Hai ricevuto una cartella, un avviso di accertamento o un atto dell’Agenzia delle Entrate e vuoi fare ricorso?
Allora questa guida operativa 2025 dello Studio Monardo – gli avvocati esperti in ricorsi tributari e difesa contro il fisco – è lo strumento giusto per te.
Scopri quando e come si presenta un ricorso alla Commissione Tributaria, quali sono i termini, i documenti necessari, i costi e quali errori evitare per non compromettere la tua difesa.
Alla fine della guida troverai tutti i contatti di Studio Monardo per richiedere una consulenza personalizzata, analizzare il tuo caso con un avvocato esperto e opporti in modo efficace agli atti illegittimi del fisco.
Ricorso alla Commissione Tributaria: Come si fa (Guida Operativa 2025)
Questa guida pratica illustra in dettaglio come imprese e professionisti possono impostare e gestire un ricorso dinanzi alle Commissioni Tributarie (ora Corti di Giustizia Tributaria di primo e secondo grado), con particolare attenzione al Processo Telematico Tributario (PTT). Verranno spiegate tutte le fasi del processo tributario, dagli atti impugnabili e termini iniziali, alla notifica e deposito telematico del ricorso, fino alla costituzione in giudizio, udienza, sentenza e possibili impugnazioni successive.
Saranno inclusi modelli aggiornati di ricorso per casi frequenti (avviso di accertamento, cartella di pagamento, fermo amministrativo, ecc.), indicazioni su strategie difensive in base al tipo di atto e tributo, simulazioni pratiche di calcolo dei termini e svolgimento dell’udienza, nonché un’analisi delle più recenti novità normative (fino a L. 130/2022 e D.Lgs. 219-220/2023) e della giurisprudenza rilevante aggiornata a maggio 2025.
Nota: “Commissione Tributaria” vs “Corte di Giustizia Tributaria” – Dal 2023 le Commissioni Tributarie Provinciali e Regionali sono state ridenominate rispettivamente Corti di Giustizia Tributaria di primo grado e di secondo grado. In questa guida useremo a volte il termine tradizionale “Commissione Tributaria” per familiarità, ma ai fini giuridici le denominazioni sono equivalenti. Conviene comunque adeguare gli atti alle nuove formule.
Introduzione: Panorama Normativo e Novità 2022–2025
Il contenzioso tributario è il procedimento giurisdizionale con cui il contribuente può impugnare gli atti fiscali emessi dall’Amministrazione finanziaria (Agenzia delle Entrate, enti locali, Agenzia della Riscossione, ecc.), chiedendone l’annullamento totale o parziale dinanzi al giudice tributario. Negli ultimi anni questo procedimento è stato oggetto di importanti riforme, che ne hanno modificato sia le regole processuali sia l’organizzazione delle corti. Ecco le principali novità in vigore nel 2025:
- Riforma della Giustizia Tributaria (L. 130/2022): ha introdotto una svolta epocale nel processo tributario, recependo principi innovativi. Ad esempio, è stato chiarito il riparto dell’onere della prova a carico delle parti, ammessa (in via eccezionale) la prova testimoniale scritta, limitata la produzione di nuove prove in appello, potenziata la conciliazione giudiziale e resa l’esecutività immediata delle sentenze. Inoltre, la riforma ha trasformato le Commissioni Tributarie nelle nuove Corti di Giustizia Tributaria e introdotto il giudice monocratico per le controversie di minor valore (fino a €3.000).
- Giudice monocratico per liti minori: Oggi le Corti di primo grado decidono con giudice unico le cause di valore fino a €3.000 (escluse solo quelle di valore indeterminabile). Sopra tale soglia, il collegio resta composto da tre giudici. Questa semplificazione accelera i giudizi di modesto importo.
- Processo Tributario Telematico (PTT) obbligatorio: Da luglio 2019 il processo tributario si svolge esclusivamente in via telematica per la quasi totalità dei soggetti. Atti, ricorsi, appelli, documenti e provvedimenti devono essere notificati e depositati tramite strumenti digitali – in particolare mediante PEC e tramite il Portale SIGIT del Ministero – abbandonando la carta. L’unica eccezione è per il contribuente che sta in giudizio da solo senza assistenza tecnica (ammesso solo per controversie fino a €3.000), il quale può ancora scegliere il cartaceo. Per tutti gli altri, il deposito telematico è oggi inderogabile. Approfondiremo più avanti i dettagli pratici del PTT.
Esempio di immagine promozionale sul Processo Tributario Telematico (fonte: OpenDotCom)
- Contraddittorio anticipato obbligatorio: Un’altra innovazione chiave è l’obbligo generalizzato di contraddittorio endoprocedimentale prima dell’emissione degli atti impugnabili. Il D.Lgs. 219/2023 ha inserito l’art. 6-bis nello Statuto dei Diritti del Contribuente (L. 212/2000), stabilendo che ogni atto impositivo debba essere preceduto da una comunicazione di fine verifica o un invito a comparire, concedendo al contribuente almeno 60 giorni per controdedurre, a pena di nullità dell’atto. In pratica, l’ente impositore deve “dialogare” col contribuente prima di emettere l’accertamento definitivo. Questa novità – volta a deflazionare il contenzioso – ha eliminato la mediazione tributaria obbligatoria: infatti il vecchio reclamo-mediazione (art. 17-bis D.Lgs. 546/92) è stato abrogato dal 2023, ritenendolo superfluo in presenza del contraddittorio anticipato. Ne consegue che, per gli atti emessi dal 2023 in poi, non vi è più l’obbligo di presentare un reclamo all’ufficio prima del ricorso (come invece avveniva per le liti fino a €50.000 in passato).
- Sentenze immediatamente esecutive: La riforma ha modificato il regime di efficacia delle decisioni. Tutte le sentenze tributarie sono ora provvisoriamente esecutive per intero (sia di primo grado che d’appello). In passato, la sentenza di primo grado favorevole al contribuente era esecutiva solo al 50% (l’ente doveva rimborsare metà importo subito) e quella favorevole all’ente consentiva di riscuotere fino a 2/3 in pendenza di appello. Dal 2023, invece, la sentenza di primo grado vale subito per intero: se il contribuente vince, l’ente deve sospendere/rimborsare tutto il dovuto; se il contribuente perde, l’ente può riscuotere tutto (non più solo i 2/3). Resta naturalmente possibile chiedere la sospensione in appello o in Cassazione (come vedremo) per evitare esecuzioni in caso di impugnazione. Questo cambiamento imprime maggiore efficacia alle pronunce, ma richiede attenzione perché espone subito alle conseguenze economiche della sentenza.
- Altre novità degne di nota: la riforma ha previsto meccanismi per responsabilizzare l’Amministrazione: ad esempio, se l’ente perde in primo grado e non appella, deve dare attuazione alla sentenza entro 90 giorni dalla definitività, pena sanzioni disciplinari per i funzionari inadempienti. Inoltre è stato introdotto un nuovo rimedio cautelare in sede di legittimità (art. 62-bis D.Lgs. 546/92) che consente di chiedere alla Cassazione la sospensione dell’esecutività di una sentenza di secondo grado impugnata, analogamente a quanto avviene in appello. Infine, si segnala che le spese di lite possono essere modulate dal giudice tenendo conto del comportamento delle parti: ad esempio, il nuovo art. 15 prevede che se il contribuente in fase precontenziosa non esibisce un documento decisivo e lo tira fuori solo in giudizio vincendo grazie ad esso, le spese possono essere compensate (per incentivare la cooperazione nella fase amministrativa).
La cornice normativa di riferimento del processo tributario resta il D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, più volte modificato, da ultimo proprio dai D.Lgs. 130/2022, 119/2018, 220/2023 ecc. Nel corso della guida forniremo i riferimenti puntuali agli articoli rilevanti.
Di seguito inizieremo esaminando quali atti si possono impugnare e in che modo introdurre il ricorso, per poi seguire l’iter logico del processo: la fase di primo grado (costituzione delle parti, scambio di memorie, udienza, sentenza), i possibili strumenti deflattivi (autotutela, conciliazione, ecc.) e infine le impugnazioni in appello e Cassazione. Esempi pratici e modelli di atti aiuteranno a concretizzare i concetti.
1. Atti Impugnabili, Notifica e Termini per Ricorrere
Prima di avviare un contenzioso, è fondamentale individuare quali atti dell’Amministrazione finanziaria possono essere impugnati e conoscere i termini e le modalità per proporre ricorso. La regola generale – fissata dall’art. 19 D.Lgs. 546/1992 – è che sono impugnabili tutti gli atti con cui viene resa nota al contribuente una precisa pretesa tributaria o viene negato un suo diritto. In pratica, ogni provvedimento definitivo in materia tributaria che arrechi un effetto pregiudizievole concreto può essere oggetto di ricorso. Ecco i principali atti impugnabili e le loro caratteristiche:
- Avviso di accertamento: atto con cui l’ente impositore (Agenzia delle Entrate, Comune, ecc.) accerta un tributo non pagato (imposte dirette, IVA, registro, tributi locali, ecc.) o irroga sanzioni. Ad esempio, l’Agenzia delle Entrate può emettere un avviso di accertamento per maggior IRPEF a seguito di un controllo fiscale. Novità: dal 2023 ogni avviso di accertamento deve essere preceduto da un avviso di conclusione delle indagini (invito al contraddittorio) salvo casi eccezionali, pena la nullità. L’avviso diventa impugnabile appena notificato al contribuente.
- Avviso di liquidazione: atto con cui si liquida un tributo basato su dichiarazioni o atti registrati (tipico per imposta di registro, successioni, ecc.) indicando l’importo da pagare. Ad esempio, in caso di registrazione di un atto di compravendita, l’Agenzia può liquidare l’imposta di registro dovuta.
- Cartella di pagamento (ruolo): atto della riscossione coattiva emesso dall’Agente della Riscossione (Agenzia Entrate-Riscossione, ex Equitalia) con cui si richiede il pagamento di somme dovute in base ad atti precedenti divenuti definitivi. La cartella intima il pagamento di, ad esempio, imposte risultanti da accertamenti non impugnati o da controlli automatizzati delle dichiarazioni. Impugnabilità: la cartella si può impugnare sia per vizi propri (es. difetto di notifica, calcolo errato di interessi, ecc.) sia per contestare indirettamente l’atto a monte, qualora il contribuente non ne abbia avuto notizia (ad es. se l’accertamento presupposto non gli è stato mai notificato, può far valere tale vizio tramite l’impugnazione della cartella stessa).
- Avviso di addebito (es. INPS) o atti assimilati: altri enti possono emettere atti di accertamento per somme equiparate a tributi – ad esempio l’INPS per contributi previdenziali non versati (avviso di addebito) o gli enti locali per ingiunzioni fiscali. Tali atti, se aventi natura tributaria, sono impugnabili davanti al giudice tributario.
- Provvedimenti di diniego o rifiuto: ad esempio, il diniego di un rimborso richiesto dal contribuente, oppure il rigetto (espresso o implicito per silenzio) di un’istanza di autotutela o di sgravio di una cartella. Sono atti che negano un diritto del contribuente e come tali impugnabili ex art.19.
- Atti della riscossione e misure cautelari: rientrano tra gli atti impugnabili anche tutti quegli atti dell’Agente della Riscossione che manifestano una pretesa patrimoniale concreta, come ad esempio: il fermo amministrativo di beni mobili registrati (es. fermo auto per mancato pagamento), l’ipoteca esattoriale su immobili, le intimazioni di pagamento (ultimatum a pagare prima dell’esecuzione forzata). La giurisprudenza, con un criterio sostanzialistico, ha chiarito che se l’atto produce effetti lesivi immediati può essere impugnato anche se non espressamente elencato nella norma. Ad esempio, la Corte di Cassazione ha ritenuto impugnabile: l’estratto di ruolo – se è il primo atto con cui il contribuente viene a conoscenza di una iscrizione a ruolo a suo carico – e anche l’avviso bonario da controllo formale, quando di fatto contiene una pretesa tributaria compiuta. In caso di dubbio, è prudente proporre ricorso contro l’atto ritenuto lesivo, per non rischiare decadenze, lasciando al giudice valutare l’ammissibilità.
In sintesi, è impugnabile qualsiasi atto fiscale “definitivo” che incide negativamente sul contribuente, sia esso un accertamento, una cartella, un provvedimento di rigetto o un atto della riscossione. Non sono invece impugnabili gli atti interni o endoprocedimentali che non contengono alcuna pretesa definita (ad es. l’avviso di irregolarità non impositivo, le comunicazioni informative, ecc.), salvo che – come detto – equivalgano sostanzialmente a un atto tipico.
1.1 Notifica degli atti e decorrenza dei termini
La notifica dell’atto fiscale fa scattare il termine entro cui il contribuente può impugnarlo. Qual è questo termine? Nella generalità dei casi è di 60 giorni dalla data di notifica dell’atto. Ciò significa che, una volta ricevuto (legalmente) l’accertamento, la cartella o altro atto impugnabile, il contribuente ha 60 giorni per predisporre e notificare il ricorso.
Attenzione: il computo dei 60 giorni segue le regole dei termini processuali, quindi esclude il giorno iniziale (data notifica) e include quello finale, salvo che sia festivo (in tal caso slitta al giorno successivo). Inoltre, si applicano eventuali sospensioni di legge, in particolare:
- Sospensione feriale (1°–31 agosto): i termini processuali sono sospesi nel periodo feriale; dunque, se il termine di 60 giorni ricade in tutto o in parte tra il 1º e il 31 agosto, si allunga di 31 giorni. Esempio: per un avviso notificato il 10 luglio, il termine ordinario scadrebbe l’8 settembre, ma interviene la sospensione di agosto, quindi la scadenza effettiva sarà il 9 ottobre (8 settembre + 31 gg).
- Adesione (accertamento con adesione): se il contribuente presenta entro i primi 60 giorni un’istanza di accertamento con adesione all’ufficio emittente, il termine per impugnare è sospeso per 90 giorni dalla data di presentazione dell’istanza. In pratica il contribuente “congela” il termine di ricorso per tentare una definizione concordata (vedi §3.2). Al termine dei 90 giorni (o prima, se l’adesione si conclude anticipatamente con esito negativo), riprende a decorrere il tempo residuo per presentare ricorso. Esempio: avviso notificato il 1º marzo, istanza di adesione presentata il 20 marzo (dopo 19 giorni): il termine di ricorso si sospende fino al 18 giugno; da quella data decorrono i 41 giorni restanti, spostando la scadenza al fine luglio (salvo agosto, se coinvolto).
- Reclamo-mediazione (atti ante 2023): per completezza, ricordiamo che per gli atti notificati prima dell’abolizione del reclamo (cioè fino al 2022), l’eventuale proposizione del ricorso/reclamo comportava la sospensione automatica di 90 giorni del termine processuale, in attesa dell’esito della fase di mediazione. Dal 2023 questa sospensione non si applica più ai nuovi ricorsi (la mediazione obbligatoria non c’è), mentre resta per le liti pregresse in reclamo.
Riassumendo i termini per impugnare: 60 giorni dalla notifica, prorogati a 91 giorni totali se il contribuente attiva l’adesione, ed eventualmente estesi dalla sospensione feriale di agosto (+31 giorni) se il termine cade in quel periodo. Per evitare decadenze è fondamentale calcolare con precisione la scadenza. In questa guida forniremo esempi di calcolo (vedi riquadro pratico più avanti).
