Come Funziona L’Accordo Di Ristrutturazione Del Debito?

Come funziona un accordo di ristrutturazione dei debiti?

Te lo spieghiamo noi di Studio Monardo, gli avvocati specializzati in crisi d’impresa e accordi di ristrutturazione del debito.

In fondo alla guida troverai poi tutti i riferimenti del nostro Studio Legale per richiedere una consulenza specializzata.

Buona lettura.

Introduzione

Gli accordi di ristrutturazione del debito sono strumenti giuridici introdotti dal legislatore italiano per consentire alle imprese in difficoltà finanziaria di rinegoziare il proprio debito con i creditori ed evitare procedure concorsuali più gravose (come il fallimento, oggi liquidazione giudiziale). Previsti originariamente dall’art. 182-bis della Legge Fallimentare, oggi gli accordi di ristrutturazione sono disciplinati dagli articoli 57 e seguenti del Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (D.lgs. 14/2019), come modificato dai provvedimenti correttivi più recenti. Si tratta di uno strumento che combina la negoziazione privata con alcuni interventi dell’autorità giudiziaria (omologazione in tribunale), permettendo così di dare certezza e stabilità agli accordi raggiunti con una parte dei creditori. L’obiettivo è facilitare il risanamento aziendale e assicurare la continuità dell’impresa, evitando al contempo pregiudizi ai creditori non aderenti.

Questa guida di Studio Monardo – rivolta principalmente agli imprenditori ma con solido taglio giuridico – illustra in dettaglio come funziona l’accordo di ristrutturazione del debito nell’ordinamento italiano, aggiornandone la disciplina alle ultime novità di aprile 2025. Verranno analizzati la definizione e le finalità dell’istituto, le diverse tipologie di accordi (ordinari, agevolati, ad efficacia estesa), i requisiti soggettivi e oggettivi per accedervi, il contenuto tipico dell’accordo e il ruolo dei creditori, il procedimento di attestazione ed omologazione dinanzi al tribunale, i rapporti con altri strumenti di regolazione della crisi (piani attestati di risanamento e concordato preventivo), gli effetti prodotti dall’accordo (sui creditori aderenti e non, sulla continuità aziendale, sui contratti pendenti, sulle garanzie), il regime fiscale e contabile applicabile, gli aspetti pubblicitari e gli effetti verso i terzi. Si farà inoltre riferimento a giurisprudenza aggiornata (sentenze recenti di Cassazione, Tribunali specializzati e Corte Costituzionale) nonché alla prassi operativa maturata (orientamenti notarili e bancari). In conclusione, saranno evidenziate le principali criticità applicative riscontrate e forniti alcuni suggerimenti operativi per imprenditori e professionisti che si trovino a gestire una ristrutturazione del debito tramite questo strumento.

1. Definizione e Finalità dell’Accordo di Ristrutturazione del Debito

Cos’è un accordo di ristrutturazione del debito? In breve, è un accordo negoziale tra un imprenditore in stato di crisi o insolvenza e una parte qualificata dei suoi creditori, avente ad oggetto la ristrutturazione dei debiti dell’impresa. L’accordo, una volta raggiunto con una maggioranza qualificata di creditori, viene sottoposto al tribunale per l’omologazione, ovvero l’approvazione formale. Con l’omologazione, l’accordo acquista efficacia giuridica e vincola tutti i creditori che vi hanno aderito (e, in alcuni casi particolari, anche taluni creditori non aderenti), producendo determinati effetti protettivi e sostitutivi rispetto alle obbligazioni originarie.

La finalità primaria di questo istituto è duplice:

  • Evitare la crisi irreversibile e la liquidazione giudiziale: l’accordo consente di prevenire il fallimento (oggi chiamato liquidazione giudiziale) mediante una soluzione concordata del dissesto finanziario dell’impresa. Il legislatore, già con il “Decreto competitività” del 2005 che ha introdotto gli accordi ex art. 182-bis L.F., ha manifestato un favor per la soluzione negoziale della crisi d’impresa, privilegiando ove possibile strumenti che assicurino la continuità aziendale e il risanamento rispetto alla liquidazione forzosa. In tal senso, l’accordo di ristrutturazione è stato il primo riconoscimento normativo di un vero e proprio “concordato stragiudiziale”, valorizzando l’autonomia privata nella gestione della crisi e nella ricerca di un’intesa coi creditori.
  • Risanare l’impresa e riequilibrarne la situazione finanziaria: attraverso la rinegoziazione dei debiti (che può comportare dilazioni, riduzioni parziali, ristrutturazioni dei tassi d’interesse, conversione di crediti in capitale ecc.), l’accordo mira a ridurre l’esposizione debitoria a un livello sostenibile e a riequilibrare il bilancio aziendale. Spesso l’accordo è accompagnato da un piano industriale ed un piano finanziario che illustrano le operazioni di rilancio dell’attività (es. dismissione di asset non strategici, riduzione dei costi, nuova finanza da soci o investitori, ecc.) necessari per il risanamento dell’impresa. In questo senso, la finalità ultima è assicurare la continuità aziendale, cioè permettere all’impresa di proseguire la propria attività economica una volta superata la fase di crisi.

Va sottolineato che l’accordo di ristrutturazione si colloca, concettualmente, a metà strada tra un piano di risanamento meramente privatistico (come il piano attestato ex art. 56 CCII, già art. 67 L.F., che non richiede omologazione giudiziale) ed una procedura concorsuale giudiziale (come il concordato preventivo). Esso mantiene la natura negoziale di un contratto (richiede infatti il consenso dei creditori interessati), ma acquisisce efficacia concorsuale con l’intervento omologatorio del tribunale. Proprio su questo aspetto vi è stato dibattito in passato: oggi la giurisprudenza prevalente qualifica gli accordi di ristrutturazione come procedure concorsuali in senso ampio, seppur atipiche, caratterizzate da un maggiore grado di autonomia privata. In altre parole, l’accordo di ristrutturazione è parte degli strumenti di regolazione della crisi d’impresa previsti dall’ordinamento, con effetti giuridici simili a quelli di una procedura concorsuale (protezione dai creditori, esenzione da alcune norme societarie, ecc.), pur lasciando maggior libertà alle parti rispetto a un concordato preventivo tradizionale.

Riferimenti normativi fondamentali: la disciplina positiva si trova negli artt. 57-64 del Codice della Crisi (CCII) per quanto riguarda gli accordi in generale e nelle norme successive per alcuni aspetti particolari (es. art. 63 per il trattamento dei crediti fiscali e contributivi). Il CCII è entrato in vigore definitivamente nel luglio 2022, recependo anche la Direttiva UE 2019/1023 sui quadri di ristrutturazione preventiva. Successivamente, il legislatore è intervenuto con correttivi (D.Lgs. 83/2022, D.Lgs. 169/2020, e da ultimo il D.Lgs. 13 ottobre 2022 n. 149 e il D.Lgs. 13 settembre 2024 n. 136, noto come “Correttivo-ter”) che hanno in parte modificato la disciplina. Inoltre, disposizioni transitorie introdotte nel 2023 (DL 69/2023 conv. in L. 103/2023) hanno inciso su specifici aspetti come la transazione fiscale. Questa guida darà conto di tali aggiornamenti nel corso dell’esposizione.

In sintesi, l’accordo di ristrutturazione del debito è uno strumento volontario, flessibile e mirato al salvataggio dell’impresa. Esso presuppone la fiducia e la collaborazione tra debitore e una parte significativa dei creditori, sotto l’ombrello di controllo dell’autorità giudiziaria che garantisce la tutela dell’interesse generale dei creditori (in particolare di quelli che non aderiscono all’accordo).

2. Tipologie di Accordi di Ristrutturazione: ordinari, agevolati, ad efficacia estesa

Il Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza prevede tre principali tipologie di accordo di ristrutturazione dei debiti, distinguibili in base al quorum richiesto di adesione dei creditori e ad alcune condizioni procedurali particolari. Si tratta di varianti del modello base (accordo “ordinario” ex art. 57 CCII), introdotte per rendere l’istituto più flessibile e adatto a diverse situazioni. Di seguito una panoramica delle tre tipologie:

  • Accordo di ristrutturazione ordinario – disciplinato dall’art. 57 CCII. È la forma “standard” dell’istituto, analoga a quella già prevista dalla vecchia legge fallimentare. Richiede che l’imprenditore abbia raggiunto un accordo con creditori rappresentanti almeno il 60% dei crediti totali dell’impresa. Questo significa che, sommando i crediti di tutti i creditori che aderiscono all’accordo, si deve arrivare ad almeno il 60% dell’ammontare complessivo dell’indebitamento. Il 60% costituisce una maggioranza qualificata che legittima l’imposizione dell’accordo (una volta omologato) anche nei confronti di eventuali creditori dissenzienti rimasti fuori dall’accordo. Nell’accordo ordinario è normalmente possibile richiedere al tribunale l’applicazione di misure protettive (il cosiddetto automatic stay, ossia il blocco temporaneo delle azioni esecutive e cautelari dei creditori), come vedremo oltre. L’accordo ordinario prevede inoltre il pagamento integrale dei creditori non aderenti entro certi termini stringenti (120 giorni dall’omologa o dalla scadenza, v. infra). Questo è il modello più utilizzato in assoluto, adatto ai casi in cui l’impresa riesce a ottenere l’adesione della stragrande maggioranza dei creditori in valore.
  • Accordo di ristrutturazione agevolato – disciplinato dall’art. 60 CCII. Si tratta di una variante introdotta (prima nell’art. 182-novies L.F., ora recepita nell’art. 60 CCII) per agevolare l’accesso all’istituto da parte delle imprese che potrebbero non riuscire a ottenere il 60% di consensi. Negli accordi agevolati, la soglia minima di adesione è ridotta al 30% dei crediti. In altre parole, è sufficiente accordarsi con creditori che detengono almeno il 30% dell’esposizione debitoria complessiva (dunque la metà del quorum richiesto normalmente). Questa riduzione è però subordinata a due condizioni importanti: (1) che non vengano richieste misure protettive o cautelari contestualmente (l’accordo agevolato si svolge quindi senza il beneficio del blocco automatico delle azioni esecutive; il debitore accetta il rischio di eventuali iniziative creditorie mentre formalizza l’accordo); (2) che sia previsto il pagamento integrale e immediato dei creditori estranei agli accordi. In pratica, nell’accordo agevolato i creditori che non aderiscono devono essere soddisfatti per intero prima o contestualmente all’omologazione, utilizzando risorse dell’impresa o di terzi, in modo che restino fuori dalla ristrutturazione (non subiscono dilazioni o decurtazioni). È un meccanismo pensato per imprese con pochi creditori esterni o con liquidità sufficiente a saldare i non aderenti, ma che hanno bisogno di ristrutturare il debito con un nucleo ristretto di creditori principali. L’assenza di misure protettive rende più spedito il procedimento (non essendoci udienza per confermare il “freeze”), ma comporta che fino all’omologazione i creditori estranei conservano pienamente i loro diritti di azione (in pratica però essi verranno pagati appena l’accordo è omologato, grazie alle risorse accantonate allo scopo). La ratio di questa forma è incentivare l’impresa a pagare chi non partecipa e premiare chi vi aderisce (che accetta magari un sacrificio sapendo di essere comunque in maggioranza per l’omologazione). L’accordo agevolato è quindi utile se almeno un 30% di creditori – magari istituti bancari o fornitori strategici – è disposto a concordare una ristrutturazione, mentre i restanti verranno liquidati integralmente. Dal punto di vista pratico, un accordo agevolato può risultare meno costoso e più rapido, ma è applicabile solo in presenza di adeguate risorse per pagare i non aderenti e quando non vi sia necessità impellente di un automatic stay.
  • Accordo di ristrutturazione ad efficacia estesa – disciplinato dall’art. 61 CCII. È una forma innovativa, introdotta in attuazione anche dei principi della direttiva UE sui quadri di ristrutturazione preventiva, che consente di estendere gli effetti dell’accordo anche ad alcuni creditori non aderenti, a patto che siano soddisfatte determinate condizioni. In un accordo ad efficacia estesa, i creditori vengono suddivisi in categorie omogenee per posizione giuridica e interesse economico (es.: categoria banche, categoria fornitori strategici, categoria fornitori chirografari generici, ecc.). All’interno di ciascuna categoria, l’accordo deve essere approvato da una maggioranza qualificata di crediti (almeno il 75% dei crediti della categoria). Se questa soglia è raggiunta, l’accordo può essere imposto anche al restante 25% dei creditori di quella categoria che non ha aderito. In sostanza, l’omologazione “estende” la ristrutturazione anche ai creditori dissenzienti appartenenti alla medesima categoria omogenea, obbligandoli ad accettare il trattamento loro riservato dal piano. Questa tipologia rappresenta una sorta di cram down settoriale, pensato soprattutto per superare l’opposizione di minoranze di creditori finanziari o trade che potrebbero altrimenti bloccare l’accordo. Condizioni fondamentali per utilizzare l’efficacia estesa sono: (1) la corretta formazione delle categorie di creditori (devono essere omogenee per posizione giuridica e interessi, non create ad hoc in modo artificioso); (2) il rispetto, per i creditori non aderenti da comprimere, di un trattamento non inferiore a quello che avrebbero in una liquidazione giudiziale (best interest test); (3) in generale, l’accordo ad efficacia estesa deve privilegiare la continuità aziendale (inizialmente era pensato per piani in continuità, sebbene una modifica recente consenta di estenderlo anche in caso di piano non in continuità purché oltre la metà dei debiti sia verso banche o finanziatori). Inoltre, l’art. 61 CCII prevede che se l’accordo è stato preceduto da un tentativo di composizione negoziata della crisi, le maggioranze richieste nelle categorie possono essere più basse (nel qual caso è sufficiente il 60% in ciascuna categoria), un ulteriore incentivo a utilizzare la composizione assistita. L’accordo ad efficacia estesa consente quindi di coinvolgere forzatamente anche quei creditori che non volessero aderire, evitando che piccole sacche di dissenso possano vanificare uno sforzo di ristrutturazione altrimenti sostenuto dalla grande maggioranza. Va precisato che l’estensione può operare solo entro la medesima categoria e non tra categorie diverse: ad esempio, si può estendere ai pochi fornitori dissenzienti se il 75% dei fornitori (per valore crediti) è d’accordo, ma non si potrebbe estendere ai fornitori un accordo approvato solo da banche, e viceversa. Si tratta dunque di un meccanismo “intra-categoria”. Questa forma di accordo richiede un controllo particolarmente attento da parte del tribunale in sede di omologazione, sia sulla corretta formazione delle classi sia sulla condizione di migliore soddisfacimento rispetto all’alternativa del fallimento per i creditori crammati. In caso di omologa, i creditori non aderenti appartenenti alla categoria vengono trattati come se avessero aderito: ad esempio, subiranno la stessa percentuale di stralcio o lo stesso piano di dilazione previsto per gli altri nella categoria, e non potranno agire altrimenti.

Nota: L’accordo ad efficacia estesa riprende e sostituisce l’istituto che, nella vigenza della legge fallimentare, era noto come accordo di ristrutturazione con intermediari finanziari (ex art. 182-septies L.F.). In quel contesto si prevedeva la possibilità di imporre l’accordo a banche e intermediari finanziari non aderenti purché si raggiungesse il 75% di adesione di tali soggetti e ricorressero altre condizioni. Il CCII generalizza questo concetto estendendolo a qualunque categoria omogenea di creditori (non solo finanziari). Di fatto, nella prassi attuale, l’efficacia estesa viene spesso applicata proprio al ceto bancario: ad esempio, se la maggior parte delle banche finanziatrici dell’impresa concorda la ristrutturazione del debito, la minoranza dissenziente di banche viene vincolata alla medesima, evitando così che una singola banca “holdout” possa far saltare il piano.

Da ultimo, si segnala che il Correttivo-ter (D.Lgs. 136/2024) ha ulteriormente precisato alcuni aspetti degli accordi ad efficacia estesa, ad esempio stabilendo che questi possano applicarsi anche in assenza di continuità aziendale se almeno metà dell’indebitamento è verso banche, e coordinando la disciplina con quella della transazione fiscale (come si vedrà, i crediti fiscali e previdenziali seguono regole proprie per l’adesione o la cram-down).

Riepilogo:

  • Accordo ordinario: ≥ 60% dei crediti; possibili misure protettive; i non aderenti restano estranei ma devono essere pagati interamente entro i termini di legge.
  • Accordo agevolato: ≥ 30% dei crediti; niente misure protettive; pagamento integrale immediato (entro l’omologazione) dei creditori estranei.
  • Accordo ad efficacia estesa: suddivisione in categorie omogenee; in ciascuna categoria ≥ 75% (o 60% se c’è stato accesso alla composizione negoziata); estensione ai dissenzienti della categoria purché soddisfatti almeno come in una liquidazione.

Ognuna di queste tipologie risponde a esigenze diverse: l’accordo ordinario è la forma comune e bilanciata; quello agevolato è utile per crisi meno estese o con pochi creditori (consente di abbassare il quorum ma serve liquidità per gli estranei e non offre protezioni nel frattempo); quello ad efficacia estesa è indicato per gestire situazioni con molti creditori e la necessità di evitare free rider o opposizioni strumentali di minoranze, avvicinando l’accordo a una sorta di procedura concorsuale per classi (pur senza arrivare alla complessità di un concordato preventivo).

