non esiste una norma che li renda automaticamente coobbligati). Essi rispondono però se commettono inadempienze nei loro doveri: la legge e la giurisprudenza riconducono la loro responsabilità ad una forma di illecito civile (violazione di obblighi legali di corretta gestione). Ad esempio, la Cassazione ha escluso qualsiasi estensione analogica di responsabilità agli amministratori in mancanza di specifiche norme, ribadendo che nel nostro ordinamento non esiste una coobbligazione generalizzata di amministratori, soci e liquidatori per i debiti tributari sociali. Solo le norme mirate (art. 2495 c.c. e art. 36 DPR 602) li coinvolgono in casi circoscritti. Pertanto, un liquidatore diligente che ha pagato i debiti secondo l’ordine dovuto non risponde oltre; viceversa, uno negligente o infedele può trovarsi a dover risarcire i creditori. Un amministratore che abbia lasciato aggravare la crisi potrebbe essere chiamato a rispondere nel fallimento per la perdita subita dai creditori per la tardiva attivazione. E, come vedremo ora, le loro azioni o omissioni possono anche avere rilievo penale in certe circostanze.
Profili di responsabilità penale
Oltre alle responsabilità patrimoniali (civili), gli amministratori e i liquidatori di una S.r.l. con debiti tributari possono incorrere in responsabilità penali qualora le loro condotte integrino gli estremi di reati societari, fallimentari o tributari. Anche i soci, in casi estremi, potrebbero essere coinvolti se agiscono come amministratori di fatto o istigatori. Passiamo in rassegna i principali reati rilevanti:
- Bancarotta fraudolenta o semplice (reati fallimentari): qualora la società venga dichiarata fallita (in liquidazione giudiziale), si applicano le norme penali del R.D. 267/1942 (ancora in vigore per i reati, sebbene il CCII abbia modificato la parte procedurale). Gli amministratori, liquidatori o institori che abbiano compiuto atti distrattivi, dissipativi, preferenziali o abbiano aggravato il dissesto della società possono essere perseguiti per bancarotta fraudolenta (artt. 216 e 223 L.F.) o bancarotta semplice (art. 217 L.F.), a seconda della gravità. Esempi: aver sottratto o occultato beni sociali per non farli trovare ai creditori (bancarotta fraudolenta patrimoniale); aver tenuto libri e scritture contabili in modo da non consentire la ricostruzione del patrimonio (bancarotta documentale); aver pagato alcuni creditori in danno di altri in prossimità del fallimento (bancarotta preferenziale). Nel contesto di debiti tributari, occultare beni per non pagare il Fisco o altri creditori configura un’ipotesi di bancarotta fraudolenta patrimoniale (se poi c’è fallimento). Anche la distrazione di liquidità destinata al pagamento delle imposte per altri scopi può rientrare nel concetto di distrazione fraudolenta. La bancarotta semplice, invece, punisce l’amministratore che, per imprudenza o negligenza, aggrava il dissesto (es. continuare operazioni gravemente imprudenti per ritardare il fallimento, contrarre nuovi debiti fiscali sapendo di non poter pagare). Importante: questi reati si configurano solo se vi è una dichiarazione di fallimento/liquidazione giudiziale della società. Se la società viene liquidata senza fallimento, tecnicamente i reati di bancarotta non sono perseguibili perché manca la procedura concorsuale. Tuttavia, se la società era insolvente e viene cancellata, un fallimento postumo entro l’anno potrebbe essere dichiarato proprio per permettere azioni come le revocatorie e le indagini per bancarotta contro gli organi. Quindi, amministratori e liquidatori non sono completamente “al sicuro” dal rischio penale semplicemente evitando il fallimento: i creditori (tra cui l’Erario) potrebbero provocarlo entro l’anno e allora verrebbero vagliati i loro comportamenti pregressi.
- Reati tributari (D.Lgs. 74/2000): indipendentemente dal fallimento, esiste una serie di reati specifici in materia fiscale. Tra i più rilevanti per una S.r.l. con debiti tributari:
- Omesso versamento di IVA (art. 10-ter D.Lgs. 74/2000): se la società non versa l’IVA dovuta risultante dalla dichiarazione annuale entro il termine (attualmente il 27 dicembre dell’anno successivo) e l’importo non versato eccede una certa soglia (soglia di punibilità). Fino a poco tempo fa la soglia era 250.000 € per periodo d’imposta; con la riforma del 2024 (D.Lgs. 14/06/2024 n.87) sembra siano intervenute novità, tra cui condizioni di non punibilità se il contribuente aderisce a un pagamento dilazionato o a determinate misure prima di una certa data. Indicativamente, se una S.r.l. ha omesso di versare IVA per importi ingenti e non pone rimedio, l’amministratore (quale legale rappresentante) rischia fino a 3 anni di reclusione. Questa fattispecie di reato mira al titolare dell’obbligo di versamento, quindi tipicamente colpisce l’amministratore in carica all’epoca dell’omissione. Se più amministratori, risponde chi aveva la delega sulle finanze o comunque la responsabilità effettiva. Un liquidatore che subentra può mitigare il rischio se provvede al versamento entro il termine di legge (es. se la liquidazione avviene nello stesso anno dell’omissione, pagando entro il 27 dicembre può evitare il reato). La riforma fiscale 2024 ha introdotto la non punibilità in caso di integrale pagamento del debito IVA (anche mediante rateizzazione) prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, incentivando la regolarizzazione.
- Omesso versamento di ritenute dovute o certificate (art. 10-bis D.Lgs. 74/2000): analogo al precedente, punisce l’omesso versamento di ritenute fiscali operate (ad esempio, ritenute IRPEF su stipendi) per importi superiori a una soglia (attualmente 150.000 €) entro il termine previsto (di regola il 16 del mese successivo). Anche qui, se la S.r.l. non ha versato ritenute e viene liquidata lasciando quel debito, l’amministratore rischia fino a 3 anni di reclusione. Vale la possibilità di non punibilità se si sana il debito (le ultime riforme tendono a disporre che la regolarizzazione del debito tributario estingue il reato).
- Dichiarazione fraudolenta od omessa dichiarazione (artt. 2,3 e 5 D.Lgs. 74/2000): questi reati attengono alla condotta di evasione a monte. Se la società ha evaso le imposte non dichiarando redditi (omessa dichiarazione, oltre soglie) o dichiarando il falso (es. utilizzo di fatture inesistenti, falso in bilancio con rilevanza fiscale), gli amministratori che hanno formato la dichiarazione possono risponderne. La presenza di debiti tributari potrebbe essere dovuta, ad esempio, a un avviso di accertamento per IVA evasa con false fatture: in tal caso, oltre al recupero, ci sarebbe un procedimento penale per dichiarazione fraudolenta a carico degli amministratori che l’hanno presentata.
- Sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (art. 11 D.Lgs. 74/2000): è un reato spesso legato alle situazioni di crisi. Si concretizza quando l’amministratore, per evitare il pagamento di imposte dovute, compie atti simulati o fraudolenti sui beni sociali, idonei a rendere inefficace la riscossione coattiva. Ad esempio: trasferire beni della società a terzi (magari parti correlate) a prezzo vile, oppure costituire un nuovo soggetto e trasferirvi l’azienda lasciando i debiti nel guscio vuoto, oppure ancora cedere macchinari senza tracciabilità, il tutto con lo scopo di non far trovare nulla al Fisco. Se provato il fine fraudolento, è punibile con reclusione (fino a 6 anni, soglie di punibilità relativamente basse). Questo reato può coinvolgere amministratori e anche liquidatori se, ad esempio, nel corso della liquidazione vendono beni in modo irregolare per sottrarre il ricavato ai creditori.
- Altri reati societari: qualora nella gestione pre-liquidazione siano avvenuti illeciti come false comunicazioni sociali (falso in bilancio) o altri reati societari (es. indebita restituzione conferimenti, formazione fittizia di capitale), essi potrebbero emergere nel contesto di un dissesto e aggiungersi al quadro. Ad esempio, un falso in bilancio volto a nascondere perdite e quindi ad evitare di far emergere la crisi potrebbe portare a responsabilità penale ex art. 2621 c.c. e seguenti. Inoltre, se la società è stata utilizzata come schermo fittizio per attività illecite (es. frodi fiscali carosello), i soci/amministratori potrebbero affrontare accuse ulteriori (associazione a delinquere finalizzata all’evasione, riciclaggio, ecc.).
Soci e penale: di solito i soci non hanno responsabilità penale solo in quanto soci, a meno che non abbiano svolto di fatto funzioni gestorie. Tuttavia, se un socio di maggioranza ha di fatto diretto le scelte (amministratore di fatto), può essere chiamato a rispondere dei medesimi reati degli amministratori formali. Inoltre, se i soci deliberano distribuzioni illegittime di utili o patrimoni a danno dei creditori, potrebbero essere accusati di concorso in bancarotta fraudolenta (per distrazione o preferenza), soprattutto se in combutta con gli amministratori liquidatori. In ogni caso, la condotta punibile penalmente è sempre richiesta (non basta la qualifica di socio).
Prevenzione: per mitigare i rischi penali, gli amministratori e liquidatori dovrebbero: agire con trasparenza nella gestione, documentare tutte le operazioni, non occultare o distrarre beni, rispettare le priorità di pagamento dei debiti (non favorire indebitamente taluni creditori), e provare ad adempiere almeno parzialmente ai debiti tributari (ad esempio tramite accordi o versamenti rateali) per evitare il superamento delle soglie di punibilità dei reati omissivi. Le riforme recenti (come il D.Lgs. 87/2024) incoraggiano il ravvedimento operoso: è previsto ad esempio che la presenza di un piano di rateazione in corso blocchi la punibilità per omesso versamento IVA finché si rispettano le rate. Ciò significa che un liquidatore che, in una crisi di liquidità, ottiene una dilazione e vi si attiene, potrebbe evitare la configurazione del reato anche se paga con ritardo. Naturalmente, se poi la società viene liquidata senza riuscire a completare i pagamenti, permarrà il debito ma il reato potrebbe risultare non perfezionato se le condizioni di legge sono rispettate.
In conclusione, il rischio penale è uno dei motivi per cui la gestione di una liquidazione con debiti rilevanti richiede estrema prudenza. Una strategia “pulita” (attivare eventualmente un concordato, cercare accordi con il Fisco, evitare atti opachi) è sempre preferibile a scorciatoie che lascino tracce di possibili intenti fraudolenti. Amministratori e liquidatori devono operare con una visione a 360 gradi, perché una mossa volta a eludere un creditore potrebbe avere conseguenze penali anche gravi.
Gestione dei debiti con l’Agenzia delle Entrate e strumenti deflattivi
Affrontare i debiti tributari di una società in liquidazione richiede un mix di soluzioni giuridiche e pratiche per minimizzare le conseguenze negative. Di seguito elenchiamo le possibili strategie e strumenti per gestire tali debiti, sia durante la vita della società sia nella fase di chiusura:
- Pagamento integrale o parziale prima della chiusura: la soluzione più lineare, se praticabile, è saldare i debiti fiscali prima di cancellare la società. Questo evita in radice problemi di responsabilità postume. Anche un pagamento parziale (accordato con l’Agenzia) può essere utile: ad esempio, versare immediatamente le imposte dovute riducendo così l’esposizione residua che sarà oggetto di eventuale azione verso soci. Versare spontaneamente riduce anche sanzioni e interessi futuri. Ovviamente ciò dipende dalla disponibilità di cassa della società.
- Rateizzazione dei debiti fiscali: come accennato, è possibile chiedere un piano di rateazione delle cartelle esattoriali o degli avvisi bonari. Se la società è ancora attiva (anche se “in liquidazione”), nulla vieta di ottenere un piano di dilazione fino a 72 rate (6 anni) per importi significativi. Il vantaggio è di guadagnare tempo e magari pagare gradualmente vendendo i beni. Tuttavia, attenzione: se la società viene cancellata, il piano di rateazione non prosegue automaticamente con i soci, perché era intestato al soggetto giuridico società. Dunque, se prevedete di non riuscire a pagare tutte le rate prima di chiudere, può essere utile non cancellare la società finché le rate non siano completate. In alternativa, se la società si estingue durante la rateazione, l’Agente della Riscossione dovrà rivolgersi ai coobbligati (soci/liquidatore) per le rate residue, e questi ultimi possono chiedere di proseguire la dilazione a proprio nome, ma non è automatico.