Simulazione pratica – Calcolo del termine di ricorso: Tizio riceve un avviso di accertamento il 20 giugno 2025. Senza eventi sospensivi, avrebbe tempo fino al 19 agosto per presentare ricorso. Tuttavia, il periodo 1–31 agosto 2025 è sospeso per legge, quindi il termine slitta di 31 giorni. Pertanto la scadenza diventa il 19 settembre 2025 (salvo ulteriore slittamento se cadesse di sabato/domenica). Se Tizio avesse anche presentato un’istanza di adesione il 10 luglio 2025, il decorso dei 60 giorni si sarebbe congelato dal 10 luglio per 90 giorni (fino a 8 ottobre); riprendendo poi per i giorni restanti. In tal caso, sommando anche la sospensione di agosto interna al periodo, il termine sarebbe ancor più in là (fine novembre 2025 circa). Conclusione: attenzione a combinare correttamente adesione + sospensione feriale nel calcolo delle scadenze.
1.2 Contenuto del ricorso e modalità di notifica
Se si decide di impugnare l’atto, occorre predisporre un ricorso scritto, rispettando determinati requisiti formali e notificandolo nei termini visti alla controparte. Il ricorso tributario è un atto introduttivo analogo a una citazione in giudizio, con cui il contribuente (ricorrente) chiama in causa l’ente impositore o riscossore (resistente) davanti alla Corte tributaria competente.
Contenuti obbligatori del ricorso (art. 18 D.Lgs. 546/92):
- Intestazione dell’Organo giudiziario: va indicata la Corte di Giustizia Tributaria di primo grado competente per territorio. Di regola coincide con la provincia (o regione) in cui ha sede l’ufficio che ha emanato l’atto impugnato. Esempio: per un avviso dell’Agenzia Entrate Direzione Provinciale di Milano, competente sarà la CGT di primo grado di Milano.
- Dati del ricorrente: generalità e codice fiscale del contribuente che propone ricorso. Se persona fisica: nome, cognome, residenza (o domicilio eletto) e C.F.; se società o ente: denominazione, sede legale e C.F./P.IVA. Importante: se il ricorrente è assistito da un difensore, vanno indicati anche i dati del difensore (nome e foro di appartenenza se avvocato, ecc.) e l’elezione di domicilio presso di lui. Inoltre, il ricorrente o il difensore devono indicare un indirizzo PEC per le comunicazioni e il proprio codice fiscale: la mancanza di tali dati comporta un aumento del 50% del contributo unificato dovuto.
- Dati del resistente: individuazione dell’ente controparte, ad es. “Agenzia delle Entrate – Direzione Provinciale di X” o “Comune di Y – Ufficio Tributi” o “Agenzia delle Entrate-Riscossione – Area territoriale Z”, in persona del legale rappresentante pro tempore. Indicare anche l’indirizzo (o la PEC istituzionale) presso cui notificare. (Gli indirizzi PEC degli enti impositori e riscossori sono reperibili da registri pubblici; per l’Agenzia Entrate-Riscossione spesso si usa la PEC unica protocollo@pcert.agenziaentrateriscossione.gov.it, per l’Agenzia Entrate la PEC della Direzione Provinciale competente, ecc.).
- Atto impugnato: indicare con precisione di quale atto si tratta: es. “Avviso di accertamento n. … emesso dall’Agenzia delle Entrate di …, notificato in data …, anno d’imposta …, importo in contestazione …”. Specificare anche se si impugna integralmente l’atto o solo parte (nel dubbio, meglio impugnare tutto l’atto per evitare preclusioni).
- Motivi del ricorso: è la parte sostanziale, in cui si espongono i fatti (la vicenda, gli atti intercorsi, eventuale contraddittorio svolto) e soprattutto i motivi di diritto per cui si ritiene l’atto illegittimo o infondato. Qui il ricorrente deve articolare le proprie censure punto per punto: violazioni di legge (es. “violazione dell’art. …”), vizi procedurali (es. difetto di notifica, mancato contraddittorio, incompetenza), errori di merito (es. “errata valutazione dei fatti, l’importo non è dovuto perché …”). I motivi vanno redatti in modo specifico e chiaro. In questa fase il ricorrente può allegare documenti a supporto (es. copia di contratti, ricevute, perizie) che comprovino le sue affermazioni.
- Richiesta (petitum): al termine, il ricorrente formula le proprie conclusioni, ovvero ciò che chiede al giudice. Tipicamente: l’annullamento totale dell’atto impugnato, o in subordine l’annullamento parziale/riduzione della pretesa tributaria, con vittoria di spese. Ad esempio: “Si chiede che la Corte tributaria annulli l’avviso impugnato per i motivi esposti, e per l’effetto dichiari non dovute le somme richieste, con condanna dell’ente resistente alle spese di giudizio”. Se ci sono richieste subordinate (es. rideterminazione dell’imposta in misura minore qualora non annullata in toto) vanno indicate espressamente. È anche possibile inserire istanze accessorie, come la sospensione cautelare dell’atto impugnato (vedi §1.4).
- Data e firma: in calce devono figurare la data di redazione e la firma autografa del ricorrente o del difensore. Procura alle liti: se il ricorso è sottoscritto dal difensore, occorre allegare la procura del contribuente (vedi §1.3) – spesso la procura è apposta a margine o in calce al ricorso stesso (con firma autenticata dall’avvocato), negli atti digitali si può allegare come documento separato firmato digitalmente.
Come esempio, ecco uno schema sintetico di ricorso introduttivo (caso: avviso di accertamento IRPEF) formulato secondo le indicazioni sopra:
RICORSO
Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di [Provincia]
Ricorrente: Sig. Alfa (C.F. _______), residente in ___, via _____ n., rappresentato e difeso dall’Avv. Beta (C.F. _______) del Foro di ____, PEC avv.beta@pec…, come da procura in calce, domiciliato presso lo studio in ___, via _____ n..
Resistente: Agenzia delle Entrate – Direzione Provinciale di _____, in persona del Direttore pro tempore, domiciliata per legge in _____ (PEC: ________).
Atto impugnato: Avviso di accertamento n. ____ emesso dall’Agenzia delle Entrate di ____ e notificato il //2023, anno d’imposta ____, con cui si accertano maggiori ricavi € ____, maggiore IVA € ____, irrogando sanzioni per € ____ (totale contestato € ____).
Fatti e motivi del ricorso: [Descrizione circostanze di fatto]… L’avviso impugnato è illegittimo e infondato per i seguenti motivi in diritto: 1) Violazione di legge – inosservanza dell’art. 12 L. 212/2000: l’atto è stato emesso senza previo contraddittorio, essendo stato notificato a soli 15 giorni dal PVC, in violazione del termine di 60 giorni (Cass. SU n. 24823/2015)… 2) Errori di calcolo e difetto di motivazione: l’ufficio ha erroneamente ricostruito i ricavi basandosi su presunzioni prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza (art. 2729 c.c.), infatti… [etc., sviluppo degli argomenti].
Richiesta: in via principale, il ricorrente chiede l’annullamento totale dell’avviso di accertamento impugnato, per tutti i motivi esposti, con vittoria di spese. In subordine, ove non accolto integralmente il ricorso, chiede la riduzione dell’imponibile e delle sanzioni secondo equità della Corte.
[Luogo], [Data] – Firma (Avv. Beta, difensore)
Procura alle liti [allegata in calce].
1.3 Notifica del ricorso e costituzione in giudizio
Una volta redatto il ricorso, occorre notificarlo alla controparte (ente resistente) entro il termine di 60 giorni. La notifica in ambito tributario può avvenire in diverse forme, ma dal 2019 – con il processo telematico obbligatorio – la forma ordinaria è tramite PEC (Posta Elettronica Certificata).
Notifica via PEC: Il difensore del contribuente invia il ricorso (in PDF firmato digitalmente) dall’indirizzo PEC mittente all’indirizzo PEC destinatario dell’ente. La PEC ha effetto immediato: la notifica si considera perfezionata, per il notificante, al momento di invio e, per il destinatario, al momento di consegna nella casella PEC (risultante dalla ricevuta di avvenuta consegna). È importante salvare le ricevute PEC (accettazione e consegna) che costituiranno prova della notifica. L’oggetto del messaggio PEC dovrebbe indicare: “Notificazione ai sensi del DL 179/2012” e riportare il nome del ricorso. Nota: alcuni enti (specialmente Comuni) potrebbero non avere PEC valida – in tal caso, se la notifica PEC fallisce per cause non imputabili al mittente, si potrà ripiegare sulla notifica tramite ufficiale giudiziario o raccomandata. Tuttavia, per gli enti principali (Agenzia Entrate, AE-Riscossione, Regioni, ecc.) l’indirizzo PEC è noto e operativo.
Notifica alternativa (solo se necessaria): In casi residuali (contribuente senza PEC o difensore non obbligato al PTT, o indirizzo PEC ente non funzionante), il ricorso può essere notificato a mezzo ufficiale giudiziario (consegna diretta o tramite posta) oppure tramite raccomandata con ricevuta di ritorno direttamente all’ente (art. 16 D.Lgs. 546/92). Queste modalità tradizionali oggi sono eccezionali, anche perché il ricorrente che non usa il digitale pur potendolo fare rischia poi problemi nel successivo deposito telematico. L’eccezione, come detto, riguarda il contribuente privo di difensore: se la controversia è ≤ €3.000 e il contribuente si difende da sé, può notificare il ricorso cartaceo (tipicamente mediante raccomandata AR all’ente).
Termine di notifica: Fa fede la data di spedizione (o invio PEC) per stabilire se si è entro i 60 giorni. Ad esempio, se il ricorso viene inviato via PEC l’ultimo giorno utile alle 23:50, è tempestivo anche se l’ente lo legge il giorno dopo.
Dopo aver notificato il ricorso, il contribuente deve procedere alla costituzione in giudizio presso la segreteria della Corte tributaria adita. Questa fase – detta iscrizione a ruolo del ricorso – consiste nel depositare presso la Commissione la copia del ricorso già notificato con relativi documenti. Il termine per costituirsi è di 30 giorni dalla data di perfezionamento della notifica. Attenzione: se non ci si costituisce entro 30 giorni, il ricorso si considera inesistente (improcedibile), vanificando la notifica.
Deposito telematico (PTT): Oggi la costituzione avviene esclusivamente via telematica (per i soggetti obbligati). Il difensore si collega al Portale SIGIT (Giustizia Tributaria), area riservata, e tramite la funzione di deposito atti carica i seguenti file in formato PDF/A firmati digitalmente:
- Copia del ricorso come notificato (completo di eventuale procura e firme);
- Copia della relata di notifica (nelle notifiche via PEC corrisponde alle ricevute di accettazione e consegna PEC, da inserire);
- Copia dell’atto impugnato e degli altri documenti allegati;
- La ricevuta di versamento del contributo unificato (quietanza F23 o F24, o modello pagoPA).
È fondamentale rispettare le specifiche tecniche: i documenti devono essere in PDF/A, firmati con firma digitale PADES o CADES (estensione .pdf oppure .p7m). La dimensione di ciascun file non deve eccedere i limiti (10 MB per file, secondo le regole attuali). Il sistema rilascia delle ricevute che attestano il deposito avvenuto (analogo alla PEC). Suggerimento: non aspettare l’ultimo giorno per il deposito telematico, perché inconvenienti tecnici (pec satura, firma che non funziona, portale lento) potrebbero far sfumare il termine.
Contributo unificato tributario (C.U.T.): È la “tassa” da pagare per iscrivere a ruolo il ricorso. L’importo varia secondo il valore della lite, come previsto dall’art. 13 del DPR 115/2002 (Testo Unico spese di giustizia). Il valore della lite, da indicare obbligatoriamente nelle conclusioni del ricorso, corrisponde all’importo del tributo contestato al netto di interessi e sanzioni (se si impugnano solo sanzioni, il valore è la somma di queste). Se il valore non è determinabile, si paga un importo fisso (€120). Se il ricorrente omette di indicare il valore, per legge si presume > €200.000 con contributo massimo dovuto. Nella tabella seguente sono riportati gli scaglioni contributo unificato attualmente in vigore (aggiornati dopo la L. 11/2011):
Valore della controversia | Contributo unificato |
---|---|
Fino a € 2.582,28 | € 30,00 |
Oltre € 2.582,28 e fino a € 5.000,00 | € 60,00 |
Oltre € 5.000,00 e fino a € 25.000,00 ()* | € 120,00 |
Oltre € 25.000,00 e fino a € 75.000,00 | € 250,00 |
Oltre € 75.000,00 e fino a € 200.000,00 | € 500,00 |
Oltre € 200.000,00 | € 1.500,00 |
()* Nota: rientrano nello scaglione €120 anche le liti di valore indeterminabile (es. impugnazione di diniego di rimborso senza importo definito).
Il versamento del contributo unificato va effettuato tramite modello F23 (codice tributo 941T per il primo grado) oppure mediante pagoPA sul Portale Giustizia Tributaria. La ricevuta (quietanza) va allegata al momento del deposito. Mancato pagamento: se non si versa il contributo dovuto, il ricorso non è immediatamente inammissibile; la segreteria invita a regolarizzare entro un termine. Ad esempio, se si sbaglia importo (magari indicando un valore lite inferiore), verrà richiesto l’integrazione, anche tramite iscrizione a ruolo della differenza (è stato introdotto l’art. 4-bis D.Lgs. 546/92 che disciplina queste regolarizzazioni).
Caso del contribuente senza difensore (lite ≤ €3.000): Come anticipato, solo per le liti di valore fino a 3.000 euro (al netto di interessi e sanzioni) è consentito al contribuente di stare in giudizio personalmente, senza assistenza tecnica. In tal caso, sarà il contribuente stesso a firmare il ricorso e potrà effettuare la notifica e il deposito (telematico o cartaceo) autonomamente. Tuttavia, anche il contribuente “personale” dal 2019 può accedere al PTT e depositare via PEC/SIGIT; se invece sceglie il cartaceo, dovrà depositare il ricorso presso la segreteria della Commissione in due copie cartacee (una per la segreteria e una per la controparte) entro 30 giorni dalla notifica. È bene sottolineare che, sopra i €3.000 di valore, l’assistenza di un difensore abilitato è obbligatoria: gli atti sottoscritti personalmente oltre tale soglia sarebbero inammissibili.
1.4 Difensori abilitati e rappresentanza in giudizio
Nel processo tributario, possono difendere il contribuente solo determinate categorie professionali elencate dall’art. 12 D.Lgs. 546/92. I principali difensori abilitati sono: avvocati, dottori commercialisti ed esperti contabili, consulenti del lavoro, nonché, per le materie di competenza, periti agrari e agrotecnici (per tributi agricoli), ingegneri (per questioni catastali) e alcune altre categorie minori. Non sono invece abilitate figure come i tributaristi non iscritti ad albi, salvo operino in veste di direttore o dipendente dell’azienda contribuente. Il contribuente può anche farsi difendere da un proprio dipendente laureato in giurisprudenza o economia (nei casi previsti).
La recente L. 130/2022 ha confermato tali categorie e ha chiarito che anche gli enti impositori possono stare in giudizio tramite propri funzionari delegati interni, purché laureati in giurisprudenza o economia. Ciò garantisce parità di trattamento: ad esempio l’Agenzia delle Entrate spesso è rappresentata in giudizio dai propri funzionari dell’ufficio legale, così come i Comuni da funzionari tributi (senza necessità di avvocatura esterna). Inoltre è stato previsto che le Regioni possano stare in giudizio tramite propri dipendenti (prima non era chiaro), per analogia con le Province autonome.
Sul piano pratico, la parte che si avvale di un difensore deve conferirgli la procura alle liti, ossia l’autorizzazione a rappresentarla in giudizio. Nel PTT, la procura può essere in calce al ricorso (se il file PDF del ricorso contiene scansione della firma del contribuente autenticata dall’avvocato) oppure come documento separato allegato e firmato digitalmente dall’avvocato (la firma digitale del difensore equivale all’autentica, secondo le regole tecniche). È importante produrre la procura già nel ricorso introduttivo: la mancata produzione può portare l’Agenzia a eccepire l’inammissibilità. Tuttavia, un recente intervento della Corte Costituzionale (sent. n. 36/2025) ha mitigato la rigidità in appello: ha dichiarato illegittiva la norma che vietava di sanare in appello l’assenza di procura se dovuta a cause non imputabili alla parte. Ciò significa che, in casi eccezionali, sarà possibile rimediare anche in secondo grado all’eventuale mancanza di delega in primo grado (ad es. se per un disguido non risultava agli atti).