3. Requisiti Soggettivi e Oggettivi per l’Accesso all’Accordo

Per poter accedere alla procedura di accordo di ristrutturazione del debito, devono sussistere specifici presupposti soggettivi (relativi alla natura del debitore) e presupposti oggettivi (relativi allo stato di crisi o insolvenza). Vediamoli in dettaglio:

3.1 Requisiti soggettivi: chi può proporre un accordo di ristrutturazione?

L’accordo di ristrutturazione è pensato essenzialmente per l’imprenditore commerciale in crisi. Tradizionalmente, la legge fallimentare prevedeva che potessero accedervi i soggetti “fallibili” ex art. 1 L.F., cioè imprenditori commerciali (anche piccoli, dopo una modifica del 2011) e soggetti ad altre procedure concorsuali. Il Codice della Crisi d’Impresa, all’art. 57, conferma che possono proporre un accordo gli imprenditori in stato di crisi o insolvenza, senza limitazioni dimensionali esplicite (le soglie di fallibilità sono state in parte superate nella nuova normativa). In particolare, possono utilizzare l’accordo di ristrutturazione:

  • Società e imprenditori commerciali di qualsiasi dimensione, inclusi quindi sia le PMI sia le grandi imprese. Tradizionalmente, l’imprenditore “piccolo” non era soggetto a fallimento e doveva ricorrere alle procedure di sovraindebitamento (legge 3/2012). Dal 2011, però, era stato ammesso anche l’imprenditore sotto soglia agli accordi ex art. 182-bis L.F., e il CCII ha unificato la disciplina delle crisi d’impresa prevedendo l’accesso agli strumenti di regolazione della crisi per qualunque debitore commerciale in stato di crisi/insolvenza (restano comunque procedure ad hoc per i consumatori e debitori civili). Pertanto, oggi anche un piccolo imprenditore commerciale può chiedere un accordo, sebbene in pratica per i micro-imprenditori siano spesso più indicate le procedure di composizione negoziata assistita o di esdebitazione minore.
  • Imprenditori agricoli: storicamente esclusi dal fallimento, gli imprenditori agricoli erano stati espressamente ammessi alla possibilità di accordo di ristrutturazione da una legge del 2011 (art. 23 comma 43 D.L. 98/2011). Di conseguenza, anche nel vigore attuale, un imprenditore agricolo in crisi può proporre un accordo di ristrutturazione ex art. 57 CCII (in alternativa alle procedure di sovraindebitamento che comunque rimangono applicabili). Ciò è rilevante, ad esempio, per aziende agricole di grandi dimensioni o cooperative agricole con debiti significativi.
  • Imprese soggette ad amministrazione straordinaria o liquidazione coatta amministrativa: l’art. 57 CCII non esclude che anche imprese che, per settore o dimensioni, potrebbero teoricamente accedere ad amministrazioni straordinarie (es. grandi imprese insolventi con particolari requisiti dimensionali) o sottoposte a LCA (p.es. banche, assicurazioni) possano tentare un accordo di ristrutturazione, se compatibile con la normativa di settore. In pratica, però, per questi soggetti esistono discipline speciali (Legge Prodi-bis, Marzano, Testo Unico Bancario ecc.) e l’accordo di ristrutturazione è raramente utilizzato direttamente, potendo integrarsi semmai come soluzione preventiva prima di arrivare a quelle procedure.
  • Gruppi di imprese: il CCII disciplina anche la crisi di gruppo. È possibile presentare accordi di ristrutturazione che coinvolgano più società di un medesimo gruppo (piani di gruppo coordinati), purché siano rispettate le condizioni per ciascun soggetto e il principio di autonomia patrimoniale. Ad esempio, più società possono presentare un accordo di gruppo con un unico piano attestato comune, se ciò agevola la ristrutturazione complessiva (fermo restando che l’omologa produce effetti patrimonio per patrimonio).

Al contrario, non possono utilizzare l’accordo di ristrutturazione soggetti che non rientrano nella nozione di “imprenditore in crisi” ai sensi del Codice, come ad esempio le persone fisiche non imprenditori (consumatori) o i professionisti, i cui debiti vanno trattati con gli strumenti per il sovraindebitamento (Piani del consumatore, ristrutturazione dei debiti ex art. 67 CCII, ecc.). Anche gli enti pubblici non vi rientrano (per gli enti pubblici in dissesto esistono procedure diverse).

In sintesi, l’accordo di ristrutturazione è costruito per l’impresa commerciale insolvente o in crisi, includendo PMI, ditte individuali commerciali e anche – con qualche incertezza – piccoli imprenditori e imprese agricole, grazie alle estensioni normative intervenute.

3.2 Requisiti oggettivi: stato di crisi o insolvenza reversibile

Dal lato oggettivo, occorre che il debitore versi in una condizione di difficoltà economico-finanziaria tale da giustificare il ricorso all’istituto. L’art. 57 CCII richiede espressamente lo “stato di crisi o di insolvenza” del debitore. Il Codice della Crisi definisce stato di crisi come probabilità di futura insolvenza o situazione di difficoltà che rende probabile l’insolvenza (in pratica un concetto di insolvency likelihood), mentre stato di insolvenza è la conclamata incapacità di far fronte regolarmente alle proprie obbligazioni (concetto tradizionale) – art. 2 CCII. Dunque, l’accordo può essere avviato sia prima che l’insolvenza diventi conclamata (in fase di crisi incipiente), sia in stato di insolvenza già manifesto, purché vi sia possibilità di risanamento. Questo amplia l’ambito di utilizzo: l’accordo è uno strumento sia di ristrutturazione preventiva (quando l’impresa è in crisi ma ancora reversibile) sia di ristrutturazione dell’insolvenza (quando l’impresa è già insolvente, ma si ritiene recuperabile attraverso l’accordo). In ogni caso, deve trattarsi di un’insolvenza reversibile, ossia di un dissesto che possa essere sanato tramite il piano proposto. Se l’impresa è in insolvenza irreversibile e priva di prospettive di continuità, difficilmente un accordo sarebbe omologabile poiché mancherebbe la fattibilità del risanamento – in tal caso sarebbe inevitabile la liquidazione.

Va evidenziato che l’accordo non è riservato alle sole situazioni di insolvenza imminente – già la legge fallimentare consentiva di accedervi in stato di “crisi” (nozione più ampia di quella di insolvenza). Ciò rispecchia la finalità di utilizzare l’istituto anche in ottica preventiva (quindi prima che l’insolvenza si concretizzi). Il considerando 24 della direttiva UE 2019/1023 incoraggia gli Stati a consentire la ristrutturazione precoce. In Italia, l’introduzione esplicita del termine “crisi” già nella vecchia normativa e confermata nel CCII va in questa direzione.

Altri requisiti oggettivi importanti:

  • Deve esistere un piano di ristrutturazione credibile a supporto dell’accordo. L’art. 57, comma 2, CCII richiede che l’accordo depositato contenga l’indicazione degli elementi del piano economico-finanziario idonei a consentirne l’esecuzione. Ciò significa che il debitore deve predisporre un piano dettagliato che illustri come intende risanare l’impresa e soddisfare i creditori (sia quelli aderenti nelle nuove modalità concordate, sia quelli estranei integralmente). Il piano tipicamente include proiezioni industriali e finanziarie, analisi di fattibilità e convenienza rispetto all’alternativa liquidatoria, e deve essere accompagnato dalla relazione di un professionista attestatore (di cui si dirà) che ne certifichi la ragionevolezza.
  • È necessario che l’accordo proposto sia idoneo ad assicurare il pagamento integrale dei creditori estranei nei termini di legge. Questo punto è cruciale: per legge (oggi art. 57, comma 3 CCII) l’accordo deve garantire che i creditori non aderenti vengano pagati per intero entro 120 giorni dall’omologazione (se i loro crediti sono già scaduti) o entro 120 giorni dalla scadenza naturale (per i crediti non ancora scaduti alla data dell’omologa). In pratica, chi rimane fuori dall’accordo deve essere soddisfatto integralmente in tempi molto brevi. Questa condizione era già prevista nell’art. 182-bis L.F. e continua ad applicarsi: serve a tutelare i creditori estranei, evitando che subiscano pregiudizio o dilazioni eccessive a causa dell’accordo tra debitore e altri creditori. L’attestatore dovrà esplicitamente dichiarare che l’accordo assicura tali pagamenti integrali nei 120 giorni. NB: Nell’accordo agevolato questa condizione è ulteriormente inasprita, richiedendo il pagamento “immediato” degli estranei (di fatto al momento stesso dell’omologa o nell’imminenza). Nell’accordo ordinario, invece, sono ammessi fino a 120 giorni di tempo post-omologa (circa 4 mesi) per pagare gli estranei. Se un credito estraneo scade in futuro (oltre 120 giorni dall’omologa), potrà essere pagato alla scadenza contrattuale (più 120 gg di margine); se però quell’estraneo teme per il suo pagamento futuro, potrebbe opporsi. In sostanza, la regola dei 120 giorni impone al debitore di predisporre la liquidità necessaria o le risorse per soddisfare i non aderenti al massimo in quel lasso temporale. È evidente quindi che l’accordo di ristrutturazione è adatto a situazioni in cui l’impresa ha un numero relativamente limitato di creditori estranei o comunque è in grado di ottemperare ai loro pagamenti; diversamente, se la platea di creditori è troppo ampia per poter pagare quelli non concordati, lo strumento rischia di non essere praticabile (meglio il concordato, dove anche i non aderenti vengono dilazionati o falcidiati per legge).
  • Assenza di altra procedura concorsuale in corso: il debitore che propone un accordo di ristrutturazione non deve essere già sottoposto a liquidazione giudiziale (fallimento) o altra procedura incompatibile. Se, ad esempio, è già stata aperta una liquidazione giudiziale, la gestione dell’impresa è sottratta al debitore e dunque questi non può più proporre accordi (semmai potrebbe il curatore proporre un concordato fallimentare, ma è altra figura). È invece possibile presentare un accordo di ristrutturazione durante una procedura di composizione negoziata della crisi (che non è concorsuale) o contestualmente a una domanda di concordato preventivo “in bianco” per ottenere protezione e poi convertirla in accordo (come vedremo nei rapporti con il concordato).
  • Documentazione completa e aggiornata: ai fini dell’ammissibilità, il debitore deve depositare tutta la documentazione prevista dall’art. 39 CCII (corrispondente all’art. 161 L.F.): ultimi bilanci depositati, situazione patrimoniale e finanziaria aggiornata, elenco dei creditori e dei debiti, elenco degli eventuali titolari di diritti reali o personali di garanzia, elenco degli atti rilevanti degli ultimi anni, attestazione sulla veridicità dei dati e fattibilità del piano a cura del professionista, ecc. L’accordo deve essere pubblicato nel Registro delle imprese contestualmente al deposito. L’omissione di documenti essenziali (ad es. mancata attestazione, bilanci mancanti, ecc.) comporterebbe l’improcedibilità o il rigetto.

Riassumendo, sul piano oggettivo l’accordo richiede che il debitore versi in crisi o insolvenza (non serve attendere il tracollo conclamato) e che abbia predisposto un piano serio e sostenibile che assicuri il pagamento dei non aderenti entro termini brevi. È un percorso percorribile dunque solo se l’impresa ha ancora prospettive di risanamento – per quanto magari difficili – e se la soluzione proposta offre ai creditori estranei almeno quanto avrebbero da un fallimento entro tempi rapidi. In mancanza di tali condizioni di base, il tribunale non potrà omologare l’accordo. L’esperienza insegna che l’analisi preliminare sulla fattibilità e sulla convenienza dell’accordo rispetto all’alternativa liquidatoria è un filtro cruciale: l’accordo non è un modo per “prendere tempo” fine a se stesso, ma dev’essere parte di un progetto risolutivo credibile.

4. Contenuto dell’Accordo e Ruolo dei Creditori

4.1 Il contenuto del piano e dell’accordo

L’accordo di ristrutturazione si sostanzia in un documento contrattuale, sottoscritto dal debitore e dai creditori aderenti, che recepisce gli impegni reciproci volti a regolare i debiti in essere secondo modalità diverse da quelle originarie. Esso solitamente incorpora o richiama un piano industriale e finanziario di risanamento, che costituisce la base tecnico-economica dell’accordo. In altri termini, l’accordo è la “parte contrattuale” (con pattuizioni su pagamenti, stralci, garanzie, ecc.), mentre il piano è la “parte descrittiva” e programmatica (con proiezioni economiche, strategie di rilancio, flussi di cassa attesi, ecc.). Spesso i due documenti sono integrati o allegati l’uno all’altro.

Cosa può prevedere l’accordo? In linea di principio, le parti hanno ampia libertà di modulare il contenuto, purché nel rispetto delle norme inderogabili (ad esempio quelle sulla percentuale minima di pagamento dei creditori pubblici, come vedremo). Tipicamente, un accordo di ristrutturazione può includere clausole relative a:

  • Dilazioni di pagamento: Posticipo delle scadenze dei debiti. Esempio: i debiti verso banche derivanti da mutui o finanziamenti in essere possono essere ristrutturati prevedendo un nuovo piano di ammortamento con rate estese su un maggior numero di anni, eventualmente con un periodo di pre-ammortamento (ossia un rinvio iniziale dei pagamenti).
  • Riduzioni (falcidia) del capitale di debito: Stralcio parziale di crediti. Ad esempio, i fornitori chirografari potrebbero accordarsi per accettare il pagamento del 70% del loro credito, rinunciando al restante 30% (remissione parziale del debito) in cambio di un pagamento più sicuro o immediato del 70%. Questa è una forma di haircut sul debito.
  • Rinegoziazione dei tassi d’interesse: Per i crediti fruttiferi (es. mutui, obbligazioni), l’accordo può prevedere una riduzione del tasso d’interesse applicato o la non applicazione di interessi di mora per il periodo di ritardo, ecc., in modo da alleggerire l’onere finanziario futuro.
  • Consolidamento di esposizioni: Conversione di crediti a breve termine in strumenti a medio-lungo termine. Ad esempio, fidi a revoca o scoperti di c/c potrebbero essere consolidati in un finanziamento con piano di rientro pluriennale.
  • Conversione del debito in capitale o strumenti partecipativi: In alcuni accordi, specialmente se coinvolte banche o obbligazionisti, può essere inserita la debt-equity swap, ovvero la conversione di parte del credito in quote di capitale sociale o strumenti finanziari partecipativi dell’impresa debitrice. Ciò comporta che il creditore diventa socio (in tutto o in parte) al posto di ricevere denaro per quel credito. Questa operazione richiede poi i passaggi societari formali (delibera di aumento di capitale riservato, ecc., con intervento notarile), ma può essere parte dell’accordo.
  • Concessione di garanzie nuove o aggiuntive: Il debitore (o terzi, come soci) possono offrire garanzie reali o personali a supporto dei nuovi impegni presi. Ad esempio, i soci dell’impresa potrebbero impegnarsi a garantire con fideiussione i nuovi debiti ristrutturati, oppure l’azienda potrebbe concedere un’ipoteca su un immobile a garanzia del nuovo piano di rientro verso le banche. Questo spesso serve a convincere i creditori ad aderire riducendo il rischio percepito.
  • Apporto di nuova finanza: Spesso essenziale per la buona riuscita del piano è l’ingresso di liquidità fresca. L’accordo può contemplare l’impegno di un socio attuale o di un investitore esterno a versare nuova finanza nell’impresa (come capitale o come finanziamento postergato), destinata in parte a pagare i creditori estranei o a supportare il circolante. Tali nuovi apporti, se effettuati nelle forme previste (ad esempio finanziamenti in esecuzione di accordo omologato), godono per legge di uno status privilegiato in caso di successivo fallimento – ossia sono considerati crediti prededucibili.
  • Cessioni di beni aziendali: Il piano può prevedere la vendita di alcuni asset non core (immobili, rami d’azienda non strategici, partecipazioni) per generare risorse con cui pagare i debiti. L’accordo può dettagliare quali beni verranno dismessi, entro quali termini, ed eventualmente prevedere il conferimento di mandato a vendere a favore di un soggetto (curatore speciale per la vendita) o altre clausole per assicurare l’attuazione di queste operazioni. Tali vendite, se avvengono in esecuzione di accordo omologato, beneficiano anch’esse di esenzioni da revocatoria fallimentare (non potranno essere contestate successivamente).
  • Continuità dei contratti essenziali: Pur non essendo una clausola contrattuale in senso stretto, l’accordo può menzionare misure per assicurare la continuità operativa: ad esempio, può elencare i contratti di forniture essenziali che l’impresa intende mantenere, e prevedere che verranno regolarmente onorate le forniture correnti (spesso i fornitori essenziali saranno inseriti tra i creditori aderenti cui si garantisce il pagamento integrale del nuovo fornire, in cambio magari di dilazione sul pregresso). Questo punto viene poi rafforzato dalle norme sulle misure protettive (art. 64 CCII, v. oltre), che inibiscono ai contraenti essenziali di interrompere i rapporti a causa della crisi.
  • Trattamento dei crediti pubblici fiscali e contributivi: Data la particolarità di questi crediti (Erario e enti previdenziali), l’accordo può contenere una proposta di transazione fiscale e contributiva ex art. 63 CCII. In pratica, se l’impresa ha debiti verso Agenzia delle Entrate, Agenzia Riscossione (ex Equitalia) o INPS, può proporre nel piano il pagamento parziale e/o dilazionato anche di tali debiti privilegiati, chiedendo l’adesione dell’ente. Questa proposta viene valutata separatamente dall’amministrazione finanziaria secondo le norme speciali (ad esempio, la legge richiede il pagamento di almeno il 30% del credito fiscale per poter imporsi in caso di dissenso, come vedremo). Il contenuto dell’accordo dovrà quindi specificare: “pagherò il debito IVA al 40% in 5 anni, il debito contributivo al 50% in 4 anni, etc.”, soggetto all’approvazione degli enti impositori.
  • Clausole di efficacia e condizioni: L’accordo può essere sottoposto a condizioni sospensive, ad esempio “salvo ottenimento dell’omologazione dal tribunale” (che è implicito per legge), oppure “a condizione che un certo ente finanzi il circolante per X euro” ecc. Spesso si introducono clausole di decadenza: ad esempio, se il debitore non adempie ad una certa tranche di pagamento, l’accordo si risolve di diritto (anche se poi di fatto servirà un’azione giudiziale per accertarlo o i creditori potranno attivarsi per il fallimento). Inoltre, viene di norma disciplinato il destino delle eventuali garanzie prestate da terzi: es., se c’è un fideiussore, l’accordo può prevedere che il creditore rinuncia ad escutere la fideiussione purché il debitore rispetti il piano – oppure che invece la fideiussione resti in vigore per l’intero originario importo (a tutela del creditore verso il terzo).
  • Impegni gestionali: In alcuni casi, specialmente su richiesta di creditori istituzionali, l’accordo può contenere impegni dell’imprenditore su come gestirà l’azienda durante il periodo di esecuzione (ad esempio: non distribuire dividendi fino al completamento dei pagamenti, non compiere operazioni straordinarie senza consenso dei principali creditori, fornire una rendicontazione periodica dello stato di avanzamento del piano, ecc.). Queste clausole fungono da covenants per assicurare la trasparenza e preservare la soddisfazione dei creditori nel tempo.

