Come Salvare Un’Azienda Dai Debiti (E Risollevare Dalla Crisi)

Sei un imprenditore e vuoi sapere come salvare la tua azienda in crisi?

Qui di seguito noi di Studio Monardo, gli avvocati specializzati in crisi d’impresa, abbiamo preparato per te una guida dettagliata.

Per richiedere poi una consulenza, in fondo alla guida troverei tutti i riferimento del nostro Studio Legale specializzato.

Introduzione:

Salvare un’azienda sommersa dai debiti richiede un mix di interventi tecnico-legali e operativo-pratici. Negli ultimi anni, il legislatore italiano ha rivoluzionato la disciplina della crisi d’impresa con il nuovo Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (D.lgs. 14/2019, CCII), attuato definitivamente dal 2022 e successivamente integrato (da ultimo col D.lgs. 136/2024 “correttivo ter”). Lo scopo è favorire l’emersione tempestiva delle difficoltà e mettere a disposizione strumenti efficaci per ristrutturare i debiti ed evitare la liquidazione giudiziale (ex fallimento). Questi strumenti si applicano a imprese di ogni settore – dal manifatturiero all’edilizia, dalla ristorazione al commercio e ai servizi – inclusi gli imprenditori individuali e le PMI, con alcune procedure ad hoc per le micro-imprese e i debitori civili (consumatori).

Le nuove norme hanno introdotto procedure pre-concorsuali per gestire la crisi prima dell’insolvenza conclamata e procedure concorsuali (giudiziali) innovative. Parallelamente, rimangono cruciali le strategie di turnaround operativo-finanziario: riorganizzazione aziendale, piani industriali di rilancio, accordi con banche e uso di misure fiscali agevolate. Una gestione attiva della crisi è anche un obbligo: l’art. 2086 c.c. impone all’organo amministrativo di adottare assetti adeguati per rilevare precocemente i segnali di crisi e attivarsi per la salvaguardia della continuità aziendale. Eppure, i dati mostrano scarsa prevenzione: su oltre 662.000 bilanci 2023, solo il 3,5% (22.806 aziende) dichiara di essersi dotato di assetti organizzativi, amministrativi e contabili adeguati a prevenire la crisi. Questo significa che la maggior parte degli imprenditori interviene tardi, quando l’azienda è già in sofferenza, rendendo fondamentale conoscere gli strumenti di risanamento disponibili.

Di seguito, forniremo una guida completa e aggiornata ad aprile 2025 su come risollevare un’azienda indebitata, esaminando in dettaglio tutti gli strumenti giuridici di regolazione della crisi oggi previsti in Italia e le strategie operative per uscire dalla crisi. Illustreremo sia le soluzioni extragiudiziali volontarie (da trattative private a piani attestati di risanamento), sia quelle giudiziali (accordi di ristrutturazione omologati, concordati preventivi – ordinari e semplificati – fino alla liquidazione giudiziale controllata), senza tralasciare le speciali procedure per i piccoli debitori (concordato minore, piano del consumatore). Verranno richiamati i riferimenti normativi chiave – dal Codice della Crisi al Codice Civile e alle norme tributarie – e le pronunce giurisprudenziali più significative (Cassazione e Tribunali delle Imprese) fino ad aprile 2025, per comprendere l’interpretazione pratica di questi strumenti. Infine, proporremo esempi e consigli pratici per gli imprenditori, delineando il ruolo di advisor, professionisti, OCC e autorità coinvolte nel percorso di risanamento.

Scopo ultimo: fornire un vademecum tecnico-operativo che permetta all’imprenditore di orientarsi tra le varie soluzioni per salvare l’azienda dai debiti, scegliendo quella più adatta alla propria situazione di crisi e massimizzando le chance di evitare la chiusura dell’attività.

Riconoscere la crisi e agire tempestivamente

Il primo passo per risanare un’azienda indebitata è riconoscere tempestivamente la crisi e attivarsi prima che l’insolvenza diventi irreversibile. Il Codice della Crisi definisce lo stato di crisi come il momento in cui sussistono “squilibri economico-finanziari che rendono probabile l’insolvenza” (art. 2 CCII) – ad esempio perdite rilevanti, cali di liquidità, ritardi nei pagamenti di fornitori, banche o erario. Tali segnali vanno monitorati attraverso adeguati assetti organizzativi (come previsto dagli artt. 3 e 6 CCII e dall’art. 2086 c.c.). In pratica, l’imprenditore deve dotarsi di sistemi di controllo di gestione, piani finanziari e indicatori (anche quelli elaborati dal CNDCEC e dal Codice della Crisi) capaci di far scattare allarmi in caso di deterioramento della situazione economica. La normativa inizialmente prevedeva anche procedure di allerta esterne (segnalazioni obbligatorie di creditori pubblici qualificati e OCRI), poi abrogate e sostituite da approcci più volontari.

Agire con tempestività è fondamentale: un’azienda in difficoltà ha maggiori probabilità di salvezza se interviene in fase di pre-crisi, prima che il patrimonio sia esaurito e i creditori perdano fiducia. Le stesse procedure di composizione della crisi richiedono, in genere, che vi siano prospettive ragionevoli di risanamento. Ad esempio, per accedere alla composizione negoziata (di cui diremo tra poco) l’impresa deve essere in squilibrio patrimoniale o finanziario, ma non ancora insolvente in modo irreversibile, e l’esperto indipendente deve confermare che esiste una ragionevole possibilità di risanamento.

Inoltre, attivarsi per tempo consente di usufruire di benefici premiali previsti dalla legge: il CCII, all’art. 25-bis, premia l’imprenditore che avvia la procedura di composizione negoziata riducendo gli oneri tributari (interessi e sanzioni) maturati durante le trattative e offrendo agevolazioni in caso di accordo (come vedremo nel dettaglio più avanti). In sostanza, prima ci si muove, più strumenti si avranno a disposizione e più alto sarà il ritorno per creditori ed azienda rispetto a un fallimento disordinato.

Nei paragrafi successivi analizzeremo le diverse soluzioni giuridiche per affrontare la crisi. È utile distinguere tra:

  • Strumenti stragiudiziali (o pre-concorsuali): procedure volontarie che evitano, almeno in prima battuta, l’apertura di una procedura concorsuale vera e propria. Qui rientrano i piani attestati di risanamento, gli accordi di ristrutturazione dei debiti (anche nella forma agevolata) e la nuova composizione negoziata della crisi. Questi strumenti permettono di negoziare coi creditori fuori dal tribunale, pur con possibili interventi mirati dell’autorità giudiziaria (es. omologazione in tribunale degli accordi, misure protettive su richiesta dell’imprenditore, ecc.).
  • Strumenti concorsuali giudiziali: vere e proprie procedure concorsuali aperte dall’autorità giudiziaria. In questa categoria troviamo il concordato preventivo (nelle sue varianti: in continuità aziendale, liquidatorio, nonché il concordato semplificato introdotto di recente) e, quale extrema ratio, la liquidazione giudiziale (il “vecchio” fallimento). Per le imprese minori e i debitori non fallibili esistono le analoghe procedure di concordato minore e liquidazione controllata (oltre al piano di ristrutturazione del consumatore riservato alle sole persone fisiche).

Parallelamente, esistono misure fiscali e contributive che possono alleggerire il peso dei debiti verso l’erario e gli enti previdenziali (dalla transazione fiscale nelle procedure concorsuali alle definizioni agevolate come la rottamazione delle cartelle). Infine, la riuscita di un salvataggio aziendale passa anche da azioni di risanamento operativo (ristrutturazione dei costi, riorganizzazione, ricerca di finanza fresca) e dalla gestione esperta delle trattative con banche e altri creditori strategici.

Iniziamo l’analisi con gli strumenti di natura negoziale e stragiudiziale, procedendo poi verso quelli concorsuali giudiziali, per finire con le misure fiscali e le strategie di turnaround. Ciascuno strumento sarà illustrato nei suoi aspetti normativi essenziali, con vantaggi, rischi e indicazioni pratiche su quando utilizzarlo.

Composizione Negoziata della Crisi d’Impresa

Una delle principali novità introdotte dal Codice della Crisi è la Composizione Negoziata della Crisi (CNC), procedura volontaria e riservata concepita per aiutare l’imprenditore in difficoltà a risanare l’azienda al di fuori delle procedure concorsuali tradizionali. Si tratta di un percorso stra-giudiziale, seppur con alcuni innesti di controllo giudiziale, attivabile da qualsiasi imprenditore commerciale o agricolo – anche micro-imprese e ditte individuali – che si trovi in una situazione di squilibrio economico-finanziario pre-crisi (quando cioè l’insolvenza è prospettata ma non ancora conclamata). Non vi sono soglie minime di attivo o fatturato per accedere: la CNC è aperta anche alle piccole imprese, a differenza di molte procedure concorsuali del passato. Sono escluse solo le imprese che hanno già utilizzato senza successo altri procedimenti concorsuali, quelle in liquidazione giudiziale già dichiarata o che hanno cessato l’attività senza prospettive di ripresa.

Come si attiva? La composizione negoziata si attiva tramite una piattaforma telematica nazionale gestita da Unioncamere. L’imprenditore (assistito preferibilmente da un advisor legale o finanziario) presenta un’istanza online con informazioni sull’azienda, sui creditori e un piano ipotetico di risanamento. Entro pochi giorni viene nominato dalla commissione della Camera di Commercio un esperto indipendente, scelto da un elenco nazionale di professionisti qualificati (commercialisti, avvocati, consulenti di crisi d’impresa). Questo esperto negoziatore affianca l’imprenditore nella gestione della crisi, aiutandolo a valutare la fattibilità del risanamento, a predisporre un piano e a condurre le trattative con i creditori. L’esperto svolge un ruolo super partes: analizza la situazione aziendale, individua possibili soluzioni e cerca un accordo tra debitore e creditori, il tutto nell’interesse comune di evitare l’insolvenza e preservare la continuità aziendale.

Riservatezza e misure protettive: Uno dei vantaggi chiave della CNC è la riservatezza della procedura: l’apertura delle trattative non viene automaticamente resa pubblica, a meno che l’imprenditore non richieda misure protettive al Tribunale. Le misure protettive (artt. 18-19 CCII) sono un’opportunità cruciale: consistono nella sospensione temporanea di azioni esecutive o cautelari da parte dei creditori (pignoramenti, sequestri, istanze di fallimento) per dare “respiro” all’impresa durante le trattative. L’imprenditore può chiedere al Tribunale tali misure appena deposita l’istanza di nomina dell’esperto, ottenendo così uno “scudo” dai creditori per la durata dei negoziati. Le misure protettive possono riguardare tutti i creditori o solo alcuni specificati e durano inizialmente fino a 4 mesi, prorogabili di altri 4. Durante questo periodo, l’imprenditore conserva la gestione ordinaria e straordinaria dell’impresa, ma con alcune limitazioni: per atti di straordinaria amministrazione deve avere l’assenso dell’esperto (art. 21 CCII). Inoltre, l’esperto può opporsi a determinati pagamenti non coerenti con l’andamento delle trattative, iscrivendo il proprio dissenso nel registro delle imprese; i pagamenti effettuati in assenza di dissenso dell’esperto e in coerenza col piano non saranno soggetti a revocatoria fallimentare ex art. 166, c.3, lett. e) CCII.

Vantaggi della Composizione Negoziata: Oltre alla possibilità di congelare le azioni dei creditori, la CNC offre diversi incentivi per favorire il risanamento. Durante le trattative, l’impresa può ottenere finanziamenti prededucibili (nuova finanza tutelata in caso di successivo fallimento) se autorizzati dall’esperto o dal Tribunale. È possibile anche effettuare, con il nulla osta del Tribunale, la cessione dell’azienda o di rami d’azienda senza incorrere nella responsabilità dell’acquirente per i debiti pregressi ex art. 2560 c.c. (che normalmente graverebbero sull’acquirente). Inoltre, come accennato, i pagamenti e le garanzie concessi durante la procedura in funzione del risanamento godono di esenzione dalle azioni revocatorie a posteriori, purché l’esperto non li abbia espressamente sconsigliati e risultino coerenti con le trattative. Ancora, dal momento in cui si deposita l’istanza di nomina dell’esperto, l’imprenditore può chiedere la sospensione delle cause di scioglimento della società per perdite rilevanti (art. 20 CCII, in deroga agli articoli 2446 e 2482-ter c.c.), evitando temporaneamente obblighi di ricapitalizzazione o liquidazione per perdita del capitale. Importantissimo: l’imprenditore che intraprende la CNC può beneficiare delle misure premiali fiscali (art. 25-bis CCII), tra cui la riduzione dei tassi di interesse al solo tasso legale sui debiti tributari nel periodo delle trattative e la riduzione alla metà di sanzioni e interessi sui debiti fiscali sorti prima dell’istanza. Tali benefici si applicano se la composizione negoziata si conclude positivamente con una delle soluzioni di regolazione previste (accordo con creditori, piano attestato, concordato, ecc.).