Nota Cassazione: Per il ricorso per Cassazione è necessaria l’assistenza di un avvocato cassazionista, ovvero abilitato alle giurisdizioni superiori. Commercialisti ed altri professionisti non avvocati non possono patrocinare in Cassazione (nonostante siano abilitati nel merito). Ciò in base alle regole generali del codice di procedura civile applicabili al processo tributario di legittimità.
1.5 Sospensione dell’atto impugnato (tutela cautelare)
La proposizione del ricorso non sospende automaticamente l’esecuzione dell’atto impugnato. In altre parole, se impugniamo un accertamento o una cartella, l’obbligo di pagamento resta salvo diversa iniziativa. Tuttavia, il contribuente può chiedere al giudice tributario una sospensione cautelare degli effetti dell’atto, in attesa della decisione di merito.
Questa istanza si presenta tipicamente contestualmente al ricorso (o anche dopo, purché prima dell’udienza di merito) ed è regolata dall’art. 47 D.Lgs. 546/92. Per ottenere la sospensione occorre dimostrare: a) un “fumus boni iuris”, ossia che il ricorso non è palesemente infondato (vi sono validi motivi di annullamento); b) un “periculum in mora”, cioè il rischio di un danno grave e irreparabile derivante dall’esecuzione immediata dell’atto. Il danno tipicamente consiste nell’esborso di somme ingenti che metterebbero in difficoltà l’azienda o il contribuente prima ancora che il giudizio accerti la legittimità del debito.
Se sussistono questi presupposti, la Corte tributaria (di norma il Presidente o la sezione designata) può sospendere in via provvisoria l’efficacia esecutiva dell’atto fino alla decisione definitiva. La procedura è rapida: viene fissata un’udienza in camera di consiglio (non pubblica) entro circa 30 giorni dalla richiesta, in cui il giudice valuta sommariamente le ragioni delle parti. L’esito viene formalizzato in un’ordinanza motivata. Se la sospensione è concessa, l’atto non potrà essere eseguito (es. riscossione bloccata) sino alla sentenza. Se è negata, l’ente potrà procedere con la riscossione; il contribuente può eventualmente reiterare la richiesta se emergono fatti nuovi.
Esempio pratico: Alfa S.p.A. riceve una cartella per €500.000 e presenta ricorso. Contestualmente deposita istanza di sospensiva, allegando un bilancio che mostra come il pagamento immediato metterebbe a rischio la continuità aziendale. All’udienza cautelare, l’Avvocatura dell’Erario sostiene che la società ha immobili ipotecabili (quindi nessun danno irreparabile). Il giudice, valutate le circostanze, accoglie l’istanza ravvisando un grave pregiudizio e sospende la cartella fino alla decisione di merito. Ciò dà respiro alla società durante il processo. – In un altro caso, Beta s.r.l. chiede sospensione di un avviso da €20.000 lamentando carenza di liquidità, ma il giudice potrebbe respingerla ritenendo che non si configuri un danno irreparabile per quella somma (pagabile eventualmente con rateazione).
Effetti della sospensione: se concessa, l’atto fiscale è congelato. Attenzione però: la sospensione non cancella l’obbligo, lo differisce soltanto. Se poi il ricorso verrà respinto, il contribuente dovrà comunque pagare (eventualmente con aggiunta di interessi maturati nel frattempo). Se invece il ricorso verrà accolto, la sospensione avrà evitato un pagamento non dovuto. In ogni caso, chiedere la sospensiva è spesso opportuno per tutelarsi da azioni esecutive immediate (specie per le cartelle: evita fermi o pignoramenti nel frattempo).
Sospensione in appello e Cassazione: meccanismi analoghi esistono nei gradi successivi (art. 52 in appello e art. 62-bis in Cassazione). Ne parleremo più avanti, ma anticipiamo che ad esempio l’appello non sospende la sentenza di primo grado, quindi se il contribuente perde deve pagare, salvo ottenere sospensione dal giudice d’appello.
2. Svolgimento del processo di primo grado
Una volta che il ricorso è stato depositato (costituzione del ricorrente) e che anche la controparte si è costituita, la causa entra nel vivo della fase processuale di primo grado dinanzi alla Corte di Giustizia Tributaria. In questa sezione vedremo come si svolge il procedimento: dalla costituzione in giudizio dell’Ufficio alle eventuali memorie e attività istruttorie, fino all’udienza di discussione e alla decisione.
2.1 Costituzione del resistente e controdeduzioni dell’Ufficio
Dopo aver ricevuto il ricorso notificato, l’ente impositore o l’Agente della riscossione deve a sua volta costituirsi in giudizio, depositando un atto di risposta alle pretese del contribuente. L’atto con cui l’ente si costituisce viene comunemente chiamato “memoria di costituzione” o “controdeduzioni”. Esso assolve al duplice scopo di: notificare al giudice e al ricorrente le difese dell’ente, e depositare i documenti a supporto della pretesa erariale (in particolare, l’originale o copia dell’atto impugnato e la prova della sua notifica al contribuente).
Il termine ordinario entro cui l’ente deve costituirsi è 60 giorni da quando ha ricevuto il ricorso. Ad esempio, se l’Agenzia delle Entrate ha ricevuto via PEC il ricorso il 1º febbraio, avrà tempo fino circa al 2 aprile per depositare le controdeduzioni. Importante: questo termine per il resistente non è perentorio in senso stretto. L’ufficio potrebbe costituirsi anche tardivamente (in teoria fino all’udienza), però un deposito oltre i 60 giorni può comportare la decadenza dalle eccezioni processuali non rilevabili d’ufficio e l’inutilizzabilità dei documenti tardivi. In pratica, l’Agenzia generalmente si costituisce entro i 60 giorni, per non rischiare preclusioni. In caso di costituzione tardiva, il giudice può comunque esaminare la memoria dell’ufficio ma potrebbe non ammettere documenti depositati all’ultimo momento, soprattutto se pregiudicano la difesa del contribuente.
La costituzione del resistente avviene anch’essa in via telematica, con deposito sul Portale della Giustizia Tributaria. L’atto di risposta dell’ente (spesso redatto su modelli ministeriali) deve indicare:
- Le conclusioni dell’ufficio, ossia cosa chiede: generalmente la conferma integrale della legittimità dell’atto impugnato e quindi il rigetto del ricorso del contribuente.
- Eventuali chiamate in causa di altri soggetti litisconsorziali necessari (esempio tipico: se un socio di società di persone fa ricorso da solo contro un accertamento, l’ufficio nella sua memoria evidenzierà la necessità di coinvolgere anche la società, in base al litisconsorzio necessario ex art. 14 D.Lgs. 546/92, Cass. SS.UU. n.19667/2014).
- Qualsiasi eccezione pregiudiziale o preliminare: per es., l’eccezione di inammissibilità del ricorso (se tardivo, o privo dei requisiti formali), l’eccezione di difetto di giurisdizione (raramente in tributario, ma es. se atto non tributario), eccezione di difetto di legittimazione, etc. Se il ricorso presenta vizi (es. notificato oltre 60 gg), l’ente li solleverà qui.
- Nel merito, le controdeduzioni ai motivi di ricorso: punto per punto, l’ente replica alle argomentazioni del contribuente. Ad esempio, se il ricorrente ha eccepito il mancato contraddittorio, l’ufficio replicherà perché ritiene che non fosse dovuto (magari invocando l’eccezione di motivi d’urgenza). Se il contribuente contesta i calcoli, l’ufficio spiegherà perché sono corretti, e così via.
- Documenti allegati: l’ufficio produce i documenti che ritiene utili a sostenere la propria posizione. In primis l’atto impugnato (spesso in originale), poi l’eventuale documentazione amministrativa (es. il PVC della Guardia di Finanza, le risposte a questionari del contribuente, estratti delle banche dati, perizie dell’AdE se effettuate, ecc.), e in generale qualsiasi prova che corrobori la pretesa. Se il contribuente in fase precontenziosa aveva presentato memorie, l’ufficio le può allegare per mostrarle al giudice.
Dopo la costituzione di entrambe le parti, la segreteria della Corte tributaria registra la causa a ruolo assegnandole un numero (R.G.R. – ruolo generale ricorsi). Il Presidente della sezione designata verifica se la causa è completa e, quando la ritiene matura, la fissa per la trattazione in udienza pubblica, oppure – nei pochi casi consentiti – dispone la decisione in camera di consiglio (cioè senza pubblica udienza, solo su atti).
Nota: Nel nuovo processo tributario, il ricorso viene discusso in udienza pubblica salvo che tutte le parti rinuncino. In passato alcune cause minori venivano decise in camera di consiglio d’ufficio, ora invece la regola è la pubblica udienza se almeno una parte la richiede. Quasi sempre il contribuente richiede espressamente l’udienza nel ricorso.
Prima dell’udienza, il Presidente può anche assegnare la causa al giudice monocratico se rientra nei criteri (valore ≤ €3.000). In tal caso, la trattazione sarà svolta da un singolo giudice. Se per errore una causa di valore alto fosse assegnata a giudice unico, questi deve rimetterla al collegio.
2.2 Scambio di memorie e attività istruttoria
Durante il periodo che precede l’udienza, le parti hanno la facoltà di depositare delle memorie illustrative aggiuntive e nuovi documenti, entro termini ben precisi fissati dalla legge (art. 32 D.Lgs. 546/92). Queste memorie servono per arricchire e precisare le rispettive difese, alla luce di quanto emerso nelle controdeduzioni.
I termini sono perentori e funzionali alla sequenza:
- Il ricorrente (contribuente) può depositare memorie integrative fino a 30 giorni liberi prima della data di udienza. “Giorni liberi” significa che vanno conteggiati a ritroso non contando il giorno dell’udienza. Ad esempio, se l’udienza è fissata al 30 settembre, la memoria del ricorrente va depositata entro il 31 agosto.
- L’ente resistente può a sua volta depositare memorie di replica fino a 20 giorni liberi prima dell’udienza (nell’esempio, entro il 10 settembre).
- Infine, ciascuna parte può depositare brevi memorie di controreplica (per rispondere alle ultime difese avversarie) fino a 10 giorni liberi prima dell’udienza (nell’esempio, entro il 20 settembre).
Questa scansione 30-20-10 consente un ordinato contraddittorio scritto. Le memorie possono contenere chiarimenti, confutazioni puntuali delle tesi avversarie emerse dopo il ricorso iniziale, segnalazione di nuove sentenze sopravvenute, ecc. Possono anche servire a ridimensionare la lite (ad esempio riconoscendo parzialmente la fondatezza di qualche rilievo dell’ufficio, oppure comunicando l’adesione parziale a una definizione, ecc.). Le memorie non possono di regola introdurre nuovi motivi di ricorso che prima non c’erano – ogni domanda nuova sarebbe inammissibile. Devono riguardare i punti già in contestazione, eventualmente sviluppandoli.
Parallelamente allo scambio di memorie, si sviluppa l’eventuale fase istruttoria del processo, cioè la raccolta delle prove. Il processo tributario è prevalentemente documentale: le prove sono costituite perlopiù dai documenti prodotti dalle parti. Tuttavia, ci sono alcune peculiarità:
- Prova documentale: è il cardine del giudizio tributario. Tutte le tipologie di documenti sono ammesse (scritture contabili, fatture, contratti, corrispondenza, perizie di parte, estratti conto, ecc.), purché pertinenti. Il contribuente può produrre ogni documento a suo favore, anche se non esibito in fase di verifica (ma se non l’aveva esibito senza motivo, attenzione alle spese di cui sopra). L’Amministrazione allega solitamente i verbali di verifica, i questionari e risposte, i prospetti di calcolo, i dati bancari acquisiti, insomma tutto il fascicolo istruttorio. Non esiste discovery obbligatoria come nel civile, ma se l’Ufficio trattiene atti che sarebbe tenuto a esibire (es. il PVC), il giudice può sollecitarlo a produrli.
- Prova testimoniale: Tradizionalmente NON era ammessa nel processo tributario (art. 7 D.Lgs. 546/92, vecchio comma 4, escludeva la testimonianza come mezzo di prova). La riforma 2022 ha parzialmente superato tale divieto: oggi è ammessa solo nella forma di testimonianza scritta e solo in casi eccezionali, a discrezione del giudice. In pratica, il difensore che ritenga indispensabile una testimonianza deve fare apposita istanza al Collegio ai sensi del nuovo art. 7, comma 4, indicando il testimone e i capitoli di prova (i fatti specifici su cui sentirlo). Il giudice valuterà se la testimonianza è effettivamente necessaria: se sì, emetterà ordinanza disponendo che il testimone renda entro una certa data una dichiarazione giurata scritta rispondendo ai quesiti approvati. Non vi sarà dunque esame orale in udienza, ma solo questa deposizione scritta da parte del terzo, sottoscritta con giuramento di veridicità. Se il testimone non ottempera, può essere sanzionato con pena pecuniaria fino a €1.000. Resta escluso il giuramento formale come mezzo probatorio (giuramento decisorio o simili, non ammesso in ambito tributario). In sostanza, la testimonianza rimane rara e subordinata a circostanze eccezionali – ma rappresenta una valvola di sfogo per evitare ingiustizie nei casi in cui solo un terzo potrebbe confermare determinati fatti (ad esempio, l’attestazione di una prestazione eseguita). Da segnalare che, essendo uno strumento nuovo, c’è da vedere come verrà utilizzato dai giudici tributari nella pratica.
- Presunzioni: Gran parte degli accertamenti fiscali si basano su presunzioni semplici, ossia indizi gravi, precisi e concordanti (ex art. 2729 c.c.), oppure su presunzioni legali relative (come i parametri bancari dell’art. 32 DPR 600/73). Nel processo tributario le presunzioni sono prove ammissibili e anzi frequenti. Il contribuente può contrastarle fornendo prova contraria. Esempio classico: l’ufficio, trovando versamenti non giustificati sul conto corrente aziendale, presume che siano ricavi in nero (presunzione legale per imprese ex art. 32 DPR 600/73). In giudizio, spetta al contribuente provare che invece quei versamenti erano di altra natura (trasferimenti da altro conto, finanziamenti soci, ecc.). Se il contribuente non offre spiegazioni convincenti, la presunzione regge come prova. Le presunzioni, se ben supportate, possono quindi essere da sole sufficienti per motivare la decisione del giudice, salvo superamento ad opera di prova contraria.
- Consulenza tecnica d’ufficio (CTU): La legge processuale tributaria non prevede espressamente la figura della perizia o CTU. Ciò nonostante, la giurisprudenza ha ammesso che, in casi complessi, il giudice possa disporre una perizia tecnica per approfondire aspetti specialistici. Ciò avviene in virtù del richiamo generale alle norme del CPC per quanto compatibili (art. 1 c.2 D.Lgs. 546/92). Nella pratica, l’utilizzo della CTU in tributario è piuttosto raro, limitato a questioni come valutazioni di immobili (classamento catastale), stime di azienda o indagini contabili sofisticate. Il giudice può nominare un esperto indipendente e porre quesiti (ad esempio sul valore di mercato di un immobile oggetto di imposta di registro). I costi della CTU vengono anticipati dalla parte richiedente o poste a carico del soccombente a fine causa. Per le imprese, potrebbe valere la pena chiedere CTU solo se davvero decisiva e se la documentazione contabile è intricata.
