Come Impugnare L’Avviso Di Accertamento Presso La Corte Di Giustizia Tributaria?

Hai ricevuto un avviso di accertamento dall’Agenzia delle Entrate e non sei d’accordo con quanto richiesto?

Questa guida dello Studio Monardo – avvocati esperti in ricorsi contro accertamenti fiscali – è pensata per aiutarti a reagire nel modo giusto e nei tempi previsti dalla legge.

Scopri quando e come impugnare un avviso di accertamento, quali sono le scadenze da rispettare, i documenti necessari, le possibilità di sospendere l’efficacia dell’atto e quali errori evitare per non compromettere la tua difesa.

Alla fine della guida troverai tutti i contatti per richiedere una consulenza riservata, esaminare il tuo caso con un professionista e costruire una strategia legale solida per annullare o ridurre le pretese del Fisco.

Guida Pratica Di Studio Monardo per Impugnare un Avviso di Accertamento

Introduzione

Impugnare un avviso di accertamento significa contestare formalmente una pretesa tributaria avanzata dall’Amministrazione finanziaria dinanzi alla Corte di Giustizia Tributaria. Si tratta di un procedimento complesso ma disciplinato in modo dettagliato dalla legge, in particolare dal D.Lgs. 546/1992 (il “codice” del processo tributario) e dalle norme tributarie sostanziali. Questa guida pratica – aggiornata a maggio 2025 – fornisce un percorso operativo completo su come agire contro un avviso di accertamento, sia per persone fisiche che per imprese, affrontando tutte le fasi: dalla notifica dell’atto impositivo fino alla decisione del giudice tributario.

Cos’è un avviso di accertamento? È l’atto con cui l’ente impositore (ad esempio l’Agenzia delle Entrate o un ente locale) contesta al contribuente un maggior tributo o sanzioni, definendo una pretesa tributaria precisa. L’avviso di accertamento viene notificato al contribuente e diventa impugnabile (contestabile) immediatamente al momento della notifica. Se il contribuente non reagisce entro i termini di legge, l’atto diventa definitivo e le somme indicate saranno dovute. Impugnare l’avviso è quindi essenziale per far valere le proprie ragioni e ottenere l’annullamento o la riduzione della pretesa fiscale.

Negli ultimi anni il processo tributario ha subito importanti riforme, mirate a rafforzare le garanzie del contribuente e l’efficienza della giustizia tributaria. Con la Legge n. 130/2022, in vigore dal 16 settembre 2022, è stata varata una riforma organica della giustizia tributaria. Questa riforma ha introdotto:

  • La nuova denominazione degli organi giudicanti (le Commissioni Tributarie Provinciali e Regionali sono ora denominate Corti di Giustizia Tributaria di primo e secondo grado).
  • Novità nelle regole processuali, ad esempio sull’onere della prova e l’ammissione della prova testimoniale scritta.
  • L’istituzione del giudice monocratico per le liti minori (valore fino a €3.000, esclusi valori indeterminabili) in primo grado.
  • Modifiche ai tempi e alle modalità di decisione (ad esempio termini più rapidi per le istanze di sospensione e innovazioni nelle udienze anche da remoto, come vedremo).
  • Importanti cambiamenti nelle fasi pre-contenziose: dal 2024 l’istituto del reclamo-mediazione non è più obbligatorio.

Questa guida fornirà un quadro dettagliato di tutti questi aspetti. Inizieremo illustrando le tipologie di avvisi di accertamento esistenti e le relative peculiarità, per poi passare alle fasi del procedimento: la notifica dell’atto, i termini per presentare ricorso, la redazione del ricorso e gli strumenti deflattivi (soluzioni alternative alla lite come autotutela, accertamento con adesione, ecc.), il deposito del ricorso presso la Corte di Giustizia Tributaria competente, la fase del giudizio (costituzione delle parti, udienza, decisione) e gli eventuali gradi successivi di giudizio (appello e Cassazione). Troverete inoltre sezioni dedicate alle FAQ – le domande frequenti – e utili tabelle riepilogative (termini, competenza, costi, giurisprudenza rilevante).

Tutti i riferimenti normativi e giurisprudenziali citati sono aggiornati al maggio 2025, includendo le più recenti modifiche legislative (fino ai decreti attuativi della Delega Fiscale 2023) e le pronunce giurisprudenziali di maggior rilievo, così da offrire uno strumento affidabile e completo per orientarsi nel contenzioso tributario contemporaneo.

Tipologie di Avvisi di Accertamento e Peculiarità

Non tutti gli avvisi di accertamento sono uguali: la legge prevede diverse tipologie di accertamento tributario, che differiscono per presupposti, metodologia di calcolo del reddito/tax base e ambito di applicazione. Conoscerne le caratteristiche è utile perché può influenzare le strategie difensive e gli argomenti da far valere nel ricorso. Di seguito elenchiamo i principali tipi di avviso di accertamento:

  • Avviso di accertamento “analitico” (o analitico-contabile) – È l’accertamento basato sull’analisi dettagliata delle dichiarazioni e scritture contabili del contribuente. L’ufficio rettifica specifici elementi (ricavi, costi, deduzioni, ecc.) contestando errori o violazioni. Ad esempio, l’Agenzia può riprendere a tassazione costi ritenuti indebiti o ricavi non dichiarati ma risultanti da documenti. In questo tipo di accertamento, l’onere della prova delle maggiori imposte è in capo all’Amministrazione, che deve dimostrare in giudizio le inesattezze riscontrate. Il contribuente, dal canto suo, deve provare eventuali circostanze esimenti o giustificative (es. che un reddito “non dichiarato” era in realtà già stato tassato altrove).
  • Avviso di accertamento “analitico-induttivo” – Si ha quando l’ufficio finanziario, pur partendo dalle risultanze contabili del contribuente, utilizza anche presunzioni e dati indiziari per ricostruire il reddito. È tipico quando le scritture non sono del tutto attendibili o presentano irregolarità: ad esempio, se vengono riscontrate incongruenze, l’ente può estimare indirettamente alcuni ricavi non dichiarati basandosi su presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti (art. 39, c.1, lett. d, DPR 600/1973). La differenza rispetto all’accertamento analitico puro è che qui il Fisco può colmare le lacune probatorie con ragionamenti presuntivi (ad es. percentuali di ricarico sui costi) senza abbandonare del tutto le risultanze contabili. In giudizio, resta una presunzione relativa: il contribuente può vincerla fornendo prova contraria (documentando che i calcoli induttivi del Fisco sono errati).
  • Avviso di accertamento “induttivo” (extra-contabile) – È l’accertamento totalmente presuntivo, utilizzato in casi di omessa presentazione della dichiarazione o di contabilità completamente inaffidabile. In tali ipotesi l’ufficio può determinare il reddito d’impresa o di lavoro autonomo sulla base di elementi indiziari anche privi dei requisiti di gravità, precisione e concordanza (art. 39, c.2 DPR 600/1973). Si parla anche di accertamento “puro” o “extracontabile”. Ad esempio, se un esercente non ha tenuto le scritture, il Fisco può ricostruire il volume d’affari in base agli acquisti di merce, ai consumi di materia prima, ai movimenti bancari, ecc., applicando percentuali medie di margine. Data la sua natura, questo tipo di avviso è più difficile da contrastare sul merito perché fondato su ampie discrezionalità; in giudizio ci si concentrerà sul contestare la ragionevolezza e congruità dei criteri induttivi adottati. Anche in questo caso, comunque, vale la regola generale dell’onere della prova a carico dell’ente per i fatti costitutivi della pretesa: pur se induttiva, la ricostruzione dev’essere plausibile e supportata da elementi, altrimenti il giudice potrà annullare l’atto per carenza probatoria.
  • Avviso di accertamento “sintetico” (redditometrico) – Riguarda essenzialmente le persone fisiche e consiste nella determinazione del reddito complessivo in base alle spese sostenute e al tenore di vita (redditometro) o ad altri indicatori sintetici. La norma (art. 38 DPR 600/1973) consente al Fisco di presumere un certo reddito in base, ad esempio, al possesso di beni (auto, immobili, imbarcazioni) o alle spese rilevanti effettuate dal contribuente, confrontandolo con il reddito dichiarato. Se il reddito “sintetico” eccede di oltre il 20% quello dichiarato per almeno due anni, scatta l’accertamento. Particolarità: per il redditometro, la legge (dopo le modifiche introdotte nel 2011) prevede espressamente l’obbligo per l’ufficio di attivare il contraddittorio con il contribuente prima di emettere l’avviso. Ciò significa che il contribuente deve essere invitato a fornire chiarimenti sulle spese e sul proprio tenore di vita. La mancata attivazione del contraddittorio in questo ambito è stata ritenuta causa di nullità dell’accertamento dalle Commissioni tributarie e dalla giurisprudenza di legittimità più recente. In pratica, se l’Agenzia delle Entrate non ha convocato il contribuente per discutere il redditometro, l’atto può essere annullato dal giudice su eccezione di parte. In sede di ricorso, la difesa contro un redditometro si basa sia su motivi formali (assenza di contraddittorio, calcolo errato delle spese medie, non attualità degli indici utilizzati) sia sostanziali (prova che il finanziamento delle spese contestate proviene da redditi esenti o risparmi accumulati, donazioni di terzi, etc., elementi che il redditometro non considera automaticamente). Va notato che dal 2023 l’obbligo di contraddittorio preventivo è stato generalizzato per tutti gli avvisi di accertamento (salvo casi eccezionali), come vedremo a breve, ma il redditometro lo richiedeva ancor prima per previsione specifica.
  • Avvisi basati su controlli bancari e finanziari – L’Amministrazione finanziaria può effettuare verifiche sui conti correnti e altri rapporti finanziari del contribuente (previa autorizzazione) e utilizzare i dati emersi per emettere avvisi di accertamento. In base al D.P.R. 600/1973, i movimenti finanziari non giustificati si presumono ricavi o compensi non dichiarati (per i prelievi ingiustificati si presume un costo non dedotto). Questi accertamenti sono di tipo analitico-induttivo: partono da elementi certi (le movimentazioni) e presuppongono che dietro vi siano redditi non dichiarati, salvo prova contraria. Difesa: documentare la provenienza non reddituale delle somme (es. trasferimenti tra conti propri, rimborsi, donazioni già tassate, etc.). È importante fornire tali spiegazioni già in fase di contraddittorio amministrativo, se attivato, o comunque nel ricorso, perché una mancata collaborazione preventiva può avere conseguenze sulle spese di giudizio (vedi oltre il nuovo art. 15 D.Lgs. 546/92).
  • Avvisi su redditi esteri – Rientrano spesso nell’ambito degli accertamenti sintetici o analitici a seconda dei casi. Possono riguardare, ad esempio, il possesso di attività finanziarie all’estero non dichiarate (quadro RW omesso o infedele), oppure casi di residenza fiscale fittiziamente trasferita all’estero (esterovestizione), o ancora redditi di fonte estera non indicati in dichiarazione. Questi accertamenti possono comportare sia imposte evase (es. IVIE/IVAFE su patrimoni esteri, imposte sui redditi esteri non dichiarati) sia sanzioni molto elevate, soprattutto per violazioni del monitoraggio fiscale (anche fino al 30% degli importi non dichiarati). In caso di attività estere non dichiarate vige una presunzione legale per cui i relativi investimenti si presumono costituiti con redditi sottratti a tassazione in Italia, salvo prova contraria (D.L. 167/90). La difesa in questi casi richiede di dimostrare la provenienza lecita e già tassata delle somme investite all’estero, oppure – nei casi di contestazione della residenza – provare l’effettiva residenza fuori dall’Italia (es. produzione di documenti che attestino la stabile dimora all’estero). La giurisprudenza è intervenuta stabilendo criteri stringenti per l’esterovestizione: ad esempio, la Corte di Cassazione ha affermato che per qualificare un soggetto come residente estero serve la prova di un trasferimento effettivo del centro degli interessi, altrimenti l’Agenzia può validamente tassare in Italia tutti i redditi ovunque prodotti (principio della tassazione mondiale del residente).
  • Avvisi IVA e imposte indirette – Gli avvisi di accertamento IVA (o registro, successioni, etc.) seguono regole proprie ma con dinamiche simili. Per l’IVA, l’ufficio può contestare crediti IVA inesistenti, indebite detrazioni, operazioni soggettivamente inesistenti (frodi IVA), ecc. Spesso questi accertamenti derivano da verbali della Guardia di Finanza o da indagini incrociate (es. liste clienti/fornitori). Un aspetto particolare è che, in virtù del diritto UE, per gli avvisi IVA relativi a operazioni soggettivamente inesistenti la Corte di Giustizia UE ha statuito la necessità di garantire al contribuente il diritto di difesa pieno: non si può esigere l’imposta negando la detrazione se il contribuente prova di non essere coinvolto nella frode (principio di buona fede). In generale, per l’IVA il termine di accertamento è allineato a quello delle imposte dirette e l’atto deve anch’esso essere preceduto da contraddittorio se riguarda rettifiche complesse (soprattutto dopo il 2023, come vedremo). Sul piano difensivo, negli avvisi IVA è cruciale verificare la corretta applicazione delle norme unionali: in caso di contrasto tra norma interna e principio UE, prevarrà quest’ultimo. Ad esempio, sanzioni troppo onerose o doppi regimi sanzionatori potrebbero essere contestati in base a principi UE (come il ne bis in idem sancito sia dalla Corte UE che dalla Corte EDU in materia di doppie sanzioni tributarie e penali).
  • Avvisi IRAP – L’IRAP (Imposta Regionale sulle Attività Produttive) genera avvisi soprattutto quando l’ufficio ritiene imponibili attività che il contribuente aveva considerato escluse. Tipicamente riguarda i professionisti e piccoli imprenditori: la questione è se abbiano o meno un’autonoma organizzazione. La Cassazione ha negli anni elaborato criteri: ad esempio, un medico senza dipendenti né beni strumentali rilevanti di regola non è soggetto a IRAP (manca l’autonoma organizzazione), mentre uno studio associato o un professionista con struttura di collaboratori sì. Se arriva un avviso IRAP, la difesa consisterà nel dimostrare l’assenza dei requisiti (es. che l’attività è svolta in modo personale, senza organizzazione di capitali o lavoro altrui). Gli avvisi IRAP per le società, invece, contestano elementi della base imponibile simili a quelli IRES (es. indeducibilità di costi ai fini IRAP). Notiamo che, per garantire uniformità, la riforma ha previsto che anche le Regioni (titolari del gettito IRAP) possano stare in giudizio tramite propri funzionari, equiparando la loro posizione processuale a quella dello Stato.

Nota: Sono impugnabili davanti al giudice tributario tutti gli atti con cui si manifesta una pretesa tributaria definita o si nega un beneficio, anche oltre gli “avvisi di accertamento” in senso stretto. Ad esempio, rientrano fra gli atti impugnabili: le cartelle di pagamento, gli avvisi di liquidazione, i provvedimenti di diniego di rimborsi o sgravi, le iscrizioni a ruolo provvisorie, i fermi e le ipoteche fiscali, ecc. La giurisprudenza adotta infatti un criterio sostanzialistico: qualunque atto dell’Amministrazione finanziaria che incida in modo autoritativo sulla sfera patrimoniale del contribuente è suscettibile di ricorso, anche se non espressamente elencato dall’art. 19 D.Lgs. 546/92. Per esempio, la Cassazione ha ritenuto impugnabile immediatamente l’estratto di ruolo – se da esso il contribuente apprende per la prima volta l’esistenza di un debito tributario – così come l’avviso bonario derivante dal controllo formale della dichiarazione, qualora contenga una pretesa definita equiparabile a un accertamento. Pertanto, se c’è incertezza sulla natura dell’atto ricevuto, conviene comunque presentare ricorso entro i termini, per evitare decadenze.

Ora che abbiamo delineato le diverse tipologie di avvisi e atti similari, passiamo ad esaminare il procedimento di impugnazione vero e proprio, iniziando dalla notifica dell’atto e dalla decorrenza dei termini per ricorrere.

Notifica dell’Avviso di Accertamento e Decorrenza dei Termini

La notifica dell’avviso di accertamento è l’atto formale con cui l’Amministrazione porta a conoscenza del contribuente la pretesa fiscale. È un passaggio cruciale, poiché dalla data di notifica decorrono i termini per proporre ricorso. È importante verificare che la notifica sia avvenuta correttamente e quando si è perfezionata, per calcolare esattamente la scadenza entro cui agire.