Esito delle trattative: La CNC si conclude con la relazione finale dell’esperto. Se le trattative hanno successo, l’imprenditore e i creditori possono formalizzare una delle soluzioni individuate dall’art. 23 CCII, ad esempio: (a) un contratto con uno o più creditori che realizzi il risanamento (es. accordi di standstill, dilazioni di pagamento) eventualmente godendo ancora delle misure premiali; (b) una convenzione di moratoria sottoscritta da creditori che rappresentano una certa maggioranza, estendibile agli altri (strumento previsto dall’art. 62 CCII); (c) un accordo di ristrutturazione sottoscritto dall’imprenditore, dai creditori coinvolti e dall’esperto, che attesta la coerenza del piano con la regolazione della crisi (in pratica una sorta di accordo “asseverato” dall’esperto, anch’esso protetto da esenzioni di responsabilità). In alternativa, l’imprenditore può accedere direttamente a una delle procedure concorsuali previste: presentare un piano attestato di risanamento (art. 56 CCII) o un accordo di ristrutturazione dei debiti (artt. 57-60 CCII) omologato, oppure presentare domanda di concordato preventivo (ordinario) o, se ne ricorrono i presupposti, di concordato semplificato. Dunque la CNC spesso funge da incubatrice per soluzioni concrete: idealmente porta a un accordo stragiudiziale; se questo non è possibile ma l’azienda è ancora risanabile, si può innestare in un concordato o accordo formale.

Se invece le trattative non hanno esito positivo, l’esperto lo dichiara nella relazione finale, certificando anche se l’imprenditore ha operato con correttezza e buona fede. In tal caso, l’impresa dovrà valutare altre opzioni. Una possibilità – introdotta a tutela delle aziende per cui non ci sono soluzioni negoziali ma che vogliono evitare il fallimento – è accedere al Concordato Semplificato per la Liquidazione del Patrimonio (art. 25-sexies CCII), di cui parleremo in seguito. Va però sottolineato che per accedere al concordato semplificato non basta aver tentato la CNC: occorre che l’esperto attesti che le trattative si sono svolte regolarmente, con piena informazione ai creditori e in buona fede, e che nessun’altra soluzione negoziale era praticabile. Ad esempio, il Tribunale di Firenze (provvedimento 31 agosto 2022) ha negato l’accesso al concordato semplificato a un’impresa che aveva sì avviato la CNC ma senza un’effettiva interlocuzione con tutti i creditori: il giudice ha preteso la prova che i creditori fossero stati coinvolti seriamente e informati compiutamente della situazione e delle proposte, come condizione per poter utilizzare lo strumento semplificato.

Quando conviene la CNC? – La composizione negoziata è indicata quando l’azienda ha ancora prospettive di continuare l’attività ma necessita di una ristrutturazione del debito e di una ridefinizione degli accordi con i creditori. È particolarmente utile per PMI e imprese familiari, che possono trattare in modo riservato evitando lo stigma immediato di una procedura concorsuale pubblica. Secondo i dati di Unioncamere, l’utilizzo della CNC è in forte crescita: nel 2024 sono state presentate 1.089 istanze di composizione negoziata (quasi il doppio rispetto alle ~600 del 2023), segno che le imprese stanno prendendo confidenza con questo strumento che “consente il risanamento delle aziende in crisi garantendo la possibilità di restare sul mercato”. Di contro, attivare la CNC senza un’effettiva possibilità di risanamento può solo ritardare l’inevitabile e aggravare il dissesto: per questo l’analisi preliminare fatta con l’advisor e l’esperto è cruciale. Va inoltre considerato che la CNC non impone ai creditori di accordarsi: se non si raggiunge un’intesa, occorrerà comunque ripiegare su strumenti concorsuali (concordato) o sulla liquidazione. In ogni caso, la CNC rappresenta oggi il tentativo principe di risanare l’impresa “in bonis” (cioè prima dell’insolvenza conclamata) ed evitare esiti distruttivi.

Piano Attestato di Risanamento (ex art. 56 CCII)

Il Piano Attestato di Risanamento è uno strumento di risanamento aziendale extragiudiziale, già noto nella precedente legge fallimentare (art. 67, c.3, lett. d L.F.) e confermato dal Codice della Crisi all’art. 56. Consiste in un piano di risanamento dell’impresa, redatto dall’imprenditore con l’ausilio di professionisti, che prevede interventi idonei a ristrutturare i debiti e a riequilibrare la situazione finanziaria, il quale viene attestato da un esperto indipendente circa la sua fattibilità. In altre parole, un professionista indipendente (iscritto nel registro di cui all’art. 2, c.1, lett. o CCII, in possesso dei requisiti ex art. 13 CCII, tipicamente un commercialista o revisore) verifica il piano e rilascia una relazione di attestazione che ne assevera la capacità di assicurare il risanamento dell’impresa e il regolare pagamento dei creditori.

Il piano attestato non richiede alcun passaggio in Tribunale né il voto dei creditori: è un accordo totalmente privatistico. I creditori possono aderire al piano in modo volontario – ad esempio accettando stralci o dilazioni dei loro crediti secondo quanto previsto – ma il piano non è giuridicamente imposto ai dissenzienti (a differenza di un concordato o accordo omologato). L’utilità principale di questa figura deriva dalle protezioni che il legislatore le riconosce ex ante ed ex post. In particolare:

  • Gli atti, i pagamenti e le garanzie posti in essere in esecuzione di un piano attestato non sono soggetti ad azione revocatoria in caso di successivo fallimento dell’impresa (art. 166, comma 3, lett. d CCII). Ciò incentiva fornitori e finanziatori a supportare l’operazione di risanamento senza timore che, se l’azienda dovesse fallire comunque, vengano revocati i pagamenti ricevuti o fatte valere responsabilità.
  • L’attestazione di un professionista indipendente conferisce credibilità al piano, rassicurando i creditori sulla serietà e sostenibilità delle misure proposte. Spesso l’attestatore è lo stesso professionista che redige la relazione richiesta per altre procedure (come il concordato), garantendo analoghi standard di veridicità dei dati e fattibilità.
  • Il piano attestato, pur non essendo depositato in tribunale, può essere pubblicato volontariamente nel Registro delle Imprese (art. 56, co.2 CCII) assieme all’attestazione. La pubblicazione serve a “fissare” una data certa del piano e ad estendere gli effetti protettivi: da quella pubblicazione decorrono le esenzioni dalle revocatorie di cui sopra e inizia a operare l’eventuale esonero da responsabilità penali per gli atti esecutivi (come previsto dall’art. 324 CCII in tema di reati di bancarotta in caso di piano attestato).

Contenuto del piano: Il piano di risanamento deve identificare la situazione di partenza, le cause della crisi e le strategie per superarla. Può includere, ad esempio: accordi di moratoria con i creditori, saldo e stralcio di posizioni debitorie, nuovi finanziamenti (spesso soci o banche disposte a investire a fronte del piano), dismissione di asset non strategici, ristrutturazione produttiva e così via. L’obiettivo dichiarato deve essere il riequilibrio dell’impresa e la soddisfazione integrale dei creditori nel tempo (anche se alcuni creditori potrebbero accettare stralci parziali, l’attestatore deve comunque poter concludere che il piano, nel suo complesso, consente all’impresa di generare risorse sufficienti a pagare i debiti concordati).

Ruolo dell’attestatore e valore dell’attestazione: L’attestatore verifica la veridicità dei dati aziendali e giudica con una valutazione ex ante la ragionevole attitudine del piano a garantire il risanamento e il miglior soddisfacimento dei creditori. Questa perizia è fondamentale: la Cassazione ha chiarito che, in caso di successivo fallimento, il giudice può sindacare la validità sostanziale dell’attestazione ai fini di confermare l’esenzione da revocatoria. In particolare, “in tema di azioni revocatorie relative agli atti esecutivi di un piano attestato… il giudice, per ritenere non soggetti a revoca tali atti, ha il dovere di compiere, con giudizio ex ante, una verifica mirata alla manifesta attitudine all’attuazione del piano di risanamento”. Ciò significa che l’attestazione deve poggiare su un piano realistico: se il piano era manifestamente inadeguato sin dall’inizio, i vantaggi protettivi possono venire meno. Al contrario, un’attestazione seria mette al riparo tutti i soggetti coinvolti: i pagamenti ai fornitori avvenuti in esecuzione di un piano attestato credibile resteranno definitivi (Cass. 5 luglio 2016 n.13719 e Cass. 19 dicembre 2016 n.26226 hanno sancito questo principio).

Vantaggi e limiti del piano attestato: Il vantaggio principale è la flessibilità e rapidità: non serve attendere omologazioni giudiziali né coinvolgere necessariamente tutti i creditori (ci si può accordare solo con alcuni strategici, mentre altri vengono pagati regolarmente). Inoltre evita la pubblicità e l’impatto reputazionale di un concordato. Molte ristrutturazioni in bonis di aziende medio-grandi sono state condotte con successo tramite piani attestati, specialmente quando si trattava di rinegoziare l’esposizione con le banche: spesso gli istituti di credito preferiscono un piano attestato (magari accompagnato da concessione di nuove garanzie o covenants) piuttosto che un lungo concordato. Anche il fisco può essere gestito tramite un piano attestato, se l’azienda riesce a ottenere dalla Agenzia Entrate una rateazione ordinaria o altre misure (fermo restando che il taglio di imposte senza una procedura di transazione fiscale formale è delicato, in quanto l’erario tende a richiedere le procedure ex art.63 CCII per rinunce significative).

Il limite è che serve l’accordo volontario dei creditori chiave. Non c’è modo di imporre sacrifici a un creditore dissenziente (se non pagando integralmente il suo credito fuori dal piano). Quindi il piano attestato funziona quando c’è un numero ristretto di creditori rilevanti disposti a trattare (ad esempio le banche principali, qualche fornitore strategico e soci). Se invece il debito è molto frammentato tra tanti creditori o vi sono creditori che non accettano riduzioni, può rendersi necessario un accordo omologato o un concordato, che vincola anche le minoranze.

Inoltre, durante l’esecuzione del piano attestato non esiste una moratoria legale automatica: un creditore non aderente potrebbe comunque agire esecutivamente. Per questo talvolta il piano attestato è accompagnato da accordi standstill de facto (si cerca di ottenere che tutti stiano fermi per dare attuazione al piano). In situazioni di forte pressione dai creditori, l’imprenditore può preferire il filing di un accordo di ristrutturazione con protezione o un concordato in bianco, che bloccano tutti con la forza della legge.

In sintesi, il piano attestato di risanamento è uno strumento di risanamento snello ma fragile: snello perché evita lunghi iter giudiziari, fragile perché richiede cooperazione volontaria. È spesso il primo tentativo di aggiustamento nelle crisi “moderate” – una sorta di workout negoziato con il bollino dell’attestatore. Se funziona, l’azienda evita di entrare in concorso; se fallisce, comunque i tentativi fatti e i pagamenti eseguiti restano protetti (salvo mala fede). È consigliabile ricorrervi quando l’impresa ha ancora una credibilità industriale e relazioni sufficientemente fiduciarie con i principali creditori, tali da poter trovare un’intesa fuori dai tribunali.

Accordi di Ristrutturazione dei Debiti (Art. 57-60 CCII)

Gli Accordi di Ristrutturazione dei Debiti (ARD) sono strumenti previsti per consentire al debitore in crisi o insolvente di ristrutturare il proprio debito con l’assenso di una parte qualificata dei creditori e con l’omologazione del Tribunale. Si tratta di accordi negoziati (come i piani attestati) ma con la differenza sostanziale che, raggiunto un certo quorum di adesioni, l’accordo viene sottoposto al giudice per essere omologato e acquisisce efficacia legale anche verso eventuali creditori non aderenti (entro limiti definiti). Sono dunque strumenti concorsuali negoziati, a metà strada tra il workout e il concordato preventivo.

Il Codice della Crisi disciplina varie tipologie di accordi di ristrutturazione:

  • l’accordo di ristrutturazione “ordinario” (art.57 CCII), che richiede l’adesione di creditori rappresentanti almeno il 60% dei crediti totali;
  • l’accordo di ristrutturazione “agevolato” (art.60 CCII), novità del Codice, che abbassa il quorum di adesione richiesto al 30% dei crediti, a condizione però che il debitore rinunci a certe tutele (come le misure protettive) e paghi per intero e senza dilazioni i creditori non aderenti;
  • gli accordi ad efficacia estesa (art.61 CCII), che permettono – in presenza di determinate maggioranze per categorie di creditori omogenee – di estendere gli effetti dell’accordo anche ai creditori dissenzienti appartenenti a quelle categorie, ad esempio finanziatori istituzionali;
  • particolari accordi con intermediari finanziari o accordi in presenza di transazione fiscale/contributiva (disciplinati dagli artt.63 e 88 CCII), che meritano considerazioni specifiche.