- Ispezioni e verifiche dirette: Il giudice tributario non dispone di propri organi ispettivi (come la polizia tributaria), ma teoricamente potrebbe ordinare ispezioni o richiedere informazioni ad altri enti. È un potere poco utilizzato. Ad esempio, se fosse controversa l’esistenza di un macchinario industriale per l’iperammortamento, il giudice potrebbe richiedere un sopralluogo da parte dell’Agenzia o della GdF. In pratica però, data la durata del processo, questi strumenti vengono adoperati raramente.
- Ordini di esibizione: Il giudice può ordinare alla parte di esibire documenti che dovrebbero essere già nel suo possesso. Ad esempio può intimare all’Ufficio di produrre l’autorizzazione alle indagini finanziarie se il contribuente ne contesta l’esistenza. Anche questo rientra nei poteri ufficiosi del giudice.
Onere della prova: Un aspetto fondamentale, chiarito di recente dalla L. 130/2022, è il principio per cui l’onere di provare i fatti costitutivi della pretesa spetta all’Amministrazione, mentre quello di provare fatti estintivi o esimenti spetta al contribuente. Questo era già orientamento consolidato della Cassazione e ora è codificato (art. 7 c.5-bis D.Lgs. 546/92 inserito). In termini pratici: se l’Agenzia afferma che Tizio ha omesso €100 di ricavi, deve provare l’esistenza di quei €100 (tramite documenti, indagini, calcoli). Se ci riesce, spetta poi a Tizio – per evitare l’imposta – provare magari che quei €100 erano in realtà redditi già tassati altrove, o esenti per una certa ragione (fatto estintivo). Molte cause si decidono sulla carenza di prova da parte del Fisco: se l’Ufficio non fornisce elementi sufficienti, il giudice deve dare ragione al contribuente. Questo principio è ora espressamente riconosciuto e la Corte di Cassazione ha confermato che la nuova norma non altera il riparto classico ma lo formalizza soltanto.
Prove illecite: Un tema peculiare è l’utilizzabilità di prove raccolte in violazione di norme. Spesso la difesa del contribuente eccepisce che certi documenti dell’Amministrazione sono viziati da irregolarità nel reperimento (es. acquisiti senza autorizzazione, o ottenuti violando la privacy, o perché l’ufficio non ha atteso i 60 giorni del contraddittorio). La Cassazione (Sez. Trib.) con sentenza n. 8452/2025 ha chiarito un principio importante: nel processo tributario non vige un principio generale di inutilizzabilità delle prove irritualmente acquisite. Cioè, diversamente dal processo penale, un documento acquisito dal Fisco senza rispettare le regole amministrative non è automaticamente escluso dal giudizio tributario, salvo che la violazione tocchi diritti fondamentali di rango costituzionale. Ad esempio, un processo verbale di constatazione redatto in violazione del termine di 60 giorni (mancato contraddittorio) – che è vizio procedurale – può comunque essere usato come prova nel contenzioso; sarà il giudice a valutarne la rilevanza. Oppure, documenti ottenuti senza l’autorizzazione formale pur richiesta, restano nel fascicolo. Viceversa, se la prova è stata raccolta con violazione di diritti costituzionali (esempio: perquisizione domiciliare senza mandato, intercettazione illegale), allora va espunta, per tutela di quei diritti. Questa impostazione rende il processo tributario “probatorio” e pragmatico: ciò che conta è l’accertamento della verità materiale (se il fatto è provato), più che la regolarità formale di come l’elemento è emerso. Per il contribuente significa che non può sperare di vincere solo perché l’ufficio ha commesso un vizio procedurale nella raccolta delle prove: deve comunque contestarne la sostanza o evidenziare che la violazione era tale da ledere un diritto fondamentale.
Infine, ricordiamo un aspetto legato alle spese di lite: il nuovo art. 15 D.Lgs. 546/92, come detto, prevede che se il contribuente ha “tenuto nel cassetto” un documento decisivo e lo tira fuori solo in giudizio facendogli vincere la causa, le spese possono essere compensate. Ciò per punire la mancata collaborazione preventiva. Però se il contribuente dimostra che non aveva potuto produrre prima quel documento per cause a lui non imputabili, allora potrebbe evitare la compensazione. Questo meccanismo spinge a giocare a carte scoperte già in fase amministrativa.
2.3 Udienza di discussione e decisione di primo grado
Arriviamo così all’udienza di trattazione, che è il momento in cui le parti discutono oralmente il ricorso davanti al collegio giudicante (o giudice unico per le liti minori). Le udienze tributarie si tengono in genere pubblicamente nelle date programmate dai vari collegi.
Modalità di trattazione: Dal settembre 2023 è entrata a regime la possibilità di udienze “a distanza” (videoconferenza). In particolare, le udienze davanti al giudice monocratico si tengono di regola da remoto tramite collegamento audiovisivo, salvo che una delle parti chieda la presenza fisica per specifici motivi. Per le udienze collegiali, invece, la videoconferenza è possibile solo se tutte le parti la richiedono o acconsentono. Quindi, se anche solo una parte preferisce l’aula, l’udienza sarà in presenza. Nella pratica, molte Commissioni stanno adottando sistemi misti: ad esempio, alcuni difensori in remoto e giudici in aula, oppure interamente in teleconferenza per cause minori, ecc. È opportuno indicare nella prima pagina del ricorso se si desidera la discussione in videoconferenza (o successivamente con istanza almeno 20 giorni prima dell’udienza, come da art. 16 D.Lgs. 546 modificato).
Svolgimento tipico: all’udienza, il Presidente chiama la causa a ruolo. Si presentano il difensore del contribuente (o la parte stessa se in proprio) e il difensore dell’ente (funzionario o avvocato Avvocatura dello Stato, a seconda). In molte Commissioni le udienze sono brevi e sommariamente organizzate: il Presidente può invitare il ricorrente a illustrare sinteticamente i motivi, poi far parlare la controparte, e replicare se necessario. La durata media per causa è spesso di pochi minuti (5-10 minuti per parte), tranne casi complessi dove ci si dilunga. I giudici possono fare domande per chiarimenti su aspetti poco chiari e i difensori rispondono. Tutto ciò avviene in maniera formalmente pubblica (possibili spettatori in aula). Se l’udienza è da remoto, la procedura è analoga via video: il difensore si collega all’ora stabilita e discute davanti alla webcam, garantendo la propria identificazione.
Possibilità di conciliazione in udienza: durante la discussione, le parti possono manifestare la volontà di trovare un accordo conciliativo. Se c’è apertura, possono chiedere al collegio un rinvio a nuova udienza per formalizzare la conciliazione (o semplicemente prendersi tempo). Spesso è il giudice stesso, quando vede che la causa potrebbe risolversi con un compromesso (ad es. riducendo sanzioni), a suggerire: “Volete valutare una conciliazione?”. In caso affermativo, redige un verbale di rinvio “per trattative conciliative”. Se invece non si concilia, l’udienza prosegue e si chiude normalmente.
Al termine della discussione, il collegio dichiara la causa “riservata a decisione”. Significa che non ci saranno altre interazioni fino al deposito della sentenza. I giudici solitamente non emettono la decisione seduta stante, ma si ritirano in camera di consiglio in separata sede. La deliberazione avviene in segreto: nel collegio a tre, tutti e tre giudici decidono a maggioranza; se c’è giudice monocratico, decide da solo. Viene redatto un progetto di sentenza a cura del relatore (uno dei giudici, spesso quello che ha studiato la causa). La sentenza viene poi firmata dal Presidente e dal Relatore e depositata in segreteria.
Contenuto della sentenza (art. 36 D.Lgs. 546/92): Deve indicare: l’intestazione (Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di …), i nominativi dei giudici, le parti e il oggetto del contendere, una succinta esposizione dello svolgimento del processo (in pratica: che atto è stato impugnato e che iter ha seguito fino all’udienza), i motivi in fatto e diritto su cui si basa la decisione e infine il dispositivo, ossia la pronuncia conclusiva (accoglimento/rigetto, ecc.), con data e firme. Dal 2023, come detto, la dicitura corretta in intestazione è “Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di X” anziché “Commissione Tributaria Provinciale di X” – ma l’eventuale uso della vecchia denominazione non inficia la validità.
Una volta depositata (la data di deposito è annotata in calce alla sentenza), questa viene comunicata alle parti dalla segreteria, generalmente via PEC. Attenzione: la comunicazione di rito via PEC non fa decorrere i termini per eventuale appello. Solo la notifica formale della sentenza da una parte all’altra attiva il “termine breve” di impugnazione. Approfondiremo nel capitolo successivo le impugnazioni, ma anticipiamo la regola: se la sentenza non viene notificata da nessuna parte, il termine per appello è quello “lungo” di 6 mesi dalla pubblicazione; se invece una parte notifica la sentenza, l’altra ha 60 giorni da tale notifica per appellare.
Esiti possibili del giudizio di primo grado: La sentenza di primo grado può avere vari esiti, a seconda di come viene risolto il merito e le questioni processuali:
- Accoglimento totale del ricorso: la Commissione riconosce fondate tutte le doglianze del contribuente e annulla integralmente l’atto impugnato. Equivale a dire che il contribuente vince e nulla è dovuto di quanto richiesto dall’ente. In questo caso, di norma, il giudice condanna l’ente soccombente a rifondere le spese di lite al contribuente vittorioso. Le spese comprendono gli onorari del difensore del contribuente (liquidati secondo i parametri forensi, con eventuale riduzione fino al 50% se la parte vincitrice è un ente pubblico difeso da propri funzionari). È possibile, in casi particolari, che pur vincendo il contribuente le spese siano compensate (cioè ciascuno le sopporta da sé): ciò avviene quando ci sono ragioni eccezionali, ad esempio novità della questione trattata, mutamenti giurisprudenziali, comportamento non impeccabile del contribuente etc.
- Accoglimento parziale: la Commissione dà ragione al contribuente solo in parte. Ad esempio, può ridurre il maggior reddito accertato da €100 a €50 (annullando la parte eccedente) oppure può annullare le sanzioni ma confermare l’imposta, o viceversa. In tal caso l’atto viene “riformato” parzialmente: il tributo dovuto viene rideterminato nella sentenza. Quanto alle spese, il giudice di solito le ripartisce in base alla soccombenza prevalente: se il contribuente ha ottenuto la maggior parte del risultato (es. 80% di riduzione), può condannare l’ente a pagare gran parte delle spese; se invece l’esito è misto, spesso dispone la compensazione totale o parziale.
- Rigetto del ricorso: la Commissione respinge tutte le richieste del contribuente, ritenendo legittimo l’operato dell’Ufficio. Ciò significa che l’atto impugnato è confermato per intero. In tal caso il contribuente è soccombente e tipicamente viene condannato a rifondere le spese all’Ufficio. L’Agenzia delle Entrate, pur essendo spesso difesa da propri funzionari interni, quantifica le spese in base ai parametri forensi e chiede la condanna di controparte a pagare quell’importo (che poi confluisce nel bilancio erariale). Il giudice può modulare questa condanna; non è raro, per le cause con contribuente persona fisica e importi modesti, che le spese siano compensate anche se vince il Fisco (ad esempio, per non gravare eccessivamente il cittadino in buona fede).
- Inammissibilità o improcedibilità: il giudice può non entrare nel merito se rileva vizi processuali che impediscono di decidere. Esempi: ricorso notificato oltre i 60 giorni (tardività), difetto di giurisdizione (causa che andava al giudice ordinario), difetto di legittimazione (ricorso proposto da soggetto non titolato), mancata identificazione dell’atto impugnato, mancata costituzione entro 30 giorni, ecc.. In tali casi la sentenza dichiara il ricorso inammissibile (o improcedibile) e non si pronuncia sul merito. L’atto fiscale impugnato, quindi, resta valido e definitivo, come se il ricorso non fosse mai stato presentato. Le spese in caso di inammissibilità di solito sono a carico del ricorrente, salvo situazioni particolari (es. se l’eccezione era controversa e di non immediata percezione, il giudice può compensare).
- Cessata materia del contendere: quando, nelle more del giudizio, la controversia perde il suo oggetto. Ciò accade tipicamente se l’Ufficio annulla in autotutela l’atto impugnato (totale o parziale) oppure se le parti conciliano la lite in corso (vedi §3.4 sulla conciliazione). In questi casi il giudice, preso atto che non c’è più nulla da decidere, dichiara l’estinzione del giudizio per cessata materia del contendere. Quanto alle spese, spesso in caso di autotutela vengono compensate (ognuno le sopporta) perché la definizione è extragiudiziale senza “vincitori”; in caso di conciliazione, le parti di solito si accordano sulle spese (possono dividerle a metà, o carico dell’ente se riconosce l’errore, ecc.).
Esecutività della sentenza di primo grado: Come anticipato, la sentenza di primo grado è ora immediatamente esecutiva per intero. Questo significa che: se la sentenza è favorevole al contribuente, egli ha diritto a essere trattato come completamente vittorioso subito – l’ente dovrà ad esempio restituirgli le somme che eventualmente aveva già pagato in pendenza di giudizio (es. acconti versati) e sospendere ogni riscossione del residuo. Viceversa, se la sentenza è favorevole all’ente (il contribuente perde), l’Amministrazione può procedere a riscuotere l’intero importo contestato, non più solo una parte. In passato, in caso di soccombenza del contribuente in primo grado, si doveva pagare il 2/3 (se non già versato) in attesa dell’appello; ora la regola è integrale. È stata però introdotta una contropartita: la parte soccombente può chiedere al giudice d’appello di sospendere l’esecutività della sentenza di primo grado durante l’appello (vedi §4.1). Quindi, ad esempio, se il contribuente perde in primo grado ma reputa la sentenza errata e presenta appello, potrà contestualmente chiedere alla Corte di secondo grado di congelare la riscossione di quella sentenza in attesa del giudizio di appello. All’opposto, se è l’ente a perdere in primo grado, potrebbe chiedere di sospendere il rimborso al contribuente vittorioso finché non si decide l’appello.
In ogni caso, la logica attuale è che la sentenza di primo grado vale subito, salvo eccezione concessa dal giudice superiore. Questo incide anche su come si eseguono le sentenze. Se la sentenza annulla del tutto un accertamento, l’ufficio dovrà adeguarvisi: ad esempio, se il giudice annulla solo parzialmente l’imposta, l’Ufficio dovrà riliquidare il dovuto e notificare al contribuente un nuovo conteggio coerente con la sentenza (spesso chiamato “atto di ottemperanza” o avviso di rimborso). Se l’Amministrazione non ottempera spontaneamente, il contribuente può attivare un particolare procedimento, il giudizio di ottemperanza ex art. 70 D.Lgs. 546/92, davanti alla CGT, per ottenere forzosamente l’esecuzione della sentenza. È un rimedio previsto per costringere l’ente a dare seguito alle decisioni passate in giudicato (ad es. ottenere un rimborso ordinato dal giudice). Non è frequentissimo, perché le amministrazioni in genere ottemperano, ma è utile nelle ipotesi di inerzia.
3. Strumenti deflattivi del contenzioso tributario
Prima di esaminare l’appello e la Cassazione, è opportuno fare una panoramica degli strumenti deflattivi, ossia quei procedimenti alternativi che permettono di evitare di arrivare alla sentenza o di chiudere anticipatamente la lite. Per imprese e professionisti, saper utilizzare questi strumenti può significare risparmiare tempo e costi, ottenendo risultati magari soddisfacenti senza attendere tutti i gradi di giudizio.
Gli strumenti deflattivi principali sono:
- Autotutela amministrativa – richiesta all’ente di annullare o rettificare l’atto viziato.
- Accertamento con adesione – accordo con l’ufficio su una definizione agevolata dell’accertamento (prima del ricorso).
- Acquiescenza all’accertamento – pagamento entro termini con riduzione delle sanzioni.