- Compensazione di crediti fiscali: se la società ha crediti verso l’Erario (es. crediti IVA a rimborso, crediti per imposte pagate in eccesso, ecc.), è opportuno utilizzare la compensazione prima della chiusura. Il meccanismo del modello F24 consente di compensare crediti e debiti tributari, evitando esborsi di cassa. Ad esempio, un credito IVA maturato nel 2023 potrebbe essere usato per compensare debiti di imposta sul reddito o IVA di anni precedenti. La compensazione è soggetta a regole (certificazione del credito se sopra certi importi, ecc.), ma è uno strumento prezioso. In liquidazione, se si prevede un credito derivante dal bilancio finale (ad es. una perdita finale che genera credito d’imposta in carry-back), il liquidatore potrebbe presentare istanza di rimborso o cessione di tale credito ai soci e contestualmente l’Erario potrebbe compensarlo con i suoi crediti vantati verso la società.
- Transazione fiscale in procedure concorsuali: se la società opta per un concordato preventivo o un accordo di ristrutturazione dei debiti anziché la liquidazione “semplice”, potrà usufruire dell’istituto della transazione fiscale (già art. 182-ter L.F., ora ricompreso negli artt. 63 e 88 CCII per concordati e accordi). La transazione fiscale consente di proporre all’Agenzia delle Entrate (e ad Agenzia Riscossione per i ruoli) il pagamento parziale dei debiti tributari, con eventuale stralcio di sanzioni e interessi, nell’ambito di un piano concordatario. Ad esempio, la società potrebbe offrire di pagare il 40% del debito IVA e il 100% dell’IVA come condizione di omologa del concordato liquidatorio. L’AdE valuterà l’accettazione in base alla convenienza rispetto alla liquidazione giudiziale (deve ricevere almeno quanto otterrebbe dal fallimento, in base al principio di migliore soddisfazione). Se l’AdE rifiuta, il tribunale comunque oggi può omologare il concordato imponendolo all’Erario se ritiene che la proposta al Fisco è conveniente in misura non inferiore al ricavabile in caso di liquidazione giudiziale (questa facoltà di cram-down fiscale è stata introdotta di recente). La transazione fiscale quindi è uno strumento importante: se approvata, il residuo del debito fiscale viene definitivamente stralciato all’esito positivo della procedura. Questo permette di chiudere la società senza strascichi per soci o liquidatori, perché il debito tributario verrebbe formalmente annullato dall’omologazione del concordato con transazione.
- Definizioni agevolate (“pace fiscale”): qualora il legislatore apra finestre di condono o definizioni agevolate, anche una società in liquidazione (o i suoi ex soci dopo la chiusura) possono aderirvi. Ad esempio, la Legge di Bilancio 2023 ha previsto la definizione agevolata delle liti pendenti e la rottamazione-quater delle cartelle. Un ex socio che riceve una cartella esattoriale intestata ancora alla società (fittiziamente esistente) potrebbe presentare domanda di rottamazione: pagherebbe solo il tributo senza sanzioni, e quella sarebbe considerata soddisfazione anche ai fini della sua responsabilità, poiché i soci rispondono al massimo dell’imposta. Se invece c’è un contenzioso tributario ereditato dalla società, l’ex socio subentrato in giudizio (come successore) potrebbe chiudere la lite aderendo a una definizione agevolata prevista per le controversie (pagando una percentuale ridotta se vinti i primi gradi, ecc.). È bene valutare queste opportunità caso per caso, in base alla normativa vigente: spesso ogni Legge di Bilancio introduce qualche misura di “pace fiscale” che può essere sfruttata entro un certo termine. Nel contesto di una liquidazione, approfittare di tali strumenti può ridurre drasticamente l’esposizione per sanzioni e interessi. Ad esempio, se la società aveva accumulato multe e more, una rottamazione consente di farle decadere e pagare solo il capitale.
- Composizione negoziata della crisi: dal 2021 esiste un percorso, ora disciplinato dal CCII, chiamato composizione negoziata, che consente all’imprenditore in crisi di tentare una risanamento tramite la negoziazione assistita da un esperto indipendente. Durante la composizione negoziata, l’impresa può ottenere misure protettive del tribunale (stay delle azioni esecutive) e cercare accordi con creditori, incluso il Fisco (ad esempio, chiedendo sospensione temporanea dei pagamenti fiscali). Se la negoziazione va a buon fine, potrebbe sfociare in un concordato o in accordi stragiudiziali. Se invece non riesce, è possibile accedere a un concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio (art. 25-sexies CCII introdotto nel 2021), che consente di liquidare l’azienda sotto il controllo del tribunale senza dover ottenere tutte le maggioranze di un concordato classico. Questi strumenti sono piuttosto tecnici, ma li citiamo perché rappresentano alternative formali alla mera liquidazione volontaria: offrono soluzioni di sistema alla crisi, coinvolgendo anche l’Erario (che può partecipare alle trattative, concordare piani di rientro, ecc.).
- Piani di risanamento attestati: sono accordi stragiudiziali (ex art. 56 CCII, già art. 67 l.f.) con i creditori, accompagnati da una relazione di un esperto che ne attesta l’attuabilità, al fine di ottenere esenzioni da revocatoria fallimentare. Un piano attestato potrebbe prevedere, ad esempio, che la società ottiene nuova finanza, paga i debiti fiscali in tot anni e prosegue l’attività. Se il piano riesce, la società non liquida affatto ma esce dalla crisi. Quindi più che liquidazione è un’alternativa per evitare la liquidazione, quando c’è chance di salvataggio dell’impresa.
In sostanza, l’Agenzia delle Entrate oggi non è un creditore impossibile con cui trattare: esistono canali di dialogo e accordo. Si pensi all’accertamento con adesione (strumento deflattivo del contenzioso): se pende un accertamento fiscale, la società (o l’ex socio subentrato in giudizio) può avviare l’adesione e trovare un accordo sull’ammontare dovuto, magari riducendo sanzioni. Oppure alla mediazione tributaria, obbligatoria per controversie sotto 50.000 €, dove l’ex socio può esporre le sue ragioni e l’ufficio può accettare una soluzione equa (es. riduzione sanzioni). Anche dopo la chiusura della società, i diritti del contribuente permangono: l’ex socio può impugnare gli atti impositivi ricevuti, chiedere sospensive al giudice tributario, utilizzare ogni mezzo di difesa procedurale e sostanziale (errori di notifica, decadenza, prescrizione, ecc.). Non esistono scorciatoie miracolose per cancellare i debiti tributari oltre a quelle offerte dalla legge (concordati, condoni): dunque è bene usare tali strumenti quando disponibili, anziché sperare che il debito “sparisca” con la chiusura.
Infine, un consiglio pratico: mantenere un atteggiamento collaborativo con l’Agenzia può portare anche a soluzioni di autotutela. Talvolta, se il Fisco si rende conto che il socio target non ha davvero percepito nulla o che ci sono errori (ad esempio, è stato raggiunto un omonimo non socio, o l’ufficio ignorava che quel socio non ha avuto utili), può annullare in autotutela l’atto emesso. Tuttavia, non bisogna fare affidamento esclusivo su questa possibilità: se i termini di ricorso stringono, conviene proporre ricorso comunque, e l’eventuale autotutela successiva porterà all’estinzione del giudizio.
In conclusione, la gestione dei debiti con l’Erario si gioca su due fronti: giudiziale (far valere diritti e vizi formali, contestare se il debito non è dovuto o quantificato male) e stragiudiziale (negoziare soluzioni sostenibili come rateazioni, concordati, definizioni agevolate). Un approccio proattivo può evitare ai soci e agli amministratori molti grattacapi futuri e persino responsabilità penali, se consente di ridurre l’esposizione sotto le soglie di punibilità.
Procedure alternative alla liquidazione ordinaria
Quando una S.r.l. ha debiti tributari ingenti e patrimonio insufficiente, la semplice liquidazione volontaria potrebbe non essere lo strumento ottimale o percorribile. Esistono diverse procedure concorsuali e strumenti della crisi d’impresa che possono essere considerati come alternativa, a seconda degli obiettivi (risanare l’azienda o liquidarla in modo controllato) e della situazione di solvibilità:
- Piano di risanamento attestato (ex art. 56 CCII): è un accordo stragiudiziale che prevede operazioni di risanamento dell’impresa, accompagnato dalla relazione di un esperto indipendente che attesta la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano. Il vantaggio per l’imprenditore è che gli atti compiuti in esecuzione del piano sono esenti da revocatoria fallimentare (importante se poi la società fallisse comunque). Un piano attestato potrebbe ad esempio prevedere che la società ottiene nuova finanza, cede asset non strategici, e paga gradualmente i debiti (compresi quelli fiscali magari con rateazione). È un percorso volontario e privatistico: non coinvolge il tribunale se non indirettamente (solo controllo eventuale sui requisiti). Va usato se c’è prospettiva di recupero dell’equilibrio finanziario e si ha il consenso informale dei principali creditori.
- Accordo di ristrutturazione dei debiti (ex art. 57 CCII, già art. 182-bis L.F.): è un accordo omologato dal tribunale che vincola tutti i creditori aderenti e, se certi quorum sono raggiunti, può essere esteso ai non aderenti per alcune tipologie di crediti. Si basa sul consenso di almeno il 60% dei creditori (in valore). Tipicamente si usa per imprese con pochi creditori grandi (es. banche) disposte a ristrutturare il debito. L’accordo, una volta omologato, impedisce azioni esecutive anche dai dissenzienti per i crediti inclusi nell’accordo. Per i debiti tributari, l’accordo può includere una transazione fiscale (come nel concordato), quindi l’AdE deve aderire se si vuole falcidiare imposte. Se l’AdE non aderisce, l’accordo può escludere i debiti fiscali (che restano fuori e dovranno essere pagati integralmente o trattati diversamente, magari col simultaneo ricorso al concordato su di essi). Il vantaggio dell’accordo è la rapidità e la riservatezza (spesso viene depositato solo a consenso raggiunto); lo svantaggio è che richiede una negoziazione riuscita con la maggioranza dei creditori.
- Concordato Preventivo: è forse lo strumento più noto. Si tratta di una procedura concorsuale vera e propria, aperta dal tribunale su domanda della società in crisi, che presenta un piano e una proposta ai creditori. Nel concordato in continuità aziendale, la società prosegue l’attività (direttamente o tramite cessione/affitto a terzi) e paga i debiti nel tempo con i flussi generati; nel concordato liquidatorio, la società cessa l’attività e liquida tutti i beni per pagare parzialmente i creditori. Nel nostro contesto, una S.r.l. schiacciata dai debiti tributari può ricorrere a un concordato liquidatorio se vuole chiudere comunque, oppure tentare un concordato in continuità se ha ancora un business vitale (a patto di poter ripagare almeno in parte i debiti). Il vantaggio del concordato è che, se approvato dalle maggioranze e omologato, consente di stralciare parte dei debiti anche senza il consenso di tutti i creditori (è una procedura giudiziale a maggioranza). I debiti residui vengono falcidiati e la società ne esce esdebitata (se in continuità) o viene liquidata senza code. Per i debiti fiscali, come detto, serve includere la transazione fiscale: oggi l’Erario può essere cramd- down dal tribunale se la proposta è conveniente, quindi non ha potere di veto assoluto. Uno svantaggio è che il concordato richiede di offrire un soddisfo minimo ai chirografari (prima era 20%, ma il CCII ha eliminato la soglia fissa, richiedendo però un trattamento non inferiore alla liquidazione giudiziale e in caso di concordato liquidatorio senza apporti esterni di solito c’è una soglia pratica intorno al 5-10%). Inoltre, il concordato comporta costi (commissario giudiziale, spese legali) e tempi non brevi. Tuttavia, in situazioni di grande esposizione, rimane uno strumento per evitare la declaratoria di fallimento, gestendo la liquidazione in modo ordinato e con la possibilità di proteggere l’imprenditore da azioni di responsabilità (nel senso che, se il concordato va a buon fine, difficilmente si cercheranno colpe negli amministratori, avendo essi risolto la crisi senza fallimento).