Vediamo i tratti comuni: l’impresa (anche qui non minore, ad eccezione della variante agevolata aperta anche ad imprenditori agricoli e civili) elabora un piano di ristrutturazione del debito, corredato da una relazione di un professionista attestatore che assevera la veridicità dei dati aziendali e l’attuabilità dell’accordo con integrale pagamento dei creditori estranei entro 120 giorni dall’omologazione (per debiti scaduti) o dalle scadenze successive (per debiti non ancora scaduti) – cfr. art.57, co.3 CCII. Il debitore deve infatti garantire che i creditori non aderenti all’accordo vengano soddisfatti integralmente entro quei termini, condizione indispensabile per l’omologazione (best interest test). Raggiunto l’accordo con la percentuale richiesta di creditori, il debitore lo deposita in Tribunale chiedendone l’omologazione. Il Tribunale apre un procedimento in camera di consiglio (senza voto formale dei creditori, perché la “votazione” è sostituita dalle adesioni contrattuali raccolte) e, verificati i requisiti (percentuale di consensi, fattibilità del piano, corretto trattamento dei non aderenti, assenza di frodi), emette un decreto di omologazione che rende l’accordo efficace erga omnes.

Accordo di ristrutturazione ordinario (60% dei crediti)

L’accordo ordinario ex art.57 CCII ricalca nella sostanza il vecchio accordo ex art.182-bis L.F.. È utilizzato quando il debitore riesce a convincere una larga maggioranza di creditori (almeno 60% in valore) sulla bontà del piano di risanamento. Tipicamente, si raggiungono intese con banche e principali fornitori, mentre eventuali piccoli creditori estranei vengono comunque pagati integralmente nei termini di legge. Una volta presentata la domanda di omologazione, il debitore può chiedere al Tribunale di sospendere o vietare azioni esecutive dei creditori durante la pendenza (misure protettive ex art.54 CCII). L’omologazione, se concessa, vincola solo i creditori aderenti (non è un concordato che impone tagli ai dissenzienti), però di fatto attraverso l’omologa il debitore ottiene due vantaggi: (1) i creditori non aderenti, come detto, devono essere pagati integralmente ma non possono pretendere di più o far saltare l’accordo; (2) una volta omologato, l’accordo e gli atti esecutivi godono di protezione: i pagamenti effettuati in esso non sono soggetti a revocatoria (art.166, c.3, lett. e CCII), garantendo stabilità giuridica. Inoltre l’omologa dell’accordo impedisce ulteriori azioni individuali, consolidando la posizione dell’azienda.

Un esempio pratico: un’azienda con 10 milioni di debiti trova accordo con banche e fornitori che rappresentano 7 milioni (>70% quindi sopra soglia). Le banche accettano di allungare le scadenze e ridurre i tassi, i fornitori accettano un 20% di taglio alle loro fatture e pagamento a 12 mesi. Piccoli creditori per i restanti 3 milioni saranno pagati per intero, magari con la liquidità liberata dalla moratoria bancaria. Si deposita l’accordo con adesioni firmate per 7 milioni (70%). Il Tribunale verifica che i 3 milioni estranei verranno saldati al massimo entro 120 giorni dall’omologa e che il piano è sostenibile (attestazione). Se tutto è regolare, omologa l’accordo. Da quel momento, l’azienda è vincolata a eseguire il piano; i creditori aderenti vedranno soddisfatti i loro crediti secondo i termini pattuiti (tagli e dilazioni concordate, ma garantite dall’omologazione) e non potranno più agire al di fuori di ciò; i non aderenti verranno pagati come promesso e comunque non possono avviare azioni esecutive perché coperte dalla moratoria legale durante l’attuazione finché l’azienda rispetta l’accordo.

Accordo di ristrutturazione agevolato (quorum 30% e condizioni)

L’accordo agevolato (art.60 CCII) è stato introdotto in recepimento della Direttiva UE 2019/1023 per facilitare la ristrutturazione anche in presenza di consenso non elevatissimo. Richiede solo il 30% dei crediti aderenti, ma è soggetto a condizioni restrittive per tutelare i non aderenti: in pratica è pensato per essere utilizzato quando il debitore ha bisogno di meno consensi formali (ad esempio pochi grandi creditori disposti a sostenere il piano) e vuole evitare i costi di raccogliere il 60%. Le condizioni speciali per l’omologazione di un accordo agevolato sono: (a) i creditori non aderenti devono essere pagati per intero senza alcuna moratoria, ovvero alle loro scadenze originarie o comunque immediatamente (non è ammesso che restino a lungo in attesa); (b) il debitore non deve aver richiesto, e anzi deve rinunciare a richiedere, misure protettive o cautelari (lo scudo previsto dall’art.54 CCII). In altre parole, l’accordo agevolato rinuncia alla protezione del tribunale durante le trattative e garantisce cash pronto ai dissenzienti: ciò spiega perché è accettabile far passare un accordo con solo il 30% di consensi, dato che chi non è d’accordo viene comunque tutelato al 100%.

Queste limitazioni rendono l’accordo agevolato adatto a situazioni dove il dissenso è marginale e circoscritto, e l’azienda ha risorse (o supporto finanziario) per pagare subito i creditori estranei. Un esempio classico è il caso in cui l’80-90% del debito è verso banche che aderiscono a un robusto piano di ristrutturazione (con taglio interessi, nuove linee, ecc.), mentre il restante 10-20% sono piccoli fornitori che l’azienda può decidere di pagare integralmente. Invece di cercare il 60%, l’azienda può procedere col 30% (essendo le banche magari il 50% del totale, quindi ben oltre il 30%) e chiedere omologa presentando un piano in cui i fornitori minoritari saranno saldati cash senza dilazioni. L’accordo, una volta omologato, vincola le banche aderenti; i fornitori minoritari vengono comunque soddisfatti e quindi non subiscono pregiudizio (da ciò la scelta del legislatore di non pretendere il loro consenso). Per contro, se l’azienda avesse necessità di dilazionare anche i pagamenti dei non aderenti, non potrebbe utilizzare l’accordo agevolato ma dovrebbe salire al livello dell’accordo ordinario (o usare un concordato preventivo).

Da notare che nella pratica l’accordo agevolato deriva dal D.L. 118/2021 (convertito con L.147/2021) che aveva introdotto l’art.182-novies L.F.: quel decreto parlava di rinuncia alla “moratoria” di 120 giorni per i non aderenti, concetto che è stato trasposto nel CCII. Ci sono state discussioni interpretative sul termine moratoria – se vieti ogni dilazione anche minima o solo quelle oltre 120 giorni – ma il senso del legislatore è chiaro: i creditori estranei non devono subire attese aggiuntive significative nei pagamenti. L’accordo agevolato quindi è uno strumento “snello” da usare quando si ha una soluzione quasi concordataria ma si vuole evitare la complessità del concordato, sfruttando un consenso parziale attorno ad un piano rapido e liquidando il resto.

Dati di utilizzo: Secondo l’Osservatorio Unioncamere, nel 2024 sono stati omologati 326 accordi di ristrutturazione in totale, numero costante negli ultimi anni. Non abbiamo separazione tra ordinari e agevolati, ma la diffusione dell’accordo agevolato è recente (post 2022). Probabilmente molte imprese con larga esposizione bancaria usano la via agevolata, mentre l’accordo ordinario resta utile quando serve anche una moratoria generale (ad esempio per stoppare aggressioni dei creditori durante la trattativa, il che con l’accordo agevolato non è possibile perché impone rinuncia allo stay).

Accordi ad efficacia estesa e con classi di creditori

Un ulteriore potenziamento introdotto dal CCII (art.61) consente, in certi casi, di estendere gli effetti di un accordo di ristrutturazione anche ai creditori che non l’hanno sottoscritto, purché appartenenti a una determinata categoria omogenea e a patto che nell’ambito di tale categoria sia stata raggiunta una maggioranza qualificata. In particolare, l’accordo ad efficacia estesa è pensato soprattutto per le banche e gli intermediari finanziari: se il 75% dei crediti di una certa categoria (es. finanziamenti bancari chirografari) aderisce, il piano può chiedere al tribunale di estenderne gli effetti anche al restante 25% dissenziente. Questo strumento si rifà all’art. 182-septies della vecchia legge fallimentare e risponde all’esigenza di evitare che pochi istituti dissenzienti possano far fallire una ristrutturazione che invece la larga parte del ceto bancario condivide. Le condizioni per l’estensione forzata sono rigorose: i creditori “crammati” devono appartenere a una classe omogenea per posizione giuridica e interessi economici, devono aver avuto possibilità di partecipare alle trattative, e l’accordo dev’essere conveniente per loro (non possono ricevere meno di quanto otterrebbero altrimenti). Inoltre l’accordo ad efficacia estesa richiede anch’esso la soglia minima di consensi del 60% totale, e può combinarsi sia con la variante agevolata sia con quella ordinaria (ad esempio, accordo agevolato 30% + efficacia estesa a banche dissenzienti se 75% delle banche ha aderito). Di fatto, l’efficacia estesa è un mezzo per ottenere un effetto simile al concordato (il vincolo su dissenzienti) ma mantenendo la struttura contrattuale dell’accordo.

Procedura e omologazione: aspetti pratici e giurisprudenza

Procedura di omologazione: L’iter di un accordo di ristrutturazione prevede: deposito dell’accordo con le adesioni, la relazione attestatrice e le ulteriori documentazioni (elenco creditori, situazione patrimoniale, ecc. art.39 CCII); eventuale richiesta di misure protettive ex art.54 (non nel caso agevolato); fase di omologazione in cui i creditori possono presentare opposizioni se ritengono lesi i loro diritti. Il tribunale, valutati gli atti, omologa con sentenza se tutti i requisiti di legge sono soddisfatti. La sentenza di omologa rende l’accordo definitivo ed efficace anche verso i non aderenti (che, ricordiamo, non subiscono stralci ma solo eventuali dilazioni brevi nei limiti di legge).

Transazione fiscale e contributiva: Un punto critico degli accordi è sempre stato il trattamento dei crediti tributari e previdenziali. Oggi l’art.63 CCII disciplina la transazione fiscale e contributiva, prevedendo che il debitore possa includere nell’accordo proposte di pagamento parziale o dilazionato delle imposte e contributi dovuti (anche oltre i limiti altrimenti inderogabili). Tali proposte vanno presentate all’Agenzia delle Entrate e agli Enti previdenziali competenti, corredate dall’attestazione di convenienza (ovvero che l’Erario e l’INPS ricevono almeno quanto otterrebbero da liquidazione). La normativa aggiornata (D.lgs. 136/2024) ha chiarito che gli enti hanno 90 giorni per aderire; se entro tale termine l’adesione non arriva o viene negata, il debitore può comunque chiedere al tribunale l’omologazione “cram down” della proposta fiscale/previdenziale. In pratica, dal 2024 l’atteggiamento ostruzionistico di Fisco e INPS può essere superato: il tribunale può omologare l’accordo anche senza il loro consenso, purché la proposta sia conveniente (ad esempio garantisca il pagamento di almeno il valore di liquidazione) e siano rispettate le formalità. La Cassazione già in passato aveva aperto alla possibilità di omologa forzata della transazione fiscale nel concordato (sent. Cass. 30 maggio 2023, n.15230, sul piano del consumatore) e ora il CCII lo prevede esplicitamente per gli accordi: “decorso il termine, anche in assenza di adesione, il debitore può richiedere l’omologazione della proposta di transazione” (art.63 come modificato). Questa è una svolta importante, perché in passato molti accordi naufragavano per il diniego del Fisco nel concedere stralci di sanzioni o interessi; oggi, se il piano è serio e offre il massimo possibile, il giudice può dare il via libera anche senza l’ok dell’Erario, riducendo l’alea.

Giurisprudenza: Gli accordi di ristrutturazione, pur meno noti al grande pubblico del concordato, hanno prodotto varie pronunce giurisprudenziali. Un tema affrontato dalla Cassazione è la buona fede nelle trattative: la Suprema Corte ha rilevato che trattative parallele e informazioni incomplete ai creditori possono inficiare l’omologazione, richiamando principi di correttezza precontrattuale. Altra questione: natura del controllo giudiziale – il giudice non entra nel merito economico se non per verifica di convenienza per i creditori estranei e rispetto della legge, mentre non può sindacare la “convenienza” per i creditori aderenti poiché questi hanno accettato consapevolmente (a differenza del concordato, dove i dissenzienti possono far valere la convenienza relativa).