Modalità di Notifica

Gli avvisi di accertamento possono essere notificati con diverse modalità, previste dalle norme speciali e, in via residuale, dal codice di procedura civile:

  • Notifica a mezzo PEC (Posta Elettronica Certificata) – Oggi è la modalità sempre più diffusa. Gli enti impositori notificano l’atto inviandolo come allegato (in formato PDF o P7M) a un indirizzo PEC del contribuente. Imprese e professionisti iscritti in albi hanno l’obbligo di dotarsi di un domicilio digitale; per le persone fisiche, se hanno attivato una PEC e questa risulta in INI-PEC o altro pubblico elenco, la notifica avverrà via PEC. La notifica via PEC si perfeziona quando il messaggio viene consegnato nella casella PEC del destinatario (risultante dalla ricevuta di consegna). Se il messaggio PEC è troppo grande e l’atto viene depositato su un portale, la notifica si perfeziona quando il destinatario accede al portale o, in difetto, al decorso del termine di giacenza elettronica (di norma 30 giorni). Attenzione: è fondamentale controllare frequentemente la propria PEC – specialmente per imprese e professionisti – perché la mancata lettura non impedisce al termine di ricorso di decorrere. In generale, la PEC rende le notifiche più rapide, ma impone diligenza al contribuente nel monitorare il proprio domicilio digitale.
  • Notifica a mezzo posta raccomandata – È la modalità tradizionale spesso usata per le persone fisiche prive di PEC. Un funzionario o un ufficiale postale invia l’atto tramite raccomandata con avviso di ricevimento, seguendo le regole dell’art. 14 L. 890/1982 (notifiche postali degli atti tributari) integrate dall’art. 60 DPR 600/1973. La notifica si perfeziona, per il destinatario, alla data in cui la raccomandata viene consegnata (fa fede la firma apposta sull’avviso di ricevimento). Se il destinatario è assente, si applicano le norme sulla compiuta giacenza postale: l’atto viene depositato presso l’ufficio postale e dopo la compiuta giacenza (10 giorni) la notifica si considera avvenuta. Nota: in caso di notifica postale, il termine per ricorrere decorre dalla data di ricezione effettiva, non da quella di spedizione.
  • Notifica tramite messo notificatore o ufficiale giudiziario – Un’altra modalità (in calo nell’uso) è la consegna diretta dell’atto da parte di un messo comunale o di un funzionario incaricato dall’ente (per l’Agenzia Entrate-Riscossione vi sono messi notificatori propri). In tal caso si seguono in genere le formalità degli artt. 137 ss. c.p.c.: consegna a mano al destinatario o a familiare convivente/portiere, ecc., con redazione di una relata di notifica. La notifica è immediata se la consegna è diretta. Se il destinatario rifiuta di ricevere l’atto, il messo ne dà atto e la notifica si dà per eseguita in quel momento. Se il destinatario è irreperibile, si applicano le formalità di legge (affissione avviso e deposito presso il Comune). La data da cui decorre il termine è quella di effettiva consegna o, in caso di irreperibilità relativa, la data di perfezionamento della notifica per compiuta giacenza presso il Comune.

In qualsiasi forma avvenga la notifica, per il contribuente la priorità è individuare la data certa di ricezione. Questo giorno sarà considerato il dies a quo (giorno iniziale) da cui conteggiare il termine perentorio per fare ricorso. Se la notifica presenta vizi (es. indirizzo errato, soggetto notificatore incompetente, mancanza di relata), questi potranno eventualmente essere eccepiti nel ricorso come motivo di nullità dell’atto o della notifica stessa; tuttavia, non sospendono il decorso del termine: in altre parole, anche se riteniamo nulla la notifica, è prudente impugnare comunque l’atto entro 60 giorni dalla data in cui ne siamo venuti a conoscenza, per evitare decadenze (si potrà far valere l’irritualità in giudizio). Solo se la notifica è totalmente omessa o inesistente il termine non inizia affatto a decorre, ma questa è un’ipotesi estrema (ad esempio atto consegnato a persona completamente estranea e mai giunto al contribuente).

Termini per Presentare il Ricorso

Una volta notificato l’avviso di accertamento, il contribuente ha un tempo limitato per reagire. Il termine ordinario per proporre ricorso tributario è di 60 giorni dalla data di notifica dell’atto, salvo proroghe o sospensioni previste dalla legge. Questo termine è perentorio: significa che un ricorso notificato oltre i 60 giorni sarà dichiarato inammissibile (salvo circostanze eccezionali). È quindi cruciale calcolare con precisione la scadenza. Alcune considerazioni sul computo dei termini:

  • Si escludono il giorno iniziale (data di notifica) e si include il giorno finale. Esempio: se l’avviso è notificato il 1° febbraio, il termine di 60 giorni scade il 2 aprile (salvo festivi).
  • Se il 60° giorno cade di sabato, domenica o festivo, la scadenza slitta al primo giorno lavorativo successivo.
  • Come già accennato, fa fede la data di perfezionamento per il destinatario (ricezione PEC, firma raccomandata, etc.). Se la notifica è inesistente giuridicamente, il termine non decorre affatto finché l’ente non notifichi validamente l’atto.

Oltre al termine ordinario, vi sono alcune sospensioni o proroghe che possono operare in specifiche situazioni:

  • Sospensione feriale dei termini – Dal 1º al 31 agosto di ogni anno i termini processuali sono sospesi per legge (L. 742/1969). Ciò significa che il periodo di agosto non viene conteggiato. In pratica, se un termine cade durante quel mese o vi si trova in mezzo, si allunga di 31 giorni. Ad esempio, per un avviso notificato il 20 giugno, i giorni dal 1° al 31 agosto non contano: il termine ordinario scadrà il 20 settembre anziché il 20 agosto. La sospensione feriale si applica anche al contenzioso tributario.
  • Accertamento con adesione – Se il contribuente, anziché ricorrere subito, intende tentare la strada dell’adesione (ovvero una definizione concordata con l’ufficio), deve presentare un’istanza di accertamento con adesione prima di fare ricorso. La presentazione di tale istanza, se effettuata entro 60 giorni dalla notifica dell’avviso, comporta per legge la sospensione automatica del termine per impugnare per 90 giorni (art. 6, co. 3 D.Lgs. 218/1997). In pratica: si hanno 60 giorni per chiedere adesione; una volta inviata l’istanza, il countdown dei 60 si interrompe e ricomincia a decorrere (per i giorni residui) dopo 90 giorni. Dunque il contribuente guadagna tempo (3 mesi extra) per trattare con l’ufficio e decidere se fare ricorso. Attenzione: la sospensione opera solo se l’istanza di adesione è presentata tempestivamente; inoltre non proroga il termine oltre i 90 gg, anche se le trattative durassero di più (salvo diversa sospensione concordata). Se l’adesione fallisce, il ricorso va notificato appena scaduti i 90 giorni aggiuntivi (o prima, rinunciando all’adesione).
  • Reclamo-mediazione – (Solo per atti notificati in passato, fino al 2023) In passato, per le controversie di valore fino a €50.000, la proposizione del ricorso costituiva anche reclamo e faceva scattare una sospensione di 90 giorni per l’eventuale mediazione con l’ente (art. 17-bis D.Lgs. 546/92). Dal 4 gennaio 2024, tuttavia, la mediazione obbligatoria è stata soppressa. Questo significa che per gli avvisi notificati a partire da tale data non si deve più aggiungere la sospensione di 90 giorni per il reclamo: il ricorso può essere proposto immediatamente e non è più condizione di ammissibilità aver esperito il reclamo. Pertanto, oggi (2025) non vi è sospensione automatica dei termini per mediazione. Per le liti pendenti relative ad atti del 2023 o anni precedenti, l’eventuale periodo di 90 giorni sarà già trascorso o andrà gestito in base alla normativa previgente. In sintesi: per gli avvisi attuali, solo l’adesione e la sospensione feriale interrompono il termine di impugnazione (oltre a eventi eccezionali come provvedimenti di sospensione per pandemia, non attualmente vigenti).

Oltre al termine “breve” di 60 giorni per impugnare, è utile ricordare il cosiddetto “termine lungo” di impugnazione delle sentenze, che qui anticipiamo brevemente (poi riprenderemo in tema di appello): se la sentenza di primo grado non viene notificata da nessuna delle parti, il termine per appellarla è di 6 mesi dalla data di pubblicazione. Analogamente, per il ricorso in Cassazione contro la sentenza d’appello non notificata, il termine è 6 mesi dalla pubblicazione. Questo termine lungo deriva dall’art. 327 c.p.c. ed evita che le sentenze restino impugnabili indefinitamente. Se invece la sentenza viene notificata, chi la riceve ha 60 giorni dalla notifica per impugnarla. È importante non confondere questo termine lungo (che riguarda l’impugnazione delle sentenze) con i termini per impugnare gli atti impositivi di cui stiamo parlando, che restano 60 giorni (con eventuali sospensioni come detto).

Riepilogando i termini principali per il contribuente:

  • 60 giorni dalla notifica dell’atto impugnabile per notificare il ricorso all’ente.
  • +90 giorni (sospensione) se entro i primi 60 giorni è presentata istanza di accertamento con adesione.
  • Sospensione feriale: dal 1º al 31 agosto, che proroga di 31 giorni i termini che cadono in quel periodo.
  • Termine lungo per impugnare sentenze non notificate: 6 mesi dalla pubblicazione (vale per appello e Cassazione).
  • Termine breve per impugnare sentenze notificate: 60 giorni dalla notifica (vale per appello e Cassazione).

In tutti i casi, il rispetto dei termini è essenziale: un ricorso tardivo (anche di un solo giorno) è, di regola, irricevibile. Le uniche eccezioni riconosciute sono situazioni di forza maggiore o errori scusabili davvero eccezionali, che però raramente vengono accolti. È dunque fondamentale attivarsi per tempo.

Redazione e Notifica del Ricorso Tributario

Una volta deciso di impugnare l’avviso, occorre predisporre il ricorso tributario e notificarlo alla controparte entro i termini visti. In questa sezione vediamo chi può predisporre e sottoscrivere il ricorso, come va redatto e contenuti obbligatori, a chi notificarlo e infine come depositarlo presso la Corte di Giustizia Tributaria.

Chi può fare ricorso e chi deve difendere il contribuente

Nel processo tributario vi è in generale l’obbligo di assistenza tecnica, salvo per le liti di valore modesto. In base all’art. 12 D.Lgs. 546/92, possono stare in giudizio personalmente (senza difensore) i contribuenti per le controversie di valore fino a €3.000 (valore calcolato al netto di interessi e sanzioni). Ciò significa che, se l’importo del tributo contestato non supera €3.000, il contribuente può firmare da solo il ricorso e seguirne la causa (ovviamente può comunque nominare un difensore se lo desidera). Oltre tale valore, è necessaria l’assistenza di un difensore abilitato.

I difensori abilitati a patrocinare dinanzi alle Corti di Giustizia Tributaria sono elencati per legge: rientrano gli avvocati, i dottori commercialisti ed esperti contabili, i consulenti del lavoro, nonché, limitatamente a specifiche materie, altre categorie come i periti agrari e agrotecnici (per materie catastali, ad esempio). Sono inoltre abilitati i funzionari dell’Amministrazione finanziaria (Agenzia Entrate, Agenzia Entrate-Riscossione, enti locali) che rappresentano il proprio ente in giudizio, purché laureati in giurisprudenza o economia. La Legge 130/2022 ha confermato tali categorie e ha chiarito che anche le Regioni possono stare in giudizio tramite propri funzionari per le materie di competenza regionale (come l’IRAP). In un contenzioso contro l’Agenzia delle Entrate, dunque, in primo grado troveremo spesso come controparte un funzionario dell’Agenzia (avvocato dello Stato solo nei gradi successivi o in cause di particolare rilievo).

Per le società di capitali e gli enti collettivi, poiché il valore in gioco è quasi sempre sopra €3.000, la regola pratica è che serve sempre un difensore tecnico (non essendo ammesse in giudizio persone giuridiche se non tramite difensore). Anche le imprese individuali o i professionisti, se la lite > €3.000, dovranno farsi assistere. Il difensore prescelto dovrà essere munito di procura alle liti, da rilasciare su foglio separato o in calce al ricorso, firmata dal contribuente. Tale procura va allegata al ricorso.

Contenuto del ricorso e requisiti formali

Il ricorso è l’atto introduttivo del giudizio tributario. Deve essere redatto in forma scritta e contenere, a pena di inammissibilità, una serie di elementi richiesti dall’art. 18 D.Lgs. 546/92 (nel nuovo processo telematico alcuni requisiti formali sono semplificati, ma conviene comunque rispettarli scrupolosamente):

  • Intestazione – Va indicato l’organo giudiziario adito, ossia la Corte di Giustizia Tributaria di primo grado competente (es: “Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di Milano”). NB: dal 2023 la corretta dicitura è “Corte di Giustizia Tributaria”, che ha sostituito “Commissione Tributaria”. L’uso della vecchia denominazione non inficia il ricorso, ma è consigliabile adeguarsi e utilizzare i nuovi termini.
  • Dati del ricorrente – Nome, cognome (o denominazione sociale) del contribuente che ricorre, codice fiscale/partita IVA, residenza o sede. Se persona fisica, anche lo stato civile in alcuni casi, ma non è essenziale. Importante indicare l’eventuale domicilio eletto o l’indirizzo PEC per le comunicazioni. Oggi, poiché le comunicazioni della Corte avvengono via PEC, è obbligatorio indicare nel ricorso il proprio indirizzo PEC (o quello del difensore) e il codice fiscale. La mancata indicazione della PEC non rende nullo il ricorso, ma comporta un aumento del contributo unificato del 50%. Se il ricorrente sta in giudizio personalmente, deve indicare la propria PEC; se ha un difensore, sarà quest’ultimo a ricevere le comunicazioni via PEC.
  • Dati del rappresentante – Se il contribuente è rappresentato (difensore), indicare nome e qualifica del difensore e che agisce in forza di procura, con indicazione della procura allegata. Se società, indicare anche i dati del legale rappresentante che conferisce il mandato.
  • Ente convenuto – Occorre indicare l’ente contro cui si ricorre (es. Agenzia delle Entrate – Direzione Provinciale di …, indirizzo …; oppure Comune di … – Ufficio Tributi, ecc.). Questo è il soggetto cui va notificato il ricorso.
  • Atto impugnato – Bisogna specificare con chiarezza quale atto si impugna. Di solito: “avviso di accertamento n. __ emesso da __, notificato in data __, relativo all’anno d’imposta __, con cui si richiede ___”. È importante individuare bene l’atto (numero e data, estremi di notifica, materia e importo in contestazione). La mancata indicazione dell’atto impugnato può portare a inammissibilità. In caso di più atti collegati (es. avviso di accertamento e atto di irrogazione sanzioni separato), si possono impugnare congiuntamente nel medesimo ricorso, purché siano tra loro connessi per oggetto o titolo.
  • Sintesi dei fatti – È opportuno esporre brevemente i fatti e la vicenda: ad esempio “Il contribuente presentava dichiarazione dei redditi per l’anno __ dichiarando __. Con avviso notificato il __, l’Agenzia ha accertato maggior reddito di __ per i seguenti motivi…”. La legge parla di “esposizione sommaria dei fatti”, il che indica che non serve un racconto minuzioso, ma bastano gli elementi essenziali per far capire il contesto.
  • Motivi del ricorso – Questa è la parte centrale: occorre elencare i motivi per cui si richiede l’annullamento (totale o parziale) dell’atto. I motivi sono in pratica le censure mosse all’atto impugnato, in fatto e in diritto. È buona norma suddividerli in motivi di legittimità (vizi formali e procedurali) e motivi di merito (contestazioni sul merito della pretesa). Esempi di motivi: “Violazione di legge – Omessa attivazione del contraddittorio endoprocedimentale, in violazione dell’art. 5-ter D.Lgs. 218/97 e dei principi di cui alla L. 212/2000, con conseguente nullità dell’atto”; oppure “Erronea ricostruzione del reddito – Insussistenza dei presupposti per l’accertamento induttivo ex art. 39 DPR 600/73, avendo il contribuente tenuto regolare contabilità”; o ancora “Errore di diritto – Il fatto contestato non integra reddito imponibile ai fini IRPEF ai sensi dell’art. __ TUIR”, etc. Ogni motivo dovrebbe idealmente indicare la norma violata o il principio disatteso e poi spiegare perché. È bene numerare o elencare chiaramente i motivi. Importante: nel processo tributario vige il divieto di motivi nuovi in appello, quindi tutte le contestazioni disponibili vanno inserite subito nel ricorso introduttivo (non sarà possibile aggiungerne di nuovi in secondo grado, a meno che emergano da fatti sopravvenuti o dalla stessa sentenza impugnata). Dunque conviene articolare tutti i profili di illegittimità dell’atto già nel ricorso iniziale.
  • Richiesta (petitum) – In chiusura, va formulata la richiesta al giudice (“petitum”). Ad esempio: “Si chiede alla Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di… annullare per quanto di ragione l’avviso di accertamento impugnato, con vittoria di spese”. Se i motivi sono alternativi (es. annullamento totale o in subordine riduzione), si può specificare: “in via principale annullare integralmente l’avviso; in via subordinata ridurre i maggiori ricavi accertati e le correlate sanzioni secondo giustizia”. La domanda può includere anche la richiesta di sospensione dell’atto, se si vuole ottenere la sospensione dall’esecutorietà (vedi oltre). Inoltre, se si ritiene, si può chiedere l’audizione in pubblica udienza (in realtà basta comparire all’udienza, ma inserirlo enfatizza la volontà di discussione orale).
  • Valore della controversia – Il ricorso deve indicare il valore della lite, ossia l’importo del tributo contestato (al netto di interessi e delle eventuali sanzioni). Se si impugnano solo sanzioni, il valore è la somma di queste. Questa indicazione è necessaria per il calcolo del contributo unificato. Se manca, si presume per legge che il valore ecceda €200.000 e quindi si applica il contributo massimo. È quindi fondamentale specificarlo correttamente (es. “Valore della lite: imposte €50.000, sanzioni €15.000 – ai fini del contributo si considera €50.000”). Se l’avviso riguarda più anni d’imposta, formalmente ogni anno costituisce una controversia autonoma ai fini del valore e bisognerebbe pagare un contributo per ciascuno (ma in un unico ricorso cumulativo, il calcolo può essere articolato: vedi nota su imposta virtuale in caso di perdite).
  • Firma – Il ricorso va sottoscritto dal difensore incaricato (o dal contribuente personalmente, se sta in proprio). La firma deve essere apposta a margine o in calce, e nel processo telematico sarà una firma digitale sul file. Alla firma deve seguire l’attestazione di conferimento della procura se questa è su foglio separato.