- Liquidazione Giudiziale (ex Fallimento): è l’ultima ratio quando non vi sono alternative praticabili o quando i creditori (o la stessa società) la richiedono. In questa procedura, il tribunale accerta l’insolvenza e nomina un curatore che prende in carico l’impresa, la spossessa dagli organi precedenti, e provvede a liquidare l’attivo distribuendo il ricavato secondo le regole concorsuali. La liquidazione giudiziale comporta per gli amministratori la perdita dei poteri e l’apertura di possibili azioni di responsabilità per mala gestio, nonché l’eventuale innesco di indagini penali per bancarotta. Dal lato dei debiti tributari, con la liquidazione giudiziale il Fisco partecipa come creditore al concorso e riceverà distribuzioni secondo il grado dei suoi crediti (privilegiati o chirografari). I debiti fiscali non soddisfatti nel fallimento restano insoddisfatti, e – attenzione – in teoria potrebbero riattivarsi contro soci ex art. 2495, ma in pratica se c’è un fallimento, l’Erario avrà già tentato di escutere tutto in quella sede. Un elemento positivo per l’imprenditore fallito (se persona fisica) è la possibilità di ottenere l’esdebitazione delle sue obbligazioni residue post-fallimento, ma per la società questo concetto non si applica (la società estinta non ha “esdebitazione” perché cessa di esistere comunque). Lo svantaggio per i soci di un fallimento è che espone maggiormente a possibili azioni (il curatore può chieder loro di restituire eventuali somme percepite prima della fine, ecc.) e per gli amministratori/liquidatori c’è il rischio concreto di dover rispondere di reati concorsuali. In alcuni casi, però, la liquidazione giudiziale è inevitabile e perfino utile: ad esempio, se vi sono molti creditori litigiosi, il fallimento li mette tutti in riga secondo le regole legali, evitando iniziative caotiche; oppure se si sospetta che il liquidatore o i soci abbiano nascosto beni, il curatore fallimentare ha poteri per indagare e recuperare risorse. Dunque, benché “temuta”, la liquidazione giudiziale rappresenta pur sempre uno strumento legale di risoluzione dell’insolvenza.
- Liquidazione coatta amministrativa (LCA): è una procedura concorsuale speciale riservata ad alcune tipologie di enti (es. banche, assicurazioni, cooperative). Per la generalità delle S.r.l. commerciali non si applica, se non in casi particolari previsti da leggi speciali. La menzioniamo per completezza: in LCA l’autorità amministrativa (Ministeri, Banca d’Italia, ecc.) dispone lo scioglimento dell’ente e nomina uno o più commissari liquidatori. È assimilabile a un fallimento gestito da autorità pubbliche. Non è lo scenario tipico per una S.r.l. comune, quindi non ci dilunghiamo.
In sintesi, una S.r.l. con debiti tributari ha di fronte a sé diverse vie d’uscita oltre alla liquidazione volontaria pura: può provare a ristrutturare il debito se c’è speranza di salvataggio (piani attestati, accordi, concordato in continuità), oppure liquidare in modo concorsuale se vuole chiudere ma con la protezione di una procedura (concordato liquidatorio o, se necessario, fallimento). La scelta dipende dalla gravità della crisi e dalle prospettive dell’azienda residua. Ad esempio, se l’azienda ha mercato ma è oppressa dai debiti fiscali, un concordato con continuità o accordo potrebbe salvare la parte buona e diluire/stralciare i debiti. Se invece l’azienda ha cessato ogni attività, un concordato liquidatorio offre vantaggi rispetto alla liquidazione semplice: definisce in modo vincolante la posizione di tutti i creditori ed evita l’alea di azioni successorie spezzettate (ad esempio i soci sanno esattamente che pagando quella percentuale chiudono ogni conto). Tuttavia, il concordato richiede risorse (spese procedura, eventuali garanzie) e tempi lunghi, quindi non sempre è percorribile se l’attivo è modesto. In tali casi, paradossalmente la liquidazione “semplice” può risultare più rapida, accollandosi però i rischi descritti.
Nel contesto della crisi d’impresa 2025, si assiste a un’evoluzione: si tende a privilegiare soluzioni negoziate e concordate, lasciando il fallimento come ultima spiaggia. Anche il Fisco ormai partecipa attivamente a queste soluzioni, valutando piani e transazioni (ci sono linee guida interne su come comportarsi nei concordati). Pertanto, è bene che imprenditori e consulenti conoscano questi strumenti e li valutino al primo segnale di insolvenza, anziché attendere di “restare senza beni” per poi liquidare. Un ricorso tempestivo al concordato può, ad esempio, evitare ai soci di dover poi affrontare richieste dell’Erario ex art. 2495 c.c., poiché il debito fiscale sarebbe regolato in quella sede.
Esempi pratici di liquidazione di S.r.l. indebitate col Fisco
Di seguito presentiamo tre simulazioni pratiche per illustrare gli scenari possibili nella liquidazione di una S.r.l. con debiti tributari, e le conseguenze per soci e organi.
Caso 1: Liquidazione con patrimonio attivo sufficiente a pagare i debiti tributari
Scenario: Alfa S.r.l. decide lo scioglimento perché i soci vogliono cessare l’attività. La società ha debiti tributari per 50.000 € (IVA arretrata e imposte) e altri debiti verso fornitori per 30.000 €. Ha però un magazzino merci e attrezzature che il liquidatore vende realizzando 100.000 €. Con tale somma, il liquidatore paga integralmente i 30.000 € ai fornitori e i 50.000 € al Fisco (saldando IVA e imposte, comprensive di interessi e sanzioni eventualmente ridotte grazie al pagamento spontaneo). Rimangono 20.000 € che vengono ripartiti tra i soci secondo le quote. La liquidazione si chiude con la cancellazione della società.
Esito: in questo caso “virtuoso” tutti i debiti, inclusi quelli fiscali, sono stati onorati. Implicazioni: i creditori non hanno nulla da reclamare, quindi i soci non subiranno richieste ex art. 2495 c.c. (hanno ricevuto 20.000 € ma dopo che i crediti erano pagati, dunque nessun creditore insoddisfatto potrà agire contro di loro). Il liquidatore ha svolto correttamente il suo compito e non ha responsabilità; anzi, ha l’obbligo di versare gli eventuali restanti acconti d’imposta e presentare le dichiarazioni finali (ad esempio: dovrà presentare la dichiarazione IRES per l’ultimo periodo di liquidazione, in cui indicherà il risultato di liquidazione, pagare le imposte su quel risultato se positive, etc. – in questo caso se i 20.000 € distribuiti ai soci derivano da utili di liquidazione, vi potrebbe essere un ultimo imponibile tassato in capo alla società o direttamente in capo ai soci in base alla natura delle somme). Non essendoci debiti residui, non vi saranno profili di responsabilità. I soci dovranno eventualmente pagare le imposte sostitutive sulla distribuzione (in base alla natura delle riserve distribuite, potrebbe esserci tassazione come dividendo per loro, ma questa è un’altra questione fiscale interna al socio).
Vantaggi di questo scenario: chiusura pulita, nessun strascico legale, nessun danno reputazionale. Svantaggi: di fatto nessuno, se non il costo/opportunità di dover utilizzare tutto l’attivo per i debiti (ma ciò è fisiologico). Dal punto di vista penale, avendo pagato IVA e ritenute, gli amministratori evitano qualunque rischio di reato di omesso versamento. Questo è il caso ottimale e auspicabile.
Caso 2: Liquidazione senza patrimonio (società nulla tenente)
Scenario: Beta S.r.l. è inattiva da tempo, ha accumulato debiti tributari (IVA e IRAP non versate per 40.000 € e una cartella per imposte pregresse di 20.000 €) e debiti verso banche per 30.000 €. Non possiede immobili né liquidità; l’unico cespite era un macchinario già pignorato dalla banca. I soci, stanchi della situazione e senza mezzi per ripianare i debiti, decidono di liquidare la società. Il liquidatore subentra, ma trova di fatto zero attivo da liquidare. Non ci sono beni da vendere, né crediti da incassare (i pochi clienti che dovevano pagare hanno insolvibilità a loro volta). Dunque il liquidatore, dopo aver verificato che non esistono asset recuperabili, redige un bilancio finale con passivo non pagato di 70.000 € (40k Fisco, 30k banca) e nessun attivo. Non avendo nulla da distribuire, niente va ai soci. La società viene cancellata.
Esito: qui la società si estingue lasciando tutti i creditori insoddisfatti. Implicazioni: i creditori hanno il diritto di agire verso soci e liquidatore. In base all’art. 2495 c.c., i creditori (Fisco compreso) possono far valere le loro ragioni contro i soci, ma nei limiti di quanto da questi ricevuto. Poiché i soci hanno ricevuto zero (nessuna distribuzione), la loro difesa sarà semplice: possono opporsi a eventuali intimazioni di pagamento dimostrando che non hanno avuto somme dal bilancio finale. Il Fisco, ad esempio, potrebbe notificare comunque un avviso a Beta S.r.l. (presso il liquidatore) e contestualmente agli ex soci chiedendo loro 40.000 €. Gli ex soci impugneranno l’atto sostenendo di non aver percepito nulla; secondo la giurisprudenza (Cass. 25108/2023, SU 2025) l’assenza di riparti non rende nullo l’accertamento, ma sarà in fase di riscossione-esecuzione che i soci faranno valere l’eccezione definitiva. Quindi in pratica, l’atto impositivo potrebbe rimanere intestato a Beta S.r.l. per 5 anni (fittiziamente esistente) e poi essere “girati” in cartelle ai soci, ai quali basterà fare opposizione mostrando il bilancio finale a zero per far decadere la pretesa. I soci dunque, alla fine, non pagheranno nulla (non avendo avuto nulla). E il debito fiscale di Beta S.r.l. resterà in gran parte inesigibile. Anche la banca non può chiedere nulla ai soci (che in S.r.l. non garantiscono i debiti sociali, salvo abbiano dato garanzie personali).
Quanto al liquidatore, ha qualche rischio? Se Beta S.r.l. era effettivamente priva di beni, il liquidatore ha poco da rimproverarsi. Dovrà aver stilato verbali in cui prende atto dell’assenza di attivo e aver gestito correttamente la chiusura (ad esempio, avvisare i creditori formalmente che non ci sono fondi, così che decidano se spingere per un fallimento). Se il liquidatore ha seguito la legge, difficilmente potrà essergli imputata colpa: non c’erano beni da liquidare, quindi il mancato pagamento non è “colpa sua” ma conseguenza dello stato di decozione preesistente. Il Fisco potrebbe contestargli ai sensi dell’art. 36 DPR 602/73 di aver cancellato la società lasciando tributi insoluti, ma se il liquidatore dimostra che non c’era nulla da liquidare e che non ha distribuito nulla ai soci né fatto pagamenti preferenziali, l’azione di responsabilità non avrà successo (manca la condotta colposa). Inoltre, se i maggiori debiti fiscali derivano da violazioni pregresse (es. IVA non versata per anni), le eventuali responsabilità penali ricadono sugli amministratori passati: il liquidatore subentrato che chiude per impossibilità finanziaria non commette reato (anzi, potrebbe segnalare la situazione di insolvenza).
Possibile intervento di fallimento postumo: in questo scenario, c’è una forte insolvenza. La banca creditrice o l’Erario (tramite Agenzia Entrate Riscossione) potrebbero chiedere entro 1 anno la riapertura sotto forma di fallimento. Se ciò accade, verrà nominato un curatore che cercherà eventuali attivi nascosti o azioni di responsabilità. Dato che Beta S.r.l. è nullatenente, probabilmente la procedura fallimentare verrebbe chiusa presto per insufficienza di attivo; tuttavia, consentirebbe di verificare eventuali irregolarità passate. Ad esempio, se emergesse che l’amministratore di Beta S.r.l. aveva trasferito fondi personali all’estero, o venduto sotto costo i cespiti a una società di familiari prima della liquidazione, il curatore potrebbe agire per revocatoria o bancarotta. Supponendo invece che non ci sia nulla del genere, il fallimento si chiuderebbe senza attivo. I soci non verrebbero toccati (salvo aver ricevuto in passato utili revocabili, ma abbiamo ipotizzato di no), il liquidatore potrebbe essere interrogato ma non accusato di nulla. Gli amministratori pregressi potrebbero subire indagini per bancarotta semplice se, ad esempio, non hanno tenuto i libri o hanno aggravato l’insolvenza (ma se Beta era già insolvente per cause esterne, forse neanche quello).
Conclusione del caso 2: la società si estingue e i suoi debiti restano insoluti, di fatto perdendosi. Il Fisco riuscirà a iscrivere a ruolo i 40.000 € e cercherà invano di escuterli (forse si accontenterà di iscrivere a sofferenza la perdita). I soci non ci rimettono nulla in termini finanziari, ma potrebbero subire il disagio amministrativo di dover difendersi da eventuali atti fiscali (ricorsi, istanze, ecc., finché la questione non viene archiviata). Se i soci erano anche amministratori, resterà per qualche anno il rischio di contestazioni penali pendenti (ad esempio, per l’IVA non versata di 40.000 € se superava la soglia: ma se è 40.000, sotto soglia, nessun reato; se fosse stata 400.000, l’amministratore rischierebbe reato omissivo). Dal punto di vista reputazionale, la chiusura di una società insolvente potrebbe far scattare una segnalazione centrale rischi (per la banca) e classificare i soci/amministratori come meno affidabili per il futuro. Ma legalmente, grazie alla responsabilità limitata, questo scenario comporta per i soci meno conseguenze immediate di quanto non si pensi: come sintetizzato efficacemente dalle SU 2025, “se il socio non ha ricevuto nulla, non può essere costretto a pagare i debiti della società”.