In linea di massima, l’accordo di ristrutturazione è molto flessibile nel contenuto, non essendoci un “contenuto minimo legale” se non il rispetto dei vincoli generali (pagamento integrale estranei, maggioranze richieste, rispetto regole transazione fiscale, ecc.). È un contratto atipico: si può prevedere qualsiasi assetto di interessi che i creditori e il debitore ritengano utile per il risanamento. Naturalmente, il contenuto verrà vagliato in sede di omologazione dal giudice, che controllerà la legalità (che non siano violati diritti indisponibili dei terzi, che i trattamenti proposti a creditori di pari rango siano omogenei salvo giustificazione, ecc.) e la fattibilità (anche attraverso il conforto della relazione attestatrice).

Un elemento essenziale da allegare è la relazione del professionista indipendente (detto attestatore): costui deve asseverare che i dati aziendali sono veritieri e che l’accordo (e il piano sottostante) è attuabile, con particolare riguardo alla sua idoneità ad assicurare il pagamento integrale dei creditori estranei nei termini prescritti. Questa relazione, redatta da un professionista munito dei requisiti di legge (iscritto all’albo dei revisori legali da almeno 5 anni, indipendente, ecc.), costituisce una garanzia di serietà del piano e un supporto fondamentale per la valutazione del tribunale e dei creditori stessi. In pratica l’attestatore certifica che i numeri tornano: i flussi di cassa previsti coprono i pagamenti promessi, gli apporti di terzi sono concretamente deliberati, le assunzioni di crescita ricavi o taglio costi sono ragionevoli, e – importantissimo – che i creditori che restano fuori non verranno pregiudicati.

4.2 Il ruolo dei creditori: adesioni, opposizioni, classi

Quali creditori partecipano e con quali modalità? L’accordo di ristrutturazione è un contratto che intercorre tra il debitore e taluni creditori. A differenza del concordato preventivo, qui non c’è una votazione di tutti i creditori: solo chi decide di aderire sottoscrive l’accordo, mentre chi non aderisce rimane estraneo (fatta salva l’efficacia estesa se applicabile). Pertanto, il fulcro è la negoziazione bilaterale tra debitore e ciascun creditore (o gruppo di creditori) potenzialmente aderente. Nella prassi, il debitore – spesso affiancato da advisor finanziari e legali – redige una bozza di piano e accordo e la sottopone ai principali creditori cercando di ottenerne l’assenso. Possono avvenire trattative individuali o in gruppo: ad esempio, coi pool di banche si terranno tavoli comuni, mentre con grandi fornitori o bondholders si potranno avere confronti separati.

Un aspetto da sottolineare è che l’accordo non richiede il consenso di tutti i creditori (anzi, per definizione almeno alcuni restano fuori). L’obiettivo è raggiungere il quorum del 60% (o 30% se agevolato). Quindi il debitore può decidere di escludere volontariamente dall’accordo alcuni creditori minori, se ritiene di poterli pagare integralmente in autonomia – concentrando così l’accordo solo sui creditori principali. Spesso questa è una strategia consigliabile: coinvolgere nell’accordo solo i creditori strategici o con esposizioni rilevanti, evitando di complicare il negoziato con decine di piccoli creditori che possono essere saldati per conto proprio. Naturalmente, occorrerà poi pagarli come estranei entro i termini di legge.

I creditori aderenti assumono l’obbligo di rispettare l’accordo come sottoscritto. In particolare, rinunciano a far valere i loro crediti alle condizioni originarie e accettano le nuove condizioni (ad esempio accettano di ricevere il 60% del dovuto in 2 anni in luogo del 100% immediato). È importante notare che l’accordo non è efficace finché non omologato: quindi la sottoscrizione da parte dei creditori è una adesione condizionata all’omologazione. Se l’omologa non interviene (perché il tribunale la nega o perché il debitore revoca la domanda), le adesioni decadono e i creditori riacquisiscono i loro diritti pieni come prima.

Forma delle adesioni: la legge non prescrive una forma solenne per l’accordo. Ci si è chiesti se sia necessaria l’autentica notarile delle firme dei creditori sull’accordo; la prassi e la giurisprudenza prevalenti ritengono di no (trattandosi di atto negoziale non richiamato tra quelli soggetti ad autentica). Tuttavia, in via prudenziale, spesso le firme dei creditori vengono raccolte con qualche forma di certificazione (ad esempio firma digitale, PEC di adesione o sottoscrizione autenticata) per prevenire contestazioni sull’autenticità. Nel deposito in tribunale, il debitore dovrà dare evidenza del raggiungimento delle percentuali di legge attraverso le adesioni scritte dei creditori. Possono essere documenti separati (es. lettere di adesione con impegno a firmare il testo definitivo) o la firma congiunta di un unico documento contrattuale contenente l’accordo.

Classi e votazioni: se si tratta di un accordo ad efficacia estesa, il debitore dovrà aver raggruppato i creditori in categorie (classi) già in sede di accordo. In tal caso, l’adesione va valutata categoria per categoria: occorre che in ciascuna classe gli aderenti rappresentino almeno il 75% del totale di quella classe (o 60% se applicabile la riduzione). Non c’è una vera e propria “votazione” formale come nel concordato, ma sostanzialmente il debitore dovrà ottenere le firme della maggioranza qualificata di ciascuna classe che vuole crammare. Ad esempio, se crea la classe “banche” (supponiamo 5 banche creditrici, totale esposizione 10 milioni), dovrà ottenere l’adesione di banche che sommate hanno almeno 7,5 milioni di credito (75%). Se ne ottiene meno, non potrà chiedere al tribunale di estendere l’accordo alla minoranza. È quindi interesse del debitore strutturare le classi in modo funzionale: classi troppo frammentate con troppi soggetti potrebbero essere difficili da far approvare; classi troppo ristrette rischiano di essere contestate come non omogenee. La legge impone omogeneità di posizione giuridica ed interessi economici, quindi non si possono mettere insieme creditori privilegiati con chirografari, né mescolare fornitori commerciali con banche (che hanno natura diversa di rapporto), ecc. Tali criteri ricalcano quelli del concordato.

Nei casi di accordo ordinario o agevolato, invece, non si formano classi formalmente. Tuttavia, nulla vieta che il debitore, nella pratica negoziale, differenzi le proposte ai creditori a seconda della tipologia: ad esempio, potrebbe offrire condizioni leggermente diverse a una banca rispetto a un fornitore (purché poi spieghi l’esigenza e che non vi siano ingiustificate disparità). Non essendoci il voto di tutti, queste differenze non sono di per sé vietate; vanno però valutate sotto il profilo della par condicio: se due creditori hanno situazioni identiche, un’ingiustificata sperequazione di trattamento potrebbe spingere il discriminato a opporsi in sede di omologa, lamentando una lesione. Il tribunale potrebbe in teoria rilevare un trattamento arbitrariamente differenziato come contrario alla buona fede. Ma tipicamente, i creditori “forti” spuntano condizioni migliori (ad esempio una banca garantita può subire un haircut minore rispetto a un fornitore chirografario, il che è logico data la sua posizione giuridica diversa). Queste scelte vengono valutate nella relazione del professionista, che deve attestare la fattibilità e l’equilibrio dell’accordo.

Creditori estranei: i creditori che non aderiscono restano giuridicamente fuori dal contratto. Formalmente, dunque, mantengono intatti i loro diritti di credito secondo i termini originari. Tuttavia, l’avvio e la successiva omologazione dell’accordo producono effetti anche su di loro: in primis tramite le misure protettive (che possono bloccare le loro azioni esecutive per un certo periodo, v. sezione 5), e in seguito perché l’omologa comporta, come accennato, una sorta di moratoria ex lege per i pagamenti dovuti (il debitore può pagarli entro i 120 giorni senza che essi possano pretendere in quel frattempo il pagamento immediato). D’altro canto, i creditori estranei hanno la facoltà di opporsi all’omologazione se ritengono che dall’accordo derivino loro pregiudizi (se ad es. il piano non garantisse effettivamente il loro pagamento integrale nei 120 giorni, oppure se contestano la veridicità dei dati o la correttezza delle procedure). L’opposizione dei non aderenti è uno snodo del procedimento, che esamineremo tra poco.

In sintesi, il ruolo dei creditori negli accordi di ristrutturazione è attivo ma su base volontaria: non c’è un meccanismo di “voto a maggioranza” che obbliga tutti, se non appunto nel caso particolare di efficacia estesa. I creditori decidono se aderire (e diventare parte dell’accordo) o restare estranei. È compito dell’imprenditore proponente convincere una quota sufficiente di creditori della bontà del piano. Spesso, convincerli significa evidenziare che l’alternativa – tipicamente la liquidazione giudiziale – sarebbe peggiore per loro (otterrebbero meno in caso di fallimento). Su questo aspetto gioca il concetto di convenienza: se un creditore capisce che aderendo all’accordo recupererà ad esempio il 50% subito, mentre col fallimento forse prenderebbe il 20% dopo anni, sarà motivato a firmare. In tal senso l’accordo è anche frutto di una valutazione di convenienza economica da parte di ciascun creditore. La legge, infatti, non richiede al tribunale di sindacare la convenienza per i singoli creditori aderenti (che è rimessa alla loro decisione autonoma), ma solo di verificare che i non aderenti non ricevano meno del valore di liquidazione.

Una volta omologato, l’accordo vincola tutti i creditori aderenti come qualsiasi contratto e, se efficacia estesa, anche i dissenzienti nelle classi crammate. I creditori non aderenti (fuori accordo, non crammati) restano titolari dei loro crediti originari, ma soggiacciono agli effetti di legge (divieto temporaneo di agire, pagamento entro i 120gg, ecc.).

Riassumendo:

  • Prima dell’omologa: i creditori vengono negoziati individualmente; l’adesione è volontaria; serve raggiungere il quorum (sul totale o per classe).
  • Dopo l’omologa: i creditori aderenti (e quelli estesi) sono vincolati alle nuove condizioni e non possono pretendere oltre; i non aderenti possono esigere il 100% ma devono attendere i termini previsti; tutti i creditori devono astenersi da azioni esecutive contrarie all’accordo (pena risoluzione etc.).

Nel prossimo paragrafo vedremo nel dettaglio come si svolge il processo di omologazione in tribunale, compreso il ruolo eventuale di opposizione dei creditori non aderenti e i controlli effettuati dal giudice.

5. Il Procedimento: dalla Domanda di Omologazione all’Omologa

L’accordo di ristrutturazione, pur nascendo da un’intesa negoziale privata, richiede un intervento dell’autorità giudiziaria per diventare efficace erga omnes: l’omologazione da parte del tribunale competente. Il procedimento davanti al tribunale è relativamente semplificato rispetto a un concordato preventivo, ma segue comunque alcune fasi codificate. Di seguito descriviamo il percorso procedurale tipico, dal deposito della domanda fino al decreto di omologazione (o all’eventuale diniego), includendo la possibilità di ottenere misure protettive nel frattempo.

5.1 Deposito della domanda e pubblicazione

Una volta raggiunto (o comunque formalizzato) l’accordo con i creditori aderenti in misura sufficiente, il debitore deve depositare presso il tribunale una domanda di omologazione. La competenza è del tribunale in composizione collegiale del luogo in cui l’impresa ha il centro degli interessi principali (COMI), tipicamente la sede legale per società italiane. La domanda consiste in un ricorso con il quale il debitore chiede l’omologa dell’accordo ai sensi degli artt. 44 e 48 CCII (procedimento unitario per l’accesso agli strumenti di regolazione della crisi) e seguenti. Al ricorso vanno allegati:

  • Il testo dell’accordo sottoscritto dai creditori (o le dichiarazioni di adesione equivalenti).
  • Il piano di ristrutturazione con i dettagli economico-finanziari.
  • Tutti i documenti richiesti ex art. 39 CCII (bilanci, elenco creditori ecc. come detto sopra).
  • La relazione dell’attestatore indipendente prevista dall’art. 56, comma 3 e 57, comma 3 CCII, completa dell’attestazione di veridicità dati e fattibilità del piano, con attestazione specifica sulla capacità di pagare i creditori estranei nei 120 giorni.
  • L’eventuale proposta di transazione fiscale (ex art. 63 CCII) se sono compresi crediti fiscali o previdenziali falcidiati o dilazionati, corredata dalla documentazione di cui all’art. 63 (es. attestazione ulteriore sulla convenienza per l’erario rispetto alla liquidazione).

Una volta depositato, il ricorso e l’accordo sono pubblicati nel Registro delle Imprese a cura della cancelleria. Ciò assicura la pubblicità dell’iniziativa: come previsto dall’art. 40, comma 4 CCII, la domanda di omologa di accordo dev’essere resa conoscibile ai terzi mediante iscrizione nel registro imprese. Questo adempimento è fondamentale e segna l’inizio formale della procedura concorsuale. Dal momento della pubblicazione, i creditori non aderenti sono legalmente informati dell’esistenza dell’accordo depositato (non è previsto un voto o un’adunanza come nel concordato; la pubblicazione supplisce alla notifica generale).

È importante notare che la presentazione dell’accordo in tribunale, di per sé, non produce immediatamente effetti protettivi per i creditori estranei, a meno che non vengano contestualmente chieste le misure protettive (stay) di cui diremo nel prossimo sottoparagrafo. In assenza di richiesta di misure protettive, i creditori non aderenti, pur essendo venuti a conoscenza del deposito (dal registro imprese), potrebbero teoricamente proseguire azioni esecutive o risolutive di contratti fino all’omologazione. Tuttavia, il debitore solitamente cerca di limitare questa eventualità in due modi: o chiede subito le misure protettive (se possibile, salvo il caso di accordo agevolato dove ha rinunciato a farlo), oppure si accorda informalmente con i principali creditori estranei per non intraprendere azioni in pendenza di omologa (a volte chiamato standstill agreement in fase di trattativa).

Dalla presentazione della domanda, comunque, scaturisce un effetto rilevante segnalato dalla giurisprudenza: i pagamenti dei debiti anteriori vengono sospesi in attesa dell’omologa. Il debitore, infatti, con il deposito dell’accordo, manifesta l’intenzione di pagare quei debiti solo come previsto dall’accordo stesso (dopo l’omologa), beneficiando di una sorta di moratoria di fatto. Ciò è lecito, ma comporta rischi se non sono state attivate misure protettive: un creditore estraneo potrebbe non attendere l’omologa e agire subito (pignoramento o istanza di fallimento). In dottrina si sostiene che l’iniziativa del debitore di accedere a uno strumento di regolazione della crisi è tanto più pubblica quanto più invasiva dei diritti altrui: la presentazione di un accordo senza misure protettive è poco invasiva (non sospende le azioni) quindi viene pubblicata ma non blocca i terzi; se invece vengono chieste misure protettive, l’invasività aumenta e giustifica limitazioni ai diritti dei creditori (che scattano dalla pubblicazione su autorizzazione giudiziale).

5.2 Richiesta e concessione delle misure protettive (stay)

Contestualmente al deposito del ricorso di omologa (o anche successivamente, finché non è omologato), il debitore può richiedere al tribunale l’applicazione di misure… protettive ai sensi dell’art. 54 CCII. Le misure protettive sono provvedimenti temporanei che bloccano le azioni individuali dei creditori, analoghi all’automatic stay del concordato, ma concessi su istanza e soggetti a controllo del giudice. Richiedere le misure protettive è facoltativo: il debitore bilancia il beneficio (tutela immediata dal pressing dei creditori) con i contrappesi (maggiore pubblicità e potenziale sfiducia dei terzi, più vincoli se accordo agevolato). In un accordo ordinario o ad efficacia estesa, è comune richiederle; in un accordo agevolato, come visto, il debitore si impegna a non chiederle (pena la perdita dell’agevolazione del 30%).

Le misure protettive “tipiche”, elencate dall’art. 54, comma 2 CCII, includono:

  • Il divieto per i creditori (aderenti e non) di iniziare o proseguire azioni esecutive e cautelari sul patrimonio del debitore o sui beni e diritti destinati all’attività. Ciò significa, ad esempio, sospensione di pignoramenti in corso e impossibilità di avviarne di nuovi. È un congelamento analogo al automatic stay USA.
  • La sospensione dei termini di prescrizione e la non decorrenza delle decadenze sui diritti dei creditori. Questo impedisce che durante il periodo di standstill i creditori perdano diritti per scadenza di termini.
  • Il divieto per i creditori di acquisire nuove garanzie reali o privilegiate sul patrimonio del debitore che siano opponibili agli altri creditori, salvo concordate con l’imprenditore. In pratica, nessun creditore può migliorare la propria posizione a danno degli altri durante la moratoria (evitando corse alle garanzie).

Queste sono le cosiddette “misure protettive tipiche”. Il CCII prevede anche misure protettive “atipiche” (art. 54, c.1) che possono consistere in provvedimenti specifici richiesti caso per caso (ad es. sospensione di un singolo contratto, ecc.), ma nel contesto degli accordi di solito ci si avvale di quelle tipiche sopra dette.

Efficacia temporale: Le misure protettive hanno efficacia immediata dal momento del deposito della richiesta (se formulata correttamente), ma devono essere confermate o revocate dal tribunale entro un breve termine. Il giudice, infatti, entro 30 giorni dal deposito, deve pronunciarsi sulla conferma delle misure protettive, sentite sommariamente le parti ove necessario (art. 55 CCII). Nella prassi, come rilevato, il giudice spesso decide sulla conferma senza udienza, acquisendo solo informazioni sommarie, data la ristrettezza dei tempi. Può tuttavia convocare alcune controparti (specie i maggiori creditori coinvolti) se lo ritiene opportuno, per esempio per valutare l’impatto della moratoria. Se tutto è in regola (documentazione completa, plausibilità del piano, prima facie raggiunto il quorum, etc.), il tribunale conferma le misure protettive con decreto motivato, che mantiene l’efficacia dello stay solitamente fino all’omologazione (comunque non oltre il limite massimo di legge, che è di 4 mesi + eventuale proroga di 4 mesi in casi complessi, in attuazione direttiva UE). Se il giudice dovesse rilevare ragioni contrarie (ad esempio palese mancanza dei presupposti dell’accordo), potrebbe non confermarle, esponendo così il debitore alle azioni.