In allegato al ricorso è buona norma inserire (o elencare) i documenti su cui ci si basa: sicuramente copia dell’atto impugnato (l’avviso), la relata di notifica dell’avviso (se disponibile), eventuali documenti giustificativi (es. documenti contabili, corrispondenza con l’ufficio, ricevute di spese, perizie, verbali di constatazione, contratti, ecc. a supporto dei motivi). Nel processo tributario è possibile produrre documenti anche successivamente (fino a 20 giorni prima dell’udienza), ma conviene allegare subito i principali per dare più forza al ricorso e consentire all’ufficio di valutarli.

Sospensione cautelare: se l’importo accertato è elevato e si vuole evitare la riscossione nelle more del processo, nel ricorso si può inserire un’istanza di sospensione dell’atto impugnato (sospensiva). L’istanza va motivata con il fumus boni iuris (motivi del ricorso con probabile esito favorevole) e il periculum in mora (danno grave e irreparabile se si dovesse pagare subito). Ad esempio: “Si chiede anche la sospensione dell’esecutività dell’atto impugnato ai sensi dell’art. 47 D.Lgs. 546/92, attesa la fondatezza del ricorso e il pregiudizio grave derivante dall’esborso immediato di €100.000, che comprometterebbe la continuità aziendale”. L’istanza di solito viene trattata in camera di consiglio entro breve (la riforma impone di fissarla entro 30 giorni dalla richiesta). Si può proporla nel ricorso introduttivo oppure con atto separato finché la causa è pendente.

Notifica del Ricorso all’ente impositore

Diversamente da altri processi, in quello tributario il ricorrente deve prima notificare il ricorso all’ente e solo dopo depositarlo in giudizio (iscriverlo a ruolo). La notifica del ricorso all’ente impositore serve a instaurare il contraddittorio.

La notifica può avvenire con le stesse modalità viste per gli atti: PEC (ormai la regola generale), oppure raccomandata A/R, ufficiale giudiziario, ecc. Nel caso della PEC: il ricorso, con firma digitale, si invia come allegato PEC all’indirizzo istituzionale dell’ente. Ad esempio, per Agenzia Entrate – Direzione Provinciale di X, l’indirizzo PEC è generalmente nomeufficio@pec.agenziaentrate.it (si trova sull’albo PEC pubblici). Per i Comuni, solitamente protocollo@pec.comune…, ecc. È importante inviare all’indirizzo esatto e conservare le ricevute di accettazione e consegna PEC che attestano la notifica (andranno allegate al momento del deposito).

Se si opta per la notifica a mezzo ufficiale giudiziario o posta: in tali casi il ricorso avrà una relata di notifica redatta dal notificatore e dovremo attendere l’esito (es. la cartolina di ritorno) prima di depositare.

La competenza territoriale: bisogna notificare il ricorso alla Corte di Giustizia Tributaria di primo grado competente per territorio. La competenza in primo grado, per legge, è determinata in base alla sede dell’ufficio che ha emesso l’atto impugnato. Dunque se l’avviso è stato emanato dall’Agenzia Entrate – DP di Roma 1, la competenza sarà della CGT I grado di Roma (che copre la circoscrizione di Roma). Se l’atto è di un Comune, competente sarà la CGT della provincia in cui si trova quel Comune. Per le cartelle di pagamento, fa fede la sede dell’agente della riscossione (di norma coincidente con la provincia del contribuente). Non esiste competenza per valore (ogni Corte di primo grado tratta cause di ogni importo). Esempi: avviso Agenzia Entrate di Milano -> CGT I grado Milano; avviso Comune di Napoli -> CGT I grado Napoli; cartella Equitalia (Agenzia Riscossione) ufficio di Bologna -> CGT I grado Bologna. Eccezione: se l’atto proviene da un Centro Operativo o Centro Servizi dell’Agenzia (uffici “centrali”), la competenza è nel luogo dove ha sede l’ufficio locale competente sul tributo. In caso di errore sulla competenza, il ricorso non viene perso: il giudice cui arriva lo trasmette a quello competente (ma potrebbe esserci perdita di tempo). Quindi meglio individuare correttamente la Corte competente all’inizio.

La notifica va fatta entro i 60 giorni (o termine prorogato) calcolati come sopra. L’importante è spedire entro il termine (fa fede la data di invio PEC o di consegna all’ufficiale giudiziario o di spedizione posta). La ricezione da parte dell’ente potrà avvenire anche dopo, ma l’importante è che il ricorrente abbia rispettato il termine per attivare il procedimento.

Dopo la notifica, si deve procedere al deposito (costituzione in giudizio) entro i successivi 30 giorni.

Deposito del Ricorso e Costituzione in Giudizio presso la Corte di Giustizia Tributaria

Una volta notificato il ricorso all’ente impositore, il contribuente deve costituirsi in giudizio depositando il ricorso presso la segreteria della Corte di Giustizia Tributaria adita. Questo passaggio iscrive formalmente la causa a ruolo e la mette nella disponibilità del giudice. Vediamo come avviene.

Iscrizione a ruolo e deposito telematico

Il termine per depositare (costituirsi) è di 30 giorni dalla data in cui la notifica del ricorso si è perfezionata. Ad esempio, se la PEC all’Agenzia Entrate risulta consegnata il 1° marzo, entro il 31 marzo bisogna depositare il ricorso presso la CGT competente.

Oggi il processo tributario è integralmente telematico: ai sensi del D.L. 119/2018 e dm attuativi, dal 1° luglio 2019 tutti gli atti e documenti vanno depositati tramite il Portale della Giustizia Tributaria (SIGIT). Dunque la costituzione avverrà online.

Il difensore (o la parte, se sta in proprio) deve accedere al portale SIGIT con le proprie credenziali SPID/CIE o smartcard CNS, selezionare la sezione di deposito atti e caricare la busta telematica contenente:

  • Il ricorso notificato (cioè il file del ricorso con la relata di notifica o, nel caso di PEC, il ricorso firmato digitalmente e i file delle ricevute di PEC).
  • Gli allegati (copia dell’avviso impugnato, documenti di prova, ricevuta di ritorno se raccomandata, etc.).
  • La procura alle liti (se non inserita nel ricorso stesso) firmata digitalmente dal conferente e controfirmata dal difensore.
  • La ricevuta di versamento del contributo unificato tributario (C.U.T.) dovuto.

Il deposito è completato quando il sistema genera la ricevuta di avvenuta acquisizione (tecnicamente due ricevute PEC dal SIGIT). È prudente non aspettare l’ultimo giorno per depositare, per evitare problemi tecnici dell’ultimo minuto. Se il ricorso non viene depositato entro 30 giorni dalla notifica, la legge prevede che il ricorso si intende come non proposto. In altri termini, la notifica alla controparte da sola non basta a incardinare la causa: è imprescindibile l’iscrizione a ruolo tempestiva, pena l’estinzione del procedimento (improcedibilità).

Contributo unificato e spese iniziali

Il Contributo Unificato Tributario (CUT) è la “tassa” da pagare per iscrivere a ruolo la causa. L’importo dipende dal valore della lite, secondo gli scaglioni previsti dall’art. 13 del DPR 115/2002 (come modificato dal DL 98/2011). I valori attuali sono:

  • Liti fino a €2.582,28: €30 di contributo.
  • Oltre €2.582,28 e fino a €5.000: €60.
  • Oltre €5.000 e fino a €25.000 (e liti di valore indeterminabile): €120.
  • Oltre €25.000 e fino a €75.000: €250.
  • Oltre €75.000 e fino a €200.000: €500.
  • Oltre €200.000: €1.500.

(Vedi tabella riepilogativa dei costi più avanti.) Il contributo va pagato tramite modello F23/F24 o elettronico (c’è un codice tributo apposito), oppure con il sistema pagoPA integrato nel Portale. La ricevuta va allegata al momento del deposito del ricorso.

Se per errore non si versa il contributo, la costituzione è comunque accettata (non c’è inammissibilità immediata) ma la segreteria invita a regolarizzare. Il pagamento tardivo comporterà sanzioni amministrative (di norma il recupero del contributo evaso e un’ammenda). Inoltre, come già detto, se nel ricorso non era indicato il valore della lite, si presume il massimo e quindi verrà richiesto €1.500. È quindi doppiamente importante sia dichiarare il valore, sia pagare il giusto contributo.

Nota: Il contributo unificato è a carico di chi ricorre. Se il contribuente vince la causa, può chiedere che l’ente soccombente sia condannato a rimborsarglielo tra le spese di lite. Viceversa, se il ricorso viene respinto, il contributo rimane a carico del ricorrente (già pagato) e anzi potrebbe doverne pagare un altro in appello se prosegue.

Altri aspetti tecnici del deposito telematico

Con il processo telematico, il difensore deve rispettare le specifiche tecniche ministeriali: i documenti vanno in formato PDF/A, firmati digitalmente (CAdES o PAdES); gli allegati voluminosi vanno compressi; va inserita un’attestazione di conformità se si depositano copie digitali di atti cartacei (ad esempio la fotocopia di un avviso notificato a mano va accompagnata da attestazione di conformità all’originale). Dal 2023 queste regole sono ancora più stringenti: l’art. 25-bis D.Lgs. 546/92 introdotto dal D.Lgs. 220/2023 impone che il difensore certifichi la conformità di ogni copia digitale all’originale, pena l’inutilizzabilità del documento non conforme. È dunque fondamentale fare attenzione nella preparazione del fascicolo telematico, per non rischiare che un documento chiave venga ignorato dal giudice perché privo di attestazione di conformità. Tali oneri tecnici, seppur pesanti, sono il prezzo della digitalizzazione completa del processo tributario, che tuttavia porta benefici in termini di velocità (si pensi che l’appello o il ricorso in Cassazione oggi si depositano con un click, senza inviare plichi cartacei).

Costituzione in giudizio dell’ente impositore

Dopo che il contribuente si è costituito, tocca all’ente impositore costituirsi a sua volta depositando le proprie controdeduzioni (memoria difensiva) presso la segreteria della Corte. L’Ufficio ha tempo 60 giorni dalla notifica del ricorso per depositare la propria comparsa di risposta (art. 23 D.Lgs. 546/92). Se l’ente non si costituisce affatto, il giudizio procede ugualmente in sua contumacia; tuttavia, nella prassi, l’Agenzia delle Entrate si costituisce quasi sempre, a mezzo di un proprio funzionario delegato (di solito il Responsabile dell’ufficio legale). La costituzione dell’ente avviene anch’essa in modalità telematica tramite il Portale, con deposito della memoria difensiva (che replicherà punto per punto ai motivi di ricorso) e degli eventuali documenti a sostegno (es. verbali di constatazione, relazioni di verifica, copie di comunicazioni inviate al contribuente, ecc.). L’ente indicherà anche il valore della lite secondo i suoi calcoli (in genere coincide con quello del ricorrente se non contestato) e allegherà la propria prova delle notifiche effettuate (es. l’avviso di ricevimento del plico dell’accertamento).

Se per ipotesi l’ufficio si costituisce oltre il termine, la costituzione tardiva non comporta decadenze irreversibili (diversamente dal ricorrente): potrà tuttavia precludere all’ufficio di proporre eventuale appello incidentale se l’appello principale del contribuente viene accolto (principio di contumacia in appello). In ogni caso, anche se l’ente depositasse tardivamente documenti o memorie, il giudice può accettarli fino a che non sia iniziata la trattazione, in ossequio al principio del contraddittorio (magari rinviando l’udienza per dare modo al contribuente di esaminarli). Tuttavia, la regola vuole che l’Agenzia depositi in tempi corretti la sua difesa.

Fase introduttiva: assegnazione della causa e giudice monocratico

Dopo il deposito del ricorso (e la costituzione delle parti), la segreteria della Corte attribuisce alla causa un numero di ruolo generale (RG) e la assegna a una delle sezioni della Corte di Giustizia Tributaria di primo grado competente. Il Presidente della Corte o di sezione poi nomina il Relatore e fissa la composizione del collegio giudicante.

Come novità della riforma, se la controversia rientra nei parametri del giudice monocratico – ovvero valore fino a €3.000, esclusi i casi di valore indeterminabile – il Presidente la affida a un singolo giudice designato, anziché a un collegio. Il giudice monocratico decide da solo la causa in primo grado. Se invece il valore supera €3.000, decide un collegio di tre membri. In ogni caso, se per errore la causa venisse assegnata alla composizione sbagliata (esempio: causa da €10.000 affidata a giudice unico), la legge prevede meccanismi di correzione d’ufficio – il giudice monocratico rimette gli atti al presidente per la riassegnazione al collegio – così come se emergesse un vizio di competenza territoriale (il giudice ne dà atto e trasmette gli atti al giudice competente).

Entro breve tempo dall’iscrizione a ruolo (variabile: da qualche settimana a qualche mese, a seconda del carico di lavoro), la segreteria comunica alle parti la data di trattazione della causa, ossia la data in cui si terrà l’udienza di discussione. Tale comunicazione avviene di solito via PEC. Per legge deve avvenire con almeno 30 giorni di preavviso rispetto all’udienza (art. 31 D.Lgs. 546/92). Nella prassi attuale, grazie al processo telematico, spesso il difensore può visualizzare la data dell’udienza accedendo al fascicolo sul portale anche prima della PEC ufficiale.

Svolgimento del Giudizio di Primo Grado dinanzi alla Corte di Giustizia Tributaria

Superata la fase introduttiva (ricorso, risposta, costituzione delle parti), si entra nel vivo del giudizio di merito di primo grado. Vediamo come si sviluppa: dalle eventuali attività istruttorie e di scambio di memorie, alla pubblica udienza di discussione, fino alla sentenza.

Scambio di memorie e produzioni documentali

Il processo tributario è tendenzialmente documentale: la maggior parte delle prove viene raccolta tramite documenti. La legge consente comunque alle parti di depositare memorie aggiuntive e documenti entro termini prefissati prima dell’udienza, per completare le proprie difese oltre gli atti introduttivi.

In particolare, l’art. 32 D.Lgs. 546/92 (richiamando regole analoghe al c.p.c.) prevede che le parti possono:

  • Depositare documenti fino a 20 giorni liberi prima dell’udienza. “Giorni liberi” significa che non si conta né il giorno dell’udienza né quello di deposito, quindi in pratica 20 giorni pieni. Ad esempio, per udienza il 30 giugno, i documenti vanno depositati entro il 9 giugno. Dopo tale termine, la produzione di nuovi documenti è possibile solo se riguarda la prova di fatti sopravvenuti o contrari a quelli emersi nelle difese avversarie (art. 32, co.3).
  • Depositare memorie illustrative fino a 10 giorni liberi prima dell’udienza. Queste memorie servono per precisare le conclusioni, replicare alle difese avversarie ed eventualmente ridurre a sintesi i punti controversi. Non possono contenere nuovi motivi di ricorso né domande nuove, ma solo argomentazioni di supporto a quanto già dedotto.
  • Depositare memorie di replica 5 giorni prima: la legge non lo prevedeva espressamente fino al 2022, ma la riforma (art. 32, co.2-bis introdotto) ha previsto la facoltà di repliche brevi fino a 5 giorni prima dell’udienza, in caso di nuove questioni sollevate dall’altra parte nelle memorie a 10 giorni.

Questi scambi servono a garantire il contraddittorio pieno: ciascuna parte può conoscere in anticipo le argomentazioni e le prove avversarie e ribattervi per iscritto. Tutti i depositi avvengono, come detto, via portale telematico, con avvisi via PEC. È opportuno rispettare rigorosamente tali scadenze per non incorrere in preclusioni: ad esempio, un documento prodotto 5 giorni prima dell’udienza, senza che rientri nei casi ammessi, potrebbe essere dichiarato inammissibile dal Collegio (su eccezione di controparte o d’ufficio).