La Cassazione, Sez. I, 09/10/2023 n.28232 ha affrontato il tema dei rapporti banca-impresa in accordo: è stato confermato che eventuali clausole di compensazione tra conti correnti (cd. patto di compensazione) restano valide anche dopo l’omologazione, purché previste contrattualmente – ad esempio l’azienda in concordato non può impedire alla banca di compensare i saldi attivi con i passivi in virtù di patti anteriori. Questo principio vale analogamente negli accordi di ristrutturazione: i rapporti bancari continuano secondo contratto, salvo diverse pattuizioni nell’accordo stesso.

In sintesi, gli accordi di ristrutturazione sono strumenti preziosi quando c’è un consenso ampio e organizzato dei creditori, specie finanziari. Rispetto al concordato presentano minori formalità e più velocità (possono chiudersi in pochi mesi), e l’azienda evita di essere soggetta a tutte le regole rigide di una procedura concorsuale aperta. Tuttavia, per gestire un accordo serve abilità negoziale e un’attenta preparazione del piano (con attestazione solida). Spesso l’accordo viene utilizzato come esito positivo di una composizione negoziata: l’esperto CNC può facilitare l’intesa che poi viene formalizzata come accordo ex art.57. I numeri (oltre 300 accordi l’anno in Italia) mostrano che molte imprese, soprattutto società di capitali di dimensioni piccole-medie, sfruttano questo strumento per evitare il concordato e gestire la crisi in modo più consensuale e discreto.

Concordato Preventivo (ordinario) in continuità e liquidatorio

Il Concordato Preventivo è la procedura concorsuale giudiziale per eccellenza a cui un’impresa può ricorrere per evitare la liquidazione fallimentare, attraverso una proposta di soddisfacimento parziale o dilazionato dei creditori, approvata da questi ultimi e omologata dal Tribunale. Il CCII lo disciplina agli artt. 84-120, innovandone alcuni aspetti ma mantenendone l’impianto di base. Si chiama “preventivo” perché si colloca prima della dichiarazione di fallimento (oggi liquidazione giudiziale) e ne evita l’apertura se ha esito positivo.

Tipologie di concordato: Il concordato preventivo può presentarsi in due forme fondamentali:

  • Concordato in continuità aziendale (art.84, co.2 CCII): quando il piano prevede la prosecuzione, diretta o indiretta, dell’attività d’impresa, ossia l’azienda continua a operare durante e dopo la procedura, generando utilità per soddisfare i creditori. La continuità può essere diretta (l’imprenditore prosegue la gestione durante e dopo il concordato) oppure indiretta (ad esempio l’azienda viene affittata o ceduta ad un terzo che la prosegue, e il prezzo va ai creditori).
  • Concordato liquidatorio: quando il piano prevede solo la liquidazione del patrimonio dell’impresa per ricavare attivo da distribuire ai creditori, senza continuità dell’attività (se non quella strettamente necessaria per vendere i beni).

Il CCII incoraggia la continuità aziendale come soluzione preferenziale, mentre impone condizioni più stringenti per il concordato meramente liquidatorio, come vedremo. Una terza categoria, introdotta di recente, è il concordato semplificato per liquidazione, di cui tratteremo a parte.

Presupposti di ammissibilità: Può accedere al concordato preventivo ogni imprenditore assoggettabile a liquidazione giudiziale (cioè fallibile) che si trovi in stato di crisi o di insolvenza. Anche l’imprenditore minore (sotto soglie di fallibilità) può accedere, ma in tal caso dovrà usare la forma del concordato minore (distinto e con proprie norme). Un aspetto chiarito dalla recente giurisprudenza è che, per proporre un concordato in continuità diretta, l’azienda deve essere effettivamente in esercizio: la Cassazione ha stabilito che la continuità aziendale richiede che al momento della domanda l’impresa sia operativa e che il piano preveda di mantenerla in attività o trasferirla come funzionante. In caso contrario (azienda ferma da tempo), l’istanza di concordato in continuità non può essere ammessa – si dovrà qualificare come liquidatorio. In particolare, Cass. civ. sez. I, 15 giugno 2023 n.17092 ha ribadito che “il requisito della continuità… richiede che l’azienda… sia comunque in esercizio al momento della proposta”, e che ciò che conta è la prospettiva di prosecuzione dell’attività per ricavarne redditività. Questo per evitare abusi in cui si etichetta come “continuità” un concordato che in realtà vende l’azienda già chiusa. Detto ciò, una riduzione di scala (meno dipendenti, attività ridotta) non preclude la continuità, purché l’azienda sia ancora viva.

Procedimento: Il concordato si avvia con un ricorso depositato in Tribunale, contenente la proposta ai creditori, il piano dettagliato e la relazione di un professionista attestatore indipendente (art. 87 CCII). È possibile anche presentare una domanda “con riserva” (il cosiddetto concordato in bianco, art. 44 CCII, ex art.161 co.6 L.F.) in cui l’imprenditore chiede l’ammissione e le misure protettive, riservandosi di presentare piano e proposta entro un termine (di norma 60-120 giorni prorogabile). Questa modalità è spesso usata per congelare subito le azioni dei creditori mentre si finalizza il piano.

All’ammissione, il Tribunale nomina un Commissario Giudiziale (figura di controllo) e concede le misure protettive che sospendono le azioni individuali e i pagamenti non autorizzati (simili all’automatic stay). L’impresa in concordato prosegue l’attività sotto la supervisione del Commissario e dei giudici, con limiti sugli atti straordinari (che richiedono autorizzazione). Viene aperta la fase di votazione: i creditori vengono suddivisi eventualmente in classi secondo posizione giuridica e interessi omogenei (nel concordato in continuità la classazione è obbligatoria), quindi sono chiamati a votare la proposta concordataria.

Le maggioranze richieste: il CCII prevede che il concordato è approvato se ottiene il voto favorevole dei creditori che rappresentano la maggioranza dei crediti ammessi al voto (cioè >50% in valore). Non è più necessaria – pare – la maggioranza numerica dei creditori (requisito eliminato), ma se sono previste classi, occorre la maggioranza in valore in ciascuna classe oppure il meccanismo di cram-down. Con la riforma 2022, nel concordato in continuità entra in gioco la possibilità di omologazione anche contro il voto contrario di una o più classi dissenzienti (cross-class cram down): l’art.112 CCII stabilisce che il Tribunale può omologare il concordato nonostante il dissenso di classi, se sono rispettate tutte queste condizioni: (a) il piano distribuisce ai creditori almeno quanto otterrebbero in liquidazione sulla base delle cause di prelazione (best interest test); (b) il valore eccedente la liquidazione è distribuito nel rispetto della relative priority rule, ossia i creditori di classi dissenzienti ricevono un trattamento non inferiore a quello dei creditori di pari rango e più favorevole di quello di eventuali classi di rango inferiore; (c) nessun creditore ottiene più del 100% del proprio credito (ovvio divieto di overpayment); (d) il piano è stato approvato da almeno la maggioranza delle classi votanti, purché almeno una classe “in the money” (che riceve qualcosa) abbia votato sì. In pratica, se almeno una classe rilevante approva e il piano rispetta la graduazione dei privilegi e dà ai dissenzienti di pari grado almeno lo stesso trattamento dei pari grado consenzienti, il giudice può forzare l’omologa anche sulle classi contrarie. Questo meccanismo – di derivazione europea – consente di superare l’opposizione di minoranze organizzate (ad es. bondholders) se il piano nel suo complesso è equo. Resta comunque la possibilità per i creditori dissenzienti di fare opposizione all’omologa contestando la convenienza: il tribunale, in tal caso, omologherà solo se accerta che quei creditori non riceverebbero di più in caso di liquidazione giudiziale (test di convenienza ex art.112, co.3).

Se la votazione dà esito favorevole (maggioranza raggiunta o cram-down applicabile), si passa all’omologazione: il Tribunale verifica la regolarità della procedura, la legittimità e fattibilità del piano, l’assenza di atti in frode, e decide sulle eventuali opposizioni. Se tutto è a posto, emette decreto di omologa. Da quel momento il concordato diventa vincolante per tutti i creditori anteriori, anche dissenzienti, i quali verranno soddisfatti secondo le percentuali e i tempi previsti in piano, mentre il debitore è liberato dai debiti eccedenti (ottenendo l’esdebitazione concorsuale a completamento dell’esecuzione del concordato).

Concordato in continuità aziendale: merita attenzione perché è lo strumento con cui un’azienda può davvero salvarsi come going concern. In un concordato in continuità diretta, l’imprenditore mantiene la gestione (sia pure sotto controllo), elabora un piano industriale di rilancio e usa i flussi economici futuri per pagare i creditori, magari coinvolgendo nuovi investitori o finanziatori. Ad esempio, un concordato in continuità può prevedere che l’azienda rimanga in attività per 5 anni, generando utili destinati ai creditori, con eventuale ingresso di un socio finanziatore al 51%, e che i creditori privilegiati vengano pagati secondo scadenze concordate e i chirografari ricevuto il 40% in 5 rate annuali. Oppure può prevedere la cessione dell’azienda ad un terzo (continuità indiretta) che contestualmente assuma parte dei lavoratori e paghi un prezzo, il quale formerà l’attivo concordatario da distribuire ai creditori.

La legge incoraggia questa via: non è richiesto un soddisfacimento minimo dei chirografari (contrariamente al liquidatorio) perché si presume che mantenere in vita l’azienda massimizzi il valore (principio della massimizzazione dell’attivo). Tuttavia, il piano deve dimostrare di avere ragionevoli prospettive di impedire o superare l’insolvenza e non può consistere in mere ipotesi irrealistiche. Il controllo di fattibilità in continuità è meno severo (il tribunale deve solo escludere che il piano sia privo di ragionevoli prospettive, art.112, co.1) rispetto al passato, proprio per non scoraggiare soluzioni di risanamento. Sulla continuità indiretta: la Cassazione con la citata ordinanza 17092/2023 ha confermato che cedere l’azienda a un assuntore è comunque continuità, se l’azienda è in esercizio e destinata a proseguire nelle mani altrui. Dunque vendere l’azienda come “pezzo vivo” nell’ambito del concordato è accettato e anzi comune.

Concordato liquidatorio: se invece non vi sono prospettive di proseguire l’attività, l’impresa può proporre un concordato di tipo liquidatorio. Qui l’idea è simile a un fallimento concordato: si vendono i beni e con il ricavato si paga una quota dei debiti, evitando il fallimento formale. La normativa però impone condizioni per evitare concordati liquidatori troppo penalizzanti per i creditori. L’art.84, comma 4 CCII stabilisce che il concordato liquidatorio deve assicurare il pagamento di almeno il 20% dei crediti chirografari (salvo che i creditori votino comunque a favore anche se ricevono meno). Questa soglia minima del 20% – introdotta dal DL 83/2015 in L.F. e confermata nel CCII – serve da filtro di ammissibilità: se il piano prevede di pagare i chirografari meno di 1/5, non è ammissibile (a meno di apporto di risorse esterne tali da innalzare quella percentuale). Infatti, la legge valorizza l’apporto esterno: se terzi o soci conferiscono attivo fresco da destinare ai creditori in misura almeno pari al 10% dell’attivo liquidatorio, la soglia del 20% può non applicarsi (questo principio era nel vecchio art.160 L.F. e nelle prime bozze CCII, come incentivo a portare finanza esterna). In ogni caso, un concordato che dia ai chirografari meno del 20% rischia di non venire confermato dal tribunale per difetto di convenienza rispetto alla liquidazione fallimentare – in genere, se si prevede meno del 20%, spesso significa che la liquidazione fallimentare darebbe comunque molto poco e allora tanto vale la via concorsuale classica.

Il piano liquidatorio deve allegare un prospetto di stima dei valori di realizzo dei beni (spesso con perizia di un esperto stimatore), così che i creditori possano valutare la convenienza. Inoltre, può prevedere la liquidazione anche frazionata o tramite cessioni in blocco; spesso viene nominato un liquidatore concordatario (spesso coincide col commissario) che si occuperà di vendere. I creditori possono essere soddisfatti in denaro oppure, se accettano, mediante assegnazione di beni o azioni/quote (es: trasformare crediti in partecipazioni se c’è un assuntore).

Va ricordato che nel concordato preventivo – a differenza della liquidazione giudiziale – non c’è spossessamento totale del debitore: l’imprenditore rimane in carica, pur con l’onere di eseguire il piano sotto vigilanza. Ciò rende questo istituto uno strumento di composizione negoziale (il debitore propone e i creditori dispongono col voto) piuttosto che una procedura liquidativa autoritativa.