Caso 3: Liquidazione con un immobile ipotecato a garanzia di debiti
Scenario: Gamma S.r.l. possiede un capannone del valore di circa 500.000 €, su cui grava un’ipoteca a favore di una banca per un mutuo residuo di 400.000 €. La società ha inoltre debiti tributari per 100.000 € (principalmente IVA e tasse non pagate) e altri debiti minori per 50.000 €. I soci decidono di sciogliere la società e liquidare. Il liquidatore si trova questo quadro: un immobile che costituisce quasi tutto l’attivo, ma vincolato dall’ipoteca; pochi altri beni mobili. Il liquidatore tenta di vendere il capannone: riesce a cederlo a un terzo per 480.000 €. Con il ricavato, deve prima estinguere il credito garantito della banca: paga quindi 420.000 € (il debito di 400k più interessi e spese) alla banca, la quale acconsente alla cancellazione dell’ipoteca. Restano nelle casse 60.000 € dalla vendita. Con questi 60.000, il liquidatore deve affrontare i 100.000 € di debiti fiscali e i 50.000 € di altri debiti. È evidente che non basta per tutti (abbiamo 150k di chirografi totali e solo 60k disponibili). Chi paga per primo? Tra i debiti rimasti, lo Stato probabilmente ha crediti privilegiati (ad es. l’IVA ha privilegio generale mobiliare, ma qui abbiamo venduto un immobile: il privilegio generale non si estende sull’immobile, però l’agente della riscossione potrebbe avere iscritto ipoteca fiscale anche lei, ipotizziamo di no per semplicità). I fornitori sono chirografari puri. Il liquidatore, se segue l’ordine legale, dovrebbe destinare quei 60.000 in proporzione ai crediti privilegiati (il Fisco, se ha privilegio su mobili, qui non rileva su l’immobile appena venduto, ma comunque lo Stato ha un privilegio generale sul ricavato mobiliare, anche se tecnicamente il ricavato è immobiliare: la questione è tecnica, comunque ipotizziamo che il Fisco abbia almeno parzialmente prelazione sui 60k). Supponiamo che, seguendo i gradi, il liquidatore attribuisca tutti i 60.000 al Fisco (perché il credito IVA è considerato di grado superiore rispetto ai fornitori chirografi). Così l’Agenzia delle Entrate riceve 60.000 su 100.000 dovuti. Rimangono scoperti 40.000 di Fisco e tutti i 50.000 di fornitori. Non c’è attivo residuo per i soci, che infatti non ricevono nulla. La liquidazione si chiude e la società è cancellata.
Esito: la banca è stata soddisfatta integralmente (grazie all’ipoteca e al ricavato della vendita), il Fisco è stato pagato parzialmente (60%), i fornitori per nulla. Implicazioni: ora i creditori insoddisfatti sono: l’Agenzia delle Entrate per 40.000 € e i fornitori per 50.000 €. Questi possono far valere le loro ragioni verso soci e liquidatore. Per i soci, ancora una volta, si applica il limite di quanto percepito: essi non hanno ricevuto alcun riparto (tutto l’attivo è andato ai creditori), quindi la loro responsabilità è di fatto nulla. Il Fisco potrà notificare ai soci un atto per 40.000 €, ma i soci avranno buon gioco a eccepire di non aver riscosso nulla e quindi non dovuto. Stessa cosa i fornitori in sede civile: se volessero tentare, non troverebbero patrimonio presso i soci da attaccare, né base giuridica (se non, eventualmente, cercare di far dichiarare inopponibile la personalità giuridica per abuso, ma è un percorso arduo e raro).
Per il liquidatore, la domanda è: ha operato correttamente pagando prima il Fisco rispetto ai fornitori? Probabilmente sì, perché i crediti erariali hanno privilegio che li preferisce ai chirografari. Certo, i fornitori restano a bocca asciutta, ma legalmente il liquidatore doveva rispettare l’ordine delle prelazioni. Dunque non c’è colpa in ciò. Il Fisco non è stato soddisfatto integralmente, ma qui c’era un attivo limitato e il liquidatore lo ha destinato interamente ad esso (è difficile imputargli qualcosa, anzi ha privilegiato l’Erario come doveva). Potrebbe essergli contestato perché non ha soddisfatto anche i fornitori? No, al contrario, se avesse dato qualcosa ai fornitori togliendo al Fisco, avrebbe sbagliato. Quindi il liquidatore appare al riparo da responsabilità, avendo seguito la legge. Gli amministratori precedenti: se la crisi è stata causata da loro cattiva gestione, potrebbero teoricamente subire azioni di responsabilità da fornitori o dal curatore in caso di fallimento; ma se non c’è fallimento, difficilmente fornitori intraprenderanno costose cause civili, a meno che non vi siano indizi di distrazione.
E se i fornitori chiedessero il fallimento? Potrebbero: abbiamo un caso tipico di insolvenza (fornitori zero pagato, Fisco parziale). Se un fornitore o il Fisco stesso presenta istanza di fallimento entro l’anno dalla cancellazione, il tribunale potrebbe dichiarare il fallimento di Gamma S.r.l. post-mortem. Il curatore a quel punto potrebbe contestare al liquidatore perché ha pagato il Fisco e non i fornitori dopo la cancellazione? Non esattamente, perché al momento della vendita l’azienda era ancora in bonis. Tuttavia, in sede fallimentare, i 60.000 versati al Fisco potrebbero essere oggetto di azione revocatoria fallimentare: essendo un pagamento preferenziale fatto nei 6 mesi precedenti il fallimento, di crediti chirografari (qui si aprirebbe la questione: il credito IVA era chirografo? Aveva privilegio generale su mobili, ma è stato soddisfatto su ricavato immobiliare dove il privilegio non insisteva; un giurista potrebbe sostenere che per la procedura concorsuale quel pagamento al Fisco è come un pagamento anticipato di un chirografo, ergo revocabile). Se venisse revocato, il Fisco restituirebbe i 60k alla massa fallimentare, che li ripartirebbe poi pro-quota tra tutti i creditori (includendo fornitori). Comunque, stiamo entrando in tecnicismi: diciamo che, salvo un fallimento tardivo, la ripartizione fatta dal liquidatore rimane valida.
Dal lato penale: l’amministratore di Gamma S.r.l. non ha versato 40k di IVA. La soglia di punibilità supponiamo sia 250k, quindi niente reato art.10-ter (se fosse stata 100k e soglia 250k, non punibile; se soglia 150k e 100k, comunque sotto; insomma, 40k niente reato). Se invece avesse lasciato 300k di IVA, allora sì. In tal caso, la vendita del capannone con pagato banca e Fisco parziale non lo esonera dal reato di omesso versamento. Però, se quell’amministratore sperava di cavarsela, con la riforma 2024 avrebbe potuto cercare di rateizzare il debito IVA residuo o includerlo in un piano (ma la società è stata liquidata…). Quindi possibile imputazione se soglia superata. Il liquidatore in sé non commette reato pagando parzialmente i tributi se quello è il massimo ottenibile.
Conclusione caso 3: i soci di Gamma S.r.l. escono anche qui senza esborsi (non avendo preso nulla). Il Fisco recupera una parte e dovrà rinunciare al resto (salvo prendersela con i soci ma, come detto, se soci non hanno avuto attivo, l’azione non darà frutti). I fornitori restano a mani vuote, a meno di iniziative concorsuali. Il liquidatore appare esente da colpe. Il caso evidenzia come la presenza di garanzie reali (ipoteca della banca) abbia di fatto dirottato la quasi totalità dell’attivo a un solo creditore, tagliando fuori gli altri. Questo è tipico: il creditore garantito si soddisfa per primo, e spesso in crisi aziendali “monobanco” la banca ipotecaria assorbe tutto il valore, lasciando il Fisco e gli altri a zero. In tali situazioni, talvolta il Fisco preferisce il fallimento perché almeno il curatore potrebbe valutare azioni contro la banca (se l’ipoteca è revocabile in parte per scoperture di fido, ecc.) e cercare di recuperare qualcosa per il chirografo. Comunque, dal punto di vista dei soci, finché essi non incassano nulla, la liquidazione volontaria o il fallimento portano allo stesso risultato: non pagano. Per il liquidatore, la liquidazione volontaria fatta bene non dovrebbe differire da un esito fallimentare se ha rispettato i privilegi: in un eventuale giudizio, potrà difendersi dimostrando di aver pagato correttamente la banca garantita e il Fisco.
Queste simulazioni mostrano che il destino dei debiti tributari dipende fortemente dalla capienza patrimoniale della società e dall’esistenza di creditori concorrenti privilegiati. Nei casi 2 e 3, i debiti fiscali non completamente saldati rimangono in buona parte non recuperati – a meno di coinvolgere i soci se avessero percepito attivo (non è successo) o i liquidatori se avessero colpa (non pare). È per questo che l’Amministrazione finanziaria spesso vigila su queste liquidazioni “a vuoto” e, quando sospetta anomalie (es. soci che hanno svuotato l’azienda prima), intraprende azioni aggressive come contestazioni di utili occultati ai soci o richieste di fallimento per avere un curatore che indaghi. Nel complesso, la legge cerca di tutelare i creditori evitando che una società chiuda lasciando debiti senza almeno un accertamento: perciò la regola dei 5 anni di finta sopravvivenza e la possibilità di colpire soci/liquidatori fungono da deterrente contro abusi.
Domande Frequenti (FAQ)
D: È possibile cancellare una S.r.l. che ha ancora debiti verso il Fisco?
R: Sì, è possibile dal punto di vista civilistico cancellare una società anche se restano debiti (la Cassazione ha chiarito che l’estinzione avviene comunque). Tuttavia, i debiti non si estinguono: potranno essere riscossi nei limiti del possibile da soci e liquidatori ex art. 2495 c.c.. Inoltre, se la società è insolvente, gli amministratori dovrebbero valutare un fallimento o concordato invece di una mera cancellazione, per evitare responsabilità. L’atto di cancellazione, peraltro, non impedisce al Fisco di notificare avvisi alla società entro 5 anni. Quindi, pur potendo giuridicamente chiudere la società, non si “scappa” dal Fisco: semplicemente il bersaglio delle sue azioni cambierà (soci/liquidatore).
D: Cosa succede ai debiti tributari di una società dopo la sua cancellazione?
R: In base all’art. 2495 c.c. e all’art. 36 DPR 602/73, i debiti tributari seguono gli ex soci (entro le somme da loro ricevute in liquidazione) e potenzialmente i liquidatori (se colpevoli). Nei 5 anni successivi, l’Agenzia Entrate può ancora notificare cartelle e accertamenti a nome della società (presso l’ultimo domicilio), e parallelamente emettere atti verso i soci. Se i soci hanno avuto distribuzioni finali, potranno essere chiamati a pagare il debito sociale nei limiti di quelle somme. Se non hanno avuto nulla, normalmente non dovranno pagare nulla (come confermato da Cass. SU 3625/2025). I debiti fiscali non si cancellano per il semplice fatto che la società sparisce dal Registro: rimangono esigibili e in teoria in capo alla società per 5 anni (fictio juris) e poi, in pratica, solo verso chi ha ereditato attivo o ha responsabilità. Dopo 5 anni dalla cancellazione, il Fisco non può più notificare nulla alla società; se non ha già agito contro soci/liquidatori in quel termine, rischia di perdere il diritto all’accertamento. In altre parole: la cancellazione chiude la società, ma il debito potrà essere richiesto ai soci (pro quota) e ai liquidatori (per colpa) come se fossero successori speciali nel debito.
D: I soci di una S.r.l. devono pagare personalmente i debiti fiscali non pagati dalla società?
R: In linea di principio, no oltre quanto hanno riscosso dalla liquidazione. La responsabilità dei soci è limitata alla somma che eventualmente hanno ricevuto come riparto finale. Se, ad esempio, un socio ha ricevuto 5.000 € in sede di chiusura, i creditori (Fisco incluso) potranno chiedergli fino a 5.000 € per saldare debiti sociali non pagati. Se non ha ricevuto niente, quel socio non è tenuto a sborsare niente di suo. Attenzione però a due situazioni: (1) se il socio aveva ricevuto somme nei due anni prima della liquidazione (es. dividendi), queste possono essere prese in considerazione dall’Erario ai fini della sua responsabilità; (2) in casi di società a ristretta base, il Fisco talora presume che i soci abbiano beneficiato dell’evasione anche senza distribuzioni ufficiali, e cerca di recuperare da loro (presunzione di utili occulti). In tribunale comunque il socio potrà difendersi mostrando di non aver avuto utili reali. Dunque normalmente i soci non pagano di tasca propria i debiti fiscali sociali, salvo abbiano incassato attivo sociale o salvo casi di abuso.