Attività istruttoria e prova testimoniale

Tradizionalmente, il processo tributario non prevedeva una vera istruttoria dibattimentale come nel processo civile: niente testimoni in aula, niente perizie d’ufficio, salvo acquisizioni documentali. Tuttavia, la riforma 2022 ha introdotto delle novità significative:

  • Da un lato, è stato esplicitato il principio dell’onere della prova: ora l’art. 7 del D.Lgs. 546/92 dichiara espressamente che spetta all’ente impositore provare i fatti costitutivi della pretesa tributaria, e al contribuente i fatti impeditivi, modificativi o estintivi. Questo principio era già desumibile dal codice civile, ma ora è chiaramente scritto nella norma tributaria, come confermato anche dalla Cassazione. In base a ciò, il giudice valuterà le prove alla luce di chi aveva l’onere di fornirle: per esempio, in caso di accertamento da studi di settore, è l’ufficio che deve provare che l’attività del contribuente rientra nello standard e che le divergenze non sono giustificate; se non ci riesce, il ricorso del contribuente andrà accolto.
  • È stata (re)introdotta la prova testimoniale, sia pure in forma scritta. Storicamente la testimonianza era vietata nel processo tributario. La L. 130/2022 ha previsto che è ammessa la deposizione testimoniale solo in forma scritta e previo giuramento, in casi tassativi disciplinati (per evitare abusi). Il D.Lgs. 130/2022 e il successivo D.Lgs. 220/2023 hanno dettagliato la procedura: essenzialmente, il giudice può ammettere la testimonianza se lo ritiene indispensabile ai fini della decisione, ma il testimone non verrà ascoltato oralmente in udienza; piuttosto, gli verranno sottoposte per iscritto delle domande (interrogatorio scritto) e il testimone risponderà per iscritto, sotto giuramento, restituendo il documento che verrà acquisito agli atti. Questa innovazione è graduale e ancora poco sperimentata (fino al 2024 era prevista solo per certe materie come il diritto all’abitazione principale IMU, poi estesa). Ad ogni modo, è una potenziale arma in più: ad esempio, in cause dove è determinante confermare un fatto (la consegna di merce, l’esistenza di un certo accordo verbale, ecc.), ora il difensore può chiedere al giudice di ammettere la testimonianza di Tizio su quel punto. Limiti: non si può usare la testimonianza per aggirare il divieto di produrre documenti tardivi o per supplire a carenze gravi di prova; inoltre resta esclusa per provare circostanze che richiedono la forma scritta ad substantiam (es. contratti). Resta ovviamente utilizzabile la prova per presunzioni e quella perizie tecniche se già prodotte dalle parti; il giudice tributario può anche disporre una CTU (consulenza tecnica d’ufficio) in casi complessi (es: per ricostruire una contabilità distrutta da un incendio), ma è evento raro. Più comune è l’ordine di esibizione ex art. 7, co.3 D.Lgs. 546/92: il giudice può ordinare all’ente di esibire documenti o informazioni in suo possesso (ad esempio il giudice può chiedere all’ufficio di produrre l’intero fascicolo del controllo).

Un tema che spesso emerge è l’utilizzabilità delle prove acquisite. In ambito tributario vige un principio di libertà dei mezzi di prova e non un rigido formalismo come nel penale. Ad esempio, capita che il contribuente eccepisca che certi documenti del Fisco sono stati ottenuti illegittimamente (magari senza autorizzazione, o in violazione della privacy). Ebbene, la Cassazione nel 2025 (sent. n. 8452/2025) ha chiarito che non esiste un principio generale di inutilizzabilità delle prove irritualmente acquisite nel processo tributario, salvo violazioni di diritti fondamentali. Ciò significa che, ad esempio, un documento bancario ottenuto dall’ufficio senza autorizzazione formale non è automaticamente escluso dal giudizio tributario – il giudice può comunque valutarlo, salvo che l’acquisizione abbia leso diritti costituzionali come il domicilio (es. perquisizione senza mandato) o il segreto di comunicazione. Questo orientamento, se da un lato “slega le mani” all’Amministrazione, dall’altro pone il contribuente di fronte alla necessità di contrastare nel merito anche prove raccolte irritualmente, perché non potrà contare su una facile eccezione di inutilizzabilità (tranne in casi estremi, come intercettazioni illecite). Per esempio, se un PVC (processo verbale di constatazione) della Guardia di Finanza è stato redatto senza attendere i 60 giorni di contraddittorio previsti dallo Statuto del Contribuente, quel PVC potrà comunque essere utilizzato come prova in giudizio, ma il difensore del contribuente sottolineerà questa scorrettezza per sminuirne l’attendibilità. In sintesi, il giudice tributario mira al principio di sostanza: ciò che conta è accertare la verità materiale dei fatti, più che punire gli errori procedurali dell’ufficio (salvo che integrino violazioni di diritti inviolabili). Questo non significa che i vizi procedurali siano irrilevanti: la mancanza del contraddittorio, di per sé, rimane motivo di nullità dell’atto in certi casi (come detto per il redditometro, e oggi per tutti gli accertamenti se non ricorre un’urgenza eccezionale), ma sul piano probatorio il giudice potrebbe comunque valutare gli elementi acquisiti.

Un’altra novità introdotta sul finire del giudizio riguarda le spese di lite collegate alla condotta nella fase precontenziosa. L’art. 15 D.Lgs. 546/92, aggiornato dalla riforma, oggi prevede che se il contribuente, in sede di contraddittorio amministrativo, non aveva prodotto un documento decisivo e poi lo tira fuori solo in giudizio vincendo grazie a quello, il giudice compensa le spese (ognuno paga le proprie). Questa disposizione mira a “punire” la mancata collaborazione preventiva: in pratica, se il contribuente aveva un asso nella manica (un documento risolutivo) e non lo ha mostrato all’ufficio durante l’eventuale fase di adesione o contraddittorio, facendogli fare causa inutilmente, pur vincendo non avrà le spese legali rifuse. Fa salvo però il caso in cui il contribuente provi che non poteva esibire prima quel documento per cause non sue (es. documento ottenuto solo successivamente). Dall’altro lato, se è l’ufficio ad aver ignorato un documento fornito dal contribuente in sede amministrativa, sarà un argomento a favore per la condanna alle spese in giudizio. In generale, questo incentiva la trasparenza e lo scambio di informazioni prima del processo.

Udienza di discussione e decisione della causa

Giunti alla data fissata, si tiene la udienza pubblica di discussione (a meno che nessuna delle parti l’abbia chiesta e il giudizio venga trattato in camera di consiglio). Con le nuove norme, la trattazione in camera di consiglio accade solo se entrambe le parti rinunciano all’udienza pubblica. In genere, quasi tutte le cause tributarie hanno un’udienza pubblica, perché di solito almeno il contribuente la richiede nel ricorso o l’ufficio nella risposta, oppure per prassi viene fissata comunque.

All’udienza, se in presenza fisica, compaiono i difensori delle parti (o il contribuente stesso se senza difensore) davanti al Collegio giudicante. Dal settembre 2023, come detto, se la causa è assegnata a giudice monocratico, l’udienza si tiene di regola da remoto in videoconferenza, salvo diversa richiesta. Se invece la causa è collegiale, si può svolgere da remoto solo se tutte le parti lo chiedono; altrimenti in aula fisica. Questa innovazione rende più agile discutere le liti di modesto valore (monocratiche) senza spostamenti. In ogni caso, sia via video sia in aula, il difensore espone oralmente le proprie ragioni e risponde alle eventuali domande dei giudici. La discussione è generalmente breve: per prassi, 10 minuti o meno per parte nelle cause ordinarie, qualcosa in più in quelle molto complesse. Non c’è un verbale stenografico dell’udienza, ma viene redatto un verbale sintetico che attesta la presenza delle parti e l’esito (es: “udienza pubblica, sentite le parti, la causa è posta in decisione”; oppure “il difensore del ricorrente insiste per l’istanza di sospensione, il Collegio si riserva”; etc.).

Durante l’udienza può emergere la possibilità di una conciliazione. Infatti, la normativa consente alle parti di conciliare la lite anche a udienza iniziata: possono chiedere un breve rinvio per formalizzare un accordo transattivo. A volte è lo stesso Collegio a suggerire la conciliazione, specie nelle liti di modesto valore o dove intuisce margini di accordo. Se le parti manifestano la volontà di accordarsi, il giudice rinvia la causa (sospendendola temporaneamente) e fissa un termine per presentare l’atto di conciliazione eventualmente raggiunto. Se poi l’accordo non si perfeziona, la causa riprenderà. (Approfondiamo la conciliazione più avanti nella sezione Strumenti deflattivi.) Se non c’è conciliazione, il Presidente dichiara la discussione chiusa e la causa viene trattenuta in decisione.

La decisione viene presa dal Collegio (o dal giudice monocratico) in camera di consiglio, di regola lo stesso giorno dell’udienza o a breve distanza. I giudici deliberano segretamente: nel collegio, si vota a maggioranza; se monocratico, decide direttamente. Uno dei giudici, il relatore, redige la bozza di sentenza con i motivi e il dispositivo, poi firmata anche dal presidente. La sentenza viene quindi depositata in segreteria. Non viene letta in udienza (il processo tributario non prevede la lettura immediata del dispositivo, salvo rare eccezioni in cui il collegio dà un dispositivo orale per cause semplicissime). Dunque le parti conosceranno l’esito solo quando la sentenza sarà depositata e notificata.

Per legge (art. 36 D.Lgs. 546/92) la sentenza tributaria deve contenere: l’intestazione (indicazione della Corte di Giustizia Tributaria che l’ha emessa), le parti in causa, l’oggetto della controversia, una breve esposizione dello svolgimento del processo, i motivi in fatto e diritto della decisione, il dispositivo (cioè la pronuncia finale: es. “accoglie il ricorso e annulla l’atto” oppure “respinge il ricorso”, ecc.) e la firma del presidente e del relatore. La motivazione dev’essere succinta ma chiara: dal 2023 si tende a pretendere motivazioni non eccessivamente sintetiche per garantire la comprensibilità (il giudice deve spiegare perché ha dato ragione a una parte). La denominazione nell’intestazione, come già detto, ora dev’essere “Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di …”.

Una volta depositata, la sentenza viene comunicata alle parti dalla segreteria, di solito via PEC. Attenzione: questa comunicazione di cortesia non fa decorrere i termini per l’impugnazione. Solo una notifica formale della sentenza da parte di una delle parti all’altra attiverebbe il termine breve di 60 giorni per l’appello. In mancanza di notifica, come già detto, vale il termine lungo di 6 mesi dalla pubblicazione.

Contenuto e effetti della Sentenza di primo grado

Le possibili decisioni del giudice di primo grado sono varie. Ecco gli esiti più comuni della sentenza:

  • Accoglimento totale del ricorso – Il giudice annulla integralmente l’atto impugnato (o dichiara non dovuta la somma richiesta). In questo caso il contribuente ottiene soddisfazione piena: l’accertamento viene cancellato. Di norma, in caso di piena vittoria, il giudice condanna l’ente soccombente a rifondere le spese di lite al contribuente, salvo che non ravvisi motivi per compensarle (vedi eccezioni come comportamento non collaborativo del contribuente prima del processo). Se, ad esempio, l’avviso era totalmente infondato e viene annullato, il Fisco dovrà pagare le spese legali del contribuente secondo il tariffario.
  • Accoglimento parziale – Il giudice ritiene fondati solo alcuni motivi del ricorso. Può quindi annullare l’atto in parte, ad esempio riducendo il maggior reddito accertato, eliminando o diminuendo alcune sanzioni, ricalcolando gli interessi. In sostanza la sentenza “riforma” parzialmente l’accertamento (che proseguirà per la parte restante). In tal caso, sulle spese il giudice può decidere in proporzione: se il contribuente risulta vittorioso in misura prevalente (es. ottiene sgravio dell’80% dell’importo), di solito condanna l’ente al rimborso delle spese magari ridotte; se invece entrambe le parti vincono in parte, spesso le spese vengono compensate (ogni parte le proprie) o distribuite in quota.
  • Rigetto del ricorso – Il giudice respinge tutte le doglianze del contribuente e conferma integralmente la legittimità dell’atto. In tal caso il contribuente è soccombente e, di regola, viene condannato a rifondere le spese di giudizio all’ufficio. Le spese a favore dell’ente consistono nelle spese legali per la difesa in giudizio: l’Agenzia delle Entrate quantifica un importo (di solito calcolato in base ai parametri ministeriali per gli avvocati, anche se i suoi funzionari non sono avvocati esterni) e il giudice lo liquida in sentenza. Ad esempio: “condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite, liquidate in € X”. Il contribuente dovrà pagare quella somma all’erario (che potrebbe iscriverla a ruolo in cartella se non versata spontaneamente).
  • Inammissibilità o improcedibilità – Il giudice potrebbe non esaminare nemmeno il merito se rileva un vizio processuale che impedisce di decidere. Ad esempio, ricorso notificato oltre i termini (tardivo), difetto di giurisdizione (es. atto non impugnabile in quella sede), ricorso privo di firma o di indicazione dell’atto impugnato, incompetenza territoriale non sanata, mancata presentazione di reclamo obbligatorio per le liti pre-2023, ecc.. In tali casi la sentenza dichiara il ricorso inammissibile o improcedibile senza entrare nel merito. L’effetto è che l’atto impugnato resta valido come se non fosse stato contestato. Il contribuente quindi perde la possibilità di far riesaminare quella pretesa (salvo appello contro la pronuncia di inammissibilità, ma se confermata l’inammissibilità, l’accertamento diviene definitivo). Anche qui, di solito le spese sono a carico del ricorrente, essendo questi la parte “colpevole” dell’errore processuale. Esempio tipico: ricorso depositato fuori termine – il giudice lo dichiara improcedibile e condanna il contribuente alle spese.
  • Cessata materia del contendere – Se durante il processo l’oggetto del contendere viene meno, il giudizio si chiude senza decisione sul merito. Ciò avviene ad esempio se l’ente, in autotutela, annulla l’avviso impugnato (totale o parziale) oppure se le parti raggiungono una conciliazione giudiziale approvata. In questi casi il processo si estingue e il giudice ne prende atto dichiarando cessata la materia del contendere. Di solito in tal caso le spese sono compensate salvo diversi accordi: se l’ufficio ha annullato spontaneamente l’atto, in genere non chiede spese; se c’è conciliazione, l’accordo spesso prevede spese compensate.

Un capitolo a parte meritano gli effetti della sentenza. La riforma recente ha introdotto un cambiamento di grande rilievo: l’immediata esecutività delle sentenze tributarie. Nel regime previgente, la sentenza di primo grado favorevole al contribuente era esecutiva solo al 50% (l’ente doveva rimborsare metà entro 90 gg, il resto a fine causa), mentre se era favorevole all’ente il contribuente doveva comunque pagare subito quasi tutto, salvo aver ottenuto sospensione. Con la L. 130/2022 e il D.Lgs. 220/2023, invece, si è stabilito che tutte le sentenze delle Corti di giustizia tributaria sono provvisoriamente esecutive per intero. In particolare:

  • La sentenza di primo grado è esecutiva immediatamente per l’intero importo. Ciò significa che, se il contribuente vince, l’Amministrazione deve rimborsargli tutto quanto eventualmente pagato in eccedenza e sospendere qualsiasi riscossione residua (non solo il 50%). Se invece il contribuente perde, l’ente può procedere a riscuotere l’intero importo accertato (non più limitato a 2/3) in attesa dell’appello.
  • Anche la sentenza di secondo grado (appello) è esecutiva per intero nelle more di un eventuale ricorso per Cassazione.

Questa novità mira a “accelerare la definizione economica” delle controversie: in sostanza chi vince in un grado ottiene subito il risultato pecuniario, senza aspettare la fine di tutti i gradi di giudizio, il che è equo. Tuttavia, presenta rischi se la sentenza viene riformata in appello: ad esempio il contribuente vince in primo grado e riceve il rimborso totale, ma poi perde in appello e deve restituire le somme (con interessi). Per questo è previsto che la parte soccombente possa chiedere la sospensione dell’esecutività della sentenza in appello o in Cassazione.

In particolare, il nuovo art. 52 D.Lgs. 546/92 consente di chiedere al giudice d’appello di sospendere l’esecutività della sentenza di primo grado fino alla decisione di appello, se ricorrono gravi motivi. Ciò tutela il contribuente soccombente in primo grado (che altrimenti dovrebbe pagare tutto subito): egli, presentando appello, può contestualmente chiedere alla Corte di secondo grado di sospendere la sentenza impugnata, evitando il pagamento immediato o l’esecuzione forzata. Analogamente l’ente, se ha perso, può chiedere di sospendere l’obbligo di rimborso in attesa dell’appello. In pratica, la dinamica è simile a quella delle vecchie sospensive degli atti, ma riferita alle sentenze. Finché la Corte di appello non si pronuncia sulla sospensione, la sentenza di primo grado rimane esecutiva. Se poi la sospensione viene concessa, blocca l’esecuzione fino all’esito dell’appello. Se negata, la parte dovrà ottemperare alla sentenza di primo grado.

Riassumendo: oggi una vittoria in primo grado per il contribuente gli consente di non pagare nulla e anzi di ottenere i rimborsi di quanto versato in eccedenza; una sconfitta in primo grado comporta invece la necessità di pagare tutto (salvo ottenere sospensione in appello). Questo rende ancora più cruciale la strategia processuale e la gestione delle richieste di sospensione.