- Conciliazione giudiziale – accordo transattivo durante il processo, con sanzioni ridotte.
- Definizioni agevolate speciali – condoni e sanatorie straordinarie previste da leggi (es. “tregua fiscale” 2023, ecc.).
Questi strumenti, dall’autotutela alla conciliazione, fanno parte della strategia difensiva: spesso conviene tentarli per risolvere la lite in modo più rapido e meno oneroso. Vediamoli in dettaglio.
3.1 Autotutela: annullamento in via amministrativa dell’atto
L’autotutela è il potere-dovere della Pubblica Amministrazione di annullare o rettificare i propri atti quando li riconosca illegittimi o errati, anche in assenza di un ricorso. In campo tributario, l’autotutela è disciplinata dal DM 37/1997 e consiste nella possibilità per l’ente impositore di correggere spontaneamente un avviso o una cartella se si accorge (o gli viene fatto notare) che contiene errori.
Come funziona: Il contribuente può presentare un’istanza di autotutela all’ufficio che ha emesso l’atto, evidenziando i motivi per cui l’atto sarebbe da annullare o modificare. Ad esempio: “Vi segnalo che l’accertamento n. XYZ contiene un errore di persona, avete attribuito a me un reddito che è di un altro soggetto”, oppure “Avete calcolato male l’imposta, come da allegato prospetto”. L’istanza non sospende i termini di ricorso né l’obbligo di pagare, ma spesso gli uffici la esaminano celermente. Se l’ufficio riconosce l’errore, può emanare un provvedimento di annullamento in autotutela (totale o parziale) dell’atto. Ciò chiude la vicenda senza bisogno di giudice.
Limiti: L’autotutela è discrezionale – l’ufficio non è obbligato ad annullare, neanche se l’errore è palese. In realtà, per buona amministrazione, dovrebbe farlo. Ma se ritiene di no, il contribuente non ha un vero diritto soggettivo all’autotutela: infatti la Cassazione a Sezioni Unite ha stabilito che il diniego di autotutela non è impugnabile autonomamente. Cioè, se l’ente rifiuta di annullare, l’unica via resta il ricorso contro l’atto originario (non ci si può appellare in tribunale per il mancato annullamento, salvo casi particolari). Dunque, conviene chiedere autotutela subito appena ricevuto l’atto, ma senza dormire sugli allori: i 60 giorni per il ricorso decorrono comunque, quindi se l’ufficio non risponde in tempi brevi, bisogna presentare ricorso per non decadere.
Spesso l’autotutela viene utilizzata dopo che il ricorso è stato presentato: ad esempio, il contribuente propone ricorso e parallelamente l’ufficio, rivedendo la pratica, si rende conto di aver sbagliato e annulla l’atto. In tal caso la causa si chiuderà per cessata materia del contendere. Oppure, in caso di errore parziale, l’ufficio potrebbe annullare parzialmente (ridurre l’importo) e la lite prosegue solo sulla parte residua.
Quando ricorrere all’autotutela: ogni volta che si riscontrano errori evidenti e riconoscibili nell’atto. Esempi classici: scambio di persona, doppia imposizione per lo stesso presupposto, calcoli matematici sbagliati, pagamenti non considerati ma documentati, difetto di notifica di un atto prodromico (che l’ufficio può constatare), applicazione di norma chiaramente abrogata, ecc. Per questioni interpretative controverse, è più difficile che l’ufficio accolga l’autotutela (perché implica ammettere di aver torto su interpretazioni di legge – qui di solito l’AdE preferisce far decidere al giudice).
Come presentare istanza: Va fatta per iscritto, indirizzata all’ufficio, con oggetto “Istanza di annullamento in autotutela”. Meglio indicare subito eventuale numero di protocollo interno se noto, e allegare le prove dell’errore. Non c’è un termine fisso per presentarla (anche dopo i 60 giorni, ma ovviamente se presentata tardivamente non sospende né riapre termini).
Esito: se accolta, l’ufficio notifica un provvedimento di annullamento/sgravio. Se non accolta, spesso il contribuente non riceve risposta formale (silenzio-rifiuto). In quest’ultimo caso, come detto, non resta che il ricorso (se ancora nei termini) oppure, se i termini sono scaduti, si rimane con l’atto definitivo (il diniego tacito non può essere portato in commissione, come da Cass. SU n. 3698/2009 e conferme).
In definitiva, l’autotutela è uno strumento sempre consigliabile da tentare: non costa nulla, può risolvere subito i casi lampanti e, anche se non risolve, mette l’ufficio in una posizione più dialogante (talvolta apre la strada ad una conciliazione). Importante: conservare prova dell’invio (PEC o protocollazione) dell’istanza di autotutela, perché se poi l’ufficio non l’ha considerata e arriva in giudizio, si può evidenziare al giudice la mancata attenzione dell’ente (a volte influenza sulle spese).
3.2 Accertamento con adesione
L’accertamento con adesione (D.Lgs. 218/1997) è uno strumento deflattivo pre-processuale che consente al contribuente e all’ufficio di trovare un accordo prima del ricorso. In pratica è una negoziazione: il contribuente “riconosce” in parte la pretesa e l’ufficio ridetermina al ribasso l’imposta e le sanzioni, chiudendo la vicenda.
Quando si può attivare: dopo aver ricevuto un avviso di accertamento (o anche un PVC della Guardia di Finanza prima che esca l’avviso), e prima di impugnare, il contribuente può presentare istanza di adesione. Anche l’ufficio a volte invia un invito all’adesione. Si instaura così un contraddittorio informale: incontri tra contribuente (e suoi professionisti) e funzionari AdE per discutere i rilievi. Si valutano prove, si propongono importi mediatori. Se si trova un accordo sulle cifre, si formalizza un atto di adesione sottoscritto da entrambe le parti, con cui il contribuente accetta di pagare un certo importo in luogo di quello iniziale.
Vantaggi per il contribuente: riduzione delle sanzioni al 1/3 del minimo previsto (come previsto dall’art. 2 co.5 D.Lgs. 218/97). Ad esempio, sanzione ordinaria 100, con adesione paga circa 30. Inoltre, possibilità di rateizzare il dovuto fino a 8 rate trimestrali (12 rate se importo >€50.000). Soprattutto, evita il contenzioso e relative incertezze.
Vantaggi per l’ufficio: incassa più rapidamente, evita spese di giudizio e rischi di perdita integrale. Perciò in molti casi l’adesione è incoraggiata dagli stessi uffici (hanno anche obiettivi interni di definizione).
Effetti sul termine di ricorso: come visto, la presentazione dell’istanza di adesione sospende per 90 giorni il termine per ricorrere. Quindi uno può presentare istanza di adesione con calma (entro i 60 gg dall’avviso) senza temere di perdere l’impugnabilità: i 60 gg si congelano e, se la trattativa non va a buon fine, riprendono dopo. Questo meccanismo permette di negoziare senza pregiudicare il diritto di difesa.
Esempio: a Beta Srl viene accertato un maggior reddito con maggior imposta €50.000 e sanzioni €25.000. Beta presenta adesione: durante gli incontri dimostra alcune spese in più e l’ufficio concorda per ridurre il reddito, portando l’imposta a €30.000. Di conseguenza le sanzioni (1/3 del minimo su €30.000) scendono a ipotetici €10.000. Beta accetta: firma l’atto e paga (o rateizza) €40.000 totali. Così chiude la vertenza, risparmiando €35.000 rispetto all’accertamento e evitando ricorso.
Quando conviene aderire: se il contribuente riconosce almeno in parte la fondatezza dell’accertamento o comunque intravede margini di trattativa. Ad esempio, casi in cui la quantificazione del reddito può essere mediata. Non conviene se l’atto è totalmente infondato e si punta all’annullamento integrale in giudizio. In pratica, le adesioni sono frequenti in materia di redditi d’impresa o IVA dove si negoziano costi, ricavi, rimanenze; meno utili su questioni di puro diritto (es. qualificazione di reddito) dove se il contribuente ha ragione, preferisce far valere 100% in Commissione.
Procedura: L’adesione può essere su invito dell’ufficio (che trasmette un invito ad aderire con proposta) o su istanza del contribuente. Se c’è invito, il contribuente ha 15 giorni per presentarsi. Se c’è istanza spontanea, l’ufficio deve convocare il contribuente entro 15 giorni. Si verbalizza l’eventuale accordo. Se non ci si accorda, l’ufficio redige un verbale di mancato accordo (o semplicemente la trattativa scade dopo 90 gg).
Rapporto con il ricorso: Se adesione fallisce, il contribuente deve tempestivamente presentare ricorso (entro il termine residuo dei 60 gg, calcolato come visto). Nota: le memorie e ammissioni fatte durante l’adesione non vincolano formalmente nel successivo processo, ma ovviamente l’ufficio le conosce e le userà come elementi di fatto. Ad esempio, se in adesione il contribuente ha ammesso un certo numero di vendite in nero, poi in giudizio non potrà facilmente sostenere il contrario (verrebbe meno di credibilità).
Adesione anche post-ricorso? Una volta notificato il ricorso, non si può più attivare l’adesione. Però in quel momento c’è lo strumento della conciliazione giudiziale (vedi più avanti) che è analogo come risultato. Inoltre, durante i 90 gg di eventuale reclamo (per atti ante 2023) si poteva concludere un accordo di mediazione simile all’adesione.
In conclusione, l’accertamento con adesione è uno strumento prezioso soprattutto per ridurre le sanzioni e trovare un compromesso rapido. Ogni difensore tributario dovrebbe valutarne l’applicabilità caso per caso. Non preclude altre strade: se non si conclude, si torna semplicemente al contenzioso come se niente fosse.
3.3 Reclamo e Mediazione tributaria (istituto previgente)
(Nota: l’istituto del reclamo-mediazione è stato abrogato per i ricorsi notificati dal 2023 in avanti. Qui lo descriviamo per completezza storica e per le liti pendenti avviate prima.)
Il reclamo-mediazione era un istituto introdotto nel 2012 (DL 98/2011, art. 17-bis D.Lgs. 546/92) che prevedeva, per le controversie di valore non superiore a una certa soglia (prima €20.000 poi €50.000), l’obbligo di tentare una conciliazione con l’ente impositore prima di arrivare effettivamente davanti al giudice. In sostanza, per le liti di modesta entità, il ricorso tributario inizialmente fungeva da “reclamo” rivolto all’Ufficio: veniva presentato il ricorso, ma questo per i primi 90 giorni non veniva inoltrato al giudice; rimaneva all’interno dell’Amministrazione, che poteva accoglierlo (annullando in autotutela) o proporre una mediazione. Se entro 90 giorni non si trovava un accordo, il ricorso veniva trasmesso al giudice e il processo iniziava.
Mediazione: L’ufficio poteva formulare al contribuente una proposta di mediazione, ad esempio riducendo l’importo (simile a una conciliazione). Se il contribuente l’accettava, si perfezionava l’accordo con pagamento ridotto delle sanzioni (sanzioni al 35% del minimo, come previsto dall’art. 17-bis). Se l’ufficio respingeva il reclamo o non rispondeva, dopo 90 giorni il ricorso “dormiente” doveva essere attivato dal contribuente depositandolo in Commissione entro 30 giorni.
Questo meccanismo aveva l’intento di filtrare e ridurre il contenzioso, ma presentava alcune complicazioni. Dal 2023 è stato abolito proprio in virtù del nuovo contraddittorio obbligatorio endoprocedimentale: l’idea è che, essendo ora obbligatorio parlarsi prima dell’atto, non serve replicare dopo con un altro tentativo. Pertanto l’art. 17-bis è stato abrogato dal D.Lgs. 130/2022 e 220/2023.
Chi ha ancora liti iniziate con reclamo (ad esempio ricorso presentato nel 2022 su atto da €40.000) segue le vecchie regole. Ma per le nuove liti dal 2023 in poi, non c’è reclamo: il ricorso viene depositato subito e il processo tributario si attiva immediatamente.
Esempio di Ricorso con Istanza di Reclamo-Mediazione (per liti ante 2023)
Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di __
Ricorso (con istanza di reclamo-mediazione ex art. 17-bis D.Lgs. 546/1992)
Ricorrente: … (segue come da modello in §1.2)
…
Istanza di Reclamo/Mediazione: ai sensi dell’art. 17-bis, il ricorrente propone formale reclamo avverso l’atto, chiedendone l’annullamento in via di autotutela ovvero la riduzione attraverso mediazione, per le ragioni esposte. Si dichiara sin d’ora disponibile a soluzioni di definizione, anche tramite conciliazione, con rideterminazione dell’imponibile e delle sanzioni.
Fatti e motivi del ricorso: …
Richiesta in via principale: …
(eventuale richiesta subordinata)
Richiesta in via adesiva (reclamo): il ricorrente istante chiede all’Ente impositore, in sede di riesame/reclamo, di annullare o riformare in via di autotutela l’atto impugnato alla luce delle suesposte argomentazioni.
Luogo, data – Firma difensore.
(Nell’atto si poteva inserire anche un’istanza di sospensione, ma in sede di reclamo l’ufficio difficilmente la considerava; era poi il giudice a valutarla dopo i 90 giorni se il ricorso andava avanti).
Come detto, dal 2024 questo modello resta di applicazione solo per casi residui. Il reclamo-mediazione confluisce concettualmente ora nelle procedure di contraddittorio preventivo o di conciliazione giudiziale, trattate di seguito.
3.4 Conciliazione giudiziale (in udienza e fuori udienza)
La conciliazione giudiziale è lo strumento che consente alle parti di una controversia tributaria già in corso di trovare un accordo transattivo e chiudere anticipatamente il giudizio, con l’ausilio e sotto il controllo del giudice. A differenza dell’adesione (fase amministrativa) e del reclamo-mediazione (fase pre-processuale), la conciliazione avviene dentro il processo: ciò significa che il ricorso è pendente davanti alla Commissione e si decide di non arrivare a sentenza ma di fermarsi prima mediante un accordo.
Tipi di conciliazione: Tradizionalmente si distingueva tra conciliazione fuori udienza e conciliazione in udienza. La conciliazione fuori udienza avviene tramite atti scritti prima dell’udienza: le parti depositano uno schema di accordo (proposta e accettazione) che il collegio, se conforme a legge, omologa con decreto. La conciliazione in udienza avviene invece verbalmente davanti al giudice, durante l’udienza di trattazione: si verbalizzano i termini dell’accordo e il collegio li recepisce in sentenza.
Procedura fuori udienza (art. 48 D.Lgs. 546/92): fino a quando la causa non è decisa, le parti possono presentare al giudice una proposta di conciliazione con determinati contenuti (nuovo importo del tributo concordato, nuove sanzioni, ecc.). Se l’altra parte aderisce, il giudice dichiara l’estinzione del giudizio per conciliazione, con un’apposita sentenza di conciliazione che recepisce l’accordo.
Procedura in udienza: all’udienza di discussione, prima che inizi la trattazione nel merito, le parti possono dichiarare di voler conciliare. A quel punto l’udienza viene sospesa per consentire di stendere un verbale di conciliazione, oppure viene rinviata ad altra data per predisporre l’accordo scritto. Successivamente il collegio emetterà sentenza con il contenuto concordato.
Benefici sanzionatori: Il vantaggio principale della conciliazione è la riduzione delle sanzioni amministrative dovute. La norma (art. 48) prevede che, in caso di conciliazione in primo grado, le sanzioni si applicano al 40% del minimo previsto dalla legge. In caso di conciliazione in appello, le sanzioni sono al 50% del minimo. Questo “sconto” incentiva il contribuente a transigere. (Attenzione a non confondere con le definizioni agevolate: nella conciliazione normale non c’è riduzione di imposta, ma solo sanzioni ridotte al 40/50% del minimo di legge. Nella definizione agevolata 2023, eccezionale, c’era 1/18 di sanzioni – quella è altra fattispecie).