Inoltre, dalla richiesta di misure protettive discendono automaticamente alcune ulteriori tutele per il debitore:

  1. Inibizione delle istanze di liquidazione giudiziale: non può essere dichiarato il fallimento (liquidazione giudiziale) del debitore né accertato lo stato di insolvenza, durante il periodo protetto. Ciò evita che i creditori presentino istanza di fallimento e ottengano sentenza mentre è in corso la composizione. È una salvaguardia fondamentale.
  2. Divieto di cessazione unilaterale dei contratti pendenti da parte dei contraenti in bonis per il solo fatto del deposito della domanda (clausole ipso facto). Come già visto con l’art. 64 CCII, dal giorno del deposito della domanda di accordo con richiesta di misure protettive, nessun contraente può risolvere anticipatamente, modificare o rifiutare l’adempimento di un contratto in corso con il debitore per la sola ragione del deposito dell’istanza di omologazione. Qualsiasi patto che lo consentirebbe (clausole risolutive automatiche legate allo stato di crisi) è inefficace. Questo tutela la continuità dei rapporti contrattuali durante la procedura: il fornitore di energia non può staccare la corrente perché l’azienda ha chiesto l’accordo, il locatore non può sfrattare per questo motivo, ecc.
  3. Tutela rafforzata per i contratti essenziali: oltre al divieto generale di cui sopra, per i contratti essenziali (cioè necessari alla gestione corrente la cui interruzione impedirebbe la prosecuzione dell’attività, es. forniture vitali) vige il divieto per i creditori interessati dalle misure protettive di rifiutare la prestazione o sciogliere il contratto anche se non vengono pagati i crediti pregressi. In pratica, un fornitore essenziale non può sospendere la fornitura motivando di non aver ricevuto pagamento di fatture pregresse, durante lo stay. Deve continuare a fornire, con la garanzia che quelle forniture correnti saranno pagate come debiti della massa. Questo ulteriore divieto è cruciale: evita che la moratoria sui pagamenti generi, paradossalmente, la rovina dell’impresa per mancanza di forniture essenziali. Naturalmente, il fornitore essenziale potrà chiedere adeguate garanzie per le forniture successive e se non viene pagato neanche il corrente potrà poi reagire, ma non può recedere subito.

Le misure protettive cessano di avere efficacia in caso di decreto di rigetto dell’omologazione o se il debitore le rinuncia. Se l’accordo viene omologato, si trasformano negli effetti propri dell’omologazione (che comunque proseguono la protezione per i creditori coinvolti secondo i nuovi termini concordati).

Riassumendo questa fase: con la richiesta di misure protettive il debitore ottiene un ombrello protettivo temporaneo sotto il quale finalizzare la procedura di omologa senza aggressioni esterne e mantenendo operativa l’azienda. In cambio, la legge impone pubblicità e tutela i terzi contraenti, impedendo abusi. È un passaggio spesso decisivo: molti accordi, specie con molti creditori, non potrebbero arrivare ad omologa senza un freeze che frena eventuali iniziative individuali (basti pensare a una banca isolata che pignora i conti, paralizzando l’azienda). Tuttavia, alcune imprese preferiscono evitare le misure protettive se confidano di poter governare la fase interinale con accordi di standstill informali, per non allarmare ulteriormente la clientela e i fornitori con la pubblicazione della protezione.

5.3 Valutazione del tribunale ed eventuali opposizioni

Durante la pendenza della domanda, il tribunale esamina il materiale depositato. Non è prevista la nomina di un commissario giudiziale (come avviene nel concordato); l’istruttoria è prevalentemente documentale. Il tribunale può tuttavia disporre eventuali audizioni di parti o consulenze se lo ritiene opportuno, ma di norma ciò non avviene salvo situazioni controverse. L’attestatore indipendente svolge un ruolo chiave in supplenza di un organo commissariale: la sua relazione fornisce gli elementi di giudizio tecnico sulla fattibilità del piano. Il giudice verifica:

  • la completezza e regolarità formale della documentazione (che tutti i documenti obbligatori siano stati depositati; la presenza della relazione attestatrice conforme ai requisiti; la prova del raggiungimento della percentuale di consensi richiesta; se c’è transazione fiscale, che sia stata presentata all’ente).
  • la legittimazione e competenza (ad es. che il debitore rientri tra i soggetti ammessi, che la domanda sia stata approvata dagli organi societari competenti – per le società di capitali la domanda deve essere deliberata dagli amministratori e verbalizzata da notaio ex art. 44 CCII).
  • il rispetto dei quorum: almeno 60% (o 30% per agevolato) dei crediti è coperto da adesioni valide; se efficacia estesa, che in ogni classe omogenea vi sia il 75% di consensi e che la sommatoria degli aderenti comunque superi 60% globale.
  • la fattibilità del piano: questa valutazione attiene alla capacità del piano di realizzarsi e dunque di soddisfare quanto promesso. La legge specifica che il tribunale deve verificare le concrete prospettive di attuazione dell’accordo e in particolare la capacità delle entrate previste di consentire i pagamenti integrali dei creditori estranei nei tempi dovuti. Il giudice non opera un sindacato di merito economico (non valuta se i creditori aderenti potessero ottenere condizioni migliori, quello spetta a loro), ma deve vagliare la realizzabilità del piano e la sua idoneità a superare la crisi (quindi che non sia un castello irrealistico). Su questo, la relazione dell’attestatore è determinante: se l’attestazione è positiva e ben argomentata, il giudice tende a recepirne le conclusioni, salvo evidenti incongruenze.
  • la convenienza per i creditori non aderenti: condizione fondamentale perché l’accordo possa essere omologato anche in presenza di opposizioni è che i creditori estranei non vengano danneggiati. In particolare, occorre che il trattamento previsto per essi non sia inferiore a quello che otterrebbero in caso di liquidazione giudiziale dell’impresa. Questo è il cosiddetto “giudizio di convenienza” o best interest test. Anche qui, l’attestatore fornisce nel piano un scenario di liquidazione ipotetico e confronta le percentuali di soddisfacimento: se l’accordo dà agli estranei 100% (come deve per legge, in linea di principio) ovviamente è più conveniente; se prevede un pagamento dilazionato, occorre vedere se il valore attuale è comunque >= realizzazione in fallimento. Nei casi di efficacia estesa (dove ai non aderenti in classe si potrebbe dare meno del 100%), questo giudizio è strettamente scrutinato: l’art. 61 impone espressamente che ai crammati sia riservato non meno di quanto spetterebbe in liquidazione. Il mancato rispetto di questa condizione impedisce l’omologazione forzata sugli oppositori.
  • la correttezza procedurale complessiva e l’assenza di cause ostative: qui rientrano vari controlli, ad esempio che l’accordo non sia il frutto di dolo o frode ai danni dei creditori estranei, che non vi siano violazioni di norme imperative (es: un accordo che pretendesse di falcidiare l’IVA senza transazione sarebbe contra legem e non omologabile), che eventuali classi siano omogenee, ecc.

Nel frattempo, dopo la pubblicazione del ricorso, i creditori non aderenti e qualsiasi altro interessato hanno facoltà di presentare opposizione all’omologazione, entro il termine perentorio fissato dalla legge. Sotto la vecchia legge fallimentare, questo termine era di 30 giorni dalla pubblicazione al Registro imprese. Il CCII presumibilmente mantiene un termine simile (30 giorni) sebbene il punto sia oggetto di interpretazioni; in mancanza di esplicita indicazione negli artt. 48-54 CCII, si ritiene applicabile analogicamente il termine di 30 giorni dall’iscrizione della domanda (come da vecchio art. 182-bis L.F.). Diverse fonti confermano infatti che i creditori estranei possono proporre ricorso in opposizione entro 30 giorni dalla pubblicazione. L’opposizione si propone con ricorso al tribunale stesso che omologa, e il procedimento è trattato in camera di consiglio.

Motivi di opposizione tipici da parte dei creditori estranei (o aderenti dissenzienti su qualcosa):

  • la lamentata mancata convenienza (sostengono che avrebbero di più in fallimento, o che il piano è troppo ottimistico e quindi rischiano di non essere pagati per intero come promesso);
  • violazioni procedurali (es. un creditore sostiene di non essere stato computato correttamente nel quorum, o che la sua classificazione è sbagliata, o che l’attestatore è in conflitto di interessi, ecc.);
  • violazione di norme (es. un creditore fiscale che non ha aderito potrebbe opporsi se il debitore chiede ugualmente omologa forzata non rispettando i limiti di legge, oppure un fondo di garanzia salari potrebbe opporsi se ritiene l’accordo lesivo dei diritti dei lavoratori, ecc.);
  • in genere, qualsiasi interesse giuridicamente rilevante leso dall’omologazione.

Se nessuna opposizione viene presentata entro il termine, il tribunale procede all’omologazione in assenza di contenzioso. Spesso, in assenza di opposizioni formali, l’omologa arriva in tempi piuttosto rapidi e senza necessità di udienze (salvo verifica d’ufficio dei requisiti).

Se invece vi sono opposizioni, il tribunale fissa un’udienza di comparizione delle parti (debitore e opponenti, ed eventualmente i creditori aderenti principali) per discutere. All’esito, decide con decreto motivato se omologare comunque l’accordo oppure rigettare l’omologazione accogliendo le opposizioni. L’art. 48 CCII prevede che il tribunale omologa l’accordo nonostante le opposizioni quando ritiene che il piano è idoneo a superare la crisi e assicura il pagamento integrale degli estranei nei termini. In altri termini, se il giudice valuta che le contestazioni degli opponenti non intaccano la solidità dell’accordo e che comunque i loro diritti sono salvaguardati (nessun pregiudizio rispetto alla liquidazione), può respingere le opposizioni e omologare. Viceversa, se riscontra che le doglianze sono fondate – ad esempio, il piano è inattuabile, oppure il creditore opponente dimostra che in caso di fallimento recupererebbe di più (magari perché ha una garanzia sottostimata dal piano) – allora dovrà negare l’omologa.

Un caso particolare riguarda l’opposizione (o mancata adesione) degli enti fiscali o previdenziali alla proposta di transazione fiscale inserita nell’accordo. In passato, se l’Erario non aderiva, l’accordo non poteva essere omologato con quella falcidia di tributi (bisognava pagare integralmente le imposte per omologare). La normativa recente ha introdotto una sorta di cram-down fiscale: la Legge 103/2023 ha previsto in via transitoria, poi recepito in sede di Correttivo-ter, che il tribunale possa omologare ugualmente l’accordo anche senza adesione del Fisco o degli enti previdenziali, a patto che: (i) l’accordo non sia di natura liquidatoria; (ii) il trattamento dei crediti fiscali/contributivi soddisfi certe soglie minime. In particolare, attualmente è richiesto che ai crediti tributari e contributivi venga destinato almeno il 30% del loro ammontare (incluse sanzioni e interessi) se i crediti degli altri aderenti sono di entità inferiore al 25% del totale, oppure almeno il 40% (con dilazione non oltre 10 anni) se i crediti degli altri aderenti superano il 25%. Queste soglie sono state alzate dal D.Lgs. 136/2024 (prima erano un generico 30%). Inoltre, rimane ferma la regola che la proposta debba essere conveniente rispetto all’alternativa del fallimento per il Fisco (valutazione di congruità ex art. 63, che richiede almeno il 10% in caso di pagamento dilazionato fino a 10 anni, e almeno il 20% se oltre 10 anni – parametri anch’essi introdotti dal 2023). Se tali condizioni sono rispettate, il tribunale può omologare forzosamente la transazione fiscale, nonostante il voto contrario o il silenzio-rifiuto dell’Erario. Questo è un enorme passo avanti nel superare possibili “veti” del creditore pubblico, ma richiede appunto il rispetto di requisiti stringenti (soglie del 30-40%, piano non liquidatorio, etc.). Ad esempio: un’azienda presenta un accordo che prevede di pagare il 35% dei debiti tributari; l’Agenzia delle Entrate non aderisce. Se l’azienda soddisfa i requisiti (diciamo il suo piano è in continuità e gli altri creditori hanno il 50% del debito, quindi serve 40% – nel nostro esempio dare 35% sarebbe sotto la soglia, ergo non ammissibile; se invece offriva 40% sarebbe ok), il tribunale potrà omologare comunque e quel 35-40% diverrà vincolante per il Fisco, che dovrà accontentarsi (salvo appello). Se il debitore offrisse meno del minimo, l’omologa forzata non sarebbe possibile.

5.4 Decreto di omologazione e suoi effetti

Se il tribunale ritiene soddisfatti tutti i presupposti, emette il decreto di omologazione dell’accordo. Si tratta di un decreto motivato, pronunciato in camera di consiglio, che viene comunicato alle parti e pubblicato anch’esso nel Registro delle Imprese.

Con l’omologazione, l’accordo di ristrutturazione diviene efficace ed esecutivo. In particolare:

  • L’accordo acquista la stessa efficacia di una sentenza rispetto ai creditori aderenti: le nuove condizioni contrattuali sostituiscono le precedenti obbligazioni. Ad esempio, un creditore aderente che vantava 100.000 € pagabili immediatamente, se l’accordo prevede pagamento 80.000 € in 2 anni, da quel momento ha diritto soltanto agli 80.000 € alle scadenze pattuite e non può pretendere altro. Allo stesso modo, eventuali garanzie prestate dal debitore sui crediti ristrutturati rimangono in essere salvo patto contrario, ma si riferiranno al credito secondo l’accordo.
  • I creditori non aderenti perdono la facoltà di iniziare o proseguire azioni esecutive individuali per il periodo previsto dal piano per il loro soddisfo. Formalmente, essi mantengono il diritto di credito originario (100% del loro credito, con interessi etc.), ma essendo l’accordo omologato idoneo ad assicurare il loro pagamento entro 120 giorni, la giurisprudenza ritiene che fino a tale termine essi non possano agire coattivamente, dovendo attendere l’adempimento secondo l’accordo omologato (si parla infatti di “moratoria ex lege” in loro favore). Trascorsi i 120 giorni dall’omologa (o dalla scadenza naturale del credito) senza pagamento, essi riacquisteranno piena libertà di azione (potranno chiedere il fallimento o esecuzioni, e a quel punto l’omologazione non li proteggerà più, anzi il mancato rispetto dell’accordo sarà motivo di risoluzione). In pratica, l’omologa congela i loro diritti esecutivi per quel breve periodo garantito. C’è da dire comunque che, essendo previsti pagamenti integrali, molti creditori estranei vengono appunto soddisfatti nei tempi stabiliti e quindi escono di scena senza conflitti.
  • Creditori crammati (efficacia estesa): i creditori appartenenti a categorie omogenee non aderenti, ma su cui l’accordo estende gli effetti, dal momento dell’omologa sono obbligati ad accettare il trattamento loro riservato dal piano. In sostanza, l’omologazione sostituisce le condizioni originarie dei loro crediti con quelle previste dall’accordo come se avessero firmato. Ad esempio, se un fornitore dissenziente aveva 50.000 € chirografari e la categoria fornitori prevede un pagamento del 60% in 6 mesi, quel fornitore, pur non avendo mai firmato, dovrà accontentarsi di 30.000 € in 6 mesi e non potrà agire per il resto. La sua posizione viene equiparata a quella di un aderente. L’accordo omologato con efficacia estesa ha dunque forza vincolante anche verso i dissenzienti di quella categoria. Costoro potrebbero solo impugnare il decreto per cercare di farlo riformare, ma nell’immediato devono rispettarlo.
  • Decorrenza degli interessi: per i creditori aderenti, il tasso di interesse applicabile sarà quello eventualmente previsto dall’accordo (spesso 0% o tassi ridotti). Per i creditori non aderenti, continuano ad applicarsi gli interessi secondo i loro contratti fino al momento del pagamento effettivo. Tuttavia, se erano crediti chirografari, durante il periodo del procedimento e fino a 120 gg post-omologa gli interessi di mora potrebbero essere di fatto irrecuperabili (perché se li volessero far valere dovrebbero opporsi e chiedere fallimento, cosa preclusa finché pagati nei 120 gg del 100% capitale). In pratica, l’accordo omologato tende a soddisfare il capitale e a far rinunciare implicitamente agli accessori ulteriori.
  • Efficacia verso i terzi: l’accordo omologato è pubblicato nel Registro Imprese, quindi opponibile erga omnes. Ad esempio, se vi sono soci fideiussori, questi terzi restano formalmente obbligati verso i creditori (l’omologa non libera automaticamente i coobbligati personali, a meno che il creditore vi rinunci espressamente). Tuttavia, un creditore che fosse stato soddisfatto parzialmente dall’accordo e volesse escutere il fideiussore per la parte residua, si troverebbe di fronte alla difesa che l’accordo omologato ha modificato il debito principale. La giurisprudenza è oscillante: tendenzialmente la fideiussione rimane valida per l’intero debito originario se il creditore non ha esplicitamente liberato il garante, perché l’accordo è res inter alios acta per il fideiussore. Ciò significa che il garante potrebbe essere costretto a pagare il dovuto residuo e poi surrogarsi nel credito del soddisfatto. Comprensibilmente, però, nelle trattative spesso si cerca di coinvolgere anche i garanti, ad esempio prevedendo clausole che se il garante paga, quel pagamento vale come esecuzione anticipata dell’accordo (come nel caso di accollo da parte di terzo). Ad ogni modo, l’omologa dà certezza su chi e quanto deve pagare il debitore, ma non cancella automaticamente le garanzie personali di terzi, se non concordato.
  • Esonero da revocatoria: uno dei vantaggi importanti dell’accordo omologato è che gli atti, i pagamenti e le garanzie posti in essere in esecuzione dell’accordo non sono soggetti ad azione revocatoria fallimentare in caso di successivo fallimento del debitore. Questo è sancito espressamente (già dall’art. 67, co. 3, lett. e) L.F. e confermato in CCII): serve a dare sicurezza ai creditori aderenti che i pagamenti ricevuti non verranno richiesti indietro da un curatore qualora l’impresa dovesse fallire dopo qualche tempo. Dunque, se la ristrutturazione purtroppo non salva l’impresa e dopo 1 anno si finisce in liquidazione giudiziale, i creditori che avevano incassato il 60% non dovranno restituirlo al fallimento. Ciò incoraggia ad aderire. Ovviamente, perché valga l’esenzione, i pagamenti devono essere stati eseguiti in conformità all’accordo omologato.
  • Rapporti societari: l’omologa produce anche alcuni effetti sul piano societario, in particolare cristallizza la situazione patrimoniale per il periodo della ristrutturazione: l’art. 64 CCII stabilisce che dalla data del deposito della domanda di omologa e fino all’omologa non si applicano le norme civilistiche sulla riduzione capitale per perdite e sullo scioglimento della società per perdita del capitale. In sostanza, se la società aveva patrimonio netto negativo o sotto il minimo legale, non è obbligata a ricapitalizzare o liquidare durante la procedura. Una volta omologato l’accordo, se questo prevede operazioni sul capitale (es. aumento da parte soci, oppure utilizzo di parte dei crediti a capitale), saranno attuate secondo piano. Se invece, terminato il piano, vi fosse ancora una perdita tale da obbligare a provvedimenti, i soci dovranno farlo (ma spesso l’accordo stesso risolve le perdite, convertendo debiti in capitale o con rinunce dei creditori trasformate in patrimonio netto – c.d. sopravvenienze attive da esdebitazione).
  • Impugnazioni: il decreto di omologazione (o di diniego) può essere impugnato. La legge prevede un reclamo (appello) alla Corte d’Appello competente, entro 30 giorni dalla notificazione o comunicazione. Possono reclamare il debitore (se negata l’omologa) o i creditori che hanno proposto opposizione (se l’omologa è stata concessa respingendo le loro opposizioni), nonché eventualmente altri interessati pregiudicati. La Corte d’Appello decide in camera di consiglio. Contro la sentenza d’appello è ammesso ricorso per Cassazione. Tuttavia, tali impugnazioni non sospendono l’efficacia esecutiva dell’accordo salvo diversa decisione (ossia l’accordo omologato è esecutivo subito, poi se l’appello lo revoca si vedrà). Nella prassi, le impugnazioni sono piuttosto rare: la maggior parte degli accordi omologati prosegue con l’esecuzione senza contenziosi, anche perché spesso le opposizioni sono state risolte prima.
  • Esecuzione dell’accordo: una volta omologato, spetta al debitore eseguire puntualmente gli impegni presi. Non vi è un commissario che sovrintende, a differenza del concordato, quindi tutto è rimesso alla diligente attuazione da parte dell’impresa e al controllo dei creditori stessi. Alcuni tribunali, in sede di omologa, nominano un ausiliario o un attestatore-monitor per vigilare sull’esecuzione, ma ciò non è espressamente previsto dal CCII se non per la composizione negoziata. I creditori di solito chiedono al debitore di ricevere periodicamente informazioni e segnalazioni di eventuali scostamenti.
  • Inadempimento e risoluzione: se il debitore non rispetta gli obblighi dell’accordo omologato (ad esempio non paga una rata concordata, o non paga gli estranei entro i termini), l’accordo può risolversi. La risoluzione però non è automatica ex lege (non c’è un articolo specifico come per il concordato preventivo). Sarà necessario che un creditore interessato chieda al tribunale la dichiarazione di risoluzione dell’accordo per inadempimento. Una volta dichiarata la risoluzione (o anche senza dichiarazione, se l’inadempimento è palese e i creditori decidono di agire comunque), i creditori riacquistano pieni diritti per la parte di credito ancora insoddisfatta. Spesso però, di fronte all’inadempimento di un accordo omologato, i creditori presentano direttamente istanza di fallimento dell’impresa, ritenendo dimostrato lo stato di insolvenza (la quale torna attuale avendo il debitore fallito il risanamento promesso). D’altra parte, l’art. 48 CCII prevede che se l’accordo non raggiunge lo scopo del risanamento, si possa aprire la liquidazione giudiziale anche su istanza del P.M.