D: Se la società chiude, le sanzioni e le multe fiscali pendenti chi le paga?
R: C’è un’incertezza giurisprudenziale su questo. La regola tradizionale è che le sanzioni tributarie non si trasmettono ai soci o liquidatori, in quanto hanno natura personale e l’ente estinto non esiste più (principio di personalità della pena amministrativa). Quindi, in teoria, le sanzioni morirebbero con la società, un po’ come avviene se muore una persona fisica contribuente. Molte Commissioni Tributarie hanno applicato questo principio, escludendo i soci da obblighi di pagare sanzioni, soprattutto se non colpevoli. Tuttavia, una recente sentenza di Cassazione (n. 23341/2024) ha detto il contrario: ossia che i soci devono pagare anche le sanzioni, sempre entro il limite di quanto ricevuto. L’idea è che se il socio si è avvantaggiato dell’evasione (perché ha incassato più patrimonio), deve subirne anche la sanzione altrimenti la sanzione resterebbe ineffettiva. Al momento, questa materia è controversa (due pronunce di segno opposto nel 2023 e 2024). Quindi non c’è una risposta univoca: potrebbe dipendere da quale orientamento seguirà la Corte in futuro o da come il legislatore eventualmente preciserà. Ad oggi, prudentemente, un ex socio potrebbe vedersi richiedere anche sanzioni (in parte), ma ha ottime argomentazioni per opporsi, richiamando il principio di personalità della sanzione e l’altra giurisprudenza.
D: L’amministratore o il liquidatore rischiano personalmente per i debiti tributari rimasti?
R: Possono rischiare sul piano civile se si dimostra che per colpa loro quei debiti non sono stati pagati. Il liquidatore che ripaga i creditori secondo legge non è responsabile oltre; ma se ha distribuito soldi ai soci o pagato altri ignorando il Fisco, allora sì, può doverne rispondere (art. 2495 c.c. e art. 36 DPR 602 lo prevedono). L’amministratore in carica prima della liquidazione invece, in generale, non è obbligato a pagare i debiti sociali con il proprio patrimonio (se no verrebbe meno la responsabilità limitata), a meno che abbia commesso violazioni specifiche. Per esempio, se l’amministratore ha omesso di versare l’IVA, verrà sanzionato penalmente ma civilmente il debito resta della società. Ci sono però eccezioni: l’art. 36 DPR 602/73 include anche gli amministratori tra i soggetti responsabili se nei 2 anni prima dello scioglimento hanno fatto atti pregiudizievoli per il Fisco (es. distribuire utili evitando di pagare imposte). Inoltre, se la società fallisce, il curatore può citare l’amministratore per mala gestio (ad esempio per non aver pagato imposte quando poteva, aggravando il dissesto). Riassumendo: l’amministratore non è coobbligato di default nei debiti fiscali, ma potrebbe diventarlo in esito ad azioni di responsabilità qualora la mancata estinzione sia colpa sua. Il liquidatore invece assume un obbligo di diligenza preciso verso i debiti fiscali: se li ignora colpevolmente, ne risponde di persona.
D: Cosa rischia penalmente l’amministratore che lascia la società con debiti verso il Fisco?
R: Sul piano penale, l’amministratore può incorrere in reati tributari specifici: i più frequenti sono l’omesso versamento IVA o ritenute (se l’importo supera le soglie di punibilità) e la sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte (se ha nascosto/distratto beni per non pagarle). Questi reati comportano sanzioni detentive (fino a 3 anni per gli omessi versamenti, fino a 6-7 anni per la sottrazione fraudolenta, più severo ancora se false fatture ecc.). Quindi, se la società non ha pagato, ad esempio, 300.000 € di IVA, l’amministratore rischia una condanna penale a meno che non paghi quel debito prima del processo (recentemente la legge ha introdotto cause di non punibilità legate all’adempimento). Se la società viene dichiarata fallita, scatta anche il rischio di bancarotta (ad esempio per aver distratto risorse che potevano pagare il Fisco, configurabile come bancarotta fraudolenta). Anche il liquidatore potrebbe rischiare bancarotta preferenziale se paga certi creditori e non doveva. I soci invece raramente hanno profili penali: solo se agiscono come amministratori di fatto o se compiono essi stessi atti fraudolenti (ad es. portano via beni della società di nascosto, ciò può essere concorso in bancarotta fraudolenta). In definitiva, l’amministratore non va in galera solo perché la società ha debiti fiscali, ma ci va se ha violato norme penali (non versato oltre soglia, frodato il Fisco, dissipato patrimoni). In una liquidazione ordinata, l’amministratore che collabori col liquidatore e cerchi di sistemare il possibile di solito non viene incriminato.
D: I debiti verso l’INPS (contributi previdenziali) seguono le stesse regole di quelli tributari?
R: Sì, in larga parte. La norma sulla “sopravvivenza fiscale” di 5 anni si applica anche ai contributi previdenziali (lo dice espressamente l’art. 28 co.4 D.Lgs. 175/2014: vale per tributi e contributi). Inoltre, l’art. 36 DPR 602/73 riguarda imposte sul reddito, ma esistono norme analoghe per i contributi (il DL 46/99 art. 1 estende ai contributi la responsabilità dei liquidatori). Pertanto, i crediti INPS rimasti insoluti potranno essere richiesti ai soci (limitatamente agli attivi percepiti) e ai liquidatori con le stesse logiche dei tributi. Anche per contributi vige il principio di personalità delle sanzioni, quindi in teoria le sanzioni civili INPS (more, ecc.) non passerebbero ai soci. Sul fronte penale, il mancato versamento di contributi oltre soglia (attualmente circa 10.000 € annui) costituisce reato contravvenzionale (art. 2 comma 1-bis D.L. 463/83 conv. L. 638/83) a carico dell’amministratore. Quindi anche qui, se la società non versa contributi dipendenti oltre soglia e chiude, l’amministratore rischia una sanzione penale a meno che non paghi entro termini (c’è causa di non punibilità se paga entro 3 mesi dalla contestazione). Quindi sì, INPS segue regole simili al Fisco.
D: Conviene tentare un concordato preventivo invece di liquidare la società?
R: Dipende dal caso. Un concordato preventivo è utile se si vuole evitare il fallimento e avere un quadro definito delle obbligazioni da pagare. È particolarmente indicato se si può offrire ai creditori (incluso il Fisco) qualcosa di meglio di quanto otterrebbero dallo scenario di liquidazione pura. Conviene ad esempio se la società ha un business che può continuare generando utili per pagare i debiti in parte: in tal caso, un concordato in continuità potrebbe salvare l’azienda e soddisfare parzialmente il Fisco, che altrimenti vedrebbe l’azienda chiudere e incasserebbe forse meno. Se invece la società non ha prospettive e l’attivo è modesto, un concordato liquidatorio rischia di essere un aggravio di costi: potrebbe convenire solo se c’è interesse a sterilizzare alcune responsabilità. Ad esempio, nel concordato liquidatorio i soci sanno di pagare una certa percentuale e poi i debiti residui vengono cancellati: è come una “esdebitazione” per la società (anche se il concetto tecnico di esdebitazione non si applica alle persone giuridiche, l’effetto pratico è simile). Questo significa che, dopo un concordato omologato, l’Erario non potrebbe più chiedere nulla né ai soci né ai liquidatori, perché il debito è estinto per effetto della procedura (salvo le eccezioni di responsabilità extra-concordato per atti di malafede, ma sono rari). Quindi se i soci hanno in mente di proteggersi completamente, un concordato approvato può essere risolutivo. Di contro, se l’attivo è zero e non c’è modo di offrire una percentuale decente, il concordato fallirebbe e si perderebbe tempo: in questi casi, tanto vale liquidare direttamente e poi gestire le conseguenze individuali. In sintesi: concordato se c’è un piano fattibile e convenienza per i creditori; liquidazione semplice (o fallimento) se non c’è trippa per gatti e si vuole chiudere in fretta. In molti casi, si tenta un accordo stragiudiziale: se la maggior parte dei creditori (Fisco compreso) accetta un accordo di saldo e stralcio, si può evitare concordato e fallimento. Questo però richiede che tutti siano ragionevoli, cosa non sempre possibile.
D: Dopo quanti anni si prescrivono i debiti fiscali di una società chiusa?
R: La prescrizione dei debiti tributari segue le regole ordinarie anche se la società è chiusa. Ad esempio, una cartella esattoriale per IVA si prescrive in 10 anni se non rinnovata da atti interruttivi. La chiusura non abbrevia i termini: anzi, la fictio dei 5 anni serve a permettere atti interruttivi. In pratica, se la società chiude oggi con debiti, il Fisco avrà fino a 5 anni per notificare avvisi di accertamento su eventuali imposte non ancora accertate, e poi ulteriori termini per riscuotere (di norma 2 anni dopo l’accertamento per iscrivere a ruolo e notificare cartella, ecc.). Una volta notificato ai soci un avviso o una cartella, i termini di prescrizione decorrono normalmente (generalmente 10 anni per imposte erariali salvo atti interruttivi successivi). Per fare un esempio concreto: Tizio socio di Alfa S.r.l. (estinta nel 2025) riceve nel 2026 una cartella per IVA 2023 della società; quella cartella se non pagata e senza ulteriori atti si prescrive al 2036. Ma se l’Agente della Riscossione notifica nel 2030 un’intimazione di pagamento, la prescrizione si interrompe e ricomincia. In sintesi, non c’è un termine breve “fisso” dopo cui i soci possono stare tranquilli: bisogna monitorare gli atti. Superati i 5 anni, però, il Fisco non potrà più iniziare nuove pretese verso soggetti non già destinatari di atti, perché la società è definitivamente estinta e i soci non ricevono accertamenti nuovi oltre quell’orizzonte (salvo fossero già parte di un processo). Comunque, la prudenza vuole conservare i documenti di liquidazione e bilanci per almeno 5 anni dalla chiusura (meglio 10) in modo da poterli esibire in caso di contestazioni.
D: Una società estinta da anni può “risorgere” se spuntano beni o debiti dimenticati?
R: No, la società una volta cancellata rimane estinta. Tuttavia, se emergono attività non liquidate o debiti non considerati prima, si crea una sorta di eredità giacente della società estinta. I soggetti che ne beneficerebbero o ne risponderebbero sono sempre i soci e i liquidatori. Ad esempio, se dopo la cancellazione si scopre un conto bancario intestato alla società con del denaro, quei soldi spettano ai soci in proporzione (dopo aver eventualmente pagato debiti rimasti). Al contrario, se compare un creditore (es. una causa in corso che la società aveva perso) anch’esso potrà agire contro i soci nei limiti di quanto riscosso. Non c’è una riapertura della liquidazione a meno che, appunto, non si attivi un fallimento entro l’anno. Oltre l’anno, la società non può più essere coinvolta in procedure. In casi eccezionali, alcune corti hanno ammesso la cancellazione d’ufficio dal registro se risultava erroneamente iscritta una società già fallita ecc., ma in generale no. Quindi quel che è fatto è fatto: restano solo le code verso soci/liquidatori.
Tabelle riepilogative dei possibili scenari
Di seguito, proponiamo due tabelle riassuntive. La Tabella 1 confronta le caratteristiche delle diverse procedure/soluzioni (liquidazione volontaria, concordato, fallimento, ecc.) evidenziandone vantaggi, svantaggi e implicazioni fiscali/penali. La Tabella 2, invece, sintetizza per alcuni scenari tipici (come quelli degli esempi pratici) cosa accade in termini di conseguenze per soci e organi.