Esempio di conciliazione: Gamma SRL ha in corso un ricorso su un avviso da €100k imposta + €30k sanzioni. Durante l’udienza il giudice percepisce che le parti potrebbero accordarsi a €60k imposta. Conciliano: l’azienda accetta di pagare €60k di imposta e le sanzioni ridotte al 40% del minimo. Se il minimo legale era 100% imposta (30k), il 40% è 12k. Quindi paga €72k totali. Il giudice emette sentenza di conciliazione che sancisce il dovuto di €60k imposta e €12k sanzioni. Ciascuna parte di solito paga metà delle spese (o come accordato). Il giudizio finisce qui, inappellabile perché è un accordo (non c’è soccombente).
Spese di giudizio: nella conciliazione le spese sono normalmente ripartite come da accordo tra le parti. Spesso si opta per la compensazione totale (ognuno le proprie) oppure l’ente può assumersene una parte se riconosce qualche errore. Si specifica nell’accordo. La sentenza di conciliazione recepisce anche questo.
Irrevocabilità dell’accordo: Una volta perfezionata la conciliazione (con la sottoscrizione delle parti e l’omologazione del giudice), essa ha efficacia di giudicato. Non si può appellare una sentenza emessa su accordo, a meno che per vizi di volontà (errore di calcolo, violenza, ecc.), situazioni molto eccezionali. Quindi è definitiva.
Pagamento: il contribuente deve effettuare i pagamenti concordati entro 20 giorni dalla sentenza di conciliazione (o decreto). È ammessa la rateazione come per l’adesione: fino a 8 rate se importo >€50k. L’accordo può prevedere anche la compensazione di crediti.
Quando conviene conciliare: quando entrambe le parti valutano incerto o non conveniente proseguire. Ad esempio, se il contribuente ha qualche chance ma non altissime, con la conciliazione ottiene comunque uno sconto sanzioni e chiude il rischio. Anche l’ufficio in cause rischiose può preferire incassare metà subito che rischiare zero dopo anni. Spesso si concilia in appello quando in primo grado il contribuente ha vinto e l’Agenzia ricorre: per evitare la Cassazione, offrono sanzioni ridotte e chiudono. La legge 130/2022 ha addirittura previsto che la conciliazione è ammessa anche in Cassazione “in quanto compatibile”: significa che anche davanti alla Suprema Corte, se la controversia lo consente (ovvero riguarda importi, non pure questioni di principio), le parti possono trovare un accordo (praticamente come definizione agevolata tardiva). Questo è nuovo: prima in Cassazione non era concepibile conciliare, ora sì se c’è uno spiraglio.
In definitiva, la conciliazione giudiziale è un utile strumento transattivo per chiudere la lite in tempi brevi e con costi ridotti. Il difensore deve tenerlo presente in ogni fase: a volte un buon accordo oggi è meglio di una ottima sentenza fra 5 anni (che magari verrà appellata). D’altronde, se si è convinti di aver ragione al 100%, si può rifiutare di conciliare e andare avanti: è sempre su base volontaria.
3.5 Definizioni agevolate delle controversie e altre chiusure speciali
Infine, rientrano tra gli strumenti deflattivi anche le definizioni agevolate delle liti fiscali previste da leggi speciali (i cosiddetti condoni o pacificazioni). Si tratta di norme – emanate tipicamente in leggi di bilancio – che offrono la possibilità di chiudere le controversie pendenti con il Fisco pagando un importo ridotto e rinunciando al prosieguo del giudizio.
Esempio recente: “Tregua fiscale 2023”. La Legge 197/2022 (Bilancio 2023) ha introdotto varie misure agevolative, tra cui: la definizione agevolata delle controversie tributarie pendenti (commi 186-205), la conciliazione agevolata in appello (commi 206-212), la rinuncia agevolata ai ricorsi in Cassazione da parte dell’Agenzia (commi 213-218). In pratica, per i ricorsi pendenti al 1° gennaio 2023, il contribuente poteva presentare domanda di definizione e pagare un importo percentuale variabile a seconda degli esiti dei gradi precedenti:
- Se aveva perso in tutti i gradi precedenti, pagava il 100% delle imposte (nessuno sconto se aveva sempre torto) ma con sanzioni ridotte a 1/18.
- Se aveva vinto in primo grado (sentenza a suo favore) e l’Agenzia aveva appellato, poteva chiudere pagando 15% delle imposte se pendeva in secondo grado, o 5% se pendeva in Cassazione con doppia conforme a suo favore.
- Se aveva avuto esiti contrastanti (vinto un grado e perso un altro), c’erano percentuali intermedie (ad esempio 40% o 50%).
In ogni caso, le sanzioni erano ridotte ad 1/18 del minimo (circa 5.56%) e interessi/aggi azzerati. Ciò ha permesso a molti di chiudere le liti risparmiando. L’istanza andava presentata entro 30 giugno 2023 e i pagamenti effettuati in un’unica soluzione o massimo 20 rate trimestrali.
Similmente, la conciliazione agevolata permetteva di conciliare in appello con sanzioni 1/18 (anziché 1/3). La rinuncia agevolata in Cassazione consentiva all’Agenzia Entrate di abbandonare ricorsi versando un forfait 5% se aveva perso nei gradi precedenti.
Queste misure straordinarie, essendo una tantum, vanno colte nei periodi in cui sono offerte. Anche in passato ci sono stati condoni (es. definizione liti minori 2018, ecc.). Il professionista deve stare attento alla legislazione vigente: ad esempio, nel 2025 non risultano nuove definizioni in corso dopo quelle del 2023, ma se dovessero essercene, potrebbe convenire aderire.
Altre chiusure speciali: a volte la legge prevede sanatorie per casi specifici, come definizioni di accertamenti, rottamazione cartelle (non esattamente contenzioso, ma afferente), ecc. Anche queste possono impattare sulle controversie. Ad esempio, se definisco un accertamento con la pace fiscale, poi il ricorso su quel atto viene meno. Oppure se rottamo la cartella e pago le somme, potrei far estinguere il giudizio di impugnazione di quella cartella per cessata materia.
In generale, queste misure straordinarie devono essere attentamente valutate e confrontate con gli strumenti ordinari. Spesso convengono perché danno certezza e risparmio. Però il contribuente rinuncia a far valere magari ragioni di giustizia per accontentarsi di uno sconto. È una scelta caso per caso, da fare con cognizione di causa. Nella sezione fonti normative in fondo, indichiamo le leggi di riferimento come la L. 197/2022 e la Circolare 2/E 2023 con le istruzioni dell’Agenzia.
Riassumendo la sezione deflattiva: il difensore tributario deve avere una doppia strategia: da un lato preparare il miglior ricorso possibile per vincere in giudizio, dall’altro tenere sempre aperta la porta a soluzioni alternative che possano soddisfare il cliente in termini economici. A volte una trattativa ben condotta porta a risultati simili a quelli di una sentenza, con minori costi e stress. L’importante è conoscere tutti gli strumenti (autotutela, adesione, conciliazione, ecc.) e saperli attivare al momento opportuno.
4. Il giudizio di appello dinanzi alla Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado
Se una delle parti rimane insoddisfatta dell’esito di primo grado, può proporre appello alla Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado (la ex Commissione Tributaria Regionale). L’appello è dunque il secondo grado di merito del processo tributario: la controversia viene riesaminata da un nuovo giudice, su istanza della parte soccombente (o parzialmente soccombente) che ritiene la sentenza di primo grado errata.
È importante comprendere che l’appello non è un nuovo processo da zero (“de novo”): è circoscritto ai motivi di censura contro la sentenza di primo grado. In altre parole, non si rimettono in discussione tutti gli aspetti liberamente, ma solo quelli su cui l’appellante solleva obiezioni specifiche. Fino al 2022 l’appello tributario era piuttosto ampio (si potevano portare nuove prove, nuove questioni se collegate, ecc.), ma con la riforma 2022-2023 si è introdotto un modello di appello “a istruttoria chiusa”, salvo eccezioni, similmente al processo civile. Vedremo a breve cosa comporta.
Ecco gli aspetti essenziali del giudizio di appello:
4.1 Proposizione dell’appello: forma, termini e contenuto
Chi può appellare: può proporre appello la parte che sia risultata soccombente, anche solo in parte, in primo grado. Dunque sia il contribuente sia l’ente impositore possono essere appellanti se la sentenza non è stata a loro totalmente favorevole. Se il contribuente ha vinto integralmente e l’ente non appella, la sentenza passa in giudicato dopo i termini (90 giorni dalla comunicazione + 6 mesi, etc.). Se invece l’ente appella, il contribuente sarà parte appellata e potrà eventualmente contrattaccare con appello incidentale (vedi più sotto).
Termini per appellare: L’appello va notificato alla controparte entro certi termini perentori. Vi sono due termini alternativi:
- Termine breve: 60 giorni dalla notificazione della sentenza di primo grado fatta da controparte. Questo significa: se la parte vittoriosa notifica (notifica in via formale, ex art. 38 D.Lgs. 546) la sentenza alla parte soccombente, quest’ultima ha 60 giorni da tale notifica per fare appello. (È una situazione tipica: l’Agenzia delle Entrate quando perde in primo grado notifica subito la sentenza al contribuente, così riduce il suo tempo per reagire a 60 gg).
- Termine lungo: 6 mesi dalla pubblicazione (deposito) della sentenza, se la sentenza non è stata notificata da nessuna parte. Questo termine lungo è previsto dall’art. 327 c.p.c. richiamato in ambito tributario. Dunque, se nessuno notifica la sentenza, l’appello si può proporre entro sei mesi (calcolati dalla data di deposito in segreteria).
In entrambi i casi valgono le sospensioni feriali: i 60 giorni si sospendono in agosto, i 6 mesi pure includono la sospensione se cade in mezzo (ormai i 6 mesi sono “puliti” perché dal 2020 ridotti da 1 anno a 6 mesi al netto di agosto, ma è dettaglio tecnico).
Forma dell’atto di appello: l’appello si propone con un atto scritto (detto anche ricorso in appello) che va notificato alla controparte e poi depositato presso la Commissione regionale entro 30 giorni, analogamente al primo grado. Quindi la procedura è simile: si notifica via PEC all’avversario l’atto di appello e poi lo si deposita telematicamente sul SIGIT, con pagamento di un nuovo contributo unificato.
Contenuti obbligatori dell’appello (art. 53 D.Lgs. 546):
Devono essere indicati, a pena di inammissibilità:
- Gli estremi della sentenza impugnata (numero, anno, Commissione di provenienza, data deposito).
- L’indicazione della Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado competente (di regola, quella della Regione o Provincia autonoma in cui ha sede la CGT di primo grado che ha emesso la sentenza. Es: appello contro sentenza CTP Milano → CGT II grado della Lombardia).
- Le parti: l’appellante e l’appellato, con loro domicili e PEC come nel ricorso originario.
- I motivi specifici di appello: questa è la parte cruciale. L’appellante deve indicare in quali punti e perché la sentenza di primo grado sarebbe errata, in fatto o in diritto. Non basta dire “la sentenza è ingiusta”: occorre articolare censure puntuali. Ad esempio: “1) Error in procedendo: la sentenza è nulla per difetto di motivazione, non avendo esaminato il motivo n.3 del ricorso…”; oppure “2) Error in iudicando: violazione dell’art. 109 TUIR, il giudice ha erroneamente escluso la deducibilità del costo X, mentre la normativa lo consente…”. Ogni motivo dovrebbe attaccare uno specifico capo della sentenza.
- Le conclusioni in appello: di solito consistono nella richiesta di riformare (modificare) o annullare la sentenza impugnata, con ogni conseguenza di legge (ad esempio accogliendo integralmente il ricorso originario, etc.). Spesso si chiede anche la vittoria di spese per il grado di appello.
L’enfasi è sulla specificità dei motivi: un appello generico (es. “chiedo la riforma perché la decisione di primo grado è sbagliata”) viene dichiarato inammissibile. Questo principio è stato più volte sottolineato da Cassazione e ora con la riforma processuale c’è maggiore severità nel richiederlo.
Appello principale e incidentale: se entrambe le parti hanno interesse, si possono avere due appelli sulla stessa sentenza. Il primo che si muove fa l’appello principale. L’altra parte, anche se pure voleva impugnare, a quel punto può fare appello incidentale all’interno della propria risposta. Ad esempio: il contribuente aveva perso in parte e l’AdE in parte – il contribuente propone appello principale per la parte che ha perso; l’ufficio nella propria memoria di costituzione in appello (entro 60 giorni dalla notifica) può proporre a sua volta appello incidentale sul punto in cui aveva perso in primo grado. Entrambi i punti saranno trattati insieme nella fase di appello. Se invece entrambe depositano appello principale separatamente (può accadere se depositano quasi contemporaneamente), i due appelli verranno riuniti.
Sospensione dell’esecutività in appello: come già accennato, l’appello non sospende di diritto gli effetti della sentenza di primo grado. Quindi se in primo grado il contribuente è stato condannato a pagare, deve pagare anche se ha appellato (l’ente può riscuotere). Viceversa, se aveva vinto un rimborso, l’ente dovrebbe eseguire (ma spesso in quel caso appella e chiede sospensione). Dunque la parte interessata (solitamente l’appellante soccombente) può presentare al giudice d’appello un’istanza di sospensione dell’esecutività della sentenza impugnata. L’art. 52 D.Lgs. 546 (come modificato) prevede che la CTR può concedere la sospensione “in presenza di gravi e fondati motivi”. Criterio analogo a quello cautelare di primo grado ma riferito alla sentenza: ad esempio, il contribuente che ha perso chiede di sospendere l’obbligo di pagamento immediato perché importi molto elevati e c’è probabilità di successo in appello. La CTR decide con ordinanza relativamente rapida (di solito entro un paio di mesi). Se accordata, la sospensione dura fino alla decisione definitiva in appello.
Competenza territoriale in appello: come detto, in genere coincide con la regione. Fanno eccezione le Province Autonome: Bolzano e Trento hanno le loro Corti II grado. Se per esempio si appella una sentenza della CGT di primo grado di Bolzano, l’appello va alla CGT di secondo grado di Bolzano (che coincide con la ex CTR di Bolzano). Tutte le cause, indipendentemente dal valore, sono appellabili – diversamente dal giudice di pace civile dove quelle sotto una soglia no, qui qualsiasi importo può andare in appello (a parte quanto diremo su conciliazione e rito). Non esistono più limiti di valore per l’appello tributario (in passato c’era il limite 3k per liti personali ma è stato di fatto tolto con giudice unico appellabile).
Contributo unificato in appello: l’appellante deve pagare un nuovo contributo unificato, di importo uguale a quello di primo grado (non cumulativo, ma per grado). Quindi se il valore resta lo stesso, paga la stessa somma. Se in appello cambia il valore (non dovrebbe, ma se ad esempio in primo grado era indeterminabile e ora determinato) si adatta. Se l’appello è parziale su una quota del valore, comunque vale il valore intero originario, perché la lite è la stessa. Dunque ad esempio, lite €80k → €250 contributo in primo grado e €250 in appello. Va allegata quietanza F23 (codice 941T anche per appello con voce diversa) nel deposito.