Vantaggi del concordato preventivo: consente di congelare la situazione debitoria, bloccare interessi e azioni esecutive, cristallizzare i debiti alla data di apertura. Evita le conseguenze afflittive del fallimento (come interdizioni per l’imprenditore) e può permettere la continuità aziendale. Inoltre, produce esdebitazione per l’impresa individuale (il titolare viene liberato dai debiti residui a certe condizioni) e, per le società, consente di chiudere la vicenda senza dover subire istanze di fallimento. Molti grandi gruppi in Italia si sono ristrutturati con concordati in continuità (si pensi al Gruppo Astaldi nel 2019, poi confluito in Webuild, o a molti concordati di società immobiliari).

Limiti e rischi: il concordato è una procedura complessa e lunga (spesso 1-2 anni tra deposito e omologa) e richiede costi significativi (spese di procedura, compenso del commissario, attestatore, legali). Se l’azienda è già decotta, rischia di perdersi quel poco valore residuo in spese. Inoltre l’esito non è garantito: i creditori potrebbero bocciare la proposta se la giudicano sconveniente, o il tribunale non omologare se rileva irregolarità. Vi è poi il rischio di abuso dello strumento: presentare un concordato solo per guadagnare tempo senza seria intenzione di risanare. La legge contrasta ciò con l’art. 96 CCII (revoca dell’ammissione se atti in frode) e la giurisprudenza ha sviluppato la figura del concordato in mala fede. Ad esempio, depositare un concordato privo di reale fattibilità solo per congelare i creditori per qualche mese può portare a sanzioni ed eventuale dichiarazione di fallimento immediata. Cassazione e tribunali sono attenti a verificare la meritevolezza: ad esempio, la Cass. 6 giugno 2023 n.15790 ha confermato che se emergono atti di frode o occultamento di informazioni rilevanti ai creditori, l’omologa va negata e la procedura convertita in liquidazione giudiziale.

Evoluzione recente: I dati mostrano che il ricorso al concordato preventivo negli ultimi anni è diminuito, probabilmente grazie all’introduzione di strumenti pre-concorsuali (CNC, accordi) che in parte lo sostituiscono. Tra 2021 e 2023 le aperture di concordati sono calate da oltre 1.067 a 678, con un lieve rialzo a 762 nel 2024. Rimane comunque la procedura scelta da molte società di capitali medio-grandi in crisi grave (oltre l’88% dei casi riguarda S.p.A. o S.r.l.). I settori più rappresentati sono l’industria manifatturiera e il commercio. Ciò indica che, sebbene il concordato sia visto spesso come ultima spiaggia rispetto a soluzioni stragiudiziali, resta uno strumento cardine per ristrutturare debiti in situazioni complesse, soprattutto quando serve una moratoria generale e un taglio imposto anche ai dissenzienti.

Concordato Semplificato per la Liquidazione del Patrimonio

Il Concordato Semplificato (art. 25-sexies CCII) è uno strumento di recente introduzione, pensato come via d’uscita dalla composizione negoziata quando questa non riesce a produrre un accordo. Si tratta di una procedura concorsuale liquidatoria estremamente snella, caratterizzata dall’assenza del voto dei creditori. In pratica, se le trattative della composizione negoziata falliscono nonostante la buona fede del debitore, l’imprenditore può proporre direttamente al Tribunale un piano di concordato liquidatorio e ottenere l’omologa senza passare per l’adunanza dei creditori.

Presupposto fondamentale: deve emergere dalla relazione finale dell’esperto CNC che le trattative si sono svolte correttamente e in buona fede e che le soluzioni individuate (accordi stragiudiziali, ecc.) non sono praticabili. Solo in tal caso, entro 60 giorni dalla comunicazione della relazione finale negativa, l’imprenditore può presentare la proposta di concordato semplificato con il piano di liquidazione e la documentazione necessaria. Se invece l’esperto non certifica la correttezza delle trattative (ad esempio perché l’imprenditore ha omesso informazione ai creditori o non ha esplorato seriamente le soluzioni), il concordato semplificato non è ammesso. Questa condizione è cruciale per evitare che la CNC venga usata come scorciatoia per saltare il voto dei creditori: occorre dimostrare di averci provato davvero.

Caratteristiche del concordato semplificato:

  • È limitatamente liquidatorio: per espressa previsione, può avere solo natura di concordato con cessione dei beni (liquidazione del patrimonio). Non è un concordato in continuità – se l’impresa avesse prospettive di continuità, dovrebbe piuttosto convertire in un concordato “normale” perché la continuità presuppone coinvolgimento dei creditori nell’approvazione.
  • Non è previsto alcun voto dei creditori: i creditori non vengono chiamati ad approvare o respingere la proposta. Essi possono però interloquire presentando opposizioni in sede di omologazione.
  • Non esiste la soglia minima del 20% come nel concordato liquidatorio ordinario. Infatti la legge, nel creare questo istituto, ha deliberatamente escluso quorum e percentuali minime (il che ha suscitato perplessità, ma è giustificato dal fatto che la procedura è attivabile solo a valle di un tentativo negoziale fallito, quindi come soluzione residuale e comunque soggetta al controllo giudiziario).

Procedura semplificata: L’imprenditore deposita ricorso al Tribunale con la proposta e il piano di liquidazione (può anche depositare un ricorso “in bianco” riservandosi di allegare piano e proposta entro il termine, analogamente all’art. 40 CCII). Il Tribunale, acquisita la relazione finale dell’esperto CNC e verificata la regolarità della proposta e delle classi (la legge consente di suddividere i creditori in classi anche qui, se opportuno), nomina un commissario giudiziale anche in questo caso (sebbene non vi sia voto, il commissario serve per gestire la fase e riferire al giudice). Il procedimento prosegue con un’udienza in cui i creditori e qualsiasi interessato possono esprimere osservazioni o opposizioni. Non essendoci votazione, l’attenzione si sposta tutta sull’omologazione: il Tribunale valuta la fattibilità del piano di liquidazione, il rispetto delle regole di formazione delle classi (se ci sono), la convenienza della proposta rispetto all’alternativa liquidatoria (fallimento). In particolare, il giudice deve assicurarsi che il piano liquidi il patrimonio in modo non deteriore per i creditori rispetto a una liquidazione giudiziale classica. L’art.25-septies CCII richiama infatti l’applicazione delle norme di omologa del concordato preventivo in quanto compatibili. Ciò significa che anche qui un creditore può eccepire che la proposta non è conveniente, e il Tribunale omologherà solo se risulta che i creditori ottengono almeno quanto otterrebbero dalla liquidazione giudiziale (best interest test analogo). Se le opposizioni vengono respinte e il piano appare regolare e conveniente, il Tribunale omologa con decreto.

Una volta omologato, il concordato semplificato vincola tutti i creditori anteriori come un normale concordato. Seguirà la fase di esecuzione, dove un liquidatore (spesso il commissario nominato) provvederà a vendere i beni secondo il piano e distribuire il ricavato ai creditori secondo le percentuali indicate. Al termine, la società (o imprenditore) verrà liberata dai debiti residui.

Vantaggi e finalità: Questo strumento è stato concepito per evitare che i casi in cui la CNC non trova accordo finiscano inevitabilmente in fallimento. In pratica, se durante la composizione negoziata si è individuata l’unica soluzione possibile nella vendita dell’azienda o dei beni, ma non c’è tempo o modo di fare un concordato “normale” (magari perché i creditori non avrebbero convenienza a votare, o perché la maggioranza non è raggiungibile), allora con il semplificato il debitore può comunque chiudere la crisi vendendo tutto in modo ordinato e distribuendo attivo, senza bisogno di un voto che sarebbe solo una formalità (o, nella visione del legislatore, un ostacolo). Si garantisce comunque controllo giudiziario per tutelare i creditori: il tribunale fa da garante che la procedura non li danneggi. Un ulteriore vantaggio è la rapidità: niente adunanza dei creditori significa che i tempi sono condensati. Alcuni casi concreti del 2022-2023 hanno visto concordati semplificati omologati in pochi mesi dal deposito.

Dati di utilizzo: come rilevato, il ricorso al concordato semplificato è stato finora limitato. Nel 2023 solo 69 domande, salite a 85 nel 2024 – numeri piccoli rispetto ad altre procedure, indice che è uno strumento di nicchia, perlopiù usato da imprese molto piccole (infatti la maggioranza delle imprese che lo attivano sono dimensioni sottosoglia, spesso micro imprese dei settori manifatturiero, commercio o costruzioni). Questo è coerente con la sua funzione: tipicamente una PMI tenta la CNC; se va male ed è troppo oneroso un concordato con voto (magari perché pochi creditori, e attivo modesto da liquidare), allora richiede il semplificato. Le grandi aziende invece difficilmente userebbero il semplificato, preferendo o riuscendo a trovare soluzioni concordatarie ordinarie (con eventuale voto favorevole delle banche, etc., come è avvenuto ad esempio nella crisi gruppo Ferrovie Sud Est, che inizialmente ipotizzò un semplificato ma poi optò per un concordato ordinario in extremis).

Limiti e attenzioni: Un punto delicato è l’assenza di voto: sebbene pensato per casi di emergenza, solleva questioni di conformità costituzionale (diritto di azione dei creditori). Finora è stato ritenuto legittimo in quanto i creditori possono sempre far valere le loro ragioni al momento dell’omologa e perché il semplificato è opzionale e subordinato a garanzie di buona fede. La prassi dei tribunali finora è rigorosa nell’ammettere il semplificato: come visto col caso di Firenze, viene richiesto scrupolo nelle trattative CNC e trasparenza. In caso di abuso, il tribunale rigetta la domanda e con ogni probabilità dichiara la liquidazione giudiziale dell’impresa.

In definitiva, il concordato semplificato è uno strumento di chiusura veloce quando non c’è più nulla da negoziare, se non distribuire quello che c’è. Permette di evitare il fallimento e dare una risposta ai creditori in tempi brevi. È però una soluzione di ripiego: l’imprenditore dovrebbe ambire, se possibile, a soluzioni che preservino l’attività (concordato in continuità) o a un accordo con i creditori. Solo se queste vie non sono praticabili, e l’alternativa sarebbe un fallimento dispendioso, il semplificato diventa la scelta efficiente.

Strumenti per Piccole Imprese e Sovraindebitamento: Concordato Minore, Piano del Consumatore, Liquidazione Controllata

Le procedure fin qui descritte si applicano agli imprenditori fallibili, ovvero in generale alle società e imprese sopra certe dimensioni. Per i debitori che non superano le soglie di fallibilità (piccole imprese, imprenditori sotto i requisiti di cui all’art. 2, c.1, lett. d CCII: attivo ≤ €300.000, ricavi ≤ €200.000, debiti ≤ €500.000), nonché per i privati consumatori e altri soggetti non fallibili, il Codice della Crisi ha integrato la disciplina del sovraindebitamento (che era nella L.3/2012) prevedendo tre strumenti dedicati:

  • Il Piano di ristrutturazione dei debiti del consumatore (detto semplicemente piano del consumatore), riservato alle persone fisiche che hanno contratto debiti per scopi estranei all’attività imprenditoriale;
  • Il Concordato Minore, destinato agli imprenditori minori, ai professionisti, alle start-up innovative e in generale ai debitori “non fallibili” diversi dal consumatore;
  • La Liquidazione Controllata del sovraindebitato, procedura liquidativa analoga al fallimento ma su scala ridotta, applicabile a chiunque si trovi in sovraindebitamento e non abbia prospettive di accordo.

Questi strumenti perseguono la finalità della cosiddetta fresh start (seconda possibilità) per il debitore civile meritevole, in attuazione anche della Direttiva Insolvency. Vediamo brevemente i primi due (il terzo essendo una liquidazione giudiziale semplificata).

Concordato Minore

Il Concordato Minore è disciplinato dagli artt.74-83 CCII. Si chiama “minore” per distinguerlo dal concordato preventivo “maggiore”, ma nella sostanza è molto simile: il debitore in stato di sovraindebitamento propone ai creditori un piano che può prevedere la continuazione dell’attività (se impresa minore) o la liquidazione parziale, con pagamento anche parziale dei debiti e liberazione finale dal debito residuo. È, a tutti gli effetti, la nuova versione dell’“accordo del debitore” previsto dalla L.3/2012, però migliorato e inserito nel contesto unitario del Codice. Possono accedere il piccolo imprenditore commerciale sotto soglia, l’imprenditore agricolo (tradizionalmente non fallibile), i professionisti, le start-up innovative (che per legge non falliscono) e anche enti non commerciali sovraindebitati. Non può accedervi il consumatore, che ha la procedura propria (piano del consumatore).