Fortunatamente, molti accordi omologati vengono adempiuti regolarmente e l’impresa ne esce risanata. Secondo alcune statistiche ante 2020, circa la metà delle aziende che omologavano accordi riusciva a evitarne la risoluzione nei 2-3 anni successivi; l’altra metà purtroppo ricadeva in insolvenza. È quindi fondamentale, per il successo, che l’accordo sia basato su ipotesi realistiche e su un impegno serio dell’imprenditore a cambiare la rotta aziendale.

6. Rapporti con altri strumenti: piano di risanamento attestato e concordato preventivo

Gli accordi di ristrutturazione non esistono in isolamento, ma fanno parte del ventaglio di strumenti di regolazione della crisi a disposizione dell’imprenditore. È utile capire come si rapportano, in particolare, con il piano attestato di risanamento (strumento privatistico) e con il concordato preventivo (procedura concorsuale giudiziale), nonché con il nuovo istituto della composizione negoziata.

6.1 Differenze e interazioni con il Piano Attestato di Risanamento

Il piano attestato di risanamento (art. 56 CCII, già art. 67 L.F.) è un accordo privato tra il debitore e i suoi creditori, basato su un piano di risanamento asseverato da un professionista indipendente, che non richiede omologazione giudiziaria. Il suo scopo principale è quello di escludere la revocabilità delle rimesse o pagamenti fatti in esecuzione del piano, qualora poi l’impresa fallisca. In pratica, se un’azienda in crisi riesce a farsi ristrutturare i debiti privatamente (anche con tutti i creditori) e un professionista attesta che quel piano è idoneo a risanarla, allora i pagamenti fatti secondo il piano non potranno essere revocati in un successivo fallimento. È uno strumento totalmente stragiudiziale.

Differenze principali rispetto all’accordo di ristrutturazione:

  • Il piano attestato non richiede soglie di adesione formale né omologa: basta che di fatto il debitore lo attui con chi vuole. Potrebbe essere anche un accordo con tutti i creditori, ma senza coinvolgere il tribunale.
  • Non offre misure protettive automatiche: se il debitore opta per un piano attestato, non ha tutela contro azioni esecutive. Deve quindi confidare nella collaborazione spontanea di tutti i creditori, o pagare quelli che potrebbero agire immediatamente.
  • Ha meno pubblicità: non c’è iscrizione nel registro imprese (a meno che il debitore non lo voglia per dare data certa), quindi può restare riservato. Questo è un vantaggio in termini di reputazione e rapporti commerciali (meno allarme sul mercato).
  • Non vincola i dissenzienti: se qualche creditore non sta alle intese, non c’è omologa per vincolarlo – il piano attestato funzionerà solo con chi volontariamente collabora. Dunque è efficace solo se si raggiunge un consenso totale (o se i pochi fuori vengono soddisfatti comunque).
  • Procedura snella: basta predisporlo e farlo attestare, non c’è attesa di decreto. Questo può salvare tempo prezioso.

Quando scegliere un piano attestato invece di un accordo? In generale, un piano attestato è preferibile se:

  • l’impresa ha relativamente pochi creditori e compatti, disposti a cooperare spontaneamente;
  • oppure se ha già in mano la liquidità per pagare i creditori più critici e deve rinegoziare con soggetti fidati;
  • se vuole evitare la pubblicità di una procedura concorsuale (ad es. per non perdere commesse o danneggiare l’immagine aziendale);
  • se la crisi non è troppo grave o incipiente e c’è fiducia reciproca con i finanziatori;
  • se i tempi richiesti sono brevissimi (l’accordo comporta comunque qualche mese di iter giudiziale, il piano attestato può essere immediato).

Un esempio classico: un’azienda con 5 banche finanziatrici potrebbe optare per un piano attestato stipulando accordi bilaterali con tutte e 5, se tutte sono d’accordo e nessun altro creditore rilevante va gestito. Se invece qualche banca non collabora, allora serve l’accordo omologato per poter imporre e ottenere le misure protettive (evitando che la banca non collaborativa faccia fallire l’impresa).

Interazione: Non c’è incompatibilità formale tra i due. Un debitore potrebbe iniziare tentando un piano attestato (più semplice), e se non ottiene consenso sufficiente, ripiegare su un accordo di ristrutturazione giudiziale. Viceversa, potrebbe iniziare negoziando un accordo, e se tutti aderiscono facilmente, decidere di farne semplicemente un piano attestato senza omologa (ma è raro perché una volta depositato meglio ottenere omologa per sicurezza).

Il Codice sottolinea che l’accordo ex art. 57 può essere “in esecuzione di piani attestati di risanamento”, ossia l’accordo contrattuale può inserirsi come passaggio finale di un piano attestato più ampio. In pratica, l’attestatore lo stesso assevera il piano e poi quell’asseverazione serve anche per l’omologa. Ma attenzione: piano attestato e accordo restano distinti giuridicamente; l’accordo dà protezioni concorsuali maggiori.

Una possibile strategia: il debitore predispone un piano di risanamento e lo fa attestare; poi cerca l’adesione di almeno 60% crediti. Se la ottiene, deposita l’accordo per omologa allegando quel piano attestato come documentazione (soddisfacendo di fatto l’art. 57 co.2); se non la ottiene, può comunque attuare il piano con i consenzienti e contare sulle esenzioni revocatorie per i pagamenti fatti, sapendo però di restare esposto a chi è fuori (scenario più rischioso).

In sintesi: piano attestato è strumento di composizione puramente negoziale e discreto, utile per crisi moderate e con alta fiducia reciproca; accordo di ristrutturazione è strumento negoziale ma con stampella giudiziaria per proteggerlo e imporsi sui dissenzienti, adatto a crisi più gravi o complesse. L’accordo dà più “forza di legge” all’intesa, al prezzo di più formalità.

6.2 Differenze e interazioni con il Concordato Preventivo

Il concordato preventivo è la procedura concorsuale giudiziale classica (oggi art. 84 e ss. CCII) in cui l’imprenditore insolvente propone un piano ai creditori e questo viene votato ed omologato a maggioranza, diventando vincolante per tutti. Rispetto all’accordo di ristrutturazione, il concordato presenta differenze marcate:

  • Coinvolgimento di tutti i creditori: nel concordato la proposta deve essere rivolta alla generalità dei creditori (salvo classi separative), tutti hanno diritto di voto (eccetto alcuni privilegiati se soddisfatti 100%). Nel concordato quindi nessun creditore è estraneo: tutti sono dentro e vincolati dall’esito a maggioranza, anche se dissenzienti.
  • Maggioranze e classi: la regola base è maggioranza > 50% dei crediti ammessi al voto; possibilità di classi e anche di cram-down interclassi se certe condizioni (nel CCII, possibilità di omologa nonostante voto contrario di classi dissenzienti con l’intervento del tribunale ex art. 112 CCII). Insomma, il meccanismo decisionale è democratico-collettivo, non puramente contrattuale.
  • Possibilità di falcidiare i crediti privilegiati e trattare anche i creditori pubblici: nel concordato è ammesso proporre il pagamento parziale anche di crediti privilegiati (se si offre almeno il valore di realizzo del bene sottostante o comunque il 20% se privilegio generale) e i crediti fiscali possono essere falcidiati solo tramite transazione fiscale art. 63 (analogamente all’accordo). L’accordo invece di default non può intaccare crediti privilegiati non aderenti (perché vanno pagati fuori per intero, altrimenti bisogna includerli e convincerli o usare efficacia estesa con prudenza).
  • Procedura con organi: nel concordato c’è un commissario giudiziale nominato dal tribunale che vigila durante la procedura, c’è un giudice delegato, e l’adunanza dei creditori, etc. È più burocratico e costoso (compensi al commissario, eventuale giudice delegato che segue).
  • Durata spesso maggiore: i tempi per arrivare a omologa di un concordato (specie in caso di classi e opposizioni) possono essere più lunghi di un accordo. Inoltre, il concordato preventivo liquidatorio richiede soglie di soddisfo minime del 20% per chirografari (nel CCII), e generalmente più scrutinio.
  • Pubblicità e impatto: il concordato è percepito come un “quasi-fallimento” (anche se in bonis). Comporta talvolta la perdita di certificazioni, difficoltà contrattuali (alcuni contratti pubblici vengono risolti se l’azienda entra in concordato), necessità di tagliare personale con autorizzazioni ministeriali (in concordato l’impresa ha limitazioni sugli atti di straordinaria amministrazione, deve chiedere autorizzazioni per licenziamenti collettivi etc.). Insomma è molto invasivo ma anche potente (perché può ridurre i debiti coattivamente).

Considerando ciò, quando conviene un accordo vs un concordato? In linea di massima:

  • Se è possibile ottenere l’accordo con le principali banche/creditori e pagare gli altri integralmente, l’accordo è preferibile: meno costi, meno burocrazia, meno stigma. Permette di ristrutturare miratamente senza coinvolgere tutti.
  • Se invece la situazione è così compromessa che non si può pagare per intero i creditori estranei, o se si ha una platea di centinaia di creditori (impraticabile negoziarli uno a uno), allora bisogna andare in concordato. Ad esempio, un’azienda commerciale con 500 fornitori insoluta non può realisticamente chiudere accordi individuali con solo il 60% del montecrediti e pagarne 200 integralmente entro 4 mesi – più gestibile presentare un concordato con classi (fornitori chirografari prendono X%, banche Y% etc.) e vincolare tutti col voto.
  • Il concordato è la scelta obbligata se si vuole anche imporre sacrifici ai creditori privilegiati che non aderiscono: ad esempio ridurre i canoni di un leasing, o pagare parzialmente un ipotecario – cose che in un accordo puoi fare solo se quel creditore accetta di aderire, altrimenti in concordato lo puoi fare con voto a maggioranza (oppure con cram-down di classe se la maggioranza di chirografari e l’altro soddisfano condizioni).
  • Il concordato preventivo in continuità offre benefici (come contratti pendenti gestibili, finanziamenti prededucibili, ecc.) simili a quelli di un accordo, ma con in più la possibilità di dividere in classi tutti i creditori e abbattere i debiti anche verso oppositori, a scapito però di dover garantire a ciascuno almeno il best interest test e rispettare eventuale absolute priority rule se richiesta in cram-down.
  • L’accordo d’altra parte permette di mantenere la governance in mano all’imprenditore (nessun commissario che autorizza atti): maggiore libertà gestionale durante l’attuazione (nel concordato serve autorizzazione per atti straordinari, vendite beni etc. durante la procedura).
  • Anche i costi sono diversi: un concordato implica un tribunale coinvolto per un periodo più lungo, un commissario e poi eventualmente un liquidatore (se liquidatorio). L’accordo ha costi prevalentemente di consulenza e attestatore, ma niente commissario.

Passaggio dall’uno all’altro: Il CCII concepisce un procedimento unitario per gli strumenti di regolazione della crisi. Significa che l’imprenditore può, con un unico ricorso ex art. 40 CCII, riservarsi di scegliere in corso d’opera se presentare un accordo o un concordato. Ad esempio, può presentare una domanda di concordato “con riserva” (concordato in bianco), ottenere subito il blocco delle azioni, e poi durante il termine negoziare coi creditori: se ottiene abbastanza adesioni, depositare anziché il piano di concordato un accordo ex art. 57 con le firme raccolte, chiedendone l’omologa al posto del concordato. Questo era consentito già con la L.F. (molte aziende depositavano il “concordato in bianco” per congelare la situazione e poi viravano su un accordo di ristrutturazione concluso con calma). Il CCII agevola questi switch. Viceversa, se uno mira a un accordo ma non raggiunge il 60%, può mutare richiesta e chiedere che il procedimento prosegua come concordato (presentando un piano di concordato da mettere ai voti). Chiaramente serve apposita delibera e informare i creditori.

La legge incoraggia la soluzione più appropriata durante il percorso: ad esempio, art. 44 CCII consente di convertire una domanda di concordato in domanda di omologa di accordo se nel frattempo si sono raggiunti i requisiti, e viceversa previa integrazione degli atti. Questo garantisce flessibilità e evita di dover iniziare tutto da capo.

In sostanza, accordo e concordato sono due vie che in parte comunicano: si può iniziare protetti come concordato e finire con un accordo, o tentare accordo e poi cadere in concordato. L’importante è farlo per tempo e con trasparenza verso il tribunale.

Dal punto di vista degli imprenditori, il ricorso all’accordo di ristrutturazione è spesso percepito come meno “infamante” rispetto al concordato. Spesso lo chiamano “concordato stragiudiziale” e lo preferiscono per evitare il marchio di procedure concorsuali. Questo ha un fondamento ma non deve trarre in inganno: se l’azienda non è in grado di pagare nemmeno i piccoli fornitori, un accordo “monco” porterebbe comunque a un fallimento, meglio allora un concordato che li coinvolga e tagli i debiti. La scelta va calibrata sul caso concreto, possibilmente con l’ausilio di un advisor esperto che sappia consigliare il percorso con più chance di successo.

6.3 Composizione negoziata della crisi e accordo di ristrutturazione

Un cenno merita la composizione negoziata della crisi (CNC), procedura introdotta nel 2021 (D.L. 118/2021 conv. L. 147/2021) e ora disciplinata nel CCII (artt. 17-25). Si tratta di un percorso volontario e confidenziale in cui un esperto indipendente assiste l’imprenditore nella ricerca di una soluzione negoziata con i creditori. La CNC non è di per sé una soluzione giuridica definitiva, ma può condurre a vari esiti: un contratto, un accordo stragiudiziale, oppure un accordo di ristrutturazione ex art. 57, o un concordato semplificato se fallisce.

In pratica, l’imprenditore può avviare la CNC quando ha segnali di crisi, ottenendo la nomina di un esperto. Durante la CNC può chiedere al tribunale misure protettive (simili a quelle viste, per massimo 4+4 mesi) per negoziare con serenità. Se le trattative con i creditori vanno a buon fine, possono sfociare in un accordo di ristrutturazione formalizzato e portato in tribunale per omologa. In tal caso, come visto, si hanno anche alcuni benefici (soglia ridotta al 60% nelle classi in efficacia estesa se preceduta da CNC). Dunque la CNC può essere vista come un “pre-accordo”, una fase di negoziazione protetta e guidata che agevola poi la conclusione di un accordo di ristrutturazione.

Se la CNC fallisce (nessun accordo raggiunto), l’imprenditore può ripiegare su un concordato semplificato per la liquidazione (procedura speciale introdotta nel 2021) oppure su liquidazione giudiziale diretta.

Perché menzionarla? Perché oggi molte imprese utilizzano la composizione negoziata come passo preliminare per testare la disponibilità dei creditori e magari ottenere nuova finanza urgente (che nella CNC è prededucibile se autorizzata). La CNC ha il vantaggio di essere riservata all’inizio (non si pubblica l’accesso, salvo se chiedi lo stay). Inoltre, l’esperto aiuta a mediare, spesso convincendo i creditori della bontà di un possibile accordo.