4.2 Effetti devolutivi e limiti in appello – nuove prove
L’appello tributario ha effetto devolutivo, cioè trasferisce al giudice di secondo grado le questioni oggetto dei motivi di appello. Significa che la Corte potrà riesaminare nel merito il rapporto tributario, ma entro i confini segnati dai motivi di appello. Se certi punti non sono stati impugnati, su quelli la sentenza di primo grado diventa definitiva. Ad esempio: contribuente aveva 5 motivi, il primo grado ne accoglie 2 e rigetta 3; l’Agenzia appella sui 2 che ha perso, il contribuente potrebbe appellare sugli altri 3 che ha perso. Se il contribuente però non lo fa, su quei 3 la sentenza passa in giudicato e in appello si discuterà solo dei 2 motivi vinti dal contribuente su cui l’Agenzia si è doluta. (Nota: su quei 3 non appellati, in teoria il giudice appello non potrebbe intervenire; tuttavia se uno di quei 3 era strettamente connesso ai 2 in discussione, potrebbero sorgere problemi tecnici di cosa resta deciso e cosa no – qui entra in gioco il divieto di reformatio in peius: l’appellante non può vedersi peggiorare la situazione sui punti non impugnati.)
Un principio chiave: non si possono proporre in appello nuove domande o eccezioni che non siano già state dedotte (o rilevabili d’ufficio). Il cosiddetto ius novorum in appello è limitato. In particolare, l’appellante non può introdurre un motivo completamente nuovo di impugnazione dell’atto originario che non avesse sollevato in primo grado. Se lo fa, il giudice d’appello dovrà dichiararlo inammissibile per novità. Ad esempio: in primo grado non si era contestata la firma dell’accertamento, non la si può tirare fuori per la prima volta in appello. Fanno eccezione solo i motivi che sorgono dopo la sentenza di primo grado (es. intervenuta incostituzionalità di una norma): quelli ovviamente non potevano essere dedotti prima, quindi si possono introdurre anche in appello se indispensabili.
Uno dei punti più incisivi della riforma 2023 riguarda le nuove prove in appello. Prima, l’art. 58 D.Lgs. 546 permetteva espressamente di produrre in appello nuovi documenti senza restrizioni (tant’è che Cassazione confermava la possibilità di depositare in secondo grado documenti non esibiti prima). La sola eccezione pre-riforma era la testimonianza, comunque vietata in entrambi i gradi. Ora, invece, il nuovo art. 58 (modificato dal D.Lgs. 220/2023) stabilisce che nel giudizio di appello non sono ammessi nuovi mezzi di prova né nuovi documenti, a meno che:
- Il giudice d’appello li ritenga indispensabili ai fini della decisione, oppure
- La parte dimostri di non aver potuto produrli in primo grado per cause a sé non imputabili.
In pratica, viene adottato un sistema simile a quello civile (art. 345 c.p.c. dopo la riforma 2012). Quindi l’appello diventa un giudizio “a prova semifissa”: tendenzialmente si decide sul materiale probatorio già presentato in primo grado. Solo in casi particolari si ammettono eccezioni: se emerge un documento nuovo scoperto dopo, lo si potrà accettare solo se l’appellante prova che non poteva procurarselo prima; oppure se il giudice stesso reputa necessario acquisire d’ufficio un documento fondamentale non prodotto (questa seconda ipotesi è rara, ma ad esempio se in atti manca proprio l’avviso di accertamento per qualche motivo e il fascicolo lo necessita, il giudice può richiederlo).
Questa innovazione ha fatto discutere e infatti la Corte Costituzionale è già intervenuta su un aspetto: con sentenza n. 36 del 27/3/2025, la Consulta ha dichiarato incostituzionale la parte del divieto di nuove produzioni in appello che riguardava documenti essenziali come procure e deleghe. In particolare, la norma introdotta (art. 58 c.3) vietava tassativamente di produrre in appello atti come la delega al funzionario firmatario o la procura alle liti se non erano stati prodotti in primo grado. La Corte ha ritenuto questo divieto assoluto in contrasto col diritto di difesa e l’uguaglianza, perché impediva di porre rimedio a mancanze non imputabili alla parte (ad es. se la delega non era stata depositata per un errore scusabile, non c’era modo di sanare e la parte perdeva in appello per vizio formale). Ha quindi dichiarato incostituzionale la norma nella parte in cui non consente di produrre in appello deleghe, procure e atti di rappresentanza non prodotti in primo grado per causa non imputabile alla parte. Questo bilancia la rigidità della regola.
Dunque, ad oggi, in appello si possono portare nuovi documenti solo in casi ben precisi; e per i documenti di rappresentanza omessi prima per errore scusabile, deve essere consentito introdurli ora (onde evitare iniquità).
Trattazione dell’appello: Di norma ricalca quella di primo grado. Anche in appello si possono depositare memorie; la legge tributaria non fissa espressamente termini come 30-20-10, ma nella prassi molti collegi li applicano analogamente (magari con tempi 60 gg prima l’appellante per motivi aggiuntivi, 30 giorni l’appellato per contro deduzioni, 20 repliche, etc.). Se nessuna parte chiede udienza, la causa potrebbe decidersi in camera di consiglio (soprattutto in caso di conciliazione fuori udienza). Tuttavia, quasi sempre si chiede udienza anche in appello.
Durante l’udienza d’appello, vista la natura devolutiva e i limiti probatori, non si rifà l’istruttoria ex novo salvo i casi di prove nuove indispensabili ammesse. Spesso la discussione d’appello è più focalizzata sui profili di diritto e sulla valutazione che il primo giudice ha dato ai fatti, piuttosto che su accertare nuovi fatti. I difensori evidenzieranno gli eventuali errori logici o giuridici della sentenza appellata. È comunque un giudizio di merito, quindi la CTR può benissimo riesaminare i fatti già agli atti e dare una valutazione diversa (es: il primo giudice non ha creduto a una certa prova, la CTR invece la reputa convincente). Semplicemente lo farà sul materiale già presente, senza magari nuovi testimoni o documenti.
4.3 Decisione in appello e sentenza di secondo grado
La Corte di giustizia tributaria di secondo grado, dopo la discussione, decide la causa con sentenza. La sentenza di appello può: confermare, riformare o annullare la sentenza di primo grado. Vediamo i possibili esiti:
- Conferma (rigetto dell’appello): la CTR respinge l’appello e conferma in toto la sentenza di primo grado. Ciò può avvenire se ritiene infondate tutte le censure dell’appellante. La sentenza d’appello può far proprie le motivazioni di primo grado (richiamandole) oppure integrarle con considerazioni aggiuntive. Dopo di che, la pronuncia di primo grado rimane valida e si consolida (salvo eventuale Cassazione).
- Riforma: la CTR accoglie l’appello e modifica la decisione precedente. Ad esempio, se il contribuente aveva perso e appella, la CTR può dargli ragione e dunque annullare l’atto che in primo grado era stato confermato. Oppure, viceversa, l’ufficio che aveva perso appella e la CTR gli dà ragione su quei punti, ribaltando a sfavore del contribuente. In generale, riforma vuol dire che la sentenza di primo grado viene sostituita da quella di secondo grado con esito opposto su uno o più capi.
- Riforma parziale: molto comune, specie se entrambe le parti hanno appelli su punti diversi. La CTR può ad esempio accogliere l’appello del contribuente su un aspetto (ulteriore riduzione dell’imponibile) ma accogliere anche l’appello incidentale dell’ufficio su un altro (ad esempio ristabilendo una sanzione che il primo giudice aveva annullato). In tal caso la sentenza d’appello “ridisegna” la vicenda: magari riduce ulteriormente l’imposta dovuta rispetto al primo grado, però reintroduce una qualche sanzione, ecc. Sono scenari articolati, ma la sentenza d’appello li esprimerà chiaramente nel dispositivo (es. “in parziale riforma, ridetermina l’imposta in X e le sanzioni in Y…”).
- Annullamento con rinvio: ipotesi rara in appello tributario, perché la CTR è giudice del merito e in genere decide essa stessa la causa. Tuttavia, può accadere che la CTR riscontri un vizio di procedura insanabile in primo grado che ha leso il diritto di difesa, tale da invalidare l’intero giudizio di primo grado. L’esempio tipico è la mancata integrazione di un litisconsorte necessario: se in primo grado la causa andava fatta congiuntamente a un altro soggetto e ciò non è avvenuto (es. accertamento società e socio senza che il socio fosse citato), la CTR potrebbe dichiarare nullo il procedimento di primo grado e rinviare gli atti alla CGT di primo grado per un nuovo giudizio con tutte le parti presenti. Questo è un caso limite, perché la CTR potrebbe anche risolverlo direttamente integrando il contraddittorio in appello (chiamando la parte mancante e decidendo). Però se ritiene che la mancanza abbia inficiato la fase probatoria, potrebbe annullare e rinviare. In genere, comunque, la CTR tende a decidere nel merito anche in queste situazioni, per economia processuale (specie dopo la riforma, l’art. 59 consente di sanare). Quindi l’annullamento con rinvio in appello è raro; molto più frequente in Cassazione che, non potendo decidere sul merito, rimanda al giudice sottostante.
- Casi particolari: se in appello interviene una conciliazione tra le parti, la Corte ne prende atto e dichiara l’estinzione come visto (spese secondo accordo). Oppure, se durante l’appello entra in vigore una definizione agevolata e la parte aderisce (es. definizione liti 2023 per cause in appello), la Corte dichiarerà la cessata materia del contendere dietro istanza del contribuente (che avrà pagato quanto dovuto in via agevolata).
Esecutività della sentenza d’appello: Anche le sentenze di secondo grado sono provvisoriamente esecutive. Quindi, una sentenza d’appello favorevole al contribuente è immediatamente esecutiva (l’ufficio dovrebbe rimborsare quanto eventualmente riscosso in eccedenza). Se invece l’appello ha ribaltato a favore del Fisco (es: in primo grado contribuente aveva vinto, in appello perde), l’Amministrazione può ora riscuotere integralmente, però il contribuente può chiedere eventualmente sospensione in Cassazione. Infatti la riforma ha introdotto l’art. 62-bis che consente alla Cassazione di sospendere l’esecutività della sentenza impugnata (vedremo nel capitolo successivo). Quindi, p.es., se la CTR condanna il contribuente a pagare 100, egli dovrebbe pagare subito, ma se intende ricorrere in Cassazione può chiedere alla Cassazione di sospendere quell’obbligo finché decide (deve però attivarsi in tempi rapidi post-appello).
Spese del giudizio d’appello: Le spese seguono la soccombenza complessiva sui due gradi o come diversamente statuito. In genere la CTR condanna la parte che risulta perdente in appello a pagare le spese del grado. Se riforma la sentenza di primo grado, può anche sommare le spese di primo grado (nel senso che la parte che ora risulta perdente finale, può essere condannata a rifondere sia le spese di appello sia quelle di primo grado eventualmente compensate o poste a carico erroneamente). Ad esempio, in primo grado contribuente vince e ha spese a carico AdE; in appello AdE vince, la CTR potrebbe compensare le spese di entrambi i gradi oppure condannare il contribuente (ora soccombente) a restituire anche le spese del primo grado all’AdE. Diciamo che c’è margine di discrezionalità. Se entrambe le parti vincono su qualcosa, spesso si compensano interamente o parzialmente.
Dopo la sentenza di secondo grado, la vicenda può non essere conclusa: la parte ulteriormente soccombente può valutare un ricorso per Cassazione (terzo grado, solo per motivi di legittimità, vedi oltre). Se invece nessuna delle parti ricorre in Cassazione entro i termini (60 giorni da notifica o 6 mesi da deposito), la sentenza d’appello passa in giudicato e diventa definitiva e immodificabile, salvo mezzi straordinari come la revocazione.
5. Il Ricorso per Cassazione
Esauriti i gradi di merito, contro la sentenza della Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado è ammesso il ricorso per Cassazione davanti alla Corte Suprema di Cassazione. La Cassazione rappresenta il terzo grado di giudizio, ma a differenza dei primi due non è un giudizio sul merito bensì sul rispetto della legge (judicium legitimitatis). In altre parole, la Cassazione non rivede i fatti, non ricalcola le imposte: verifica soltanto se la sentenza d’appello (o di primo grado se non appellata) presenta errori di diritto – violazioni di norme sostanziali o processuali – tali da dover essere annullata o corretta.
Vediamo gli aspetti principali del ricorso per Cassazione nel contenzioso tributario:
Chi può ricorrere: la parte che ha avuto torto (anche parziale) in secondo grado può proporre ricorso per Cassazione. Può farlo anche l’Agenzia delle Entrate (che anzi è frequente utente della Cassazione quando perde in CTR su questioni importanti). Se invece la sentenza d’appello è favorevole al contribuente e l’ente decide di non ricorrere (magari perché la ritiene conforme a diritto o per scelta strategica), la vicenda finisce lì.
Termini: analoghi all’appello: 60 giorni dalla notifica della sentenza d’appello (di solito la parte vittoriosa notifica la sentenza proprio per far decorrere questo termine breve); altrimenti, 6 mesi dal deposito se non notificata. La notifica da parte dell’Avvocatura dello Stato all’altra parte riduce il tempo a 60 gg.
Atto di ricorso e contenuto: Il ricorso per Cassazione è un atto particolarmente tecnico. Deve indicare: le parti (ricorrente e controricorrente), la sentenza impugnata e – soprattutto – i motivi di ricorso per Cassazione. I motivi di ricorso per Cassazione sono tassativi ex art. 360 c.p.c. e, in sintesi, possono essere: violazione o falsa applicazione di norme di diritto (errore di diritto sostanziale); nullità della sentenza o del procedimento (errore procedurale); omesso esame di un fatto decisivo (vizio motivazionale); ed altre ipotesi come difetto di giurisdizione, ultrapetizione, ecc. In tributario, i più frequenti sono la violazione di legge e i vizi di motivazione.
Esempi: “Violazione dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 7 c.5 D.Lgs. 546/92: la CTR ha invertito l’onere della prova ponendolo a carico del contribuente in contrasto col principio che grava sull’ente la prova della pretesa”; oppure “Nullità della sentenza per motivazione apparente: la CTR si è limitata ad affermazioni generiche senza esaminare le specifiche doglianze d’appello”; oppure “Omesso esame di un fatto decisivo: la CTR non ha considerato la transazione del 2015 comprovata in atti, che se valutata avrebbe dimostrato l’insussistenza del debito”.
Va evidenziato che non sono ammessi motivi di puro merito: non si può contestare la libera valutazione delle prove operata dal giudice di appello, se non nei limiti dell’omesso esame di un fatto decisivo (che è comunque applicato restrittivamente dalla Cassazione). La Cassazione non è un terzo grado di merito, quindi questioni come “il giudice ha male interpretato i documenti” o “la sua stima è errata” di norma sono inammissibili, salvo si traducano in errori di logica giuridica o omissioni evidenti.
Procedura di ricorso: Il ricorso va notificato alle altre parti del giudizio (es. se ricorre il contribuente, notifica all’Agenzia Entrate, e viceversa) entro i termini. Poi va depositato presso la Cancelleria della Corte di Cassazione (in via telematica dal 2022 anche lì). La parte resistente potrà a sua volta notificare entro 40 giorni un controricorso con le proprie difese e anche proporre ricorso incidentale se aveva ragioni proprie di impugnazione (ad esempio l’Agenzia ha vinto su tutto tranne che su un punto, può fare ricorso incidentale su quello, anche se ha vinto nel complesso). Trascorsi i termini, il fascicolo viene trasmesso alla Sezione Tributaria della Cassazione.
Difensori abilitati in Cassazione: in Cassazione la parte deve essere rappresentata e difesa da un avvocato iscritto nell’Albo dei patrocinanti in Cassazione. Dunque, non sono ammessi commercialisti o altri difensori non avvocati, e neppure avvocati non cassazionisti (a meno che la parte stia in proprio, cosa non possibile per il valore normalmente, e comunque sarebbe sconsigliabile). Nella pratica, l’Agenzia Entrate si avvale dell’Avvocatura Generale dello Stato per i ricorsi in Cassazione (la quale ha automatico diritto al patrocinio in Cassazione). Il contribuente dovrà incaricare un avvocato cassazionista. Questa specializzazione è per garantire qualità dei ricorsi.