Tabella 1 – Confronto delle soluzioni per chiudere una S.r.l. indebitata
Procedura/Opzione | Vantaggi | Svantaggi | Implicazioni fiscali | Implicazioni penali |
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Liquidazione volontaria (ordinaria, extra-concorsuale) | – Procedura rapida e semplice, gestita privatamente dai soci.– Costi contenuti, nessun intervento del tribunale.– I soci mantengono il controllo tramite il liquidatore scelto da loro. | – Non risolve l’insolvenza: i debiti non pagati restano e verranno richiesti a soci/liquidatore.– Rischio di iniziative postume (creditori possono chiedere fallimento entro 1 anno).– Nessuna “liberatoria” formale per debiti: rimane incertezza su esiti futuri (contenziosi con creditori). | – Debiti tributari eventualmente rimasti insoluti saranno azionati verso soci/liquidatore.– Nessuna riduzione automatica del debito: il Fisco può pretendere l’intero importo (salvo eventuali adesioni a rottamazioni o accordi fatti prima).– La società è considerata “viva” per il Fisco per 5 anni: possibili atti a nome società in quel periodo. | – Nessuna valutazione giudiziale della condotta: se però vi sono state irregolarità, i rischi penali rimangono (p.es. omessi versamenti sopra soglia).– Possibile denuncia per bancarotta solo se poi segue un fallimento postumo; altrimenti, no procedura = no bancarotta. |
Concordato preventivo (piano di ristrutturazione o liquidatorio con omologa tribunale) | – Consente di ristrutturare o liquidare con accordo formale: i debiti vengono ridotti e cristallizzati nel piano omologato.– I creditori (incluso Fisco) sono vincolati all’esito: i debiti falcidiati non possono più essere richiesti oltre il piano.– Evita il fallimento e relative conseguenze (stigma, azioni di responsabilità estese).– Possibilità di continuare l’attività (concordato in continuità) salvando l’azienda. | – Procedura complessa e costosa: richiede proposta seria, spese di giustizia, commissario, votazioni.– Tempi medio-lunghi (mesi o anni per completare).– Necessita l’approvazione delle maggioranze di creditori (o determinate condizioni per cram-down); rischio di non omologa se il piano non è convincente.– Richiede in genere un apporto di risorse (finanza esterna o liquidazione di asset) per essere fattibile. | – Transazione fiscale possibile: permette pagamento parziale di tributi con stralcio di sanzioni/interessi con approvazione tribunale.– Il Fisco partecipa come creditore e ottiene almeno quanto avrebbe in fallimento (principio di miglior soddisfazione).– Una volta omologato, il debito fiscale residuo è scaricato (non potrà più essere preteso da soci).– Durante la procedura, sospensione di cartelle/esecuzioni. | – Finché è in corso, l’azienda è protetta: gli amministratori restano in carica (salvo casi di abuso) ma affiancati da un commissario.– Se il piano prevede continuità, di solito viene concessa esenzione da responsabilità penali per atti autorizzati dal giudice (es. pagamento di nuovi debiti in prededuzione).– L’omologa del concordato esclude la bancarotta (la società non fallisce).– I reati tributari pregressi (omessi versamenti) non sono automaticamente esenti, ma spesso l’omologa arriva dopo che gli amministratori hanno regolarizzato o comunque il concordato può prevedere il pagamento parziale che forse evita la punibilità (ci sono discussioni in merito). |
Accordo di ristrutturazione (omologato) | – Riservatezza: negoziazione privata con creditori, si formalizza solo a consenso raggiunto (meno pubblicità di un concordato).– Processo più snello in tribunale (omologa senza voto assembleare generale, basta percentuale adesione 60%).– Flessibilità: si può disegnare l’accordo su misura con i principali creditori. | – I creditori non aderenti non sono vincolati (se minoranza irrilevante, poco male, altrimenti serve estensione giudiziale in pochi casi specifici).– Richiede comunque un’adesione significativa (almeno 60% dei crediti) e l’accordo del Fisco se si vogliono ridurre i suoi crediti (transazione fiscale analoga al concordato).< | Procedura/Opzione | Vantaggi |
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Liquidazione volontaria (ordinaria) | – Procedura rapida e semplice, gestita privatamente dai soci, senza intervento del tribunale.– Costi contenuti e controllo mantenuto dai soci tramite il liquidatore di loro nomina.– Può approfittare di strumenti deflattivi (rateazioni, rottamazioni) prima della chiusura. | – Non risolve l’insolvenza: i debiti non pagati restano e saranno richiesti a soci/liquidatore ex post.– Rischio di iniziative postume: un creditore può chiedere il fallimento entro 1 anno dalla cancellazione se la società era insolvente.– Nessuna liberatoria formale dei debiti: rimane incertezza su possibili pretese future dei creditori insoddisfatti. | – Debiti tributari insoluti trasferiti su soci/liquidatore (soci solo fino a concorrenza attivo ricevuto).– Nessuno stralcio automatico: il Fisco può esigere l’intero importo (salvo riduzioni ottenute con rottamazioni o transazioni prima della chiusura).– La società è considerata “viva” dal Fisco per 5 anni dopo la cancellazione: atti impositivi possono ancora essere notificati durante questo periodo. | – Nessuna pronuncia giudiziaria sulla condotta: se però vi sono state irregolarità (es. distrazione di beni), gli organi sociali restano perseguibili.– Reati tributari: l’eventuale omesso versamento IVA/ritenute sopra soglia è già consumato e l’azione penale prosegue a carico degli amministratori (la liquidazione non lo impedisce).– Bancarotta: senza procedura concorsuale non c’è bancarotta; tuttavia, se interviene fallimento postumo, gli atti di liquidazione verranno scrutinati (possibili bancarotte preferenziali se pagamenti anomali). |
Concordato preventivo (piano con omologa tribunale) | – Consente di ristrutturare o liquidare l’azienda con un accordo vincolante per tutti i creditori omologato dal tribunale.– Possibilità di stralciare parte dei debiti (anche tributari) se i creditori approvano o con cram-down giudiziale.– Evita la dichiarazione di fallimento, mantenendo maggiore controllo agli organi (sotto vigilanza del commissario) e salvaguardando l’avviamento (specie in caso di concordato in continuità).– Al termine, la società esce dalla procedura liberata dai debiti secondo il piano (i creditori non possono pretendere oltre). | – Procedura complessa e costosa: richiede un piano dettagliato, professionisti (advisor, attestatore) e paga spese di procedura.– Tempistiche medio-lunghe e risultato incerto: serve il voto favorevole delle maggioranze di creditori (o almeno nessuna opposizione se si chiede cram-down per il Fisco).– Necessita spesso di risorse aggiuntive (finanza esterna o sacrifici dei soci) per raggiungere una soglia di soddisfazione creditori.– Sottopone la società a controllo giudiziale: limitazioni nella gestione durante la procedura, con atti autorizzati dal giudice. | – Transazione fiscale prevista: si può proporre pagamento parziale di imposte e contributi, con stralcio di sanzioni/interessi, soggetto ad accettazione (o cram-down).– Se il concordato è omologato, il debito fiscale residuo viene cancellato secondo il piano (il Fisco non potrà più chiederlo a soci o altri).– Durante la procedura, i debiti fiscali anteriori sono congelati: niente nuove azioni esecutive né interessi moratori (salvo pagamenti eventualmente previsti dal piano).– Spesso il piano prevede classi: il Fisco può essere soddisfatto in percentuale, ma almeno quanto riceverebbe in liquidazione fallimentare (principio di trattamento non deteriore). | – Gli amministratori conservano la gestione in continuità (se concordato in continuità) ma sotto supervisione: riduce il rischio di atti distrattivi nel frattempo, quindi può tutelarli da future accuse di bancarotta.– Con l’omologa, la società evita il fallimento, quindi gli organi sfuggono ai reati di bancarotta (nessun fallimento, nessuna bancarotta).– Reati tributari pregressi (omessi versamenti): la legge di riforma 2024 ha introdotto cause di non punibilità se il debito è pagato secondo il piano di concordato omologato (favorendo la regolarizzazione).– In caso di concordato liquidatorio, gli atti dispositivi avvengono sotto controllo del giudice, riducendo il rischio che vengano poi contestati come illeciti. |
Accordo di ristrutturazione (omologato) / piano attestato (stragiudiziale) | – Flessibilità negoziale: l’azienda tratta direttamente con i creditori chiave le nuove scadenze e riduzioni.– Meno pubblicità negativa: nel piano attestato non interviene il tribunale affatto; nell’accordo ex art. 57 CCII si chiede solo omologa finale, senza assemblee dei creditori.– Tempi potenzialmente rapidi se c’è intesa. L’accordo omologato vincola anche i creditori dissenzienti se si raggiungono le percentuali di legge (almeno 60%).– Possibilità di ottenere finanziamenti interinali e protezione limitata (stay) su istanza, senza entrare in procedura completa. | – Non coinvolge tutti i creditori automaticamente: occorre il consenso individuale (piano attestato) o di una maggioranza qualificata (accordo omologato) dei creditori, incluso il Fisco per la parte tributaria (transazione fiscale necessaria se si vuole falcidiare imposte).– I creditori non aderenti rimangono liberi di agire (nel piano attestato) e possono pregiudicare il risanamento; nell’accordo omologato i non aderenti possono essere esclusi solo in casi specifici (categorie omogenee con elevata adesione).– Non offre la stessa “pulizia” del concordato: un piano attestato non omologa nulla, quindi i creditori aderenti sono vincolati per contratto ma gli altri no. L’accordo omologato li vincola per legge, ma serve comunque alta adesione. | – Transazione fiscale possibile anche nell’accordo ex 57 CCII: se l’Erario aderisce, i debiti fiscali si riducono come da accordo e l’omologa lo rende vincolante.– Nel piano attestato, il Fisco di solito va pagato integralmente (per convincerlo ad astenersi da azioni) oppure bisogna comunque trattare una rateazione: non c’è imposizione giudiziale, quindi il Fisco può scegliere di non aderire.– Se l’accordo è omologato, i termini fiscali vengono ridefiniti secondo l’accordo (ad es. nuovo piano rate), e i soci poi non avranno ulteriori obblighi se rispettato.– Entrambi gli strumenti evitano il fallimento, quindi i debiti residui fuori accordo rimangono eventualmente azionabili verso i soci (ma l’obiettivo è di non averne residui significativi se l’accordo è totale). | – Nessuna procedura concorsuale aperta: questo evita l’insorgere di reati di bancarotta.– Gli atti compiuti in esecuzione di un piano attestato di risanamento sono protetti da azioni revocatorie e in parte da censure penali (difficile accusare di bancarotta atti fatti in base a un piano attestato approvato da un esperto).– Se l’accordo di ristrutturazione fallisce poi e si va a fallimento, i pagamenti fatti secondo l’accordo omologato non sono revocabili; penalmente, però, eventuali omissioni fiscali non sanate rimangono perseguibili. In generale, dimostrare di aver tentato un accordo potrebbe essere visto a favore dell’organo come buona fede.– Conclusione: strumenti utili a evitare condotte distrattive, ma se non risolvono la crisi e segue fallimento, gli amministratori saranno giudicati per il dissesto comunque (anche se aver coinvolto un attestatore/esperto può attenuare imputazioni di dolo). |
Composizione negoziata della crisi (DL 118/2021 e CCII) | – Approccio tempestivo e assistito alla crisi: un esperto indipendente aiuta a trovare una soluzione prima che l’insolvenza degeneri.– Misure protettive attivabili (blocco delle azioni esecutive) per dare respiro durante le trattative.– Possibilità di ottenere finanziamenti prededucibili autorizzati dal tribunale per sostenere l’azienda in crisi.– Se le trattative riescono, si può concludere con un accordo o un concordato “semplificato” liquidatorio senza voto dei creditori.– Costi relativamente bassi rispetto a un concordato ordinario, e nessuno stigma (è riservata nella fase iniziale). | – Strumento volontario: l’esito dipende dalla collaborazione dei creditori; non garantisce un accordo finale vincolante se non si sfocia in una procedura formale (accordo omologato o concordato).– Richiede di esporsi precocemente: gli amministratori devono ammettere la crisi e impegnarsi, cosa non sempre gradita ai soci o al mercato (anche se inizialmente riservato, poi l’esistenza di misure protettive diviene pubblica).– Se la composizione negoziata fallisce, si è perso tempo (anche se poi c’è la via del concordato semplificato, ma solo liquidatorio e con soddisfazione minima creditori). | – Durante la composizione negoziata, il Fisco può sospendere azioni e valutare proposte di ristrutturazione del debito (es. potrebbe concedere dilazioni o aderire a una transazione fiscale nel concordato che eventualmente segue).– Non c’è una riduzione automatica dei debiti: è una trattativa. Però, se si arriva a un concordato semplificato, i debiti fiscali possono essere falcidiati in sede di omologa (con parere del commissario giudiziale anziché voto creditori).– Se invece la composizione produce un contratto stragiudiziale, vale quanto detto per accordi: il Fisco deve aver aderito per la parte di sua competenza. | – L’avvio della composizione negoziata di per sé non attiva reati né configura insolvenza (non è una procedura concorsuale dichiarativa). Anzi, mostra diligenza degli amministratori nell’affrontare la crisi, il che può proteggerli da accuse di tardivo intervento.– Eventuali finanziamenti nuovi ottenuti con autorizzazione godono di esenzioni da responsabilità (chi li eroga e gli amministratori che li richiedono non verranno accusati di preferenze se autorizzati dall’esperto/giudice).– Se la composizione fallisce e si passa a un concordato semplificato, gli amministratori evitano comunque il fallimento e le relative sanzioni, ma dovranno sottostare alla liquidazione guidata dal tribunale (perdono il controllo sulla liquidazione, seppur con meno oneri rispetto a un fallimento).– In generale, la composizione negoziata è pensata anche per prevenire condotte penalmente rilevanti, spingendo a soluzioni ordinate prima che illeciti come la bancarotta possano verificarsi (o per evitare che omissioni di versamenti continuino). |