In esito alla CNC, se c’è accordo, due strade:

  • se le parti sono poche e tutte d’accordo -> possono anche formalizzare un contratto esecutivo o un piano attestato senza omologa;
  • se serve comunque l’omologa per efficacia estesa o altro -> convertono in accordo ex art. 57 e lo depositano.

Possiamo dire che la composizione negoziata è oggi un antidoto al problema delle trattative disordinate: fornisce una cornice istituzionale e incentivi (ad esempio, fiscalità di favore su fiscalità differita, protezioni dagli obblighi capitalizzazione per 6 mesi, finanziamenti prededucibili) per portare a casa un accordo. Chi intende proporre un accordo di ristrutturazione, specialmente se la situazione di crisi non è ancora degenerata in insolvenza conclamata, farebbe bene a valutare l’ingresso in composizione negoziata come passo preparatorio.

7. Effetti dell’Accordo omologato: sui creditori, sull’azienda, sui contratti e sulle garanzie

In questa sezione analizziamo in modo sistematico gli effetti prodotti da un accordo di ristrutturazione omologato, evidenziando come incidono sui vari soggetti e aspetti:

7.1 Effetti sui creditori aderenti e non aderenti

Creditori aderenti: per i creditori che hanno sottoscritto l’accordo, l’effetto fondamentale è la novazione concordataria delle loro obbligazioni. In sostanza, dal momento dell’omologazione, i loro crediti verso il debitore sono regolati dalle nuove condizioni dell’accordo e non più da quelle originarie. Ciò comporta:

  • Rinuncia definitiva alla parte di credito eventualmente stralciata (quella porzione viene perduta, salvo sia condizionata es. al puntuale adempimento). Se l’accordo prevedeva un pagamento parziale, con l’omologa la parte non dovuta è giuridicamente cancellata per il debitore (diventa una remissione del creditore).
  • Impegno a rispettare le nuove scadenze e condizioni: il creditore non potrà pretendere pagamento immediato se l’accordo prevede pagamenti dilazionati, né potrà applicare penali o interessi oltre quanto stabilito.
  • Se erano state date garanzie reali su quei crediti (ipoteche, pegni), esse permangono di regola a garantire il credito residuo ristrutturato, salvo l’accordo disponga diversamente (ad esempio, talvolta i creditori concordano di liberare alcune garanzie per permettere all’impresa di offrire collaterale a nuova finanza). Una garanzia può estinguersi solo se il credito viene integralmente soddisfatto o se il creditore vi rinuncia.
  • I creditori aderenti sono inoltre vincolati a eventuali pattuizioni accessorie: ad esempio, se l’accordo contiene un covenant per cui finché dura il piano il creditore si impegna a mantenere aperte linee di fido all’impresa, con l’omologa quell’obbligo diventa vincolante.

In pratica, il creditore aderente vede il proprio diritto modificato ma in compenso ottiene la stabilità dell’impegno: sa che se il debitore non rispetta l’accordo potrà agire di nuovo, ma finché il debitore adempie come da piano non potrà pretendere altro.

Creditori non aderenti (estranei): come già descritto, essi restano titolari dei loro crediti secondo i termini originari, però la legge impone al debitore di pagarli integralmente entro certi termini. Finché il debitore adempie entro quei termini, i creditori estranei sono di fatto soggetti a una moratoria: non possono agire esecutivamente per ottenere prima o di più. Se provassero, il debitore potrebbe opporre l’esistenza dell’accordo omologato e ottenere la sospensione. Tuttavia, trascorsi i 120 giorni senza pagamento, riprendono il diritto di escutere.

Importante: l’accordo omologato non riduce il capitale di credito dei non aderenti – devono comunque ricevere 100%. Quindi, in termini contabili, il debitore nell’accordo dovrà iscrivere a bilancio debiti verso estranei al valore nominale (non c’è remissione). L’unico sacrificio per gli estranei è l’attesa breve e la rinuncia agli eventuali interessi di mora per quel breve periodo protetto.

Se il debitore è inadempiente verso un estraneo (ad esempio non riesce a pagarlo del tutto entro 120 giorni), quell’estraneo può:

  • chiedere la risoluzione dell’accordo (se magari erano tanti creditori estranei non pagati, portando a fallimento),
  • oppure attivare immediatamente un’azione esecutiva o istanza di fallimento (indicando l’insolvenza sopravvenuta).

Creditori crammati (efficacia estesa): sono un ibrido, formalmente non aderenti ma trattati come aderenti per effetto dell’omologa. I loro crediti vengono modificati secondo l’accordo (quindi possono subire anche riduzioni di importo o dilazioni lunghe). Loro perdono il diritto al 100% e accettano forzatamente ad esempio 75%. Per questo, la legge li tutela richiedendo che 75% almeno dei loro pari grado fosse d’accordo e che comunque il 75% in categoria li rappresenti (evitando un gruppo isolato). Quindi, se l’accordo efficacia estesa prevede ad es. per la categoria “Banche chirografarie” il rimborso del 80% in 5 anni con interessi x, la banca non aderente in quella categoria, dal momento dell’omologa, può iscrivere a bilancio solo l’80% del suo credito verso il debitore come importo recuperabile, e con scadenze per 5 anni; il restante 20% è perduto. Essa sarà tenuta a rispettare le nuove scadenze: non potrà dichiarare default il debitore se paga come da accordo. In cambio, ovviamente, sarà libera di agire se il debitore in futuro non rispetta le scadenze (chiedendo magari la risoluzione dell’accordo o un fallimento).

  • Un dettaglio: se un creditore crammato aveva una garanzia reale (difficile che l’accordo efficacia estesa l’abbia incluso in classe se aveva prelazione a copertura totale; se prelazione copriva parziale, la parte eccedente è chirografaria e può esser in classe). Comunque, per la parte privilegiata dovrà essere soddisfatto come da privilegio, altrimenti quell’ipoteca non si estingue. L’accordo esteso su una parte chirografaria del credito non tocca la garanzia per la parte privilegiata. Situazione complessa ma segnalare: l’efficacia estesa su crediti privilegiati è concettualmente possibile solo se i privilegiati sono trattati per intero nella classe e accettano riduzioni sul privilegio – però in legge fall. questo non era ammesso se non come falcidia concordataria. Verosimilmente, la categoria efficacia estesa si userà soprattutto per creditori chirografari o privilegiati disponibili a riduzione (es. Equitalia se considerato tra pubblici, ma lì c’è transazione fiscale a parte).

In generale, per i creditori dissenzienti, l’accordo omologato è simile a un “concordato forzato”: non possono sottrarsi agli effetti decisi. Possono però impugnare l’omologa se ritengono vi siano state scorrettezze (ad es. non omogeneità di classi). Ma una volta definitivo, li vincola.

Creditori post-omologazione: un cenno ai creditori nuovi (nati dopo il deposito): se durante la procedura l’impresa ha continuato ad operare, potrebbe aver contratto debiti ulteriori (per forniture correnti). Questi debiti non sono toccati dall’accordo (che riguarda quelli anteriori). Essi vanno pagati regolarmente e, in caso di successivo fallimento, godono di prededuzione se sorti nel periodo protetto autorizzato (art. 55 CCII li equipara alle spese di procedura perché funzionali alla continuità). Ad ogni modo, il successo del risanamento implica anche gestire bene i debiti correnti perché se il debitore, per pagare i vecchi, inizia ad accumulare arretrati su quelli nuovi, la crisi si avvita. Un buon piano di accordo prevede quindi anche come finanziare il circolante per evitare nuovo stress.

7.2 Effetti sulla continuità aziendale e sull’attività d’impresa

Uno degli obiettivi cardine dell’accordo di ristrutturazione è preservare la continuità aziendale (quando economicamente possibile). Gli effetti sulla gestione e sull’azienda sono dunque pensati per agevolare il proseguimento dell’attività durante e dopo la ristrutturazione:

  • Sospensione delle cause di scioglimento: come accennato, l’art. 64 CCII blocca le cause di scioglimento societario per perdite (art. 2484 c.c.) durante la procedura. Questo permette di non dover mettere in liquidazione la società se il patrimonio netto è eroso dalle perdite pregresse: la società può continuare a operare in deroga temporanea alle regole civilistiche. Una volta omologato l’accordo, se l’attuazione del piano ristabilisce un patrimonio netto positivo, la causa di scioglimento è superata; se per caso il patrimonio rimanesse negativo, i soci dovranno poi intervenire (ma di solito l’accordo stesso prevede una ricapitalizzazione o l’effetto positivo delle remissioni come sopravvenienze attive).
  • Protezione da istanze concorsuali dei creditori: grazie alle misure protettive, l’azienda può proseguire le operazioni quotidiane senza la spada di damocle di un fallimento improvviso. Anche i fornitori e partner sono più tranquilli sapendo che c’è un processo in corso e che non comparirà un curatore dall’oggi al domani. Questo clima relativamente stabile (per quanto una ristrutturazione non sia mai una passeggiata) aiuta la direzione a implementare il piano industriale (che magari prevede lancio di un nuovo prodotto, riorganizzazione interna, ecc.).
  • Mantenimento rapporti di fornitura: come visto, i contratti essenziali non possono essere interrotti unilateralmente dai fornitori per i debiti pregressi. Questo è cruciale: ad esempio, per un’azienda manifatturiera in crisi, l’accordo evita che fornitori di materie prime sospendano le consegne a causa di insoluti passati. Quelli insoluti verranno pagati come estranei entro 120 gg, ma intanto devono continuare a fornire (ovviamente il debitore dovrà pagare il corrente, magari anche anticipatamente per rassicurarli, e spesso chiederà al tribunale l’autorizzazione a pagare fornitori strategici ante omologa). In questo modo, la produzione continua e l’azienda può generare ricavi indispensabili per sostenere il piano.
  • Personale: l’accordo di ristrutturazione non comporta automaticamente licenziamenti o interventi sui contratti di lavoro (a differenza del concordato, dove è previsto un trattamento specifico per i crediti dei lavoratori e possibili tagli concordati). Tuttavia, spesso un piano di risanamento include misure sul personale (riduzioni, cassa integrazione, accordi sindacali). L’accordo può menzionarle, ma l’azienda dovrà seguire le procedure lavoristiche ordinarie (consultazione sindacale ecc.). Non c’è un commissario che autorizza licenziamenti, né un giudice che deve approvarli: resta tutto nella sfera decisionale dell’imprenditore, che deve però agire nei limiti di legge (es. art. 189 CCII per accordi e piani non prevede autorizzazioni giudiziali per licenziamenti, contrariamente al concordato dove servirebbe un nulla osta).
  • Nuova finanza e investimenti: un effetto molto positivo per la continuità è la possibilità di ottenere finanza interinale o aggiuntiva. Durante le trattative, se l’azienda ha bisogno di liquidità per operare (pagare fornitori correnti, retribuzioni), i finanziatori potrebbero erogarla a condizione di uno status privilegiato. Il CCII consente al tribunale di autorizzare finanziamenti prededucibili anche durante le misure protettive (art. 55, co. 2, richiama la possibilità di autorizzare il debitore a contrarre finanziamenti urgenti). E una volta omologato l’accordo, i finanziamenti in esecuzione del piano autorizzati (o previsti) sono anch’essi in prededuzione ex art. 100 CCII. Significa che se poi si fallisce, quei prestatori verranno rimborsati prima di tutti gli altri. Ciò ovviamente incoraggia banche o soci a mettere denaro fresco per la continuità, sapendo di essere protetti. In pratica, una banca potrebbe dire: “ti do 1 milione per cassa, però chiedi al tribunale di dichiararlo prededucibile” – e se quell’accordo va male, la banca in un eventuale fallimento avrà prelazione massima. Questo effetto è importante: di fatto equipara la protezione di un DIP financing nel concordato.
  • Reputazione e rapporti esterni: l’accordo di ristrutturazione, se ben comunicato, può essere percepito dal mercato come un segnale di risanamento in corso, diversamente dal fallimento che è fine attività, o dal concordato che spesso è visto negativamente (anche se c’è continuità). Un’azienda in accordo di ristrutturazione può dire a clienti e fornitori: “abbiamo un piano concordato con le banche per rimetterci in sesto, stiamo pagando tutti i fornitori normali regolarmente”. Molti la considereranno ancora affidabile, magari con prudenza. Inoltre, l’accordo omologato appare nelle visure camerali, quindi banche e partner lo vedono: questo può rassicurare (c’è un piano ufficiale) oppure preoccupare (c’è stato un grave problema). Molto dipende dal contesto.
  • Aspetti fiscali-operativi: l’impresa in accordo beneficia di alcune agevolazioni fiscali (come vedremo nella sezione fiscale) che migliorano il suo conto economico post-risanamento: ad es. la detassazione parziale delle sopravvenienze attive, l’imposta di registro fissa sull’omologa ecc. Inoltre, i debiti fiscali contributivi se ristrutturati alleggeriscono il carico sulla tesoreria.

In sintesi, se ben utilizzato, l’accordo di ristrutturazione consente all’impresa di continuare a operare quasi normalmente durante la ristrutturazione, isolandola dagli effetti più distruttivi della crisi (pignoramenti, revoche di forniture, perdita di fiducia) e dandole il tempo di attuare le misure di rilancio. Le decisioni restano nelle mani degli amministratori (affiancati dall’attestatore come figura di controllo tecnico). Questa caratteristica pro-continuity è uno dei punti di forza rispetto a procedure liquidatorie.

Va però rimarcato che il successo in continuità dipende dalla credibilità del piano: le misure protettive durano pochi mesi e non risolvono i problemi gestionali di fondo. Se l’imprenditore non adatta il modello di business o non elimina le cause delle perdite, l’accordo potrà solo ritardare la fine. D’altro canto, i tribunali sono attenti a omologare solo accordi che mostrino una ragionevole prospettiva di continuità (come evidenziato nel caso Reggio Calabria sulla società calcistica, dove il giudice ha valutato attentamente le strategie di riduzione costi, incremento ricavi e contributo soci per garantire cash flow futuro). Quindi, l’accordo è uno strumento per dare respiro finanziario, ma il risanamento economico lo devono fare l’imprenditore e il management.

7.3 Effetti sui contratti in corso di esecuzione

Abbiamo già delineato la protezione che l’ordinamento offre ai contratti pendenti durante la fase dell’accordo (divieto di risoluzione per il solo deposito dell’istanza, e per i contratti essenziali anche se ci sono insoluti pregressi). Vediamo qualche dettaglio aggiuntivo su come vengono gestiti i contratti di durata:

  • Contratti di fornitura continuativa (es. utenze, forniture periodiche di materiali): il fornitore non può cessare per il deposito. Se il debitore ha arretrati verso di lui (insoluti pre-filing), potrà includerlo tra i creditori estranei da pagare entro 120 gg dall’omologa. Intanto, però, il fornitore è tenuto a proseguire la fornitura corrente. Il debitore di solito paga regolarmente il corrente (magari a pronti) per non dare motivo di ulteriori allarmi e perché la protezione ex art. 64 comma 4 non è assoluta (il fornitore può rifiutare adempimenti futuri se nemmeno il corrente viene saldato). Quindi, l’effetto è: i contratti continuativi continuano, i crediti passati vanno nel piano e saranno saldati come per estranei.
  • Contratti a esecuzione differita (es. compravendita non ancora eseguita da ambo le parti, appalto in corso): qui l’accordo di ristrutturazione non prevede una disciplina ad hoc come l’art. 97 CCII del concordato (che consente al debitore di sciogliersi o sospendere contratti con autorizzazione). Nell’accordo, non c’è un tale potere generale. Quindi, in linea di principio, il debitore non può unilateralmente sciogliere contratti in corso. Può però negoziare col contraente delle modifiche o risoluzioni consensuali. Se un certo contratto è oneroso, l’attestatore magari nel piano indica che l’azienda ne uscirà tramite accordo col fornitore. Spesso i fornitori preferiscono trattare piuttosto che restare intrappolati con un debitore in crisi. D’altro canto, il debitore in accordo non ha la protezione di sospensione del contratto come in concordato (dove può chiedere al GD di sospendere per 60-120 gg un contratto). Quindi deve gestirlo con cautela. Ad esempio: se c’è un contratto di leasing oneroso su macchinario inutilizzato, nel concordato poteva chiedere al giudice di scioglierlo con pagamento di un indennizzo; nell’accordo, dovrà andare a trattare con la società di leasing per restituire il macchinario e concordare uno stralcio del debito leasing. In genere, la società di leasing se capisce che l’azienda sta ristrutturando aderirà con un accordo di chiusura (magari riprendendosi il bene e rinunciando a parte del residuo). Quindi, in pratica, i contratti possono essere risolti ma su base negoziale.
  • Contratti di finanziamento: in accordo, se le banche aderiscono, di solito il contratto originario viene sostituito dai nuovi accordi (piano di ammortamento rivisto, importo ridotto, ecc.). Se una banca non aderisce e non è in efficacia estesa, il suo contratto rimane in vigore secondo i termini: la banca potrebbe essere in default tecnico del contratto (clausole di decadimento, covenant rotti). L’art. 64 c.3, però, impedisce che la banca anticipi la scadenza o modifichi il contratto solo per la crisi. Questo va a colpire quelle clausole ipso facto che prevedono il default automatico se l’azienda fa un accordo. Quindi, la banca non aderente non può risolvere il contratto di fido solo perché l’azienda ha depositato l’istanza. Tuttavia, se poi l’accordo è omologato e la banca è fuori, il debitore deve pagarla secondo il contratto. Se non la paga, la banca può escutere. Spesso, per evitare problemi, il debitore nel piano prevede di estinguere i finanziamenti delle banche non aderenti (pagandole con eventuali nuove risorse) entro l’omologa. Così escono di scena. Questa è prassi, anche perché tenere rapporti creditizi in essere con banche fuori dall’accordo è rischioso (possono congelare linee ecc.).

In definitiva, l’accordo di ristrutturazione consente di mantenere in essere i contratti utili e di rinegoziare o far cessare quelli non più sostenibili tramite accordi con le controparti. Manca però un meccanismo unilaterale di “discharge” dei contratti come nelle procedure concorsuali. Questo richiede attenzione: un imprenditore che entra in accordo dovrebbe già aver discusso con i partner contrattuali critici (locatori, leasing, fornitori di servizi costosi) per trovare intese, possibilmente includendoli nell’accordo stesso se sono creditori (così vincolarli con efficacia estesa se serve).