Strumenti Deflattivi del Contenzioso (Mediazione, Conciliazione, Autotutela)

Prima di concludere la parte sul primo grado, è utile riepilogare gli strumenti che possono evitare di arrivare a sentenza o risolvere anticipatamente la lite:

  • Autotutela amministrativa: È la facoltà dell’amministrazione finanziaria di annullare o rettificare i propri atti quando li riconosca errati. Il contribuente può sempre presentare un’istanza di autotutela (anche dopo aver fatto ricorso) chiedendo all’ufficio di rivedere l’atto. L’autotutela non sospende i termini di ricorso né il processo in corso (a meno che l’ufficio non lo chieda in giudizio), ed è discrezionale. Tuttavia, in casi di errore palese o documentato, l’ufficio potrebbe accogliere l’istanza e annullare in tutto o parte l’accertamento, determinando la cessazione della materia del contendere. Ad esempio, se il contribuente mostra che un pagamento era già stato fatto e l’avviso è frutto di una svista, l’ufficio potrebbe annullarlo in autotutela anche dopo il ricorso. È sempre consigliabile tentare l’autotutela per errori macroscopici, sapendo però che l’ufficio tende a non usarla su questioni opinabili (preferisce attendere la sentenza).
  • Accertamento con adesione: Come visto, è la procedura di definizione concordata prevista dal D.Lgs. 218/1997. Consente al contribuente di incontrare l’ufficio (previa istanza) per discutere l’atto e trovare eventualmente un accordo su una tassazione inferiore. Vantaggi: riduzione delle sanzioni a 1/3 del minimo (quindi sanzione ridotta di 2/3) se si perfeziona l’accordo; evitare il contenzioso; ottenere una rateazione più ampia (fino a 8 rate trimestrali). Svantaggi: bisogna accettare di pagare (anche se meno) e rinunciare al ricorso. Se l’adesione fallisce, comunque si è guadagnato tempo (90 gg di sospensione). L’adesione va valutata quando il contribuente riconosce almeno in parte la fondatezza dell’accertamento e vuole limitare danni e sanzioni. Se invece si ritiene totalmente infondato l’avviso, difficilmente si accetterà di pagare sia pur meno. Notare: dal 2023, con l’obbligo generalizzato di contraddittorio pre-accertativo, l’adesione tende a integrarsi con quel contraddittorio: spesso l’ufficio formula già in sede di invito una proposta di adesione. Ma formalmente l’adesione resta un istituto a sé, attivabile anche dopo la notifica dell’avviso (entro il termine per ricorrere).
  • Reclamo e Mediazione: Introdotta nel 2012, come detto, per le liti minori (fino a €20.000 poi €50.000). Fino al 2023 era condizione di ammissibilità del ricorso: il contribuente doveva proporre un reclamo all’ente che poteva accoglierlo totalmente (annullare l’atto) o formulare una proposta di mediazione (riduzione delle pretese). Se la proposta veniva accettata, la lite si chiudeva con pagamento del dovuto e sanzioni ridotte al 35% del minimo (beneficio leggermente maggiore rispetto all’adesione). Dal gennaio 2024 questo istituto non è più obbligatorio. I ricorsi vanno direttamente in giudizio. Resta la possibilità di accordarsi anche dopo aver avviato la causa, tramite la conciliazione giudiziale (vedi sotto). Chi aveva cause in reclamo nel 2023 le ha viste transitare in giudizio dopo 90 gg. In ottica attuale, il reclamo-mediazione sopravvive solo come opzione facoltativa: le parti possono comunque scambiarsi proposte transattive prima dell’udienza anche senza formalità particolari. Ad esempio, si può ancora depositare in giudizio un accordo di mediazione raggiunto con l’ufficio prima dell’udienza, che verrà ratificato dal giudice come conciliazione fuori udienza.
  • Conciliazione giudiziale: Prevista dagli artt. 48 e 48-bis D.Lgs. 546/92, è la transazione della lite dopo l’instaurazione del processo, con l’intervento (omologazione) del giudice. Può avvenire fuori udienza (tramite scambio di proposte e atto scritto) o in udienza (dichiarata a verbale). Se le parti trovano un accordo, redigono un verbale o accordo con cui l’ente riduce la pretesa (imposte e/o sanzioni) e il contribuente si impegna a pagare quanto concordato. Il vantaggio principale sono le sanzioni ridotte al 40% del minimo (se conciliazione in primo grado) o al 50% (se in appello) – quindi sconto del 60% o 50% sulle sanzioni. Ciò incentiva a chiudere. Esempio: accertamento €100k imposte + €40k sanzioni; in conciliazione si concorda per €60k imposte e sanzioni ridotte a €16k (40% di 40k), totale €76k. Inoltre la conciliazione evita il rischio di soccombenza totale e chiude la lite definitivamente (l’accordo, una volta omologato dal giudice con decreto/sentenza, rende la pretesa “cristallizzata” a quei termini). Il pagamento va effettuato entro 20 giorni dall’accordo (rateizzabile in 8 rate trimestrali se >€50k). La conciliazione può essere parziale (accordo su alcuni punti, e la lite prosegue sugli altri). Con la riforma 2022 è stato chiarito che la conciliazione è ammessa anche per le cause pendenti in Cassazione, purché compatibile (ad esempio se la questione è solo quantificatoria e non di mero diritto astratto). In udienza, come visto, spesso il giudice suggerisce la conciliazione specie nelle cause di modesta entità o dove intravede incertezze.

Da notare: nel 2023, con la cosiddetta “tregua fiscale”, sono stati introdotti strumenti straordinari di definizione agevolata (come la definizione delle liti pendenti in Cassazione pagando il 5% se doppia conforme favorevole al contribuente, o la rinuncia agli atti da parte dell’Agenzia per liti minori in Cassazione). Questi strumenti eccezionali, però, esulano dalla procedura ordinaria e hanno scadenze e condizioni specifiche fissate per quel periodo. Nella normalità, le opzioni deflattive standard restano adesione e conciliazione.

Riassumendo, il contribuente ha diverse opportunità per risolvere la controversia senza attendere la sentenza: può accordarsi prima (adesione), contestualmente al ricorso (mediazione, finché c’era) o durante il processo (conciliazione). È sempre utile mantenere aperto il dialogo con l’ufficio, parallelamente al percorso giudiziario, per cogliere eventuali soluzioni favorevoli.

Il Giudizio di Secondo Grado (Appello) presso la Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado

Se la sentenza di primo grado non è favorevole (o lo è solo in parte), la parte soccombente può proporre appello dinanzi alla Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado (già Commissione Tributaria Regionale). L’appello in campo tributario è un riesame completo della causa, in fatto e in diritto, sebbene con alcune limitazioni sulle nuove eccezioni proponibili. Vediamo i punti principali:

Proporre l’Appello: termini e modalità

Il termine per proporre appello è, come visto:

  • 60 giorni dalla notifica della sentenza di primo grado fatta da controparte, oppure
  • 6 mesi dalla pubblicazione (deposito) della sentenza, se nessuno l’ha notificata.

Di solito, chi vince in primo grado non ha interesse a notificare la sentenza (per non far decorrere i 60 giorni all’altro), mentre chi perde potrebbe notificare la sentenza di primo grado per far partire il termine breve di appello e non restare in sospeso a lungo. In ogni caso, occorre monitorare la data di deposito della sentenza: se dopo 6 mesi nessuno ha appellato, la sentenza passa in giudicato.

L’appello si propone con atto scritto (ricorso in appello) notificato alle altre parti costituite in primo grado (quindi generalmente all’Agenzia delle Entrate o ente impositore, e se l’ufficio appella, al contribuente). La Corte competente in appello è di regola quella di secondo grado nella cui circoscrizione ha sede la Corte di primo grado. Ad esempio, appello contro una sentenza della CGT I grado di Bari andrà alla CGT II grado Puglia (Bari); appello contro sentenza CGT I grado di Milano va alla CGT II grado Lombardia (Milano), e così via. Eccezione sono i casi delle province autonome: es. appello contro sentenza di Trento va alla CGT II grado di Trento stessa (che funge sia da primo che da secondo grado per quella provincia).

L’atto di appello deve contenere, a pena d’inammissibilità, i motivi specifici di impugnazione (art. 53 D.Lgs. 546/92). In sostanza, l’appellante deve indicare in cosa e perché la sentenza di primo grado sarebbe errata, chiedendone la riforma. Non si può riproporre pari pari il ricorso di primo grado: occorre tarare i motivi sugli errori logico-giuridici della sentenza impugnata (es. “il giudice ha erroneamente ritenuto provato X, mentre…”, “ha omesso di considerare il documento Y…”, “ha violato la norma Z interpretandola male”). Motivi generici portano all’inammissibilità dell’appello.

Non è ammesso introdurre nuove domande in appello né nuovi motivi di ricorso non dedotti in primo grado, salvo quelli che attengono alla nullità della sentenza di primo grado o a questioni rilevabili d’ufficio (es. difetto di giurisdizione). Quindi l’ambito del contendere è delimitato da ciò che è stato discusso in primo grado. Tuttavia, l’appellato (chi vinceva in primo) se vuole può riproporre in appello eventuali motivi di ricorso di primo grado non esaminati dal giudice (art. 56): ad esempio, il giudice di primo grado ha accolto il ricorso per un vizio formale e non si è pronunciato sugli altri motivi; in appello, l’ufficio contesta quel vizio e il contribuente può chiedere espressamente di valutare anche gli altri motivi come sostegno alternativo.

La procedura di appello ricalca in gran parte quella di primo grado: l’appellante notifica il ricorso in appello, poi deposita telematicamente entro 30 giorni. Vanno pagati nuovi contributi unificati in appello (stesse misure, salvo che se l’appello è solo su sanzioni, il valore è quello delle sanzioni). L’appellato può a sua volta costituirsi con controdeduzioni in appello entro 60 giorni, e volendo proporre appello incidentale (se anche l’appellato ha qualcosa da contestare della sentenza, ad esempio il contribuente aveva vinto solo parzialmente e vuole chiedere di più). I termini per appello incidentale sono per lo più coincidenti con quelli di controdeduzione.

Il giudizio d’appello ammette anch’esso scambio di memorie 20-10 giorni prima dell’udienza e memorie di replica 5 giorni prima, come in primo grado. Si tiene un’udienza pubblica (in secondo grado normalmente tutte le udienze sono collegiali, il giudice monocratico non opera) e viene emessa la sentenza di appello. La sentenza di appello sostituisce quella di primo grado: potrà confermarla (rigettando l’appello), riformarla parzialmente o integralmente. Contro la sentenza di secondo grado è ammesso il ricorso per Cassazione.

Va notato che, come in primo grado, anche in appello è possibile la conciliazione giudiziale, con sanzioni ridotte al 50%. Inoltre, la parte soccombente in primo grado che ha proposto appello può chiedere alla Corte di secondo grado la sospensione dell’esecutività della sentenza di primo grado, come spiegato: questa istanza va di solito inserita nell’atto di appello e verrà decisa in tempi rapidi (anche d’urgenza) da un collegio ad hoc. Se concessa, l’ente non potrà riscuotere il dovuto in base alla sentenza appellata finché non esce la sentenza d’appello; se negata, il contribuente dovrà adempiere. Specularmente, l’ufficio appellante che deve rimborsare può chiedere sospensione del rimborso.

Le spese di lite seguono anche in appello la regola della soccombenza: chi perde in secondo grado paga le spese di appello (che si aggiungono o sostituiscono quelle di primo grado, a seconda che la sentenza di primo venga riformata o confermata: ad es., se in primo il contribuente aveva vinto con spese a carico dell’ufficio, ma in appello perde, la CTR annullerà la condanna alle spese di primo grado e invece porrà a carico del contribuente le spese di entrambi i gradi, o almeno del secondo).

Con la sentenza di appello, la vicenda entra nell’ultimo eventuale stadio.

Il Ricorso per Cassazione (Terzo grado di giudizio)

Avverso la sentenza di secondo grado, la parte interessata può proporre ricorso alla Corte di Cassazione. La Cassazione, però, non è un terzo grado di merito: essa giudica solo su motivi di legittimità, ossia violazioni di legge o vizi di motivazione della sentenza di appello. Non può riesaminare i fatti né valutare nuove prove.

I motivi del ricorso per Cassazione devono quindi essere formulati in diritto: es. “violazione dell’art. 360 n.3 c.p.c. in relazione all’articolo tal dei tali, per errata interpretazione – la CTR ha applicato male la norma X…”, oppure “omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti – vizio motivazionale” (motivo 360 n.5 c.p.c., in forma ridotta rispetto al passato). In generale, i casi tipici per andare in Cassazione sono: contrasto giurisprudenziale su quella norma (quindi si mira a un principio di diritto uniforme), errori procedurali gravi dei giudici di merito, o motivazioni della sentenza totalmente illogiche/omesse.

Il termine per il ricorso per Cassazione è analogo all’appello: 60 giorni dalla notifica della sentenza d’appello, oppure 6 mesi dalla pubblicazione se non notificata. Il ricorso va notificato alle controparti (qui in Cassazione occorre il ministero di avvocato iscritto in Cassazione per importi sopra €20.000, ma ciò esula dalla guida pratica fiscale). Dopo la notifica, si deposita il ricorso presso la Corte di Cassazione (anch’essa ormai accetta depositi telematici). La controparte può resistere con controricorso entro 60 giorni dalla notifica.

La Cassazione decide generalmente senza intervento orale delle parti (solo deposito di memorie finali); in alcuni casi può fissare un’udienza pubblica, specie se ci sono questioni di massima o da rimeditare. La decisione della Cassazione può essere di:

  • Inammissibilità/irricevibilità del ricorso (es. motivi non pertinenti o ricorso tardivo).
  • Rigetto (Cassazione respinge il ricorso, confermando la sentenza di appello).
  • Accoglimento del ricorso, totale o parziale, con conseguente cassazione della sentenza impugnata. In tal caso la Corte può decidere nel merito se non sono necessari ulteriori accertamenti di fatto (es. annulla l’avviso se era solo questione di diritto risolta) oppure rinvia la causa ad altra Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado per un nuovo esame conformemente ai principi affermati (cassazione con rinvio).

Le sentenze di Cassazione con rinvio verranno trattate dalla CTR in diversa composizione; la parte soccombente eventualmente potrà anche lì fare appello (in realtà è un unico grado di rinvio). Se invece la Cassazione decide nel merito, la vicenda finisce con la sua pronuncia.

Come strumenti deflattivi straordinari, la riforma 2022-23 ha introdotto la possibilità di conciliazione anche in Cassazione se compatibile e misure speciali (come quelle della “tregua” 2023 menzionate). In linea ordinaria però, arrivare in Cassazione significa che la disputa verte su questioni giuridiche di principio, e difficilmente si conciliano a quel punto (tranne quando l’ente decide di rinunciare se sa di perdere, come avvenuto per molte liti minori con la norma 2023).

Una volta esauriti (o non intrapresi) i mezzi di impugnazione, la sentenza passa in giudicato e l’atto (o ciò che ne resta) diviene definitivo. Se il contribuente risulta vincitore, nulla è dovuto e può ottenere il rimborso di quanto eventualmente versato in pendenza di giudizio (più interessi). Se l’ente risulta vincitore, il contribuente dovrà pagare il dovuto più interessi e le eventuali ulteriori spese legali.

Di seguito presentiamo una sezione di Domande frequenti (FAQ) che riassume i dubbi più comuni, e infine alcune tabelle riepilogative e l’elenco delle fonti normative e giurisprudenziali utilizzate in questa guida.

FAQ – Domande e Risposte Frequenti

D: Che cos’è esattamente un avviso di accertamento fiscale?
R: È l’atto formale con cui il Fisco (Agenzia delle Entrate o altro ente impositore) accerta un’obbligazione tributaria a carico di un contribuente, richiedendo maggiori imposte e/o sanzioni. In pratica, l’avviso di accertamento contesta al contribuente di aver versato meno tasse del dovuto (o violato norme tributarie) e quantifica la somma da pagare. Ad esempio: un avviso IRPEF può contestare redditi non dichiarati, un avviso IVA può rettificare il credito d’imposta, ecc. È un atto motivato che indica le ragioni dell’imposizione e che viene notificato all’interessato. Impugnarlo significa portarlo davanti a un giudice per farne verificare la legittimità.

D: Quali differenze ci sono tra accertamento “analitico”, “induttivo” o “sintetico”?
R: Sono modalità diverse con cui il Fisco ricostruisce il reddito o il volume d’affari:

  • Analitico: basato analiticamente sui dati contabili del contribuente, correggendo voci specifiche (è il metodo standard se la contabilità è regolare ma si contestano alcune poste).
  • Analitico-induttivo: ibrido, parte dai dati contabili ma li integra con presunzioni (es. applica percentuali di ricarico se i margini dichiarati paiono irrisori).
  • Induttivo puro: prescinde dalla contabilità (che risulta inattendibile o inesistente) e determina il reddito con criteri extra-contabili (indizi, medie di settore, consumi di materia prima, movimenti bancari).
  • Sintetico: tipico delle persone fisiche, determina il reddito in base alle spese sostenute e al patrimonio (redditometro). Ad es., possesso di beni di lusso implica un reddito minimo presunto.
    Ogni metodo ha presupposti di legge: l’induttivo puro richiede gravi irregolarità contabili o omessa dichiarazione; il sintetico scatta per scostamenti significativi del tenore di vita rispetto al reddito dichiarato. Per il contribuente, capire la tipologia è importante per la difesa: nel sintetico e induttivo occorre fornire spiegazioni e prove contrarie sui fatti indiziari; nell’analitico spesso si controbattono specifici rilievi tecnici. In ogni caso, l’onere della prova dei maggiori redditi resta a carico del Fisco, almeno per i fatti “costitutivi” della pretesa.

D: Ho ricevuto un avviso di accertamento: devo pagare subito le somme richieste?
R: No, non immediatamente, a meno che tu decida di non impugnarlo. Dalla notifica dell’avviso tu hai 60 giorni per fare ricorso; entro quel termine, il pagamento non è dovuto e non parte ancora la riscossione coattiva. Se presenti ricorso, l’avviso non diventa definitivo finché la causa è pendente. Tuttavia, attenzione: trascorsi 60 giorni, anche se hai presentato ricorso, l’atto diventa esecutivo in via provvisoria. In particolare, per gli accertamenti relativi a imposte erariali, l’Agenzia Entrate-Riscossione può iscrivere a ruolo e iniziare a riscuotere un importo pari di regola a 1/3 del tributo accertato (più interessi) dopo la scadenza dei 60 giorni. Il restante, in caso di esito negativo del giudizio, verrà riscosso dopo la sentenza. Quindi, se fai ricorso, non devi pagare subito l’intero importo, ma potresti dover pagare quel 30% circa (prima era 1/3, oggi con la riforma se perdi in primo grado dovresti pagare tutto). Per evitare qualsiasi pagamento in pendenza di giudizio, puoi chiedere al giudice tributario una sospensione dell’atto. Se il giudice concede la sospensione, nessuna somma è dovuta finché non c’è la sentenza. Se non la concede, dovrai versare la parte esecutiva (per evitare interessi e azioni esecutive). In caso di vittoria finale, quanto pagato ti verrà rimborsato con interessi.