La procedura ricalca quella del concordato preventivo: c’è un OCC (Organismo di Composizione della Crisi) o un professionista nominato dal tribunale che svolge le funzioni simili al commissario, c’è un’attestazione di fattibilità, i creditori vengono informati e sono chiamati a votare la proposta. Infatti, a differenza del piano del consumatore, il concordato minore richiede il voto: la legge (art.79 CCII) prevede che sia approvato se ottiene il sì dalla maggioranza dei crediti ammessi al voto (quorum analogo al concordato preventivo). Dopo l’eventuale approvazione, il Tribunale procede all’omologa, verificando anche qui meritevolezza e convenienza. Un elemento di particolare rilievo nel concordato minore è la valutazione della meritevolezza del debitore (art. 80 CCII): il giudice verifica che il sovraindebitato non abbia colpa grave, malafede o frode nell’aver creato l’indebitamento o nel comportamento tenuto. Questo criterio era presente in L.3/2012 e rimane, sebbene mitigato per incoraggiare l’uso della procedura. In sede di omologazione, eventuali opposizioni dei creditori dissenzienti possono vertere sulla convenienza (il tribunale omologa se il credito dissenziente riceve almeno quanto otterrebbe dalla liquidazione controllata). Se omologato, il concordato minore produce effetti liberatori analoghi al concordato preventivo: vincola tutti i creditori anteriori e, a esecuzione avvenuta, libera il debitore dal residuo.

Esempio: un artigiano sovraindebitato con 200.000€ di debiti di cui 120.000€ verso banche e 80.000€ tra fornitori e fisco, può proporre un concordato minore offrendo il pagamento del 50% in 4 anni grazie alla continuazione dell’attività e all’aiuto di un familiare investitore. I creditori votano: se la maggioranza in valore è favorevole (es. le banche accettano), si omologa e l’artigiano esegue il piano pagando il 50%. Alla fine, i debiti sono cancellati (esdebitazione). Se i creditori respingono la proposta, il debitore potrà comunque chiedere la liquidazione controllata e poi l’esdebitazione.

Piano del Consumatore

Il Piano di ristrutturazione del consumatore (artt.67-73 CCII) è l’erede del vecchio “piano del consumatore” della L.3/2012. Riservato a persone fisiche che hanno contratto debiti per scopi estranei all’attività imprenditoriale, consente di ristrutturare i debiti (tipicamente verso banche, finanziarie, fisco, privati) senza il voto dei creditori, ma con un controllo giudiziale stringente sul merito e sulla buona fede. Il consumatore propone un piano di pagamento, eventualmente parziale, della durata massima di 5 anni (salvo casi eccezionali), impegnando il proprio patrimonio e reddito futuro in misura sostenibile. Ad esempio, una famiglia sovraindebitata potrebbe proporre di pagare il 30% dei debiti grazie a una somma messa a disposizione da un parente e rate mensili per 4 anni, mantenendo il necessario per il sostentamento.

La caratteristica chiave è che non c’è voto dei creditori: il piano viene sottoposto direttamente al giudice, il quale valuta la fattibilità economica e soprattutto la meritevolezza del consumatore. Se il giudice ritiene che il consumatore abbia agito senza colpa grave o frode (ad esempio i debiti derivano da eventi sfortunati, malattia, perdita lavoro, e il debitore non ha assunto obblighi sproporzionati con leggerezza), può omologare il piano anche contro il parere dei creditori. La Cassazione ha confermato che in questa procedura “l’assenza del voto dei creditori è compensata dal controllo giudiziale, che supplisce ad ogni forma di consenso”. In pratica, il giudice tutela i creditori valutando che il piano offra loro il massimo possibile date le condizioni del debitore e che il debitore meriti la protezione. Ad esempio, Cass. 21 aprile 2025 n.<> (menzionata in dottrina) ha ribadito che anche se il piano del consumatore prevede una moratoria > 1 anno o un pagamento parziale, ciò è ammissibile senza voto, essendo compito del giudice assicurare l’equità. Se il giudice non omologa (magari perché rileva che il debitore ha tenuto un comportamento malaccorto volontariamente), il consumatore può ripiegare sulla liquidazione controllata.

Il vantaggio enorme per il consumatore è la possibilità di liberarsi dai debiti e ripartire, anche contro il volere dei creditori, purché dimostri di aver messo sul piatto tutto il ragionevolmente sacrificabile e di non essere “colpevole”. Questa procedura è stata assai utile nei casi di sovraindebitamento familiare (es. sovraindebitamento da eccesso di credito al consumo, situazioni di usura, ecc.). La meritevolezza resta uno scoglio: chi ha agito con dolo o colpa grave (es. ha fatto spese lussuose a debito senza possibilità di pagarle) può vedersi negare l’omologa*(continua dal precedente)*

Liquidazione controllata del sovraindebitato: è la procedura liquidatoria prevista per i debitori civili e le piccole imprese in caso di insuccesso o inaccessibilità delle soluzioni sopra descritte. Corrisponde all’ex “liquidazione dei beni” della L.3/2012, oggi disciplinata dagli artt. 268-277 CCII. Viene nominato un liquidatore (di solito tramite l’OCC) che realizza tutto il patrimonio del debitore e distribuisce il ricavato ai creditori. Pur essendo una liquidazione giudiziale a tutti gli effetti, le norme sono più semplificate e il debitore persona fisica può chiedere l’esdebitazione di diritto al termine (ovvero la cancellazione dei debiti residui, salvo eccezioni, dopo aver cooperato lealmente). La liquidazione controllata è spesso l’extrema ratio quando né un piano del consumatore né un concordato minore sono praticabili o se il debitore è manifestamente insolvente e non in grado di proporre nulla di soddisfacente ai creditori. Essa offre comunque un beneficio importante al debitore onesto ma sfortunato: dopo 4 anni dalla chiusura, l’esdebitazione è concessa anche senza soddisfacimento minimo ai creditori (salvo che non abbia commesso atti in frode) – realizzando così quella “fresh start” auspicata dal legislatore.

In conclusione, il sistema italiano oggi prevede un ventaglio completo di strumenti per affrontare la crisi sia per le imprese medio-grandi (CNC, accordi, concordati) sia per i piccoli debitori (concordato minore, ecc.), evitando per quanto possibile la dispersione di valore che storicamente accompagnava i fallimenti. La scelta dello strumento va calibrata su misura: l’imprenditore avveduto dovrà, con l’aiuto di consulenti esperti, valutare la gravità della crisi, la disponibilità dei creditori a cooperare, la necessità di protezione immediata e la presenza di prospettive di continuità, per poi decidere se perseguire un percorso stragiudiziale (quando c’è consenso sufficiente e tenuta aziendale) oppure attivare un concorsuale (se serve l’intervento autoritativo del tribunale per imporre una ristrutturazione o gestire una liquidazione ordinata).

Misure fiscali e contributive agevolative per il risanamento

Affrontare i debiti verso Erario ed Enti previdenziali è spesso determinante per salvare un’azienda dalla crisi, considerando che fisco e contributi possono pesare molto. Oltre agli strumenti concorsuali di transazione fiscale e contributiva già trattati (che permettono di includere nel piano concordatario o nell’accordo proposte di pagamento parziale di imposte e contributi, omologabili anche senza il consenso dell’ente), l’ordinamento offre misure agevolative extra-giudiziali che l’imprenditore deve tenere presenti nel suo piano di risanamento:

  • Definizioni agevolate dei carichi fiscali (“rottamazioni” delle cartelle): il legislatore negli ultimi anni ha varato diverse rottamazioni delle cartelle esattoriali. Ad esempio, con la Legge di Bilancio 2023 è stata introdotta la Rottamazione-quater per i carichi affidati all’Agente della Riscossione fino al 30 giugno 2022, che consente di pagare i debiti iscritti a ruolo senza sanzioni né interessi di mora, in un massimo di 18 rate in 5 anni. Aderire a tali sanatorie può ridurre drasticamente il debito fiscale di un’azienda in crisi. Esistono anche misure di stralcio automatico, come la cancellazione dei mini-debiti sotto €1.000 affidati entro il 2015, prevista sempre dalla L.197/2022. L’imprenditore deve monitorare la legislazione vigente: se ha cartelle esattoriali pendenti, valutare subito la possibilità di rientrare in una definizione agevolata per abbattere sanzioni e interessi.
  • Rateizzazioni ordinarie e straordinarie dei debiti fiscali: Prima di arrivare a procedure concorsuali, un’azienda in temporanea difficoltà può chiedere alla Agenzia delle Entrate-Riscossione piani di dilazione fino a 72 rate mensili (6 anni) automaticamente se il debito ≤ €120.000, o anche piani straordinari fino a 120 rate (10 anni) se prova uno stato di grave e prolungata difficoltà (art.19 DPR 602/73). Queste rateizzazioni bloccano le azioni esecutive del fisco finché l’azienda paga le rate, e permettono di spalmare l’esborso nel tempo. Anche l’INPS consente dilazioni sui contributi dovuti. Integrando un piano di risanamento con le rateizzazioni, l’imprenditore può alleggerire il flusso di cassa immediato. Da notare: se poi si accede a un accordo o concordato, le rateizzazioni in corso confluiranno nella transazione fiscale.
  • Sospensioni e moratorie legislative: in situazioni eccezionali (come fu per il Covid-19) il Governo ha disposto moratorie sui versamenti tributari e contributivi. Anche nel 2023-2024 sono state previste dilazioni speciali per i settori colpiti da eventi calamitosi (es. alluvioni) con possibilità di pagare il dovuto in più anni senza sanzioni. Chi sta risanando l’azienda deve quindi sfruttare qualsiasi moratoria ad hoc applicabile al proprio caso, posticipando i pagamenti fiscali e contributivi durante la crisi di liquidità.
  • Incentivi e crediti d’imposta: talvolta esistono misure fiscali che indirettamente aiutano un’impresa in crisi di liquidità, ad esempio crediti d’imposta per investimenti, bonus fiscali, fondi perduti. Usufruirne può liberare risorse. Ad esempio, il DL Aiuti ha ampliato i crediti d’imposta su energia e gas per le imprese energivore, riducendo le uscite.
  • Certificazione fiscale in procedure concorsuali: segnaliamo che, in concordato con continuità, l’impresa può ottenere comunque il DURC regolare (Documento Unico di Regolarità Contributiva) pur in presenza di debiti contributivi oggetto di transazione – ciò grazie a norme speciali che tutelano la prosecuzione attività. Questo consente di partecipare a gare o ricevere pagamenti pubblici anche durante la procedura, evitando che la crisi blocchi completamente le commesse.

In sostanza, un buon piano di risanamento deve prevedere anche la gestione intelligente del debito fiscale: approfittare delle rottamazioni per ridurre il debito, inserire la transazione fiscale per tagliare sanzioni e interessi (magari offrendo almeno il 30% come richiesto dall’AdE in mancanza di garanzie), e programmare le eventuali rate. Gli accordi col fisco spesso richiedono una negoziazione tecnica: ad esempio, presentare una perizia sul valore liquidatorio per convincere l’AdE della convenienza della proposta. La giurisprudenza ha in parte supplito alla rigidità del fisco: ad esempio la Corte di Giustizia e la Cassazione hanno affermato che l’Erario non può irragionevolmente negare un piano se questo dà più del fallimento; ora con il CCII questa posizione è codificata. Dunque oggi più che mai il fisco può e deve essere coinvolto nelle soluzioni di risanamento, anziché restare passivo: l’impresa che propone un concordato/accordo ha la possibilità di ottenere il contributo dell’Erario in termini di stralcio di sanzioni o dilazione, a fronte della prova che sta massimizzando il recupero possibile.