7.4 Effetti sulle garanzie e sui coobbligati

Garanzie reali su beni del debitore: se un creditore garantito (ipotecario, pignoratizio) aderisce all’accordo, può acconsentire a un trattamento che potrebbe prevedere la riduzione parziale del suo credito. La garanzia reale solitamente resta a copertura del credito residuo. Ad esempio: banca ha ipoteca per credito 1.000; aderisce accettando 800. L’ipoteca rimane per 800. Eventualmente, l’accordo può prevedere la riduzione dell’ipoteca corrispondente (magari liberando parte di immobili se 800 sono comunque coperti da solo un immobile). È tutto negoziale. Se invece la banca chirografaria aderisce, non c’è garanzia in gioco. Se un creditore garantito non aderisce, il suo credito e garanzia rimangono intatti: il debitore dovrà pagarlo integralmente a scadenza o entro l’omologa. Non può toccare la sua ipoteca senza consenso. Se l’accordo efficacia estesa cercasse di includere un garantito (non molto comune), dovrebbe comunque riconoscergli almeno il valore di realizzo del bene e mantenere la garanzia per quell’importo. Diciamo che in pratica, crediti con pegno/ipoteca di solito o aderiscono di loro (se conviene) o vengono lasciati fuori e pagati per intero (magari rifinanziati da terzi).

Garanzie prestate da terzi a favore di creditori: caso tipico, i soci o una controllante hanno garantito con fideiussione o pegno i debiti della società. Cosa succede con l’accordo? L’accordo in sé è tra debitore e creditori, il terzo garante non è parte. Dunque il creditore conserva i suoi diritti verso il garante. Anche se accetta di ridurre il credito verso il debitore, salvo patto contrario, può in teoria chiedere al garante il pagamento dell’intero. La legge non disciplina direttamente questa situazione negli accordi. In giurisprudenza prevale l’idea che la fideiussione non si estingue per effetto dell’accordo omologato, perché il creditore non ha ricevuto integrale soddisfazione, e la modifica del debito principale avvenuta per atto (contratto) a cui il fideiussore non ha partecipato potrebbe liberarlo solo se peggiorativa (art. 1956 c.c. se aggravata, qui non è aggravata ma ridotta, semmai agevola il debitore). Però, attenzione: se il creditore escutesse il garante per la parte tagliata, il garante subentrerebbe (surroga) nel credito verso il debitore, ma quel credito verso il debitore è stato ridotto dall’accordo/omologa – c’è un dibattito se il fideiussore surrogato possa pretendere dal debitore quanto pagato in più. Alcuni ritengono di no, perché altrimenti bypasserebbe l’accordo; altri che il garante pagante potrebbe agire contro il debitore per arricchimento o in base al rapporto interno. Questo è complicato.

Per evitare questi problemi, di solito nell’accordo si inseriscono clausole specifiche sulle garanzie di terzi. Ad esempio: “I creditori X, Y rinunciano ad escutere le garanzie personali dei signori [soci] limitatamente alla quota di credito rinunciata nell’accordo, salvo in caso di inadempimento dell’accordo medesimo”. Oppure: “I soci fideiussori si impegnano a non agire in regresso verso la società per quanto pagheranno ai creditori in esecuzione del presente accordo” (se è previsto che i soci paghino qualcosa al posto della società). Spesso, infatti, i garanti contribuiscono al piano: un socio garante può offrire di pagare direttamente una percentuale del debito garantito, liberando la società. Si configura come accollo del debito: il terzo paga e il creditore esonera il debitore (o viceversa, libera il garante). Ad esempio, nel caso Reggio Calabria citato, l’accordo prevedeva l’accollo del debito verso i creditori aderenti da parte di un terzo (presumibilmente un socio), il che risolve la partita: il terzo paga, e poi quel debito è estinto (il terzo probabilmente non rivalersi sulla società, o lo fa come finanziamento postergato). Anche questo mostra la flessibilità dell’accordo: possono intervenire terzi finanziatori o garanti per facilitare.

Quindi, il succo: l’accordo non libera di per sé i coobbligati e fideiussori. Un creditore, se non pattuito diversamente, potrebbe richiedere al fideiussore il pagamento. Tuttavia, accade raramente in pratica se il rapporto è proseguibile, perché:

  • se il creditore l’ha falcidiato del 30% in accordo, poi escutere il socio per il 30% sarebbe contrario alla buona fede di quell’accordo (anche se legalmente possibile, il socio poi può far fallire la società per regresso).
  • Spesso il creditore preferisce attenersi all’accordo e mantenere rapporti con l’azienda risanata, piuttosto che iniziare cause col garante.

Dal punto di vista del garante, questi rimane esposto. Quindi, un imprenditore che ha dato garanzie personali (fideiussioni bancarie) deve sapere che l’accordo della sua società non lo solleva: se la banca taglia il credito del 20% con l’azienda, potrebbe comunque pretendere dal garante quell’importo. Molti istituti finanziari addirittura inseriscono nelle fideiussioni clausole di sopravvivenza, dicendo che il fideiussore è obbligato anche se il debitore è esdebitato da procedure concorsuali. Quindi, a maggior ragione in un accordo, il fideiussore rimane vincolato.

È saggio, dunque, negoziare contestualmente con le banche la liberazione (totale o parziale) delle garanzie personali in parallelo all’accordo. Spesso, come contropartita, il garante offre qualcosa (pagamento immediato parziale, nuovo collaterale, ecc.). Questa è una criticità pratica di molti accordi: l’imprenditore salva l’azienda ma resta con debiti personali se aveva garantito. Bisogna valutare bene questo aspetto e farlo rientrare nelle trattative. I professionisti di solito cercano di includere anche i garanti al tavolo per trovare un assetto complessivo (magari i creditori dicono: ok, non escuteremo la tua garanzia, però tu socio metti € in azienda come finanza fresca).

Garanzie su beni di terzi (pegni su beni di soci, ipoteche su immobili di garanti): analogamente alle fideiussioni, restano efficaci. Esempio: socio ha dato ipoteca sulla sua casa a garanzia di mutuo aziendale. Se la banca aderisce all’accordo riducendo il mutuo, ipoteca rimane per il mutuo residuo. Se addirittura mutuo viene estinto parzialmente con stralcio, la banca potrebbe mantenere ipoteca per parte stralciata finché non conclusa l’esecuzione dell’accordo (o finché fideiussore paga differenza). In genere, come sopra, di concerto la banca rilascia la garanzia in misura proporzionale allo stralcio.

Effetti su crediti con garanzie pubbliche (Fondo centrale, SACE): queste garanzie (Stato che garantisce prestiti) sono molto diffuse. Se una banca aderisce a un accordo e il prestito garantito viene ridotto, la banca solitamente attiva la garanzia statale per la parte che l’azienda non paga. Lo Stato paga la banca e poi si surroga come creditore verso l’impresa (in via privilegiata se la garanzia era tale). C’è una normativa che regola questi casi nei limiti degli aiuti di stato. Di base, l’accordo di ristrutturazione non impedisce alle banche di escutere garanti statali (che non sono “persone” nel senso di ipso facto clause). Quindi, attenzione: un debito bancario garantito dal Fondo PMI, se ridotto del 30%, la banca potrebbe chiedere al Fondo il 30%. Il Fondo paga e poi probabilmente si insinua come creditore privilegiato per quell’importo. A tal proposito, recentemente vi sono state linee guida: per esempio, il Mediocredito Centrale (gestore Fondo PMI) richiede che negli accordi il debitore includa la rinuncia a opporsi alla surroga. Questo è tecnico, ma per dire che le garanzie statali possono generare crediti residui. L’effetto finale è spostare il debitore da debito verso banca a debito verso Stato (che però spesso è più paziente nel recupero). Sono dettagli da seguire con consulenti.

8. Effetti Fiscali e Contabili dell’Accordo

La ristrutturazione dei debiti tramite accordo produce una serie di effetti fiscali che vanno considerati sia ai fini della convenienza sia per evitare sorprese. Vediamo i principali aspetti:

8.1 Tassazione delle sopravvenienze attive da riduzione del debito

Quando un creditore rinuncia a una parte del proprio credito (c.d. stralcio), il debitore ottiene un beneficio economico che, contabilmente, è rilevato come sopravvenienza attiva (un provento straordinario). In linea di principio, tale provento costituirebbe reddito imponibile ai fini IRES (imposte sul reddito delle società) e IRPEF, salvo eccezioni. Ad esempio, se una banca abbuona €100.000 di debito capitale, il bilancio del debitore registrerà +100.000 a conto economico (nel macro-gruppo E “proventi straordinari”), che confluiscono nell’utile dell’esercizio e quindi, di regola, tassabili.

Tuttavia, da vari anni la normativa fiscale italiana prevede una detassazione (totale o parziale) delle sopravvenienze attive derivanti da accordi di ristrutturazione omologati o da concordati. Lo scopo è incentivare i risanamenti non gravando il debitore di un pesante debito fiscale proprio mentre si risana. La disciplina, che ha subìto modifiche nel tempo, può essere così sintetizzata:

  • L’art. 88, comma 4-ter del TUIR (Testo Unico Imposte sui Redditi) dispone che “non si considerano sopravvenienze attive le riduzioni dei debiti dell’impresa (…) effettuate in esecuzione di un piano attestato di risanamento (…) o di un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato (…) o di un concordato preventivo omologato”, nei limiti delle perdite di periodo e pregresse. In sostanza, il legislatore ha introdotto un regime di detassazione condizionata: la parte di stralcio che serve a coprire perdite fiscali pregresse o la perdita dell’esercizio corrente non è tassata; solo l’eventuale eccedenza che generasse utile sarebbe imponibile. Questa formulazione deriva da una modifica con il D.L. 83/2012, che ha appunto aggiunto gli accordi ex 182-bis L.F. tra i casi di non imponibilità parziale. Il razionale è evitare che l’azienda esca dal risanamento con un utile tassabile magari solo contabile, facendole però utilizzare prima le proprie perdite fiscali accumulate.

In pratica, come funziona: supponiamo che un’azienda ottenga remissioni di debiti per €500.000. Se aveva perdite fiscali pregresse per €400.000 e quell’anno operativamente fa -€100.000 di risultato, allora i €500.000 vanno a colmare quei -€100.000 (portando l’utile fiscale a zero) e i restanti €400.000 vanno a ridurre le perdite pregresse (che diventano consumate). Risultato: utile fiscale zero, quindi nessuna imposta su quei €500.000. Se invece l’azienda non aveva perdite pregresse e quell’anno operativamente era in pareggio, i €500.000 costituirebbero utile fiscale tutto tassabile. Se aveva solo €200.000 di perdite pregresse, allora €200.000 sarebbero esentati (usati per annullare perdite), e €300.000 imponibili.

Questo meccanismo è un po’ complesso ma, in sintesi, le sopravvenienze attive da accordo omologato non generano imponibile fino a concorrenza delle perdite fiscali (pregresse o dell’anno). Non si crea cioè la situazione paradossale di un’azienda che, risanata sulla carta, debba pagare tasse su utili fittizi mentre ancora è fragile. È come se la remissione del debito non fosse reddito tassabile, a meno che non ecceda le perdite: in quel caso, la parte eccedente diventa di fatto un utile reale e tassabile (perché l’azienda senza più debiti potrebbe trovarsi con patrimonio netto aumentato e utile di esercizio).

Va precisato che perdite pregresse vuol dire quelle fiscali (riportabili ai sensi art. 84 TUIR). Se l’azienda ne aveva tante accumulate, è probabile che tutta la sopravvenienza attiva sia sterilizzata. Se invece era sempre stata in utile e arriva a un accordo con remissioni, paradossalmente avrebbe un problema di tassazione – ma scenario poco frequente, di solito chi arriva a ristrutturazione ha perdite.

  • Un ulteriore aggiornamento: la Legge di Bilancio 2019 introdusse la possibilità, per i concordati preventivi in continuità e accordi di ristrutturazione, di trasformare in credito d’imposta parte delle imposte differite attive relative a perdite pregresse e ACE, come incentivo. Non entriamo nel dettaglio, ma solo per segnalare che esistono misure premiali (ad esempio la trasformazione DTA in crediti d’imposta se l’accordo va a buon fine). Ciò può rafforzare la posizione finanziaria post-risanamento.
  • Nel 2020, col “Decreto Rilancio” (D.L. 34/2020), per aiutare nelle crisi da Covid fu temporaneamente esclusa la tassazione delle sopravvenienze da concordati e accordi omologati entro il 2021, indipendentemente da perdite. Ma era misura a termine. Attualmente, si applica la regola standard con perdite.

Nel caso di revisione dell’accordo (accordo modificato successivamente senza nuova omologa): l’Agenzia delle Entrate ha chiarito che il beneficio di non tassare la sopravvenienza attiva vale solo per l’accordo omologato. Se poi successivamente le parti modificano l’accordo (ad es. ulteriore riduzione del debito concessa in via stragiudiziale), quella ulteriore sopravvenienza non gode dell’esenzione. Quindi, eventuali remissioni post omologa potrebbero essere tassate integralmente. Questo per evitare abusi (… ev. di accordi omologati che poi vengono “rettificati” con maggiori stralci senza passare dal giudice). L’Agenzia delle Entrate, Risposta Interpello n. 49/2024 ha infatti negato la detassazione per una sopravvenienza derivante da modifica non omologata di un accordo precedente.

IRES e IRPEF: la detassazione riguarda l’IRES (società di capitali) e l’IRPEF (ditte individuali/società di persone) perché è nel TUIR. Quindi anche un imprenditore individuale in contabilità ordinaria che fa un accordo beneficerà di questo regime (non tasse sullo stralcio entro limiti perdite). Se però l’impresa è in contabilità semplificata, occorre gestire le perdite etc., ma concettualmente simile.

IRAP: l’IRAP (imposta regionale sulle attività produttive) ha regole proprie. In linea generale, le sopravvenienze attive concorrono al valore della produzione IRAP. Non mi risultano esenzioni specifiche per concordati o accordi in ambito IRAP. Anzi, studi professionali notano che le sopravvenienze attive da riduzione debiti sono imponibili IRAP nella misura correlata a costi dedotti in precedenza. Ad esempio, un debito verso fornitore stralciato generava a suo tempo un costo dedotto (l’acquisto di merci), quindi la rinuncia corrisponde a recupero di costo dedotto e va a tassazione IRAP. Dunque, è possibile che anche se l’azienda non paga IRES sullo stralcio, debba pagare un po’ di IRAP (l’aliquota IRAP è 3.9% standard). Se l’azienda però è una piccola società di persone non soggetta a IRAP (non industriale) o ha base imponibile IRAP negativa, può non rilevare. Occorre calcolare caso per caso.

Inoltre, per imprese individuali e società di persone in regime “per trasparenza IRAP”, le sopravvenienze attive forse non entrano nel calcolo IRAP (perché quell’IRAP è basata su bilancio civilistico?). Questione tecnica: basti dire che qualche impatto IRAP potrebbe esserci ma in genere modesto rispetto all’IRES.

8.2 Trattamento fiscale dei crediti e delle perdite per i creditori

Per completare il quadro: dal lato dei creditori, le perdite su crediti subite nell’accordo sono generalmente deducibili fiscalmente. Se una banca rinuncia a €100 di credito capitale in un accordo omologato, può dedurli come perdita su crediti (normalmente le perdite sono deducibili quando il debitore è assoggettato a procedure concorsuali, e la Cassazione ha incluso gli accordi omologati tra tali procedure concorsuali rilevanti). Già il D.M. 159/2015 equiparava la remissione di debiti in concordato/accordo a elementi certi e precisi di perdita. L’Agenzia Entrate ha confermato che un creditore che aderisce a un accordo e falcidia il proprio credito ha elemento certo di perdita deducibile (Risoluzione 27/E 2012). Questo aspetto è spesso sottovalutato ma importante: significa che i creditori, specie banche, scaricano su fisco una parte del costo della ristrutturazione (deducendo la perdita risparmiano IRES al 27,5% – 24% oggi – su quella quota). Ciò li rende più disponibili ad accettare stralci, sapendo che c’è un “contributo” statale implicito.

Inoltre, per i fornitori IVA: se un credito commerciale viene stralciato perché l’azienda debitrice glielo paga parzialmente, il fornitore può emettere una nota di credito per recuperare l’IVA sulla parte non incassata (in quanto quel corrispettivo non è mai stato realizzato). La legge IVA permette l’emissione di nota di credito per mancato pagamento a seguito di procedure concorsuali, e l’accordo omologato vi rientra dopo una riforma (L. 208/2015). Quindi il fornitore recupera anche l’IVA versata all’Erario sulla fattura insoluta per la parte non incassata (questo è un ulteriore incentivo: lo Stato rimborsa l’IVA su crediti non riscossi in procedure concorsuali).

Questi elementi fanno sì che il “sacrificio” dei creditori sia fiscalmente mitigato e l’imprenditore può far leva su ciò in sede di trattativa (“banca, tu rinunci al 20% ma lo porti a perdita e risparmi il 5% di tasse, quindi il tuo sacrificio economico netto è minore”).

8.3 Altri aspetti fiscali: imposte indirette e tributi locali

  • Imposta di registro: il decreto di omologazione dell’accordo di ristrutturazione è soggetto a imposta di registro in misura fissa (oggi 200 €). Infatti, è equiparato agli atti giudiziari che definiscono una procedura concorsuale. L’art. 8, co. 1 lett. g) della Tariffa DPR 131/86 prevede registro fisso per “provvedimenti che omologano concordati…” e l’Agenzia delle Entrate ha chiarito che vi rientra anche l’omologa di accordo. Ciò rettificando vecchio orientamento che avrebbe voluto registro proporzionale come transazione. Quindi niente balzelli proporzionali sulle masse debitorie.
  • Imposte ipocatastali: se l’accordo comporta trasferimenti di immobili (es. cessione di un bene ai creditori) oppure cancellazione di ipoteche, saranno dovute le imposte ipotecarie/catastali relative. Però, se il trasferimento avviene nell’ambito di procedura concorsuale, spesso si applicano imposte fisse (ad es. in concordato le cessioni imposte ipocatastali fisse 200+200). L’accordo di ristrutturazione omologato può godere di analoghe agevolazioni (la prassi considera l’accordo omologato come procedura concorsuale). Ad esempio, il credito d’imposta per IVA su cessioni forzate (art. 74 DPR 633/72) forse è invocabile. Non entriamo nel dettaglio: ma se c’è una dismissione importante, conviene valutare la fiscalità indiretta.
  • Tasse locali: l’accordo in sé non incide su IMU, TARI ecc. Quelli restano debiti da trattare dentro (spesso falcidiabili come tributi se l’ente accetta in transazione fiscale). Se stralciati via transazione fiscale omologata, la parte falcidiata di IMU/TARI non genera obbligo per amministratori (non è come l’IVA o ritenute che hanno responsabilità personali se non pagate per intero – su IVA/ritenute la transazione fiscale è cruciale perché solo quell’iter consente di ridurle con pace dei guai penali e amministratori).