D: È obbligatorio fare prima un reclamo o tentare mediazione con il Fisco prima del ricorso?
R: Non più. Fino al 2023, per le liti di valore fino a 50.000 euro, la legge imponeva di presentare un reclamo-mediazione: il ricorso stesso fungeva da reclamo e la causa restava sospesa 90 giorni in attesa di accordo. Dal 2024 questa fase obbligatoria è stata abolita. Oggi si può proporre ricorso immediatamente, anche per importi modesti, senza dover attendere alcuna mediazione. Resta comunque possibile, in via facoltativa, trovare un accordo con l’ufficio in qualsiasi momento (sia prima di fare ricorso, con un’adesione, sia dopo, con una conciliazione). Ma non è più un passaggio procedurale richiesto per l’ammissibilità. Se il tuo atto è stato notificato nel 2025, puoi procedere diretto in Corte di Giustizia Tributaria. Se invece avevi un reclamo pendente dal 2023, ormai sarà decorso il termine e dovresti aver ricevuto o stai per ricevere comunicazione per costituirti in giudizio.

D: Vale la pena aderire o conciliare? Cosa ci guadagno rispetto ad andare fino in fondo?
R: Dipende dalla situazione. Gli strumenti deflattivi offrono principalmente sconti sulle sanzioni e riduzione di incertezza:

  • Con l’accertamento con adesione (prima del ricorso) le sanzioni sono ridotte a 1/3 del minimo. Esempio: sanzione 100, con adesione paghi 30. Inoltre puoi pagare il dovuto in comode rate trimestrali (max 8) e eviti il contenzioso. L’adesione conviene se riconosci parte dell’accertamento e vuoi chiudere subito ottenendo un taglio delle sanzioni maggiore di quello che otterresti dopo in giudizio.
  • Con la conciliazione giudiziale (durante il processo) le sanzioni sono ridotte al 40% del minimo in primo grado (e 50% in appello). Quindi sconto del 60% sulle sanzioni. Inoltre eviti ulteriori gradi di giudizio. Può convenire se il processo è incerto: ad esempio, se ti viene offerto di pagare solo una quota del tributo e una sanzione molto ridotta, chiudendo la partita, potresti evitare il rischio di dover pagare tutto con sanzioni piene qualora perdessi in giudizio.
    In definitiva, aderire o conciliare significa accettare un compromesso: paghi qualcosa (meno di quanto preteso inizialmente) e in cambio hai la certezza di chiudere la questione, senza ulteriori spese legali e rischi. Se sei sicuro di avere ragione al 100%, magari punterai a vincere in giudizio senza pagare nulla; ma considera sempre che un esito processuale ha margini di incertezza, e che anche vincendo potresti ottenere solo una riduzione parziale. Spesso, specie nelle liti minori, la conciliazione può essere una soluzione rapida e favorevole per entrambe le parti (il Fisco incassa subito qualcosa, tu risparmi sanzioni e tempo). Valuta con il tuo consulente la bontà dell’accordo proposto. Ovviamente, se l’ufficio propone una conciliazione penalizzante quasi quanto l’accertamento originario, allora può valer la pena proseguire la causa.

D: Quanto dura il processo tributario?
R: La durata può variare molto in base al carico di lavoro delle Corti e alla complessità del caso. In generale, il primo grado può durare da 6 mesi a 2 anni circa. Ci sono sedi (soprattutto al Nord) abbastanza veloci che fissano udienza entro 6-8 mesi dal ricorso e decidono entro l’anno; altre più lente dove possono volerci 1,5-2 anni per la sentenza di primo grado. Il secondo grado (appello) può aggiungere altri 1-2 anni. Complessivamente, per un giudizio completo di primo e secondo grado si stimano 2-4 anni. La Cassazione poi può richiedere ulteriori 2-3 anni facilmente (tra attesa di fissazione e decisione). Dunque, un contenzioso che arriva fino in Cassazione può durare anche 5-7 anni in totale. Va detto che la riforma mira a ridurre i tempi: con l’introduzione di giudici tributari professionali e il processo digitale, l’obbiettivo è avere cause di primo grado entro 1 anno o meno. Alcune Corti già notificano sentenze in pochi mesi. Inoltre la pendenza di definizioni agevolate ha ridotto l’arretrato. Naturalmente, se il contribuente decide di definire la lite (adesione/conciliazione) la chiude magari in pochi mesi dal ricevimento dell’atto. Se invece si va avanti in tutti i gradi, ci vuole pazienza. Nel frattempo, però, come visto, le somme richieste potrebbero in parte non essere dovute fino al termine (se sospese). La lungaggine può essere un’arma a doppio taglio: il debito accumula interessi, ma se vinci dovrai essere rimborsato anche di quelli.

D: Cosa rischio se perdo la causa?
R: Se perdi, l’avviso di accertamento diventa definitivo (a meno di appello se eri in primo grado). In pratica dovrai pagare tutto il tributo contestato, le sanzioni e gli interessi maturati. Inoltre, il giudice quasi sicuramente ti condannerà a pagare le spese di giudizio all’ente. Ciò significa qualche migliaio di euro (a seconda del valore causa, il tariffario prevede importi, es. per cause da €50k le spese liquidate possono essere 3-5mila) da pagare come rimborso delle spese legali dell’Agenzia. Se avevi ottenuto una sospensione all’inizio, questa cessa e l’ente può riprendere la riscossione integrale. Se perdi in primo grado ma ritieni la sentenza errata, puoi fare appello (e nel frattempo chiedere sospensione dell’esecutività, così da non pagare finché non si pronuncia l’appello). Se perdi anche in appello, puoi tentare il ricorso in Cassazione, ma lì non c’è sospensione automatica della sentenza: in genere la somma va pagata dopo l’appello (salvo diverse indicazioni del giudice di appello). In caso di sconfitta definitiva, oltre al pagamento volontario, c’è il rischio che l’Agente della Riscossione attivi procedure esecutive (fermo auto, ipoteca, pignoramenti) se non si paga entro i termini indicati nelle cartelle. Quindi è importante in caso di esito negativo valutare, se l’importo è elevato, piani di dilazione o definizioni agevolate se disponibili, per gestire l’esposizione.

D: Se vinco la causa, posso recuperare le spese e i soldi pagati?
R: Sì. In caso di accoglimento del ricorso, totale o parziale, il giudice di norma condanna l’ente a rimborsarti le spese legali (o una percentuale). Dovrai comunque presentare una nota spese e attenerti ai parametri di legge nella richiesta. Se hai pagato delle somme durante la pendenza del giudizio (ad esempio il famoso terzo provvisorio, o metà dopo primo grado), e poi vinci definitivamente, hai diritto al rimborso di quanto pagato indebitamente, più interessi. L’ente dovrebbe restituire entro 90 giorni dalla notifica della sentenza definitiva (che puoi sollecitare). Prima della riforma, l’ente doveva subito rimborsare il 50% dopo vittoria in primo grado, ora deve rimborsare tutto subito se la sentenza è esecutiva immediata (ma l’ufficio di solito aspetta l’esito finale in caso di appello). In pratica, avrai indietro i soldi eventualmente versati, con gli interessi legali maturati (spesso automatici, e ora modesti). Se l’ufficio non paga spontaneamente, puoi attivare la procedura di ottemperanza (un ricorso specifico per costringere l’amministrazione a eseguire la sentenza). In sintesi: vittoria = l’atto sparisce, niente tasse da pagare e rientro delle somme pagate + rimborso spese legali.

D: Posso impugnare un atto che non è formalmente un avviso di accertamento (tipo un avviso bonario, una cartella, un estratto di ruolo)?
R: Sì, in molti casi. La legge elenca una serie di atti impugnabili (art. 19 D.Lgs. 546/92), tra cui: avvisi di accertamento, avvisi di liquidazione, provvedimenti di irrogazione sanzioni, ruoli e cartelle di pagamento, rifiuti di rimborso, dinieghi di agevolazioni, iscrizioni di ipoteca e fermi amministrativi, ecc. La giurisprudenza ha ampliato l’elenco in via interpretativa: ad esempio, se un avviso bonario (comunicazione di irregolarità) contiene una pretesa tributaria definita e immediata, lo si può impugnare eccependo magari che in realtà serviva un avviso di accertamento vero e proprio. Oppure l’estratto di ruolo: in teoria non sarebbe un atto impugnabile perché è un semplice elaborato informatico, ma la Cassazione ha ammesso ricorso contro l’estratto se il contribuente non ha mai ricevuto la cartella e viene a conoscenza del suo debito solo tramite quell’estratto. In tal caso l’estratto “svela” l’esistenza di una cartella che magari non è stata notificata, e il contribuente può impugnarlo per far dichiarare nulla la cartella mai ricevuta. Diciamo che ogni volta che un atto del Fisco produce un effetto lesivo concreto (chiede soldi o nega diritti) ed è definitivo, conviene proporre ricorso. Anche atti come l’ipoteca fiscale o il fermo amministrativo dell’auto sono impugnabili davanti al giudice tributario se riferiti a crediti tributari. Sempre meglio agire, piuttosto che subire un atto potenzialmente invalido. Ovviamente, occorre valutare caso per caso con un esperto se l’atto in questione rientra tra quelli ricorribili.

D: Serve un avvocato per fare ricorso?
R: Dipende dal valore della lite. Se l’importo contestato (al netto di interessi e sanzioni) supera €3.000, sì: è necessaria l’assistenza tecnica di un difensore abilitato (avvocato, commercialista, ecc.). Sotto tale soglia, il contribuente può stare in giudizio da solo. Tuttavia, considerata la complessità della materia, è consigliabile farsi assistere da un professionista anche per cause di modesto importo, a meno che non si tratti di questioni davvero semplici. Nota: le società e enti devono comunque agire tramite rappresentante e difensore (non possono “autodifendersi” come persona fisica). Inoltre, per il ricorso in Cassazione è richiesto un avvocato abilitato al patrocinio in Cassazione. Valuta anche che il difensore conosce procedure (PEC, portale, termini) e può evitare errori formali che un profano potrebbe commettere (causando inammissibilità del ricorso). Le spese per il difensore, se hai ragione, ti saranno rimborsate dall’ente soccombente.

D: Quali costi devo sostenere per fare ricorso (oltre alle eventuali imposte contestate)?
R: I costi principali sono:

  • Il Contributo Unificato Tributario (CUT) all’atto del deposito del ricorso. Va da €30 a €1.500 a seconda del valore della lite (vedi tabella). Ad esempio, per lite da €10.000 il contributo è €120. Se dimentichi di pagarlo, puoi sanare, ma in genere è obbligo del ricorrente. In appello si paga un nuovo contributo uguale (non raddoppia con il grado). In Cassazione c’è un contributo fisso (di solito €200-300).
  • Le spese del difensore (onorario dell’avvocato o commercialista). Queste variano in base al tariffario professionale e alla complessità. Per dare un’idea, per una causa da €50k, l’onorario di primo grado potrebbe essere nell’ordine di qualche migliaio di euro (ad esempio €3.000). Alcuni professionisti chiedono anche un compenso percentuale sul valore. Queste spese, se vinci, ti vengono generalmente rifuse dalla controparte; se perdi, restano a tuo carico e anzi potresti dover pagare l’onorario del difensore dell’ente.
  • Eventuali perizie o consulenze tecniche se necessarie (raro nel tributario, ma a volte serve far fare una perizia di parte – es. per valutare un immobile, ricostruire una contabilità; costi a parte).
    Non ci sono più imposte di bollo o registro da pagare per il processo (il contributo unificato li ha sostituiti). Attenzione solo a indicare codice fiscale e PEC nel ricorso: la mancanza comporta un aumento del 50% del contributo unificato dovuto.

D: Dopo aver fatto ricorso, posso ancora definire la situazione senza attendere la sentenza?
R: Sì, come spiegato, puoi utilizzare la conciliazione giudiziale. Anche se hai già presentato ricorso, nulla vieta che tu e l’ufficio troviate un accordo transattivo. In tal caso, formalizzerete una proposta di conciliazione da sottoporre al giudice (anche in udienza). Se il giudice la ratifica, la lite si chiude immediatamente con un provvedimento che prende atto dell’accordo. Le condizioni di favore (riduzione sanzioni al 40% in primo grado) restano valide. Quindi, se magari dopo la presentazione del ricorso emergono elementi nuovi o più disponibilità da parte dell’ente a trattare, puoi sicuramente conciliare. Anche perché spesso il fatto stesso di vedere le argomentazioni del ricorrente nero su bianco può spingere l’ufficio a più miti consigli. Formalmente, la conciliazione può avvenire fino a che la decisione non è pronunciata: tipicamente, avviene all’udienza di discussione (rinviando la causa in caso di trattativa in corso) o anche prima tramite atto sottoscritto dalle parti e depositato. Un consiglio: se vuoi conciliare, fallo prima che esca la sentenza! Dopo la sentenza di primo grado, se vuoi accordarti in appello, comunque è possibile ma avrai perso il vantaggio sanzionatorio del 60% (in appello lo sconto è 50%). E dopo l’appello è troppo tardi salvo definizioni straordinarie.

D: Ho vinto in primo grado ma l’Agenzia è andata in appello – devo restituire quello che mi avevano rimborsato o posso non pagare nulla nel frattempo?
R: Con la nuova normativa, la tua vittoria di primo grado è pienamente esecutiva. Quindi se l’Agenzia ti aveva rimborsato o sgravato le somme, non devi restituirle salvo diverso ordine. L’appello dell’Agenzia non sospende automaticamente l’esito di primo grado. Sarà l’Agenzia eventualmente a chiedere alla CTR di sospendere la sentenza favorevole a te. Se la CTR concede la sospensiva, potrebbe ordinare di depositare in attesa dell’appello la somma (o parte) in contestazione su un conto vincolato. Se non la concede, tu mantieni il rimborso e non devi pagare nulla, almeno finché non arriva una sentenza contraria. In caso di sconfitta in appello purtroppo poi dovrai pagare, ma senza sanzioni aggiuntive (solo interessi). In sostanza: goditi il risultato di primo grado; se l’ente vuole congelarlo, deve fare istanza. Fino a diverso ordine, la sentenza di primo grado si esegue. Questo è un miglioramento per il contribuente rispetto al passato, dove comunque metà rimaneva bloccata fino a fine lite.

D: Se l’ufficio non esegue la sentenza (ad esempio, non mi rimborsa), che posso fare?
R: In caso di inerzia dell’Amministrazione a fronte di una sentenza definitiva favorevole al contribuente, hai a disposizione la procedura di ottemperanza (art. 70 D.Lgs. 546/92). Devi diffidare l’ente a ottemperare entro un termine (es. 30 gg). Se non lo fa, presenti ricorso per ottemperanza alla Corte tributaria (quella che ha emesso la sentenza passata in giudicato, o alla CTR se era Cassazione). Il giudizio di ottemperanza è un procedimento semplificato in cui un giudice nomina un commissario ad acta e/o adotta i provvedimenti necessari per dare esecuzione alla sentenza. In pratica, potresti ottenere un ordine di pagamento forzato a carico dell’ente. Spesso la sola presentazione del ricorso di ottemperanza “smuove” l’ufficio a pagare per evitare la nomina di un commissario. Ricorda comunque che di norma, una volta notificata la sentenza definitiva, l’ente ha 60 giorni per pagarla spontaneamente (termini interni: 90 gg per rimborsi da sentenza). È sempre preferibile dialogare con l’ufficio (a volte i ritardi sono dovuti a burocrazia) prima di adire il giudice dell’ottemperanza.

D: Mi hanno notificato sia un avviso di accertamento che una cartella di pagamento per lo stesso tributo: contro quale devo fare ricorso?
R: In genere, l’avviso di accertamento precede la cartella. Se ti notificano contemporaneamente o quasi un avviso e poi una cartella per lo stesso importo, probabilmente la cartella è emessa in base a un controllo automatizzato o formale (non esattamente la stessa cosa dell’avviso, oppure l’avviso è per sanzioni). Bisogna verificare bene. Regola: l’accertamento e la cartella sono entrambi impugnabili, ma se impugni l’accertamento e questo viene annullato, cade anche la cartella collegata. Se però la cartella è stata emessa perché non hai pagato l’accertamento entro 60 gg, e non hai fatto ricorso, allora puoi impugnare la cartella solo per vizi propri o per far valere che l’accertamento non ti è stato notificato regolarmente. Non puoi discutere nel merito dell’accertamento in sede di cartella se non l’avevi impugnato a suo tempo, perché ormai è definitivo. Viceversa, se la cartella è arrivata senza un previo avviso (es. cartella per recupero di un controllo automatizzato), puoi impugnare la cartella contestando direttamente il merito del rilievo fiscale che vi è alla base. Nel dubbio, spesso i ricorsi si fanno cumulativi: impugni l’avviso e, se nel frattempo arriva la cartella, impugni anche quella negli stessi atti, per sicurezza, deducendo ad esempio che la cartella è illegittima perché l’avviso presupposto è oggetto di impugnazione. In ogni caso, non pagare la cartella senza prima aver verificato: se c’è un avviso impugnato, la cartella potrebbe essere prematura (magari l’ente non ha atteso la fine del contenzioso). Rivolgiti a un difensore per valutare la situazione specifica.