Rinegoziazione bancaria e strumenti finanziari per il risanamento

Le banche e gli altri finanziatori svolgono un ruolo critico nelle crisi d’impresa. Spesso un’azienda indebitata ha esposizioni importanti verso il sistema bancario (mutui, leasing, fidi di cassa, anticipazioni). Rinegoziare il debito bancario è quasi sempre un tassello fondamentale del piano di salvataggio. Ci sono diversi strumenti e approcci per farlo:

  • Moratorie e standstill: In situazioni di tensione finanziaria, la prima cosa è chiedere alle banche una moratoria, ossia una sospensione temporanea dei pagamenti delle quote capitale dei mutui o un mantenimento delle linee fidi a revoca. L’ABI (Associazione Bancaria Italiana) ha negli anni promosso accordi-quadro per moratorie alle PMI in crisi (ad esempio l’Accordo ABI 2019 per il credito alle PMI prevedeva la possibilità di sospendere fino a un anno le rate dei finanziamenti). Durante la pandemia Covid, addirittura, una legge (art.56 DL 18/2020) ha imposto una moratoria generalizzata per le PMI. Oggi, al di fuori di misure emergenziali, molto dipende dalla contrattazione caso per caso: un’azienda può ottenere dalle sue banche, se presenta un piano credibile, un accordo di standstill per qualche mese durante il quale le banche si impegnano a non revocare affidamenti e a non incassare rate, in attesa di una ristrutturazione formale (accordo ex art.182-bis o concordato). Tali accordi di moratoria spesso vengono formalizzati come “patti di forbearance” e allegati poi al piano di concordato o accordo di ristrutturazione.
  • Ristrutturazione dei finanziamenti: Nell’ambito di un piano attestato o accordo, le banche possono accettare di modificare le condizioni dei prestiti: ad esempio allungare le scadenze (allungamento dei mutui), ridurre il tasso di interesse, consolidare l’esposizione di conto corrente in un mutuo a lungo termine, rinunciare a eventuali covenant violati per evitare di dover chiedere rientri. Un tipico intervento è convertire esposizioni a breve (fidi, sconfini) in prestiti a medio termine, dando respiro alla tesoreria dell’impresa. Le linee autoliquidanti (anticipo fatture) possono essere confermate per non togliere circolante. Tecnicamente, queste modifiche possono essere fatte nell’ambito di un accordo ex art.57 CCII – le banche aderendo all’accordo accettano nuovi piani di ammortamento – o anche prima, mediante accordi bilaterali condizionati (es: “efficace se omologato il concordato”). La Cassazione ha anche confermato la validità di clausole di compensazione nei contratti bancari in concordato, il che dà certezza alle banche su alcuni meccanismi contrattuali (ad esempio l’utilizzo di saldi attivi su conto per compensare passivi su altro conto).
  • Nuova finanza assistita da garanzie: Spesso per risollevare l’azienda serve liquidità aggiuntiva (per pagare fornitori strategici, per investimenti di rilancio, ecc.). Le banche potrebbero essere disponibili a erogare finanziamenti ponte o nuove linee, ma ciò avviene solo se vedono prospettive di successo e se tali finanziamenti hanno tutela speciale. La legge li tutela dichiarandoli prededucibili (avranno priorità di rimborso) se autorizzati dal tribunale nei concordati o se concessi in esecuzione di accordi omologati. Inoltre esistono garanzie pubbliche: ad esempio, il Fondo Centrale di Garanzia PMI può garantire fino all’80% nuovi finanziamenti ristrutturazione (il Decreto Liquidità 2020 l’aveva previsto per prestiti a imprese in concordato con continuità approvato). Anche SACE, nel quadro Garanzia Italia, può supportare finanziamenti a medio termine in piani di risanamento. Un imprenditore in crisi dovrebbe esplorare queste opzioni con le proprie banche, eventualmente coinvolgendo merchant bank o investitori specializzati se le banche tradizionali non vogliono aumentare il rischio.
  • Conversione del debito in capitale o strumenti partecipativi: Nei casi più complessi di turnaround finanziario, si può negoziare che i creditori finanziari accettino di convertire parte dei loro crediti in capitale sociale dell’azienda (debt-equity swap) o in strumenti finanziari partecipativi (obbligazioni convertende, warrant). Questo riduce l’indebitamento e mostra impegno dei creditori nel rilancio. Operazioni del genere richiedono, però, fiducia nel recupero e spesso l’ingresso di nuovi soci. A volte subentrano fondi di ristrutturazione che rilevano crediti bancari a sconto e li convertono in equity, diventando proprietari dell’azienda risanata.
  • Interventi di consorzi fidi o sezioni speciali: Alcune associazioni di categoria e cooperative di garanzia fidi possono assistere l’impresa prestando garanzie alle banche in fase di ristrutturazione. Ad esempio, un confidi regionale potrebbe garantire in parte il nuovo credito di esercizio nel concordato in continuità, riducendo il rischio per la banca erogante.

In sostanza rinegoziare con le banche richiede un approccio professionale: è fondamentale predisporre un robusto piano finanziario e dimostrare che la ristrutturazione conviene anche alla banca (spesso facendo intravedere che, alternativa, la banca otterrebbe meno in fallimento). I tavoli con le banche andrebbero avviati il prima possibile, magari già in fase di composizione negoziata: in molti casi, la CNC porta alla firma di accordi di moratoria (art.62 CCII) con gli istituti di credito, che congelano i pagamenti in attesa della soluzione. Le banche hanno interesse a evitare di svalutare completamente i crediti in un fallimento: negli ultimi anni, grazie anche alla pressione della normativa europea, tendono a preferire soluzioni concordate (o al limite cessioni del credito a investitori) piuttosto che lunghe procedure concorsuali dal recupero incerto.

Non bisogna dimenticare che esistono anche canali alternativi: ad esempio il mercato dei minibond (emissione di obbligazioni sottoscritte da investitori) o l’intervento di fondi di investimento specializzati in distressed debt. Per imprese di una certa dimensione, emettere strumenti di debito nel contesto di un piano di rilancio (magari garantiti da pegno su asset) può fornire liquidità aggiuntiva, con investitori disposti a scommettere sul turnaround in cambio di rendimento alto. Tali operazioni vanno valutate caso per caso e con advisory specializzati.

Turnaround operativo e strategie di risanamento aziendale

Oltre agli aspetti giuridico-finanziari, la salvezza di un’azienda indebitata passa attraverso un vero turnaround operativo. Un piano di ristrutturazione efficace non si limita a sistemare i debiti sulla carta, ma deve affrontare le cause economiche della crisi e rilanciare la redditività. Alcune strategie operative chiave includono:

  • Ristrutturazione dei costi: l’azienda deve ridurre il più possibile i costi fissi e variabili per ritrovare margini di profitto. Ciò può implicare tagli al personale (compatibilmente con le norme lavoristiche e utilizzando ammortizzatori sociali come la Cassa Integrazione Guadagni), riduzione di benefit e spese generali, razionalizzazione dei fornitori cercando prezzi migliori, chiusura di filiali o punti vendita poco profittevoli, esternalizzazione di attività secondarie per risparmiare. Ogni euro risparmiato è un euro in più per pagare i debiti e tornare in utile. Chiaramente, i tagli devono essere ponderati per non compromettere la capacità operativa di generare ricavi.
  • Riorganizzazione del modello di business: spesso la crisi deriva da calo di fatturato o cambiamenti di mercato. L’azienda deve reagire innovando. Ad esempio, diversificando i prodotti/servizi offerti, puntando su linee più redditizie e abbandonando quelle in perdita, esplorando nuovi mercati geografici, riconvertendo impianti a produzioni più richieste. Se un ristorante è indebitato perché ha pochi clienti, potrebbe riconvertirsi introducendo consegne a domicilio o catering aziendale per aumentare i ricavi. Se un’azienda manifatturiera subisce concorrenza estera, potrebbe spostarsi su prodotti di nicchia ad alto valore aggiunto. Questa fase richiede spesso l’apporto di manager specializzati in ristrutturazioni (chief restructuring officer) che affianchino l’imprenditore portando competenze esterne.
  • Disinvestimenti e valorizzazione degli asset: un’azienda in crisi deve fare cassa e concentrare le risorse sul core business. Ciò implica vendere beni non essenziali: immobili non strategici, macchinari inutilizzati, partecipazioni in altre società, marchi secondari. Le somme ricavate possono abbattere il debito (spesso i piani concordatari prevedono la vendita di immobili aziendali per pagare i creditori). Anche operazioni come il sale & lease back (vendere un immobile e restare dentro come affittuario) generano liquidità immediata e spostano il debito su canone affitto. L’importante è valutare attentamente il valore di mercato degli asset per non svenderli: per questo si ricorre a perizie indipendenti e magari a procedure competitive di vendita (che nel concordato sono spesso obbligatorie).
  • Ricapitalizzazione e ingresso di nuovi soci: spesso l’azienda in crisi ha patrimonio netto azzerato o negativo. Per riacquistare solidità serve nuovo capitale di rischio. Gli attuali soci, se ne hanno la possibilità, dovrebbero essere disposti a iniettare fondi freschi (spesso richiesto anche dai creditori come segno di impegno – ad esempio, in molti concordati i soci apportano liquidità a fondo perduto per migliorare le percentuali di soddisfo ai chirografari). Se i soci esistenti non sono in grado, si può cercare un investitore esterno. Ci sono fondi di private equity o investitori industriali interessati a rilevare aziende in crisi ma con potenzialità, acquistandole a prezzo ridotto per poi rilanciarle. Una trattativa con un investitore può portare ad un aumento di capitale riservato, o alla cessione dell’intera azienda (magari via concordato con assuntore). L’apertura a nuovi soci comporta per l’imprenditore la perdita (totale o parziale) del controllo, ma può essere il prezzo da pagare per salvare l’impresa e i posti di lavoro. In molti casi storici di turnaround (si pensi al salvataggio di Alitalia-Etihad nel 2014, o più in piccolo a tante PMI rilevate da fondi), il capitale esterno è stato determinante.
  • Migliorare la gestione del circolante: tecnicamente, molte crisi derivano da problemi di liquidità più che di solvibilità. Un’azione rapida è ottimizzare il capitale circolante netto: ad esempio incassare più velocemente i crediti commerciali (stringendo i termini di pagamento ai clienti, magari offrendo sconti per pronto pagamento), ridurre le scorte di magazzino vendendo ciò che è fermo (anche sotto costo se serve, per generare cassa), negoziare dilazioni più lunghe con i fornitori (aumentando i giorni di payables). Queste mosse migliorano la cassa e possono evitare di ricorrere a ulteriore debito bancario nell’immediato. Ovviamente c’è un limite, perché fornitori e clienti vanno gestiti con equilibrio per non perdere forniture o commesse.
  • Concordati di gruppo e riorganizzazione societaria: se l’azienda fa parte di un gruppo, il risanamento può implicare operazioni straordinarie come fusione con altre società consociate (per semplificare la struttura e usare attivi sani per coprire passivi), scissioni (per separare asset buoni da quelli tossici, benché questa strada sia sorvegliata per possibili profili di abuso), o concordati di gruppo coordinati (il CCII all’art. 284 prevede la possibilità di procedure unitarie per gruppi). Un esempio è il concordato di gruppo Gruppo Mercatone Uno qualche anno fa: diverse società coinvolte con un piano comune. Riorganizzare le entità societarie può aiutare ad attrarre investitori (ad esempio, isolando la parte “buona” dell’azienda in una newco da cedere pulita dai debiti, mentre i debiti restano in una bad company in concordato liquidatorio).

In tutti questi interventi, un elemento cruciale è coinvolgere i dipendenti nel processo di risanamento. La forza lavoro deve comprendere la necessità di misure anche dolorose (come la Cassa Integrazione Straordinaria durante la ristrutturazione, o la riduzione di alcuni benefit) e collaborare per rilanciare la produttività. Spesso accordi sindacali innovativi – ad esempio riduzione temporanea dell’orario di lavoro, demansionamenti consensuali, mobilità volontaria – fanno parte del piano di salvataggio di aziende in crisi e vengono presentati al Tribunale come evidenza della sostenibilità della continuità (es.: concordati in continuità con accordi sindacali di ristrutturazione del costo del lavoro).

In sintesi, risanare un’azienda indebitata richiede sia “testa” sia “braccia”: bisogna ridisegnare la finanza dell’impresa ma anche rifondare, dove necessario, il modello operativo. Un piano di turnaround ben fatto integra le due cose: presenta ai creditori non solo una tabella di pagamento debiti, ma un credibile business plan di rilancio triennale o quinquennale, con proiezioni di conto economico e flussi di cassa che mostrino come l’azienda post-ristrutturazione sarà in grado di onorare gli impegni e stare sul mercato profittevolmente. Su questo l’attestatore deve esprimersi, e il tribunale valuterà la ragionevolezza delle assunzioni (prezzi, volumi, margini) per accertare la fattibilità economica.