Liquidazione giudiziale (Fallimento) | – È la via coattiva e ordinata all’insolvenza: i beni vengono liquidati da un curatore nell’interesse paritario di tutti i creditori.– Possibilità di esercitare azioni che la società in bonis non farebbe: revocatorie di pagamenti preferenziali, azioni di responsabilità contro amministratori, ecc., recuperando attivo a beneficio dei creditori (compreso il Fisco).– I creditori ottengono una soluzione trasparente: ripartizione proporzionale dell’attivo e accertamento delle cause del dissesto.– Per i soci non vi sono contributi ulteriori da versare (a meno che il curatore li citi in responsabilità come amministratori di fatto o simili); essi subiscono la perdita del capitale e basta. | – Procedura lunga, costosa e dall’esito spesso modesto per i chirografari (può durare anni e distribuire percentuali basse).– Gli organi sociali perdono subito la gestione: gli amministratori decadono in favore del curatore, i soci non hanno più alcun controllo.– Forte impatto reputazionale negativo: la parola “fallimento” (liquidazione giudiziale) implica pubblicità legale e stigmatizzazione, potendo pregiudicare future attività dei soci o amministratori (esclusione da incarichi, difficoltà di credito personale).– Impone agli amministratori di cooperare con il curatore, consegnare documenti, ecc., sotto pena di sanzioni. | – Il Fisco partecipa al concorso come creditore: i debiti tributari vengono accertati nello stato passivo e soddisfatti in base ai privilegi (di solito parzialmente).– Le parti di debito fiscale non pagate alla chiusura fallimento restano inesigibili verso la società (che cessa di esistere), ma in teoria l’Agenzia Entrate potrebbe ancora tentare azione verso i soci per la quota di attivo percepito… in pratica, però, i soci non ricevono nulla da un fallimento, quindi quell’azione ex 2495 c.c. diventa priva di oggetto.– L’Erario beneficia del lavoro del curatore: ad esempio, se il curatore recupera attivo insperato (revocando pagamenti ai soci o scoprendo beni occultati), aumenta la percentuale di realizzo anche per il Fisco.– Il fallimento cristallizza i debiti: dal fallimento in poi niente interessi o sanzioni ulteriori, e la pretesa fiscale deve adeguarsi alle regole concorsuali (può perdere rango per interessi, ecc.). | – Apertura della liquidazione giudiziale = bancarotta potenziale: gli amministratori e il liquidatore precedente verranno scrutinati per verificare se hanno commesso atti di bancarotta (fraudolenta o semplice). Ciò espone a seri rischi penali in caso di irregolarità (es. aver pagato alcuni creditori e non il Fisco = bancarotta preferenziale; aver distratto beni = bancarotta fraudolenta).– Anche senza dolo, l’amministratore può incorrere in bancarotta semplice per imprudenza o negligenza grave nella gestione che ha aggravato il dissesto.– Reati tributari: il fallimento non estingue l’azione penale per gli omessi versamenti o frodi fiscali pregresse; anzi, spesso l’apertura del fallimento porta alla scoperta di tali reati e a denunce da parte del curatore o del PM.– I soci in sé non rispondono di reati fallimentari (salvo fossero amministratori di fatto), ma un socio che abbia prelevato fondi può essere coinvolto come beneficiario di bancarotta fraudolenta (se sapeva del dissesto).– In sintesi, il fallimento massimizza il rischio penale per chi ha gestito la società, perché mette tutto sotto la lente di ingrandimento di curatore e magistratura fallimentare. |
Tabella 2 – Conseguenze per soci, liquidatori e amministratori in diversi scenari pratici
Scenario | Situazione attivo/passivo | Esito per i debiti tributari | Conseguenze per soci | Conseguenze per liquidatori/amministratori |
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Liquidazione solvente(attivo sufficiente a pagare tutti i debiti, Fisco incluso) | – L’attivo realizzato copre interamente i debiti tributari e gli altri debiti.– Viene distribuito ai soci solo l’eventuale residuo dopo aver soddisfatto tutti i creditori. | – I debiti fiscali vengono pagati integralmente durante la liquidazione.– La società si cancella senza debiti pendenti verso l’Erario (eventualmente con somme versate a saldo di imposte finali di liquidazione). | – I soci ricevono l’eventuale attivo residuo (dividendo di liquidazione).– Nessuna azione di responsabilità può colpirli, poiché non vi sono creditori insoddisfatti.– Dovranno solo assolvere eventuali imposte personali sui beni ricevuti (es. tassazione dividendi di liquidazione, se applicabile). | – Liquidatore: adempie correttamente ai suoi doveri, nessuna responsabilità civile (ha pagato tutti).– Amministratori: nessuna azione dai creditori (debiti pagati). Possibile responsabilità solo se emersero illeciti precedenti non legati a debiti (es. reati fiscali già compiuti).– Penale: nessun reato di omesso versamento, avendo pagato il dovuto; eventuali violazioni pregresse (es. dichiarazioni mendaci) restano perseguibili ma meno probabili perché la società ha collaborato pagando. |
Liquidazione incapiente(attivo nullo o insufficiente, società insolvente ma chiusa senza fallimento) | – Attivo nullo o molto inferiore al passivo.– Liquidazione conclusa senza soddisfare integralmente i creditori; in particolare Fisco non pagato (o pagato solo in minima parte).– Società cancellata d’ufficio dai liquidatori al termine. | – Il debito tributario rimane insoluto (in tutto o in parte).– L’Erario attiverà gli strumenti di recupero post-chiusura: notifica avvisi a nome società (entro 5 anni) e poi cartelle ai soci nei limiti di loro responsabilità. Eventuali importi non recuperabili dai soci rimangono inesigibili (salvo riaprire fallimento entro 1 anno). | – Se non hanno ricevuto alcun riparto, i soci non pagheranno nulla di tasca propria (responsabilità limitata).– Dovranno però probabilmente difendersi da eventuali atti dell’AdE: es. impugnare un avviso di accertamento sostenendo di non aver percepito somme, o opporsi a cartella esattoriale intestata a loro.– Dopo 5 anni dalla cancellazione, se il Fisco non ha atti esecutivi definitivi contro di loro, potranno considerarsi al sicuro.– Patrimonio personale intatto, salvo fossero garanti per quei debiti (ma qui parliamo di responsabilità legale come soci). | – Liquidatore: se ha gestito correttamente (nessun attivo da distribuire, ha informato i creditori), di norma non risponde civilmente perché il mancato pagamento non è dipeso da colpa sua. Se invece ha commesso errori (es. non ha segnalato lo stato di insolvenza, ha tardato la liquidazione aggravando i debiti), potrebbe teoricamente essere citato per danni, ma è raro a società chiusa.– Amministratori: possono essere soggetti ad azioni di responsabilità da parte dei creditori per aver aggravato la situazione (ad esempio, se hanno proseguito l’attività causando l’insolvenza). Tali azioni però richiedono il fallimento (azione del curatore) o iniziative individuali difficili (art. 2394 c.c.).– Penale: alto rischio per reati tributari (omessi versamenti): se la società ha lasciato imposte non versate sopra soglia, l’amministratore risponde (la chiusura non lo salva). Egli dovrà affrontare il processo, a meno che non saldi il debito nelle more (ma è liquidata proprio perché non poteva).– Possibile anche bancarotta fraudolenta impropria se si scoprono atti distrattivi prima della cancellazione: ma serve un fallimento per procedere su bancarotta, altrimenti questi illeciti potrebbero essere perseguiti come sottrazione fraudolenta al pagamento imposte (reato fiscale) se riguardano il Fisco. |
Liquidazione con attivo vincolato ai creditori garantiti(es. beni ipotecati che soddisfano la banca, lasciando tributi scoperti) | – L’unico o principale asset è assorbito da creditori privilegiati/garantiti (es. banca con ipoteca su immobile).– Dopo aver pagato i garantiti, resta poco/nulla per gli altri creditori (Fisco e chirografari rimasti in gran parte insoddisfatti). | – Il Fisco viene pagato solo se rimane qualcosa dopo i garantiti. Spesso recupera parzialmente o nulla.– Debito fiscale residuo quindi insoluto, con stesse dinamiche del caso precedente: azioni verso soci entro i limiti, ecc.– L’Agenzia potrà anche valutare azioni (es. insinuarsi se fallimento, o aggredire eventuali garanzie personali dei soci se esistenti, ma al di là dello scenario societario). | – Analogamente al caso di liquidazione incapiente: se i soci non hanno ottenuto nulla, non dovranno pagare nulla (limite ex art. 2495 c.c.).– Se inopinatamente i soci avessero preso qualcosa (evento raro, perché i garantiti avrebbero priorità su tutto l’attivo), potrebbero doverlo restituire ai creditori insoddisfatti. Ma di solito in questo scenario i soci escono a mani vuote.– I soci potrebbero vedere un creditore insoddisfatto (es. il Fisco) tentare di farli dichiarare falliti personalmente come soci illimitatamente responsabili: ciò non è applicabile alle S.r.l., dunque i soci rimangono protetti. | – Liquidatore: se ha rispettato le prelazioni (pagato prima la banca ipotecaria, poi destinato l’eventuale eccedenza al Fisco prima dei chirografari), ha agito secondo legge e non è responsabile per i debiti rimasti. Non poteva creare attivo dove non c’era.– Amministratori: scenario tipico di sovraindebitamento con banca garantita. Se hanno concesso garanzie e concentrato il rischio su un creditore, di solito non c’è profilo di illecito civile. Potrebbero rispondere solo se l’indebitamento verso il Fisco è frutto di loro inadempimenti colpevoli (non versamenti fatti preferendo pagare la banca? Ma pagare la banca garantita non era a loro discrezione, era un obbligo contrattuale).– Penale: simile al caso di liquidazione incapiente. L’unica differenza è che essendoci la banca, è probabile che l’insolvenza fosse grave e prolungata, quindi maggiore probabilità di bancarotta se la banca o il Fisco spingono per fallimento. In fallimento, il liquidatore potrebbe essere accusato di aver favorito la banca (bancarotta preferenziale) anche se in realtà seguiva il diritto di prelazione; però, se ha venduto l’immobile senza passare per procedura concorsuale, alcuni creditori potrebbero sollevare obiezioni. In generale, non ci sono reati aggiuntivi rispetto al caso precedente: l’amministratore affronta reati tributari per le imposte non versate, ed eventuali reati fallimentari se la vicenda sfocia in fallimento (ma pagare un creditore garantito non è reato, è normale; diverrebbe reato solo se contestato come lesivo di altri creditori in sede fallimentare, ipotesi remota poiché l’ipoteca dà diritto di prelazione legittima). |