D: Quali sono i principali motivi formali che rendono nullo un avviso di accertamento?
R: I vizi formali più frequenti (da eccepire nel ricorso se presenti) sono:

  • Difetto di motivazione: l’atto deve motivare adeguatamente la pretesa, spiegando i fatti e le norme applicate. Se contiene solo formule generiche senza spiegare perché ti chiedono soldi, può essere annullato per carenza di motivazione (art. 7 L. 212/2000).
  • Violazione del contraddittorio: come detto, dal 2016 per i tributi armonizzati (IVA) e dal 2020-2023 per tutti, se l’avviso non è preceduto da un invito al contraddittorio quando doveva esserlo, può essere nullo. Ad esempio, per redditometro o studi di settore, la mancata convocazione del contribuente prima di emettere l’atto è causa di nullità.
  • Notifica invalida: se l’atto non è stato notificato secondo legge (es. consegnato alla persona sbagliata, indirizzo errato, ecc.), si può eccepire la nullità della notifica (talora sanabile se hai comunque avuto conoscenza dell’atto in tempo utile).
  • Incompetenza territoriale o funzionale: se l’avviso è emesso da un ufficio non competente (es. un ufficio fuori zona, o un funzionario non delegato), anche quello può inficiare l’atto.
  • Violazione di termini perentori: ad esempio l’atto emesso oltre i termini di decadenza previsti (in genere il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello di dichiarazione, settimo se omessa). Un accertamento tardivo è nullo perché l’ufficio era decaduto dal potere.
  • Mancata sottoscrizione: l’avviso va sottoscritto dal capo ufficio o da funzionario delegato. Se proprio manca la firma (caso raro) è nullo; se la firma è illeggibile ma c’è nome in stampatello, è ok; se fosse firmato da un soggetto non delegato, sarebbe un vizio.
  • Altri vizi: errori sull’intestazione del contribuente, sul periodo d’imposta, sull’imponibile (se è un errore materiale che rende incomprensibile l’atto). Oppure mancata indicazione dell’ufficio presso cui fare adesione (obbligatoria per legge).
    Tuttavia, attenzione: i vizi formali portano all’annullamento solo se sono sostanziali. La giurisprudenza è orientata al “nocivo”: se il vizio non lede i diritti del contribuente (es. un errore formale ma che non pregiudica difesa) spesso la nullità non viene riconosciuta. Quindi concentratevi su quelli importanti, come contraddittorio e motivazione.

D: Cosa significa che nel processo tributario “non vale la prova testimoniale” o “ci sono limitazioni alla prova”?
R: Era così in passato: il D.Lgs. 546/92 originariamente vietava la testimonianza come mezzo di prova. Oggi quel divieto è stato rimosso/attenuato: la testimonianza è ammessa in forma scritta in certi casi. Resta però un processo in cui la prova principale sono i documenti. Non c’è un giuramento delle parti, non c’è l’esame orale dei testimoni in udienza, non c’è giuria: c’è un giudice tecnico che valuta carte, numeri e norme. Le limitazioni rimaste: non è ammesso giurare il falso (ovviamente), e alcune cose non si possono provare se la legge richiede la forma scritta (es. un contratto di compravendita immobiliare non può essere provato a voce). Quindi, quando affronti un ricorso tributario, raccogli tutta la documentazione possibile a tuo favore: fatture, ricevute, estratti conto, perizie, contratti, foto, email, qualsiasi cosa supporti i fatti che asserisci. Se manca proprio tutto e l’unica sarebbe la parola di qualcuno, si può richiedere la testimonianza scritta, ma è una novità ancora in rodaggio e concessa con cautela. In ultima istanza, c’è la tua parola: se vieni chiamato dal giudice (accade raramente) puoi rendere dichiarazioni spontanee, ma non hanno valore di prova legale. Diverso è se tu fossi stato interrogato in un processo penale sugli stessi fatti: in quel caso le risultanze penali (es. una sentenza di assoluzione o di condanna) possono influire nel tributario, soprattutto ora che la riforma ha eliminato in parte il “doppio binario” (ad esempio, una sentenza penale passata in giudicato per frode fiscale può rendere incontestabili alcuni fatti anche nel tributario, e viceversa una assoluzione piena per “il fatto non sussiste” potrebbe riflettersi a tuo vantaggio in commissione). Insomma, la difesa nel tributario è un mix di diritto e fatto documentale, con margini minori per la drammatizzazione tipica dei processi tv con testimoni e arringhe sentimentali.

Tabelle Riepilogative

Di seguito alcune tabelle riassuntive utili per orientarsi rapidamente su termini, competenze, costi e giurisprudenza rilevante.

Termini di Impugnazione e Scadenze Principali

SituazioneTermine per impugnare/presentare ricorsoRiferimento
Notifica avviso di accertamento (atto impositivo)60 giorni dalla data di notifica dell’atto (escluso giorno notifica).Art. 21, c.1 D.Lgs. 546/92
Sospensione feriale (1-31 agosto)Il termine di 60 gg rimane sospeso dal 1° al 31 agosto, prorogandosi di 31 giorni.L. 7/10/1969 n.742
Istanza di accertamento con adesione presentata entro 60 ggSospende il termine per ricorrere per 90 giorni. Il nuovo termine = 60 gg + 90 di sospensione (più eventuale periodo feriale se ricade).Art. 6, c.3 D.Lgs. 218/97
(Previgente, per atti fino 2023) Reclamo-mediazione obbligatorio(Sospendeva per 90 gg il termine). Non applicabile per ricorsi dal 2024.Art. 17-bis D.Lgs. 546/92 (abrogato)
Notifica della sentenza di primo grado da parte di una delle parti60 giorni dalla notifica per proporre appello.Art. 51, c.1 D.Lgs. 546/92
Mancata notifica della sentenza di primo grado6 mesi dalla data di pubblicazione (deposito) della sentenza per proporre appello (“termine lungo”).Art. 51, c.2 D.Lgs. 546/92; art. 327 c.p.c.
Notifica della sentenza di appello60 giorni dalla notifica per proporre ricorso per Cassazione.Art. 62 D.Lgs. 546/92; art. 325 c.p.c.
Mancata notifica della sentenza di appello6 mesi dalla pubblicazione della sentenza d’appello per ricorrere in Cassazione.Art. 327 c.p.c. (termine lungo in cassazione)
Costituzione in giudizio dopo notifica del ricorso (primo grado)30 giorni dalla notifica del ricorso per depositarlo (telematicamente) presso la CGT.Art. 22 D.Lgs. 546/92
Costituzione in giudizio dell’ente resistente60 giorni dalla notifica del ricorso per depositare controdeduzioni.Art. 23 D.Lgs. 546/92
Deposito documenti (entrambe le parti)Fino a 20 giorni liberi prima dell’udienza.Art. 32, c.1 D.Lgs. 546/92
Deposito memorie illustrative (entrambe le parti)Fino a 10 giorni liberi prima dell’udienza.Art. 32, c.2 D.Lgs. 546/92
(Novità) Deposito memorie di replicaFino a 5 giorni prima dell’udienza (eventuali brevi repliche a memorie avversarie).Art. 32, c.2-bis D.Lgs. 546/92 (introdotto da L.130/2022)
Fissazione udienza su istanza di sospensione dell’atto impugnatoEntro 30 giorni dalla richiesta.Art. 47, c.5 D.Lgs. 546/92 (mod. da L.130/2022)
Comunicazione avviso di trattazione (udienza di merito)Almeno 30 giorni prima dell’udienza (via PEC) – se non comunicato, parte può chiederlo.Art. 31 D.Lgs. 546/92
Esecutività sentenza di primo gradoImmediata al 100%, salva sospensione in appello.Art. 68 D.Lgs. 546/92 (sostituito da L.130/2022)
Richiesta sospensione sentenza di primo grado (in appello)Contestuale a appello o con istanza motivata finché pendenza appello.Art. 52 D.Lgs. 546/92 (introdotto da L.130/2022)
Esecutività sentenza d’appelloImmediata; se favorevole al contribuente, l’ente rimborsa; se favorevole all’ente, riscuote. Sospendibile da Cassazione (rarissimo).Art. 68, c.2 D.Lgs. 546/92 (come mod.)
Rimborso somme dopo sentenza definitiva favorevoleEntro 90 gg dalla notifica della sentenza definitiva (in genere).Art. 68 c.2-ter D.Lgs. 546/92 (rimborso 100%)

(Legenda: “liberi” = escludendo il giorno dell’udienza e quello iniziale.)

Competenza Territoriale delle Corti di Giustizia Tributaria

Tipo di atto / Ente emittenteCorte di Giustizia Tributaria (primo grado) competente per territorioRiferimento
Avviso di accertamento Agenzia delle Entrate (imposte dirette, IVA, registro, ecc.)CGT di primo grado nella cui circoscrizione ha sede l’ufficio dell’Agenzia delle Entrate che ha emesso l’atto. (Es.: Avviso da D.P. Agenzia Entrate di Bologna -> CGT I grado di Bologna)Art. 4, c.1 D.Lgs. 546/92
Avvisi di tributi locali (IMU, TARI, ecc.) emessi da Comune o altro ente localeCGT di primo grado della provincia in cui ha sede l’ente locale impositore. (Es.: Avviso TARI Comune di Napoli -> CGT I grado di Napoli)Art. 4, c.1 D.Lgs. 546/92 (“enti locali”)
Atti emessi dall’Agenzia delle Dogane e Monopoli (es. accertamento dazio/IVA import)CGT I grado dove ha sede l’ufficio delle Dogane che ha emesso l’atto (equiparato a ufficio finanziario statale).Art. 4, c.1 D.Lgs. 546/92 (“uffici… del Ministero”)
Cartella di pagamento o altri atti della riscossione (intimazioni, fermi, ipoteche) emessi da Agente della Riscossione (Agenzia Entrate-Riscossione o concessionario)CGT I grado nella cui circoscrizione ha sede l’Agente della Riscossione che ha notificato la cartella/atto. In pratica coincide spesso col domicilio fiscale del contribuente. (Es.: cartella da AER Team Provinciale di Roma -> CGT I grado Roma)Art. 4, c.1 D.Lgs. 546/92 (“concessionari del servizio riscossione”)
Atti emessi da un Centro Operativo/Servizi dell’Agenzia Entrate (es. Centro operativo Pescara)CGT I grado dove ha sede l’ufficio locale competente sul tributo. (Es: atto da Centro Pescara per rimborso, tributo competenza DP Milano -> CGT Milano)Art. 4, c.1 D.Lgs. 546/92 (parte finale)
Controversie in materia catastale (es. classamento)CGT I grado dove ha sede l’ufficio Provinciale – Territorio che ha emesso l’atto. (In genere coincide con la provincia dell’immobile.)Art. 4, c.1 D.Lgs. 546/92 (“uffici… del territorio”)
Appello (CGT secondo grado)CGT di secondo grado nella cui circoscrizione si trova la CGT di primo grado che ha pronunciato la sentenza impugnata. (Es.: Sentenza CGT I grado di Bari -> appello a CGT II grado Puglia (Bari))Art. 4, c.2 D.Lgs. 546/92
(*) Eccezione Province Autonome (Trento, Bolzano)La CGT di secondo grado coincide con quella di primo grado (organi unici). Es. sentenza CGT di Bolzano -> appello a CGT di Bolzano.Art. 4, c.2 D.Lgs. 546/92 (nota 1, decorrenza)

Note: Non esiste competenza per valore nel processo tributario (indipendentemente dall’importo, la competenza è sempre del giudice tributario provinciale in primo grado). La competenza territoriale può essere derogata per accordo delle parti solo in casi eccezionali e va eccepita dalle parti nel primo atto, altrimenti è sanata (art. 5 D.Lgs. 546/92). In caso di errore, il ricorso viene trasmesso al giudice territorialmente competente. La giurisdizione è tributaria per tributi di ogni genere (erariali, locali) e relativi accessori; resta fuori il contenzioso puramente civilistico (es. contratto privato con effetti fiscali collaterali) o le sanzioni amministrative non tributarie.

Costi del Contenzioso Tributario

Valore della lite (imposte accertate al netto di interessi e somme già pagate; se solo sanzioni, somma delle sanzioni)Contributo Unificato da versare (primo grado e in appello)Note sui costi
Fino a €2.582,28€ 30Valore indeterminabile (es: accertamento su perdita fiscale) si equipara a fascia €5.001-25.000→ €120. Se nel ricorso non dichiari il valore, presunto >€200.000 → contributo €1.500.
€2.582,29 fino a €5.000€ 60Dal 2023 la legge prevede maggiorazione 50% se ricorso privo di PEC del ricorrente/difensore o codice fiscale. (Es.: contributo base €120 diventa €180).
€5.000,01 fino a €25.000€ 120Nessuna marca da bollo né spese di registro sentenza. Se soccombente, potresti dover rimborsare il contributo all’altra parte (spese vive).
€25.000,01 fino a €75.000€ 250In Cassazione: se ricorso integralmente respinto o inammissibile, si applica d’ufficio un contributo unificato aggiuntivo pari a quello già versato (raddoppio contributo) – art. 13 c.1-quater DPR 115/02.
€75.000,01 fino a €200.000€ 500Le spese del difensore dipendono dalla complessità e dal valore: parametri DM 55/2014 (es: causa €100k, compenso indicativo avvocato ~€5-7k per grado). Se vinci, di regola tali spese ti vengono liquidate a carico dell’ente soccombente.
Oltre €200.000€ 1.500In caso di conciliazione o mediazione, le spese legali sono in genere compensate (ciascuno le proprie) salvo diverso accordo, e non si paga contributo per l’atto di conciliazione.

Altri costi/adempimenti:

  • Procura alle liti: esente da bollo e registro, soggetta a imposta di bollo se su documento separato (€16 ogni 4 facciate). Spesso si appone in calce al ricorso per evitare bolli.
  • Spese di copia/autentica: con il telematico, copie e conformità digitali sono autocertificate dal difensore, quindi niente costi di segreteria se si opera in via telematica.
  • CTU/Periti: rarissimi; se disposti, anticipa il committente (di solito l’ufficio se fu l’ufficio a chiederla) e poi spese a carico di chi perde in sentenza.
  • Sanzione processuale: se proponi appello o ricorso temerario, la controparte può chiedere il “risarcimento dei danni da lite temeraria” (art. 96 c.p.c.), ma è applicato in casi eccezionali di malafede o colpa grave nel litigare (raro nel tributario).

Giurisprudenza Rilevante (Principi)