Svolgimento del giudizio di Cassazione: Dopo il deposito, la controparte può depositare eventuale controricorso come detto. Poi il fascicolo passa alla sezione. C’è un filtro sulle inammissibilità: i ricorsi che paiono inammissibili, improcedibili o manifestamente infondati possono essere decisi in Camera di consiglio con un’ordinanza “filtro” ex art. 375 c.p.c. e 380-bis c.p.c. Molti ricorsi tributari vengono decisi in camera di consiglio senza pubblica udienza, tramite ordinanze sintetiche, data la materia spesso ripetitiva. Però per questioni di particolare importanza o novità giurisprudenziale, può essere fissata pubblica udienza e discussione orale, con l’intervento del Procuratore Generale della Cassazione (che dà un parere, specialmente se ci sono questioni nomofilattiche da evidenziare). La presenza del PG presso la Cassazione è obbligatoria in ogni caso: egli deposita una requisitoria scritta (anche nelle camere di consiglio) con un parere sul ricorso.
Alla fine, la Corte emette una sentenza (o ordinanza motivata) in cui decide il ricorso.
Possibili esiti in Cassazione:
- Inammissibilità o improcedibilità del ricorso: se il ricorso non rispetta i requisiti formali (ad es. difetto di specificità nei motivi, tardività, mancanza di procura speciale) o se è stato depositato oltre termini o non pagato il contributo unificato. L’improcedibilità può ad esempio derivare dal deposito tardivo del ricorso in Cancelleria oltre 20 gg dalla notifica. In tali casi, la Cassazione dichiara il ricorso inammissibile o improcedibile con ordinanza, e la sentenza impugnata passa in giudicato.
- Rigetto del ricorso: se la Cassazione ritiene infondati tutti i motivi di impugnazione, respinge il ricorso. La sentenza di secondo grado diventa definitiva. Di regola, la Corte condanna la parte soccombente (il ricorrente) alle spese del giudizio di Cassazione. In alcuni casi, se il ricorso era manifestamente infondato o pretestuoso, può anche condannare per danno da lite temeraria (art. 96 c.p.c.), ma è raro in materia tributaria.
- Accoglimento del ricorso: se la Corte ritiene fondato uno o più motivi, pronuncia sentenza di cassazione. A questo punto, la Cassazione può:
- Cassare con rinvio: cioè annullare la sentenza impugnata e rinviare la causa ad un nuovo giudice di merito per un nuovo esame. Tipicamente viene rinviata ad un’altra sezione della stessa Corte di appello (Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado) o, se l’errore è di primo grado non sanato in appello, anche direttamente alla Corte di primo grado. Il giudice di rinvio dovrà conformarsi ai principi di diritto enunciati dalla Cassazione. Ad esempio: “cassata la sentenza per non aver integrato il contraddittorio, rinvia a altra sezione della CTR affinché riassunta la causa con la partecipazione di X, decida anche sulle spese”.
- Cassare senza rinvio: ossia decidere definitivamente la causa, se non sono necessari ulteriori accertamenti di fatto. Ciò avviene quando la controversia è matura per la decisione in diritto. Ad esempio, se la Cassazione accoglie un motivo per difetto assoluto di motivazione dell’atto originario (quindi l’atto era nullo), potrebbe cassare senza rinvio e dichiarare annullato l’accertamento, chiudendo la vicenda. Oppure se la controversia verteva su un unico punto di diritto risolto in Cassazione, e non c’è altro da esaminare. In genere, però, in materia tributaria la Cassazione spesso cassa con rinvio per far rideterminare al giudice di merito tributi o importi.
- Decisione sui soli motivi di diritto residui: Va anche detto che, se la Cassazione accoglie alcuni motivi ma ne rigetta altri, e la combinazione di queste decisioni fa sì che la causa sia definita solo parzialmente, può emettere una sentenza mista: cassare in parte e decidere in parte. È un caso complicato ma possibile.
Cassazione Sezioni Unite: se vi sono contrasti di giurisprudenza o questioni di massima di particolare importanza, la sezione tributaria può rimettere il ricorso alle Sezioni Unite civili della Cassazione per una decisione più autorevole e vincolante. Ad esempio, questioni di giurisdizione (tipo: la tassa X la decide il giudice tributario o amministrativo?) vengono decise da SS.UU. (Es. SU n. 102/2021 sull’imposta di registro e cessione di azienda). Oppure questioni come il ne bis in idem tra sanzioni tributarie e penali hanno visto interventi di SU (SU n. 37424/2021 su due procedimenti sanzionatori). Le SU danno uniformità interpretativa.
Sospensione in Cassazione: come anticipato, dal 2023 la parte che ricorre in Cassazione può chiedere alla Corte (con istanza separata) di sospendere l’esecutività della sentenza di appello impugnata, se l’esecuzione può cagionargli grave danno. Ad esempio, se la sentenza d’appello ha dato ragione al Fisco e imposto un pagamento enorme, il contribuente chiederà alla Cassazione di sospendere la riscossione finché non decidono. L’art. 62-bis introdotto definisce questa possibilità, simile a quella in appello. La Cassazione decide in camera di consiglio sul’istanza cautelare (anche già in fase di filtro). Se la concede, ferma la riscossione fino alla sentenza definitiva.
Conciliazione in Cassazione: come accennato nella conciliazione giudiziale, la L. 130/2022 ha previsto che la conciliazione fuori udienza è ammessa anche per le controversie pendenti in Cassazione, in quanto compatibile. Ciò significa che, se la natura della causa lo consente (cioè se non è una pura questione di diritto astratto ma c’è margine per definire importi), le parti possono depositare un accordo conciliativo anche in Cassazione. Essendo la Cassazione giudice di solo diritto, è un po’ anomalo, ma si interpreta che se l’accordo comporta la rinuncia al ricorso (o all’opposizione) e un pagamento concordato, la Corte può prendere atto e dichiarare estinta la causa. Ad esempio, se in Cassazione pende la questione su €100k, le parti possono accordarsi per chiudere a €60k; se il contendere è solo su un principio astratto senza importi in ballo, non avrebbe senso conciliare. In sostanza è un istituto per transigere anche in extremis (sullo stile della conciliazione agevolata 2023 ma su base volontaria, al 40% sanzioni come in appello). È comunque poco utilizzato finora.
Revocazione e altri rimedi straordinari: una volta chiusa la Cassazione, la sentenza (di appello se ricorso rigettato, o la nuova decisione se cassato e rinviato e definito) diviene cosa giudicata. Le uniche possibilità di riaprire sarebbero:
- la revocazione straordinaria (art. 395 c.p.c. applicato ex art. 64 D.Lgs. 546) se emergono errori di fatto o documenti nuovi decisivi scoperti dopo, o dolo del giudice, etc. Sono casi rarissimi e da proporsi entro 60 giorni dalla scoperta del vizio e comunque entro 5 anni dalla sentenza. In tributario quasi mai usata, salvo per conflitti di giudicati o documenti falsi, etc.
- l’opposizione di terzo (art. 404 c.p.c.) se la sentenza ha pregiudicato i diritti di un terzo estraneo che non è stato chiamato (es. litisconsorte pretermesso non integrato in alcun grado e rimasto fuori; può fare opposizione di terzo contro la sentenza).
- la correzione di errore materiale se c’è un errore di scrittura in sentenza (nomi, cifre), che non cambia la sostanza.
Sono ipotesi davvero residuali. Quindi, sostanzialmente, dopo la Cassazione il sipario cala. Seguirà eventualmente il giudizio di rinvio (se disposto) e poi quell’esito finale potrà forse a sua volta essere impugnato in Cassazione se il giudice di rinvio non rispetta le istruzioni (è possibile un ricorso in Cassazione “post-rinvio” ma limitato all’osservanza del giudice di rinvio).
In sintesi finale: il ricorso tributario è un percorso a ostacoli che può attraversare fino a tre gradi di giudizio. Il difensore deve impostare bene il ricorso iniziale (i motivi), perché saranno il perimetro della possibile tutela fino alla Cassazione. Le riforme recenti mirano ad avere un primo grado completo e un appello di sola verifica, con ridotte possibilità di portare nuovi elementi. Dunque è fondamentale presentare tutte le prove già in primo grado e sollevare tutte le eccezioni possibili subito. Le opportunità di accordo (adesione, conciliazione) vanno colte dove conviene, avendo sempre attenzione ai termini e alle formalità (PEC, firme digitali, pagamenti contributo). La materia è tecnica ma, con una guida come questa e l’ausilio delle fonti normative e giurisprudenziali, imprese e professionisti possono orientarsi nelle scelte difensive più opportune.
Fonti normative, dottrinali e giurisprudenziali (aggiornate a maggio 2025)
Di seguito elenchiamo le principali fonti utilizzate e citate nella guida – comprendenti riferimenti normativi, prassi e giurisprudenza – per consentire approfondimenti e verifiche puntuali.
Fonti normative
- D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 – “Disposizioni sul processo tributario”. Testo base del rito tributario, come modificato dalle riforme (L. 130/2022, D.Lgs. 119/2018, D.Lgs. 220/2023, etc.). Ultimo agg. 4 gennaio 2024.
- Legge 31 agosto 2022, n. 130 – “Riforma della giustizia e del processo tributario”. Ha introdotto onere della prova a carico dell’Amministrazione, giudice monocratico fino €3.000, prova testimoniale scritta, esecutività sentenze, art. 62-bis (sospensione in Cassazione) ecc. Ultimo agg. settembre 2022.
- Legge 9 agosto 2023, n. 111 – Delega al Governo per la riforma fiscale. Base dei D.Lgs. attuativi 2023/2024. Articoli 18-19 contengono la delega in materia di contenzioso tributario. Ultimo agg. agosto 2023.
- D.Lgs. 30 dicembre 2023, n. 219 – “Statuto dei diritti del contribuente (riforma fiscale – modulo 1)”. Ha inserito l’art. 6-bis L. 212/2000 sul contraddittorio obbligatorio endoprocedimentale per atti impositivi, con effetto dal 2024 (sostituendo reclamo-mediazione). Ultimo agg. gennaio 2024.
- D.Lgs. 30 dicembre 2023, n. 220 – “Disposizioni in materia di contenzioso tributario (attuazione L. 111/2023)”. Riforma in vigore dal 2024: ha abrogato il reclamo/mediazione (art. 17-bis), modificato conciliazione (introducendo conciliazione in Cassazione), limitato le nuove prove in appello (nuovo art. 58), introdotto art. 62-bis (sospensione esecuzione in Cassazione), ecc. Ultimo agg. 4 gennaio 2024.
- D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218 – “Accertamento con adesione e conciliazione giudiziale”. Disciplina l’adesione pre-contenzioso (artt. 2-15) e – nella versione previgente – la conciliazione giudiziale (art. 48). Ancora vigente, ma coordinato con novità 2022-25 (conciliazione in Cassazione, conciliazione agevolata straordinaria 2023). Ultimo agg. 2023.
- Legge 29 dicembre 2022, n. 197, commi 186–205 – “Definizione agevolata delle controversie tributarie pendenti” (c.d. tregua fiscale 2023). Ha consentito la chiusura delle liti fiscali con l’Agenzia Entrate su ricorsi pendenti al 1/1/2023 pagando importi percentuali variabili (5%, 15%, 40%, 100% ecc. a seconda degli esiti pregressi) con sanzioni ridotte a 1/18. Termine presentazione 30/6/2023. Ultimo agg. gennaio 2023.
- Circolare Agenzia Entrate 27 gennaio 2023, n. 2/E – Istruzioni sulla definizione agevolata liti pendenti (L. 197/2022). Chiarimenti interpretativi su ambito applicativo (casi particolari di doppia conforme, calcolo interessi, cumulo con conciliazione agevolata, modalità versamento in 20 rate, effetti sul giudizio). Ultimo agg. 27/01/2023.
- D.M. 11 febbraio 1997, n. 37 – Regolamento sull’autotutela tributaria. Stabilisce modalità e limiti per l’annullamento in autotutela degli atti fiscali da parte degli uffici. Conferma il carattere discrezionale e non impugnabile del diniego di autotutela (ora anche art. 2-quater DL 564/94). Ultimo agg. 1997.
- D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32 – Potestà degli uffici tributari in sede di accertamento (tra cui le presunzioni sui conti bancari). Rilevante per presunzioni di ricavi non dichiarati (ogni versamento sui conti dell’impresa si presume ricavo salvo prova contraria). Ultimo agg. 2020.
- D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 15 – Iscrizione a ruolo provvisoria di 1/3 in pendenza di giudizio (vecchia regola esecutorietà atti). Nota: questa disposizione è stata di fatto superata dalle nuove norme sull’esecutività integrale delle sentenze (L. 130/2022).
- Codice di procedura civile, artt. 360–384 c.p.c. – Disciplina del ricorso per Cassazione, applicata al processo tributario ex art. 62 D.Lgs. 546/92. Indica i motivi di ricorso (art. 360) e le possibili pronunce della Cassazione (rigetto, cassazione con rinvio o senza rinvio). Ultimo agg. 2023.
- Legge 7 ottobre 1969, n. 742 – Sospensione feriale dei termini processuali. Art. 1 prevede sospensione dal 1° al 31 agosto di ogni anno. Applicabile anche ai termini del processo tributario.
- D.L. 23 ottobre 2018, n. 119, art. 16 (conv. L. 136/2018) – Ha reso obbligatorio il Processo Tributario Telematico dal 1° luglio 2019 modificando l’art. 16-bis D.Lgs. 546/92. Obbligo escluso solo per il contribuente che si difende da solo (controversie fino 3k). Ultimo agg. dicembre 2018.
- D.M. MEF 23 dicembre 2013, n. 163 – Regolamento attuativo PTT. Disciplina gli strumenti informatici e telematici nel processo tributario (notifiche via PEC, depositi telematici).
- D.M. MEF 4 agosto 2015 – Specifiche tecniche PTT. Formato atti (PDF/A), firma digitale, dimensioni massime file (10MB). Aggiornato con D.M. 28 novembre 2017 (limiti dimensione). Ultimo agg. 2017.
- D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (T.U. Spese di Giustizia), art. 13, c.6-quater – Contributo unificato tributario. Tabella importi per scaglioni di valore: fino €2.582=30€; €2.582-5.000=60€; €5.000-25.000=120€; €25.000-75.000=250€; €75.000-200.000=500€; oltre €200.000=1.500€. Prevede +50% contributo se nel ricorso non è indicata PEC o C.F. parte. (Art. 14 stesso DPR per appello: contributo identico per grado, non cumulativo).
Fonti giurisprudenziali
- Cass., Sez. Trib., 31 marzo 2025, n. 8452 – Utilizzabilità di documenti irritualmente acquisiti. Ha affermato che nel processo tributario non vige un principio generale di inutilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite dall’Amministrazione (es. documenti raccolti senza autorizzazione), salvo violazione di diritti fondamentali. In pratica, un PVC redatto violando il contraddittorio può comunque essere usato come prova; sta al giudice valutare il peso, ma non è automaticamente nullo. Ultimo agg. aprile 2025.
- Cass., Sez. Trib., 10 aprile 2024, n. 9635 – Nuovi documenti in appello (previgente). Conferma l’orientamento che (prima della riforma) era ammessa la produzione di nuovi documenti in appello in mancanza di preclusioni. Ora superato dalla modifica legislativa del 2023 che vieta i nuovi documenti salvo eccezioni strettissime. Ultimo agg. aprile 2024.
- Cass., Sez. Trib., 11 marzo 2024, n. 5321 – Preclusioni in appello. Ricorso alla Commissione Tributaria: Come si fa (Guida Operativa 2025)
Ricorso alla Commissione Tributaria: Perché Affidarsi a Studio Monardo
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