Concordato preventivo omologato(liquidatorio o in continuità, con falcidia di debiti) | – L’impresa, pur indebitata, esegue un piano concordatario.– I creditori (Fisco incluso) ottengono una soddisfazione parziale secondo piano, e la restante parte del debito è esdebitata. | – I debiti tributari sono pagati nella percentuale approvata nel concordato (es. 40%) e la parte residua è remissa: l’Erario non potrà più pretenderla.– Eventuali sanzioni tributarie possono essere annullate totalmente nel concordato (spesso si propone di pagare solo imposte e interessi legali).– L’Agenzia delle Entrate viene trattata eventualmente in classe separata, ma comunque vincolata dall’omologazione (anche se aveva votato contro, se c’è cram-down). | – I soci mantengono la quota di proprietà dell’azienda (se in continuità) ma di solito non ricevono nulla durante il concordato (no distribuzioni finché creditori non soddisfatti).– A fine concordato, se l’azienda prosegue ed è risanata, i soci beneficiano della continuazione dell’impresa con debiti ridotti. Se il concordato è liquidatorio, la società di solito viene comunque estinta alla fine, ma senza strascichi: i soci non avranno esborsi né conguagli da pagare.– Non vi sono azioni ex art. 2495 c.c. perché per definizione tutti i crediti sono stati regolati nel concordato (nessun creditore insoddisfatto al di fuori del piano). | – Amministratori: se il concordato è in continuità, spesso restano alla guida sotto vigilanza e se portano a termine il piano con successo, la loro gestione viene di fatto “promossa” dall’esito. Non subiranno azioni di responsabilità perché il problema debiti è risolto.– Liquidatore (nel caso di concordato liquidatorio): agisce come liquidatore giudiziale attuando il piano, ma con controllo del tribunale. A esito positivo, ha assolto i suoi compiti regolarmente.– Penale: l’omologazione del concordato non cancella eventuali reati tributari già perfezionati, ma la prassi vede spesso una maggiore benevolenza: se il piano concordatario prevede il pagamento (anche parziale) dell’IVA omessa, ciò può essere valutato come ravvedimento operoso in extremis. La riforma penale 2024 esclude la punibilità per omessi versamenti se il debito è estinto secondo un piano concordatario omologato e adempiuto (introducendo una causa di non punibilità condizionata all’esecuzione del concordato).– In ogni caso, niente bancarotta (niente fallimento dichiarato) e improbabile contestazione di reati come bancarotta fraudolenta, poiché il percorso concordatario implica trasparenza e controllo. I reati eventualmente contestabili rimangono quelli anteriori (es. false comunicazioni sociali se emerse, ma è al di fuori dell’insolvenza in sé). |
Fallimento (Liquidazione Giudiziale)(società dichiarata fallita con patrimonio insufficiente) | – L’azienda è insolvente e il tribunale ne dichiara la liquidazione giudiziale.– Viene nominato un curatore, che liquida i beni; i creditori vengono parzialmente soddisfatti secondo graduatorie. | – I debiti tributari vengono accertati nel fallimento come crediti insinuati: l’Erario partecipa al riparto e prende la percentuale di realizzo spettante (ad es. incassa il 10% del suo credito, se quello è il dividendo fallimentare per chirografari, più l’eventuale 100% sulla parte privilegiata).– La parte di debito fiscale non pagata rimane priva di soddisfazione, ma con la chiusura del fallimento la società è estinta e il credito fiscale diventa irrecuperabile (in pratica il Fisco “subisce” la perdita per la quota insoluta).– I soci non subiscono richieste per i debiti fiscali perché la Cassazione vede il fallimento come satisfattivo e comunque i soci in un fallimento tipicamente non percepiscono nulla (quindi non c’è attivo distribuito su cui agire). | – I soci perdono la loro partecipazione (l’azienda finisce). Di solito non ricevono nulla, quindi come in altri scenari non devono pagare nulla dopo (e nel fallimento di capitali i soci non sono coinvolti se non volontariamente in ripianamenti).– Potrebbero subire effetti indiretti: ad esempio, se fossero fideiussori per debiti fiscali o bancari, la loro garanzia viene escussa (ma questo esula dalla posizione di socio come tale).– Il fallimento comporta restrizioni sui soci solo se erano anche amministratori (es.: divieto di ricoprire cariche se condannati per bancarotta, etc.). | – Amministratori: sono immediatamente esautorati; il curatore e il tribunale esamineranno la loro gestione. Se rilevate irregolarità, il curatore avvierà azioni di responsabilità e segnalerà fatti penalmente rilevanti.– Liquidatore (se c’era prima del fallimento): anche la sua opera verrà scrutinata; rischia azioni se ha favorito taluni creditori o aggravato il dissesto.– Penale: molto probabile avvio di procedimenti penali per bancarotta. In un fallimento con debiti fiscali insoluti, ipotesi frequenti: bancarotta semplice per omissioni o imprudenze (es. non aver tenuto contabilità), bancarotta fraudolenta per distrazione se mancano all’appello beni o valori, bancarotta preferenziale se prima del fallimento hanno pagato alcuni creditori (magari la banca ipotecaria oltre il lecito) a scapito di altri.– Inoltre, i reati tributari (es. omesso versamento IVA) saranno perseguiti indipendentemente e anzi il fallimento fornirà ulteriore prova (il debito accertato nel passivo, ecc.).– In sintesi, fallimento = massima esposizione per gli ex gestori: l’unico lato positivo è che la procedura fallimentare potrebbe dimostrare in giudizio che il mancato pagamento del Fisco era dovuto a reale mancanza di fondi, ma ciò rileva più come attenuante che come esimente. |
(Legenda: “Fisco” nelle tabelle indica l’Agenzia delle Entrate e/o l’Agente della Riscossione per tributi; “insinuarsi” significa presentare domanda di ammissione al passivo fallimentare; “cartella” indica la cartella esattoriale di pagamento.)
Fonti normative, dottrinali e giurisprudenziali
- Codice Civile: articoli 2484–2496 c.c. (scioglimento e liquidazione delle società di capitali, responsabilità post estinzione). In particolare art. 2495 c.c. sulla destinazione dei debiti insoddisfatti a soci e liquidatori.
- Testo Unico delle Imposte sui Redditi (TUIR): DPR 917/1986, art. 182 (disciplina fiscale delle società in liquidazione: imponibilità dei redditi di liquidazione, perdite riportabili).
- D.Lgs. 192/2024: (delega fiscale 2023) art. 18 – Riforma tassazione liquidazioni societarie dal 2025 (abolizione conguaglio finale e introduzione carry-back perdite entro 5 anni).
- DPR 600/1973: (accertamento imposte) disposizioni generali sui termini di accertamento; art. 36 (richiamo) per obblighi di dichiarazione del liquidatore; norme procedurali rilevanti in caso di società estinta (notifiche, ecc.).
- DPR 602/1973: (riscossione imposte) art. 36 (responsabilità di liquidatori, amministratori e soci per imposte non versate). Stabilisce che i liquidatori che distribuiscono attivo ai soci senza aver pagato le imposte sociali rispondono del debito tributario; i soci che hanno ricevuto nelle due annate precedenti alla liquidazione denaro o beni sociali rispondono fino a concorrenza di quanto ricevuto.
- D.Lgs. 175/2014: art. 28, co. 4 – Introduzione della “sopravvivenza fiscale quinquennale” delle società estinte: l’estinzione ha effetto differito di 5 anni ai soli fini tributari e contributivi.
- Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII): D.Lgs. 14/2019 (in vigore dal 2022) e successive modifiche (D.Lgs. 83/2022, D.Lgs. 136/2024). Rilevanti: art. 255 (azione di responsabilità del curatore contro amministratori), art. 25-sexies (concordato semplificato post composizione negoziata), disposizioni sui concordati preventivi (artt. 84 e segg.), sugli accordi di ristrutturazione (artt. 57–64), sul piano attestato (art. 56), e su doveri di segnalazione e intervento degli amministratori (artt. 3 e 24 CCII).
- Legge Fallimentare (R.D. 267/1942): rilevante per la disciplina dei reati fallimentari (titolo VI). Sebbene sostituita dal CCII per la parte procedurale, le norme penali del R.D. 267/42 restano in vigore (fino a eventuale riforma): art. 216 (bancarotta fraudolenta), art. 217 (bancarotta semplice), art. 218 (ricorso abusivo al credito), art. 223 (estensione ai direttori/sindaci).
- Legge 3/2012 sul sovraindebitamento (oggi integrata nel CCII come procedure di esdebitazione per soggetti non fallibili): non applicabile direttamente alle società di capitali, ma ai soci persone fisiche sovraindebitati che si trovino a dover pagare debiti erariali come coobbligati (in tal caso possono accedere a procedura di ristrutturazione dei debiti del consumatore).
- Decreto Legislativo 74/2000: normativa penale tributaria. Art. 10-bis (omesso versamento ritenute, soglia €150k), art. 10-ter (omesso versamento IVA, soglia €250k, modifiche D.Lgs. 87/2024), art. 10-quater (indebita compensazione crediti), art. 11 (sottrazione fraudolenta al pagamento imposte). Modificato dal D.Lgs. 14/06/2024 n. 87, che ha introdotto cause di non punibilità legate al pagamento del debito tributario e innalzato/ritoccato soglie.
- Codice Penale: art. 2621 c.c. (false comunicazioni sociali); art. 2625 (impedito controllo); art. 640 (truffa, per eventuali frodi ai creditori) ecc., in relazione a condotte antecedenti o concomitanti alla liquidazione.
- Giurisprudenza di legittimità – Cassazione Civile:
- Cass., Sez. Un. 4060 e 4061/2010: confermano effetto estintivo immediato della cancellazione della società, anche con debiti non pagati. Enunciano il principio che i creditori insoddisfatti possono agire contro soci e liquidatori ex art. 2495 c.c., superando precedenti dubbi.
- Cass., Sez. Un. 6070-6072/2013: definiscono la natura succedanea della posizione dei soci nei giudizi pendenti: i soci subentrano nei rapporti processuali della società estinta. Indicano che la ricezione di somme in liquidazione è sia limite quantitativo che condizione dell’azione del Fisco (anticipando concetti poi ripresi nel 2025).
- Cass., Sez. Un. 14201/2015: (non citata sopra ma rilevante in materia di rapporti processuali) afferma che l’estinzione della società comporta l’interruzione del processo e la necessaria riassunzione da/contro i soci.
- Cass., ord. 38130/2022: conferma l’operatività dell’art. 28 D.Lgs. 175/2014 per le società cancellate, ribadendo che entro 5 anni l’Amministrazione può notificare avvisi alla società e contestualmente agire contro i soci, anche se questi non hanno percepito nulla. Sottolinea che la fictio iuris non elimina il fenomeno successorio ex art. 2495 c.c., “quantomeno ai fini processuali”, per cui i soci sono parti del giudizio.
- Cass., ord. 20840/2023: ha ritenuto i soci di una S.r.l. a ristretta base responsabili dei debiti tributari anche se non hanno ricevuto utili formalmente, basandosi su presunzioni di utili occulti distribuiti. Ribalta quindi sul socio l’onere di provare di non aver beneficiato dell’evasione.
- Cass., ord. 25108/2023: “consolida” il principio che ex art. 2495 c.c. i soci rispondono dei debiti sociali entro quanto percepito e che la mancata distribuzione di utili non esclude l’azione del Fisco. Stabilisce che l’assenza di somme incassate va eccepita in sede di riscossione e non rende invalido l’accertamento (il socio non può far annullare l’avviso solo dicendo “non ho preso utili”).
- Cass., ord. 24316/2023: afferma che le sanzioni tributarie non si trasmettono né ai soci né al liquidatore, richiamando il principio di personalità della sanzione (art. 7 DL 269/2003).
- Cass., ord. 26184/2024: definisce l’estinzione della società un “fenomeno successorio sui generis” dove i debiti dell’ente costituiscono il presupposto della responsabilità del socio, pur senza necessità di riparto finale. Riconosce comunque che il socio ha diritto di provare di non aver ricevuto beni, liberandosi così dall’obbligo. In pratica: soci comunque successori, ma con facoltà di eccepire la mancata percezione di attivo.
- Cass., Sez. Unite, 3625/2025 (12/02/2025): pronuncia fondamentale che mette ordine sulla responsabilità degli ex soci per debiti fiscali della società estinta. Principi di diritto stabiliti: (a) gli ex soci non sono responsabili in modo automatico e illimitato di tutti i debiti sociali, ma solo entro l’attivo di liquidazione percepito; (b) il Fisco può notificare atti anche in mancanza di certezza sull’attivo percepito dai soci (per prevenire decadenze), ma l’effettiva esigibilità verso ciascun socio richiede la prova che egli abbia incassato somme; (c) è necessario un atto impositivo ad personam per ciascun socio, non bastando coinvolgerli nel procedimento originario della società; (d) la responsabilità dei soci ha natura civilistica ex lege, non è un’obbligazione tributaria in senso tecnico, ed è subordinata alla violazione di doveri di corretta liquidazione da parte degli organi (vengono citati art. 1176 e 1218 c.c. e art. 36 DPR 602); (e) sulla questione sanzioni, le SU 2025 non si pronunciano definitivamente (lasciando in essere il contrasto 2023-2024). Questa sentenza delle Sez. Unite conferma quindi l’orientamento intermedio, tutelando i soci “innocenti” (che non hanno ricevuto nulla) e ribadendo l’onere del Fisco di dimostrare l’eventuale attivo percepito dal socio.
- Giurisprudenza di merito e dottrina:
- Commissione Tributaria Regionale Toscana, sent. 818/2021 (cit. in dottrina): aveva escluso la responsabilità di soci che non avevano percepito somme, ritenendo la distribuzione condizione necessaria (conforme poi a Cass. SU 2025).
- Corte Costituzionale n. 142/2020: ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 28 co.4 D.Lgs. 175/2014 (sopravvivenza fiscale 5 anni), ritenendo la norma non irragionevole.
- Cass. Penale n. 39765/2018: (es.) conferma che per il reato di omesso versamento IVA la soglia di punibilità e il termine di consumazione (scadenza 27 dicembre anno successivo) restano fermi anche se la società si scioglie; l’obbligo penale grava sull’amministratore pro-tempore.
- Documenti di prassi: Circolare AE n. 8/E 2014 – linee guida su art. 28 D.Lgs. 175/2014; Risoluzione AE n. 77/E 2011 – chiarimenti su notifica atti a società estinte; Relazione illustrativa al D.Lgs. 14/2019 – sul trattamento dei crediti tributari nelle procedure concorsuali del nuovo Codice della Crisi.
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