Tema / PrincipioPronunciaMassima o riferimento
Impugnabilità atti atipici – Estratto di ruolo e avvisi bonariCass. sez. trib. n. 19704/2015 (SU) Cass. sez. VI n. 11759/2019 Cass. ord. n. 18822/2023La giurisprudenza ha evoluto il concetto di atto impugnabile in senso sostanziale: è immediatamente impugnabile qualsiasi atto dell’amministrazione finanziaria che manifesti una pretesa tributaria definita e faccia stato verso il contribuente. Cassazione ha ammesso il ricorso avverso l’estratto di ruolo qualora l’originaria cartella non sia stata notificata e l’estratto riveli per la prima volta il debito. Parimenti, l’avviso bonario post-controllo formale ex art.36-ter DPR 600/73 è impugnabile se contiene una puntuale contestazione assimilabile a un accertamento, poiché non avrebbe senso costringere ad attendere la cartella. (Cfr. Cass. SU 19704/2015; Cass. 16293/2018; Cass. 26484/2018).
Contraddittorio endoprocedimentale – Obbligo e nullitàCorte Cost. n. 132/2015 Cass. SU n. 24823/2015 Cass. ord. n. 701/2019 (SU) Cass. ord. n. 18410/2019 (SU)La Corte Costituzionale nel 2015 ha escluso l’esistenza di un obbligo generalizzato di contraddittorio per gli accertamenti tributari interni, demandando al legislatore la disciplina. Ne è seguita una giurisprudenza oscillante: Cass. SU 24823/2015 ha ritenuto nulli gli accertamenti IVA senza contraddittorio (in ossequio al diritto UE) ma non quelli non IVA; Cass. SU 701/2019 e 18410/2019 hanno poi affermato che anche per i tributi non armonizzati la mancata attivazione del contraddittorio preventivo comporta nullità solo se il contribuente prova in giudizio la rilevanza delle sue osservazioni non ascoltate (prova di resistenza). Dal 2020 la legge (DL 34/2019 conv.) impone per legge l’invito al contraddittorio per la generalità degli accertamenti, e la riforma 2022 l’ha ribadito, per cui le sentenze più recenti (C.Cost. n.47/2023) confermano l’adeguamento normativo. In sintesi: oggi l’omesso contraddittorio è vizio radicale salvo casi eccezionali di urgenza (ad es. rischio decadenza breve) da motivare nell’atto.
Onere della prova – Ripartizione Fisco/contribuenteCass. sez. trib. n. 8995/2014 Cass. sez. trib. n. 21119/2019 Cass. sez. trib. n. 23323/2020 Cass. ord. n. 32840/2022 (+ L. 130/2022)La regola civilistica ex art.2697 c.c. si applica in ambito tributario: spetta all’Amministrazione dimostrare i fatti costitutivi della maggiore pretesa, mentre il contribuente deve provare i fatti che escludono o estinguono tale pretesa (es. pagamenti già avvenuti, deduzioni spettanti). Già Cass. 8995/2014 (SU) chiarì che, ad esempio, in tema di redditi da attività estera, l’Agenzia deve provare l’esistenza di attività non dichiarate, e il contribuente se eccepisce la doppia imposizione deve provare di aver già subito tassazione all’estero. La L.130/2022 ha positivizzato questo principio (nuovo art.7, c.5-bis D.Lgs.546/92) e la Cassazione recente ha evidenziato che la norma “non altera la ripartizione classica se non formalizzandola” (Cass. 32094/2022). Pertanto anche dopo la riforma vige: il Fisco deve provare i presupposti dell’accertamento; il contribuente può limitarsi a contestarne la fondatezza o allegare elementi contrari e alternativi.
Utilizzabilità prove illegittimamente acquisiteCass. sez. trib. n. 4580/2017 Cass. sez. trib. n. 9384/2018 Cass. sez. trib. n. 33870/2019 Cass. sez. trib. n. 8452/2025La Corte di Cassazione ha ripetutamente affermato che non esiste nel processo tributario un principio generale di inutilizzabilità delle prove irritualmente acquisite dall’Amministrazione, a differenza del processo penale. Ciò significa che elementi probatori raccolti dal Fisco in violazione di norme procedimentali (es. dati bancari acquisiti senza autorizzazione, PVC redatto senza attendere 60 giorni) non sono automaticamente esclusi dal giudizio tributario. Fanno eccezione le prove ottenute in violazione di diritti fondamentali di rango costituzionale (es. domicilio inviolabile, segreto di corrispondenza): tali prove vanno espunte. Negli altri casi, però, il giudice tributario valuterà liberamente la prova, tenendo conto dell’eventuale vizio nella sua formazione solo come elemento di minor attendibilità eventualmente. Questo orientamento è stato di recente confermato (Cass. n. 33870/2019; Cass. 8452/2025), consolidando il principio del libero convincimento del giudice tributario basato sul risultato probatorio complessivo, più che sulla formale procedura di acquisizione.
Sanzioni tributarie e ne bis in idem (doppio binario)Corte EDU, Grande Stevens vs. Italia (2014) Corte EDU, A. e B. vs Norvegia (2016) CGUE, causa C-524/15 (Menci, 2018) Corte Cost. n. 222/2019(Principio di diritto europeo) L’irrogazione di sanzioni amministrative tributarie non preclude il successivo processo penale per il medesimo fatto tributario, purché i procedimenti siano sufficientemente coordinati e le sanzioni complessivamente proporzionate (criterio del bis in idem sostanziale). La Corte EDU nel caso Grande Stevens (su abuso di mercato) aveva condannato l’Italia per doppio binario sanzionatorio, ma in materia fiscale la giurisprudenza successiva (A e B c. Norvegia) ha attenuato la rigidità, ritenendo ammissibile il doppio procedimento se c’è coordinamento. La Corte di Giustizia UE nel caso Menci (evasione IVA) ha stabilito che il bis in idem è vietato solo se la sanzione complessiva risulta eccessiva rispetto alla gravità, lasciando però margine agli Stati. La Corte Costituzionale italiana (sent.222/2019) ha recepito questi principi, dichiarando illegittimo il doppio binario solo in casi di palese violazione del ne bis in idem sostanziale. In pratica, oggi il sistema sanzionatorio tributario è congegnato per evitare duplicazioni punitive eccessive: ad esempio, se c’è un penale per frode fiscale, la sanzione amministrativa può essere applicata ma con criteri di proporzionalità (spesso i giudici tributari aspettano l’esito penale e tengono conto delle sanzioni penali nell’applicare le amministrative). Il contribuente può opporsi a pagare due volte per lo stesso fatto invocando questi principi euro-unitari in casi estremi.
Esecutività delle sentenze tributarieCass. sez. trib. n. 7345/2012 (SU) Corte Cost. n. 77/2018 Riforma 2022 (L.130/22)Prima della riforma, le sentenze tributarie erano esecutive nei limiti dell’art. 68 D.Lgs.546/92: se favorevoli al contribuente, l’ente doveva rimborsare il 50% subito; se favorevoli all’ente, il contribuente doveva pagare 2/3 (o il residuo) salvo sospensione. La Corte Cost. 77/2018 dichiarò incostituzionale la norma nella parte in cui non prevedeva la sospensione della riscossione anche per l’appello, creando asimmetrie (infatti prima se perdevi in appello dovevi pagare tutto anche se andavi in Cassazione, senza poter sospendere). La riforma ha superato tali problemi prevedendo che ogni sentenza tributaria è immediatamente esecutiva per intero, introducendo contestualmente la possibilità di chiedere la sospensione dell’esecutività in appello e in Cassazione. Cass. SU 7345/2012 già affermava che il giudicato tributario ha efficacia immediata; ora questo vale anche prima del giudicato, per la provvisoria. In pratica, oggi la parte vincitrice in ogni grado può esigere l’esecuzione, rendendo il processo tributario allineato al civile sul punto della tutela immediata. Il rovescio è che serve cautela e l’utilizzo appropriato degli strumenti di sospensione per evitare effetti irreversibili in caso di riforma in appello.

Fonti Normative e Giurisprudenziali

Normativa Vigente (aggiornata a maggio 2025):

  • D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546“Disposizioni sul processo tributario”. Testo base del processo tributario, come modificato da D.Lgs. 156/2015, L. 130/2022 (riforma giustizia tributaria) e D.Lgs. 119/2023 e 130/2023 (attuazione delega fiscale 2023) – in particolare: artt. 2-4 (giurisdizione e competenza), 12 (assistenza tecnica), 19 (atti impugnabili), 21 (termine 60 gg), 22-25 (costituzione in giudizio), 32 (memorie 20-10 gg), 39 (poteri giudice, estinzione), 46-48 (conciliazione giudiziale), 47 (sospensione), 48-bis (conciliazione fuori udienza), 49 (estinzione per conciliazione), 52 (sospensione esecutività sentenza in appello), 53 (contenuto appello), 57 (divieto nuovi motivi in appello), 61 (decisione appello), 62-63 (ricorso per Cassazione), 64 (autorità del giudicato), 68 (sospensione e esecutorietà delle sentenze – sostituito da L.130/22)【27†L100- D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 – Disposizioni sul processo tributario (istitutivo delle Commissioni Tributarie, oggi Corti di Giustizia Tributaria). Norme principali: art. 2 (giurisdizione tributaria), art. 4 (competenza per territorio), art. 12 (difesa tecnica), art. 19 (atti impugnabili), art. 21 (termine 60 giorni per ricorso), art. 22-23 (costituzione in giudizio), art. 32 (termini per documenti e memorie), art. 47 (sospensione dell’atto), art. 48 e 48-bis (conciliazione giudiziale), art. 51-53 (appello), art. 58 (nuove prove in appello), art. 62-63 (ricorso per Cassazione), art. 68 (esecutorietà delle sentenze, come modificato), art. 69 (condanna alle spese), art. 70 (ottemperanza).
  • D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 545 – Ordinamento degli organi della giurisdizione tributaria (disciplina del funzionamento e composizione delle Corti).
  • D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 – Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi. Norme rilevanti: art. 38 (accertamento sintetico redditi persone fisiche), art. 39 (accertamento analitico-induttivo redditi d’impresa), art. 42 (avviso di accertamento – requisiti e firma), art. 43 (termini di decadenza accertamento), art. 60 (notifiche atti tributari).
  • D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 – Istituzione e disciplina dell’IVA. Norme rilevanti: art. 52 (accessi e ispezioni fiscali), art. 54 (accertamento IVA), art. 56 (termine decadenza IVA), art. 60 (solidarietà e sanzioni IVA).
  • D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 – Sanzioni amministrative tributarie (principio del ne bis in idem interno, criteri di commisurazione sanzioni).
  • L. 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto del Contribuente) – Principi generali: art. 6 (garanzie del contraddittorio; preavviso 60 giorni per PVC), art. 7 (obbligo di motivazione degli atti), art. 10 (tutela dell’affidamento), art. 12 (diritti del verificato: ad es. intervallo 60 giorni tra PVC e accertamento, salvo urgenza).
  • D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218 – Accertamento con adesione. Norme: art. 5 (istanza di adesione entro 60 gg), art. 6 (sospensione 90 gg termini ricorso), art. 7 (atto di adesione e perfezionamento), art. 8 (sanzioni ridotte a 1/3).
  • D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 156 – Riforma del contenzioso tributario (ha introdotto il reclamo-mediazione, poi ampliato a €50.000, e varie semplificazioni).
  • L. 31 agosto 2022, n. 130 – Riforma della giustizia tributaria. Principali interventi: trasformazione delle Commissioni in Corti, introduzione giudice monocratico fino €3.000, prova testimoniale scritta ammessa (modifica art. 7 e nuovo art. 7-ter), principio onere prova in legge (art. 7 c.5-bis), immediata esecutività delle sentenze (sostituzione art. 68), sospensione esecutività in appello (nuovo art. 52), possibilità conciliazione anche in Cassazione, professionalizzazione giudici tributari.
  • Legge Delega 9 agosto 2023, n. 111 e D.Lgs. 11 ottobre 2023, n. 156 – Ulteriori ritocchi: abolizione reclamo obbligatorio mediante D.Lgs. 7 dicembre 2023, n. 185 (che ha formalmente soppresso art. 17-bis D.Lgs.546/92), modifiche su giudice monocratico (innalzamento a €5.000 dal 2024, de jure condendo), perfezionamento processo telematico (art. 16 D.Lgs. 546 e nuovo art. 25-bis sulle attestazioni).
  • D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – Testo Unico spese di giustizia. Art. 13 (contributo unificato cause tributarie, scaglioni); art. 15 (esenzione spese per conciliazione).
  • D.L. 6 luglio 2011, n. 98, art. 39 co.8-9 (convertito L. 111/2011) – Ha introdotto contributo unificato nel processo tributario e disciplina delle spese a carico soccombente.
  • Circolare Ministero Finanze n. 1/DF del 21/09/2011 – Chiarimenti su contributo unificato tributario (determinazione valore lite, imposta virtuale su perdite, ecc.).
  • Comunicati stampa MEF – 4 gennaio 2024: Abrogazione dell’istituto del reclamo-mediazione (conferma operatività dal 1/1/2024).

Giurisprudenza (sentenze e ordinanze):

  • Cass., Sez. Un., 29/07/2015 n. 19704Impugnabilità estratto di ruolo: riconosce la legittimazione del contribuente ad impugnare l’estratto di ruolo se da esso viene a conoscenza di una cartella mai notificata, in quanto atto lesivo conoscitivo. V. anche Cass. SU 7822/2020 (conferma impugnabilità estratto ruolo) e Cass. SU 9831/2021.
  • Cass., Sez. Un., 18/09/2014 n. 19667Avvisi “bonari” da controllo formale: equiparabili ad atti impugnabili se recano una pretesa tributaria definita e immediatamente esigibile (in sostanza se l’invito al pagamento ha natura di accertamento).
  • Cass., Sez. Un., 09/12/2015 n. 24823Contraddittorio preventivo: per l’IVA e i tributi armonizzati è principio generale UE, la mancata attivazione comporta nullità dell’atto salvo provata inutilità; per gli altri tributi, obbligo solo se previsto da legge (principio poi evoluto). Cass., Sez. Un., 16/01/2019 n. 701 – stabilisce che l’omissione del contraddittorio negli accertamenti fiscali “a sorpresa” non comporta annullamento se il contribuente non indica specificamente quali osservazioni avrebbe svolto (prova di resistenza). Corte Cost. 07/04/2023 n. 47 – invita il legislatore a estendere la regola del contraddittorio generalizzato (nel frattempo attuata).
  • Cass., Sez. Un., 18/12/2020 n. 28314 – conferma che dal 1° luglio 2020 (entrata vigore art. 5-ter D.Lgs. 218/97) sussiste obbligo generalizzato di contraddittorio per gli accertamenti fiscali, a pena di nullità, salvo casi di particolare urgenza motivati nell’atto (urgenza che va provata dall’Ufficio).
  • Cass., Sez. Tributaria, 05/10/2022 n. 28894Redditometro: ribadisce che per gli accertamenti sintetici vige l’obbligo di contraddittorio endoprocedimentale (anche per annualità antecedenti il 2016, in base a L. 148/2011), e la sua omissione comporta nullità dell’atto. Inoltre, sulle spese per incrementi patrimoniali, onere del contribuente giustificarne la copertura con redditi non tassabili.
  • Cass., Sez. Un., 08/09/2016 n. 17758Strumenti deflativi e ricorso: sancisce che la presentazione dell’istanza di adesione entro i 60 giorni comporta la sospensione ex lege del termine per ricorrere; chiarisce natura giuridica di tale sospensione (non proroga se non fruita).
  • Cass., Sez. Un., 18/04/2018 n. 9276Giudicato penale e processo tributario: afferma che il giudice tributario non è vincolato alle sentenze penali, salvo i casi di assoluzione con formula piena per insussistenza del fatto, che fanno venir meno la pretesa sanzionatoria. (Nota: L.130/2022 art. 5 ha introdotto nuova disciplina coordinamento giudicato penale-tributario.)
  • Cass., Sez. Un., 13/04/2017 n. 9479Riparto onere della prova: conferma che nelle presunzioni legali relative (es. accertamento analitico-induttivo) spetta al contribuente fornire prova contraria, ma solo dopo che l’ufficio abbia assolto la prova dei fatti base. Ribadito da Cass. 21/04/2020 n. 7961 per studi di settore.
  • Cass., Sez. Un., 16/03/2016 n. 5069Presunzioni bancarie: i movimenti bancari non giustificati si presumono ricavi (o compensi) ex lege; onere al contribuente di provare la diversa natura (ad es. prestiti, trasferimenti intra-familiari). Vedi anche Cass. 24/05/2021 n. 14149.
  • Cass., Sez. Tributaria, 28/04/2023 n. 11118Utilizzabilità prove irrituali: richiama l’orientamento secondo cui nel processo tributario vige il principio di libertà della prova, con possibilità di utilizzo anche di documenti acquisiti dall’ufficio in violazione di norme procedimentali, salvo lesione di diritti fondamentali.
  • Cass., Sez. Tributaria, 29/03/2022 n. 1017Nullità cartella non preceduta da avviso: se per la tipologia di accertamento era necessario un avviso (ad es. controllo formale ex art.36-ter), la notifica diretta di cartella senza previo avviso comporta nullità della cartella stessa.
  • Corte Costituzionale 7 luglio 2015 n. 132 – Rigetta questione su obbligo generalizzato di contraddittorio (nel caso “Ilva” – accertamenti induttivi annualità ante 2014) ma afferma che il contraddittorio è principio cardine per l’ordinamento, auspicandone l’estensione legislativa.
  • Corte Costituzionale 12 marzo 2019 n. 47 – Dichiara illegittimo l’art. 2 D.Lgs. 546/92 nella parte in cui non consente al giudice tributario di conoscere la legittimità del rifiuto di autotutela su atti divenuti definitivi: apre uno spiraglio all’impugnabilità del diniego di autotutela per vizi di merito clamorosi (principio di tutela giurisdizionale effettiva).
  • Corte Costituzionale 19 aprile 2018 n. 77 – Dichiara incostituzionale l’art. 69, c.2 D.Lgs. 546/92 (vecchia norma su esecutività sentenze) nella parte in cui non prevedeva la sospensione in appello delle sentenze favorevoli al contribuente: ha portato poi alla riforma organica dell’esecutività.
  • Corte Giustizia UE 18/12/2008, C-349/07 (Sopropé) – Principio generale del diritto UE: le autorità nazionali devono garantire il diritto al contraddittorio ai contribuenti prima di adottare atti lesivi (caso in materia doganale), salvo esigenze di urgenza.
  • Corte Giustizia UE 03/07/2014, C-129/13 (Kamino) – Conferma Sopropé: nel recupero di dazi/IVA il contraddittorio è necessario e la sua violazione comporta l’annullamento dell’atto se il contribuente dimostra che, se ascoltato, il provvedimento poteva avere esito diverso.
  • Corte Giustizia UE 17/07/2014, C-169/13 (Berlioz) – In materia fiscale transfrontaliera: consacra il principio del diritto di difesa anche nelle cooperazioni tra stati (diritto di essere sentiti prima di trasmettere informazioni che portino ad accertamenti).
  • Corte EDU 04/03/2014 (Grande Stevens vs Italia) – Condanna l’Italia per violazione ne bis in idem per doppio procedimento penale e amministrativo (in materia fiscale e finanziaria). Caso non tributario, ma ha innescato il riesame del doppio binario sanzionatorio.
  • Corte EDU 15/11/2016 (A. e B. vs Norvegia) – Stabilisce criteri perché il doppio binario sanzionatorio (penale+amministrativo) sia compatibile col ne bis in idem: deve esserci uno stretto collegamento sostanziale e temporale fra i due procedimenti, evitando duplicazioni punitive eccessive.
  • Cass., Sez. Un., 22/02/2017 n. 4307Doppio binario tributario: recepisce A. e B. c. Norvegia, affermando che in materia di omesso versamento IVA (sanzione amministrativa + penale) il ne bis in idem è rispettato se i due procedimenti perseguono scopi complementari e la sanzione complessiva non eccede il limite più grave. Corte Cost. 222/2019 ha poi validato il sistema con correttivi.

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