Il ruolo di advisor, OCC, tribunali e professionisti nella crisi d’impresa

Salvare un’azienda dai debiti è un lavoro di squadra che coinvolge vari attori specializzati:

  • Advisors finanziari e legali: sin dalle prime avvisaglie di crisi, l’imprenditore dovrebbe affidarsi a professionisti esperti di ristrutturazione. L’advisor finanziario (spesso un dottore commercialista o un consulente di management specializzato) aiuta a diagnosticare la situazione, predisporre piani di risanamento, interfacciarsi con banche e fare da “regista” delle trattative con i creditori. L’advisor legale, da parte sua, consiglia sullo strumento giuridico più opportuno (accordo, concordato, ecc.), cura gli aspetti procedurali, redige ricorsi, accordi transattivi e assiste l’azienda nelle udienze in tribunale. Queste figure sono cruciali perché l’imprenditore da solo spesso non ha né la competenza tecnica né l’oggettività per gestire al meglio una crisi complessa. Inoltre, presentarsi ai creditori con advisor qualificati aumenta la credibilità del piano (ad esempio, le banche danno più fiducia a un piano finanziario asseverato da un professionista reputato).
  • Organismo di Composizione della Crisi (OCC) ed esperti nominati: L’OCC è un organismo istituito presso enti pubblici (Camere di Commercio, Ordini professionali) con il compito di gestire le procedure di sovraindebitamento e supportare la composizione negoziata. Ad esempio, nelle procedure di concordato minore/piano del consumatore, l’OCC nomina un gestore della crisi che assiste il debitore nella predisposizione del piano, verifica le documentazioni e funge da commissario nella procedura. Questo gestore (che può essere un avvocato, un commercialista o un notaio appositamente formato) è figura analoga al curatore fallimentare ma operante in una procedura negoziale: redige una relazione iniziale sulla situazione del debitore e lo aiuta a raccogliere consensi e a trattare coi creditori. Nel caso della composizione negoziata, come visto, viene nominato un esperto indipendente da un’apposita commissione: costui non è chiamato a “risolvere la crisi” al posto dell’imprenditore, ma a facilitare le trattative e a garantire terzietà nel valutare le soluzioni. L’esperto redige verbali periodici sull’andamento e alla fine la relazione conclusiva che spiana (in caso negativo) la strada al concordato semplificato oppure (in caso positivo) accompagna il piano concordato/accordo raggiunto. L’OCC in genere fornisce il supporto amministrativo a questi esperti e garantisce la trasparenza del procedimento (es. l’OCC di Camera di Commercio gestisce la piattaforma telematica CNC e istruisce l’istanza dell’imprenditore).
  • Tribunale e Sezione imprese: L’autorità giudiziaria entra in gioco in tutte le procedure concorsuali e, in maniera minore, in quelle pre-concorsuali. Presso ogni Tribunale sede di Corte d’Appello vi è una Sezione specializzata in materia di impresa (che tratta i fallimenti, concordati, ecc.). I giudici delegati alla crisi d’impresa hanno il compito*(continua dal precedente)*
  • Tribunale (Sezione Fallimentare/Crisi d’impresa): l’autorità giudiziaria è l’arbitro ultimo delle procedure concorsuali. Nei concordati e accordi, il Tribunale verifica i requisiti, concede o revoca le misure protettive, nomina gli organi (commissario, liquidatore), presiede all’adunanza dei creditori (nel concordato) e soprattutto omologa il piano, cioè lo rende efficace giuridicamente. I giudici valutano aspetti di legalità e merito limitato (convenienza per i creditori dissenzienti, fattibilità in negativo del piano, meritevolezza nel sovraindebitamento). Un ruolo essenziale è svolto dal Giudice Delegato e dal Collegio: il GD segue operativamente la procedura (dà autorizzazioni per atti, esamina i rapporti del commissario), il Collegio decide sulle omologhe e sulle opposizioni. La Procura della Repubblica interviene a tutela della legalità (ha facoltà di essere sentita e può proporre istanza di liquidazione giudiziale se ravvisa situazioni gravi). In sintesi, il Tribunale garantisce l’equilibrio tra i diritti del debitore e dei creditori, intervenendo se nota abusi (es. concordati in frode) e al contempo favorendo soluzioni concordate se conformi alla legge.
  • Commissario Giudiziale e Curatore: il Commissario è nominato nel concordato preventivo (e nel concordato minore) per vigilare sull’operato del debitore durante la procedura e riferire ai creditori e al giudice. Redige una relazione particolareggiata sulla causa della crisi e sulla proposta del debitore (ex art. 104 CCII), esprimendo un parere sulla fattibilità e convenienza per i creditori, che sarà utile ai creditori per decidere come votare. Il Commissario sorveglia che il debitore non compia atti lesivi e segnala al giudice eventuali irregolarità. Nel concordato semplificato è previsto un commissario anche senza voto dei creditori, proprio per assicurare controllo. Il Curatore invece entra in scena se si arriva alla liquidazione giudiziale (fallimento) o nella liquidazione controllata: è l’organo che amministra e liquida il patrimonio al posto dell’imprenditore, con doveri di trasparenza, imparzialità e massimizzazione dell’attivo nell’interesse dei creditori.
  • Attestatore: figura chiave e peculiare del sistema italiano, l’attestatore è un professionista indipendente, iscritto in appositi albi, che deve redigere una relazione di attestazione sulla veridicità dei dati aziendali e sulla fattibilità del piano di concordato o di accordo (artt. 87 e 58 CCII). Senza la relazione di un attestatore qualificato, nessun concordato può essere ammesso né alcun accordo omologato. L’attestatore svolge una funzione di garante tecnico: pur pagato dal debitore, ha una responsabilità verso il Tribunale e i creditori, poiché dalla sua penna dipende in gran parte la valutazione di fattibilità. Deve essere autonomo e senza conflitti di interesse. La giurisprudenza ha sottolineato che l’attestazione non deve essere meramente formale ma frutto di analisi approfondita: se risulta che l’attestatore ha avallato un piano irrealistico, può incorrere in responsabilità professionale e il piano può essere bocciato o gli atti revocati. Pertanto l’attestatore è, a tutti gli effetti, un “gatekeeper” della procedura.
  • Consiglio dei Creditori: nei concordati maggiori, dopo l’ammissione e prima del voto, il GD può nominare un comitato di 3-5 creditori significativi, con funzioni consultive (simile al comitato dei creditori nel fallimento). Questo Consiglio dei Creditori può esprimere pareri su atti di straordinaria amministrazione del debitore o sulle offerte di assuntori, e più in generale rappresenta la voce dei creditori organizzati durante la procedura.

In conclusione, attorno all’impresa in crisi gravita un ecosistema di professionisti e organi: l’imprenditore non è solo nel percorso di risanamento, ma deve saper coordinare e trarre vantaggio dalle competenze altrui. Un advisor esperto può fare la differenza tra un salvataggio riuscito e uno fallito; un buon rapporto con l’esperto nominato in CNC aumenta le chance di accordo; la collaborazione trasparente col commissario e il tribunale evita intoppi nell’omologa; il dialogo costruttivo coi dipendenti e i loro rappresentanti riduce l’ostilità sociale al piano di lacrime e sangue necessario.

Fonti Giuridiche

  • Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza – D.Lgs. 12 gennaio 2019, n.14, e successive modifiche (D.Lgs. 83/2022, D.Lgs. 136/2024). (Normativa di riferimento per composizione negoziata, concordati, sovraindebitamento, ecc.)
  • Tribunale di Firenze, decreto 31/08/2022 – Primo diniego di concordato semplificato post-CNC per mancanza di buona fede nelle trattative.
  • Cass. civ. Sez. I, 15 giugno 2023, n. 17092 – Concordato in continuità aziendale diretta ammissibile solo con azienda in esercizio al momento della domanda.
  • Cass. civ. Sez. I, 5 luglio 2016, n. 13719 – Piano attestato di risanamento: ai fini dell’esenzione da revocatoria fallimentare il giudice deve verificare ex ante la manifesta idoneità del piano al risanamento.
  • Cass. civ. Sez. I, 19 dicembre 2016, n. 26226 – Conferma dei principi su piani attestati e onere di verifica dell’attestazione (in linea con Cass. 13719/2016).
  • Cass. civ. Sez. I, 9 ottobre 2023, n. 28232 – Concordato preventivo: legittimità del patto di compensazione tra crediti e debiti bancari (linee autoliquidanti) durante la procedura.
  • Cass. civ. Sez. I, 30 maggio 2023, n. 15230Piano del consumatore: natura non assimilabile al concordato preventivo, manca il voto dei creditori compensato dal controllo di meritevolezza del giudice.
  • Osservatorio Unioncamere sulla Crisi d’Impresa 2021-2024 – Statistiche: 1.089 istanze di composizione negoziata nel 2024 (vs 600 nel 2023); 326 accordi di ristrutturazione omologati nel 2024; concordati preventivi dimezzati (762 nel 2024 vs 1.067 nel 2021); 22.806 imprese (3,5%) con assetti adeguati anti-crisi nel 2023.
  • D.L. 24 agosto 2021, n.118 conv. in L.147/2021 – Introduzione anticipata della composizione negoziata e del concordato semplificato (artt. 2-17 D.L. 118/2021 confluiti nel CCII).

Salvare un’Azienda dai Debiti: Perché Affidarsi a Studio Monardo

La tua azienda è sommersa dai debiti? Hai paura di perdere tutto, tra pignoramenti, cartelle esattoriali e pressioni da parte delle banche? La buona notizia è che oggi esistono strumenti legali per salvare l’attività, bloccare le azioni esecutive e ricostruire un futuro sostenibile.

La chiave è intervenire prima che la crisi diventi irreversibile, affidandosi a un professionista abilitato che sappia negoziare coi creditori, proteggere l’impresa e costruire un piano omologabile.

L’Avvocato Giuseppe Monardo è uno dei riferimenti nazionali per la gestione delle crisi aziendali, con competenze certificate e una rete di esperti al tuo servizio.

Cosa fa per te l’Avvocato Monardo

  • Analizza in modo tecnico-legale la situazione economico-finanziaria dell’impresa
  • Seleziona la strategia più adatta in base ai debiti, ai beni e al tipo di attività
  • Coordina commercialisti, advisor e attestatori
  • Rappresenta l’impresa nelle trattative con banche, fornitori e creditori pubblici
  • Attiva la procedura in tribunale o in Camera di Commercio, se necessaria
  • Ti accompagna fino all’approvazione e all’esecuzione del piano, con monitoraggio costante

Le qualifiche dell’Avvocato Giuseppe Monardo

L’Avvocato Monardo è:

  • Gestore della Crisi da Sovraindebitamento, iscritto al Ministero della Giustizia
  • Esperto Negoziatore della Crisi d’Impresa, abilitato ex D.L. 118/2021
  • Fiduciario di un Organismo di Composizione della Crisi (OCC)
  • Coordinatore di una rete nazionale di avvocati e commercialisti esperti in diritto bancario, tributario e concorsuale

Con queste credenziali, segue personalmente ogni fase della strategia di salvataggio aziendale.

Perché agire subito

  • Perché ogni giorno che passa aumenta il rischio di azioni esecutive e insolvenza irreversibile
  • Perché le soluzioni previste dalla legge funzionano solo se attivate in tempo utile
  • Perché più aspetti, meno margini ci sono per trattare con i creditori
  • Perché il tribunale e i fornitori valutano la buona fede e la tempestività dell’imprenditore

Conclusione

Salvare un’azienda dai debiti non è solo possibile: è un diritto, se assistiti da un legale esperto.
Affidarsi all’Avvocato Giuseppe Monardo significa costruire un piano concreto, personalizzato, legalmente protetto e sostenibile, con il supporto di una rete di professionisti specializzati.

Se vuoi richiedere una consulenza, qui di seguito troverai tutti i contatti di Studio Monardo, gli avvocati specializzati in Crisi d’Impresa:

Leggi con attenzione: Se stai affrontando difficoltà con il Fisco e hai bisogno di una rapida valutazione delle tue cartelle esattoriali e dei debiti, non esitare a contattarci. Siamo pronti ad aiutarti immediatamente! Scrivici su WhatsApp al numero 351.3169721 oppure inviaci un’e-mail all’indirizzo info@fattirimborsare.com. Ti ricontatteremo entro un’ora per offrirti supporto immediato.

Informazioni importanti: Studio Monardo e avvocaticartellesattoriali.com operano su tutto il territorio italiano attraverso due modalità.

  1. Consulenza digitale: si svolge esclusivamente tramite contatti telefonici e successiva comunicazione digitale via e-mail o posta elettronica certificata. La prima valutazione, interamente digitale (telefonica), è gratuita, ha una durata di circa 15 minuti e viene effettuata entro un massimo di 72 ore. Consulenze di durata superiore sono a pagamento, calcolate in base alla tariffa oraria di categoria.
  2. Consulenza fisica: è sempre a pagamento, incluso il primo consulto, il cui costo parte da 500€ + IVA, da saldare anticipatamente. Questo tipo di consulenza si svolge tramite appuntamento presso sedi fisiche specifiche in Italia dedicate alla consulenza iniziale o successiva (quali azienda del cliente, ufficio del cliente, domicilio del cliente, studi locali in partnership, uffici temporanei). Anche in questo caso, sono previste comunicazioni successive tramite e-mail o posta elettronica certificata.

La consulenza fisica, a differenza di quella digitale, viene organizzata a partire da due settimane dal primo contatto.

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