A proposito: IVA e Ritenute: in un accordo di ristrutturazione non si possono falcidiare a piacere l’IVA e le ritenute operate e non versate, salvo seguire la procedura di transazione fiscale dell’art. 63 CCII. La normativa attuale consente la falcidia anche di IVA e ritenute purché approvata dall’AE (prima erano intoccabili se AE diceva no), e adesso anche non approvata ma forzosamente omologata se condizioni (30-40% come visto). Se il piano riduce IVA/ritenute e ottiene omologa forzosa, allora anche l’amministratore è salvo da responsabilità penali (la L. 159/2020 ha introdotto causa di non punibilità per omologa di accordo che includa il pagamento parziale di IVA/ritenute, equiparandolo al pagamento integrale ai fini penali). Questo ha implicazioni fiscali e penali molto importanti: l’accordo omologato che prevede il pagamento parziale dell’IVA libera l’organo amministrativo dal rischio di reato di omesso versamento IVA (art. 10-ter D.Lgs. 74/2000), se soddisfa le condizioni (versare almeno il 30% come da soglia e omologa forzata o adesione AE). Ciò perché l’art. 10-ter punisce chi non versa oltre soglia entro termini legge, ma se poi c’è un accordo omologato che definisce diversamente, la Cassazione ha riconosciuto esimente (sull’onda delle cause di non punibilità introdotte per concordati preventivi). Questo argomento esula un po’ dal “fiscale puro”, ma è rilevantissimo: molti imprenditori in crisi accumulano debiti IVA; con l’accordo possono risolvere sia il debito che la potenziale sanzione penale. A condizione di rispettare la nuova disciplina. Dunque, lato fiscale “penale”, l’accordo è oggi allineato al concordato nel dare scudo a chi regolarizza la posizione entro l’omologa.

  • Deducibilità costi accordo: le spese professionali per l’accordo (compensi legali, attestatore, periti) sono in linea di massima deducibili come costi dell’esercizio (spese per consulenze etc.). Quindi l’azienda può dedurle fiscalmente, riducendo l’utile (o aumentando la perdita). Questo è ovvio ma da ricordare nei calcoli di convenienza.

8.4 Aspetti contabili e di bilancio

Sul piano contabile, l’accordo di ristrutturazione incide principalmente su:

  • Rappresentazione in bilancio: fino all’omologa, i debiti vanno mantenuti in bilancio al valore nominale, magari annotando nell’informativa nella Nota Integrativa che è in corso una procedura di accordo e se approvata ridurrà l’indebitamento. Dopo l’omologa (specie se avviene prima della chiusura dell’esercizio), l’azienda deve contabilizzare le rettifiche: riduzione dei debiti per la parte stralciata (a conto economico come sopravvenienza attiva) e iscrizione dei debiti ristrutturati secondo le nuove scadenze. Se l’accordo comporta dilazioni a tassi diversi da prima, in teoria si dovrebbe attualizzare il debito se il tasso implicito differisce significativamente dal mercato, secondo OIC 19, ma spesso la differenza non è enorme e si può mantenere il valore nominale.
  • Benefici patrimoniali: l’effetto immediato dell’accordo sullo stato patrimoniale è di ridurre il Passivo (meno debiti) e quindi di incrementare il patrimonio netto (a fronte dell’utile straordinario generato). Questo aiuta a riequilibrare indici di bilancio (debt/equity, solvibilità, ecc.). Tuttavia, attenzione: quell’incremento di patrimonio netto è in parte virtuale se tassato. Con la detassazione condizionata, spesso va tutto a coprire perdite pregresse e il patrimonio netto finale risulta migliorato ma non esageratamente (perché le perdite latenti vengono “consumate” dal provento non tassato). Comunque, l’azienda risanata potrebbe passare da patrimonio netto negativo a positivo, ricostituendo le riserve o l’utile portato a nuovo.
  • Nota Integrativa: dovrà dare informazione dettagliata dell’accordo eseguito: data omologa, tipi di intervento (taglio debiti, dilazioni), effetti sull’attività e sull’equilibrio finanziario, impegni futuri, eventuali condizioni ancora pendenti. Spesso si inserisce un prospetto dei debiti ristrutturati prima/dopo, e uno dei “benefici finanziari attesi”. Ci sono linee guida (es. da CNDCEC) su come descriverlo chiaramente.
  • Controllo di gestione: post accordo, l’impresa deve monitorare l’andamento rispetto al piano. Anche se non c’è commissario, è buona pratica redigere report periodici per i creditori e per uso interno, verificando scostamenti di fatturato, margini, flussi di cassa. Questo è contabile-gestionale, non legale, ma imprescindibile per evitare che piccole deviazioni portino fuori rotta.

In definitiva, sul fronte fiscale-contabile, l’accordo di ristrutturazione offre vantaggi (detassazione delle remissioni, spese deducibili, regime fisso imposte registro, possibilità di recuperare IVA fornitori) che alleggeriscono l’onere e vanno sfruttati in sede di pianificazione. Dal lato bilancio, permette di “pulire” la situazione patrimoniale dell’azienda e ripartire con conti più ordinati. Naturalmente, l’azienda risanata dovrà poi proiettarsi verso utili futuri su cui pagherà regolarmente le imposte – il beneficio fiscale è one-off sul pregresso.

9. Pubblicità, Informative e effetti verso i terzi

La procedura di accordo di ristrutturazione prevede alcuni adempimenti pubblicitari volti a rendere conoscibile ai terzi la situazione, e produce effetti anche nei confronti di soggetti terzi estranei al rapporto debitore-creditori.

9.1 Pubblicità dell’accordo

Registro delle Imprese: come ribadito più volte, la legge impone la pubblicazione della domanda di omologazione dell’accordo nel Registro delle Imprese (sezione atti societari). Questo fa sì che chiunque faccia una visura camerale dell’azienda veda l’annotazione che la società ha depositato un accordo ex art. 57 CCII in data X. E successivamente, il decreto di omologa o eventuale rigetto vengono anch’essi iscritti (in caso di omologa, spesso come annotazione o deposito di atto omologa). Tale pubblicità è essenziale per dare certezza a decorso di termini (opposizioni) e per proteggere eventuali acquirenti di crediti o partecipazioni.

Albo pretorio tribunale: inoltre, alcuni tribunali pubblicano un estratto del ricorso sul proprio sito o albo per notizia ai creditori (non è obbligo di legge, ma pratica di trasparenza).

Comunicazioni individuali: non è prevista formalmente una comunicazione via PEC a tutti i creditori come nel concordato (dove va inviato avviso di convocazione udienza a tutti). Tuttavia, per prassi, spesso il tribunale ordina che il debitore notifichi l’avvenuto deposito dell’accordo ai creditori non aderenti noti, per dar loro modo di eventualmente opporsi tempestivamente. In qualche caso, il debitore stesso allega al ricorso le ricevute di invio PEC ai creditori estranei di un avviso. Ciò non è normativamente imposto nel CCII salvo errori di nostra conoscenza, ma per fairness può accadere. In ogni caso, i creditori attivi di solito monitorano il Registro imprese o sono informati dal debitore stesso (che li contatta durante negoziazione).

Centralità rischi e altri sistemi: quando un accordo è pubblicato, le banche generalmente lo segnalano nelle banche dati rischi (Centrale Rischi Bankitalia, CRIF, etc.) come ristrutturazione in atto. Questo può rendere difficile per l’azienda ottenere nuovo credito dal sistema bancario tradizionale durante l’esecuzione del piano (sarà segnata come “in accordo ex art. 182-bis” per un certo tempo). È un effetto collaterale: di solito le banche con cui hai l’accordo sono le stesse che dovrebbero rifinanziarti al bisogno, ma banche terze saranno riluttanti a esporsi fino a risanamento completato.

Società quotate o emittenti titoli diffusi: se l’azienda è quotata o ha obbligazioni diffuse tra il pubblico, l’avvio di un accordo di ristrutturazione è un fatto price-sensitive che deve essere comunicato al mercato mediante comunicato price sensitive (market disclosure) secondo le regole Consob. Inoltre, se ha strumenti quotati, l’iter potrebbe dover coinvolgere deliberazioni e comunicati più strutturati (nel 2017 la Lazio calcio fece un accordo ex 182-bis su debiti tributari e comunicò tutto al mercato). Per PMI non quotate, questo non rileva.

9.2 Efficacia verso terzi estranei

Per terzi estranei intendiamo soggetti che non sono creditori del debitore ma possono avere rapporti con esso, ad esempio partner commerciali, clienti, concorrenti, pubbliche autorità:

  • Clienti: Un cliente dell’azienda in ristrutturazione, specie se fornitore di filiera, potrebbe essere preoccupato per la sua continuità. L’azienda può rassicurarli mostrando che c’è un accordo omologato, garantendo così che sta risolvendo la crisi e che i fornitori strategici vengono pagati (i clienti temono interruzioni di fornitura, se sanno che i fornitori essenziali sono protetti continueranno a ricevere prodotti). Inoltre, se un cliente aveva anticipato acconti, rientra tra i creditori e sarà tutelato. Dunque i terzi clienti sono indirettamente coinvolti solo in termini di fiducia: l’accordo, se trasparente, può mantenere o ripristinare la fiducia sul fatto che l’azienda consegnerà beni e servizi come promesso.
  • Concorrenti: Alcuni competitor potrebbero cercare di sfruttare la notizia del tuo accordo per sottrarti clienti (“quelli sono quasi falliti!”). Tuttavia, col CCII che normalizza questi strumenti, si può replicare che è un processo di risanamento previsto dalla legge. Inoltre la pubblicità è limitata al registro imprese; in settori B2B la voce gira, ma in B2C il pubblico potrebbe neanche accorgersene se non è diffusa via stampa. Alcune imprese preferiscono comunicare proattivamente alla stampa locale: “Tale azienda avvia un accordo con le banche per rilanciarsi, nessun impatto sui dipendenti e fornitori” – per controllare la narrativa.
  • Rating e fornitori nuovi: i fornitori nuovi o potenziali potrebbero consultare bilanci e visure e scoprire l’accordo. Ciò potrebbe indurli a chiedere pagamenti anticipati o garanzie su nuove forniture. Questo è un effetto negativo temporaneo: l’azienda ristrutturata deve ricostruire pian piano la propria reputazione di pagatore affidabile. L’accordo omologato però è indice che i vecchi debiti sono sistemati in qualche modo, quindi i nuovi fornitori potranno vedere bilanci più puliti e decidere. Molto dipende dal settore.
  • Procedimenti giudiziari: se c’erano cause civili pendenti su crediti ristrutturati, l’omologazione e l’accordo transattivo spesso comportano la cessazione della materia del contendere (le parti depositano verbali di conciliazione o la causa viene abbandonata). Eventuali decreti ingiuntivi non opposti, se i crediti erano compresi e aderenti, vengono soddisfatti come da accordo. Quindi davanti ai tribunali civili l’accordo fa stato tra le parti in causa. Verso i terzi estranei (es. co-obbligati come detto prima) la situazione è più complessa.
  • Rapporti societari: Se la società in ristrutturazione fa parte di un gruppo, l’accordo può avere effetti su società consociate – ad esempio, se la società madre garantiva i debiti di una controllata che fa accordo, la madre sarà toccata. Oppure se la ristrutturazione implica cedere rami d’azienda a un soggetto terzo (che può essere un’altra società del gruppo), quell’operazione deve rispettare condizioni di mercato e può dover essere autorizzata. L’accordo però in sé non vincola legalmente le società del gruppo non debitrici (salvo queste abbiano garantito etc.).
  • Notai e pubblici registri: il decreto di omologa, oltre a registro imprese, può dover essere annotato in Conservatoria RR.II. per attestare eventuali effetti su ipoteche (se ad esempio l’accordo prevede la riduzione di ipoteca, ci sarà atto notarile di riduzione). Il notaio eventualmente coinvolto (ad es. per un aumento di capitale contestuale all’accordo, o per un atto di cessione) dovrà tener conto dell’accordo omologato come condizione e allegarlo. Non c’è un “registro nazionale” degli accordi, quindi i notai vanno in CCIAA a pescare l’atto.
  • Responsabilità degli amministratori: verso i terzi, un effetto importante, come accennato, è che gli amministratori sono esonerati dalla responsabilità da ritardo nell’istanza di fallimento avendo scelto uno strumento di composizione. Se l’accordo fallisce e l’azienda fallisce dopo, i creditori potrebbero citare gli amministratori per aver tardato la soluzione: ma se essi possono dimostrare di aver tentato l’accordo ragionevolmente e questo è stato omologato, difficilmente saranno ritenuti colpevoli di aver aggravato il dissesto (anzi, erano in procedura concorsuale negoziata). Anche il periodo tra crisi e deposito accordo è considerato “in attesa di definizione concordata”, quindi gli atti fatti in quell’interregno in genere non generano azioni di responsabilità se necessari alla gestione. L’art. 64 CCII salva comunque gli atti ordinari e impedisce contestazioni su perdite di capitale. Questo effetto non è immediatamente percepibile dai terzi, ma incide su possibili cause future.

In conclusione, la pubblicità e gli effetti verso i terzi di un accordo di ristrutturazione cercano un equilibrio: massima trasparenza verso il mercato per proteggere i creditori estranei e consentire opposizioni, ma al contempo limitata invasività sulla operatività con i terzi. L’accordo non travolge i contratti altrui, non incide su diritti di terzi se non correlati ai crediti in questione. I terzi rilevanti – fornitori, clienti, garanti, Fisco – sono in qualche modo coinvolti o protetti dalle misure delineate.

Uno snodo particolare: in certi casi, come accennato, l’accordo di ristrutturazione può essere utilizzato in contesti più ampi, ad esempio per imprese concessionarie di servizi pubblici (dove serve anche l’assenso dell’ente concedente) o imprese soggette a vigilanza (serve informare Banca d’Italia se è una finanziaria). Questi terzi istituzionali valuteranno l’accordo, ma il CCII ha predisposto norme di coordinamento. Ad esempio, se c’è un sequestro penale su beni dell’impresa, l’art. 54-bis CCII consente di chiedere la sospensione al giudice penale per consentire il piano – quindi i giudici penali (terzi) entrano in contatto con l’accordo. Oppure la Corte Costituzionale (terza istituzione) è stata investita in passato di questioni sui privilegi erariali negli accordi: ad oggi non risultano pronunce di incostituzionalità sull’istituto, anzi la Consulta ha confermato la legittimità di trattamenti diversificati se proporzionati.

10. Giurisprudenza recente e Prassi operative

In questo capitolo finale, esaminiamo alcuni orientamenti giurisprudenziali consolidati o recentissimi sugli accordi di ristrutturazione, nonché alcuni aspetti di prassi emersi dalla pratica bancaria e notarile.

10.1 Giurisprudenza: sentenze e provvedimenti chiave

Natura concorsuale dell’accordo: La Cassazione ha più volte affrontato la questione se l’accordo ex art. 182-bis L.F. (ora art. 57 CCII) sia una procedura concorsuale o un semplice contratto. In particolare, tre sentenze del 2018 (Cass. 1182/2018, Cass. 9087/2018, Cass. 16347/2018) hanno sancito un “cambio di rotta”, qualificando gli accordi di ristrutturazione come parte integrante delle procedure concorsuali. Cass. 9087/2018 in particolare ha usato la metafora dei cerchi concentrici della concorsualità: al centro la liquidazione coatta, poi concordato, poi accordi come cerchi esterni con maggiore autonomia. Ciò significa che agli accordi si applicano, in quanto compatibili, i principi generali delle procedure concorsuali (par condicio, divieto atti in frode, controllo giudiziale) e ad esempio la competenza funzionale ed esclusiva del tribunale fallimentare, l’applicabilità delle esenzioni da revocatoria, ecc. Questo orientamento è stato recepito dal CCII che inserisce gli accordi nel novero degli strumenti di regolazione della crisi e insolvenza.

Controllo del tribunale: Cassazione e corti di merito hanno delineato l’oggetto del controllo omologatorio. Si è consolidato che il tribunale deve effettuare un controllo di legalità e fattibilità ma non entrare nel merito della convenienza economica per i creditori aderenti. Già Cass. 1521/2013 affermava che spetta ai creditori valutare la convenienza del piano, al tribunale solo la legittimità. In particolare, Cass. 12322/2017 ha statuito che il giudice non può sindacare la meritevolezza economica dell’accordo se il 60% dei creditori l’ha accettato: il suo giudizio si limita a verificare che l’accordo sia idoneo a soddisfare i non aderenti e sia attuabile. Tale principio è ripreso all’art. 48 CCII. Le corti di merito hanno tuttavia margine nel valutare la fattibilità: ad esempio, Tribunale di Milano 14 luglio 2023 ha rifiutato un’omologa ritenendo il piano non sufficientemente supportato da finanza esterna, quindi incapace di garantire gli estranei (applicazione rigida del best interest). In linea generale, i tribunali omologano se il professionista attestatore è autorevole e convinto della fattibilità e se eventuali opposizioni non forniscono elementi tali da smentirlo.

Opposizioni dei creditori estranei: giurisprudenza molto interessante si è formata sulle opposizioni dell’Erario per la transazione fiscale negata. In passato, alcune corti (Trib. Roma 30/6/2021, Trib. Milano 8/2/2021) interpretavano che in assenza di adesione del Fisco l’accordo non fosse omologabile (adesione necessaria), mentre altre (Trib. Lecce 17/10/2022) erano più possibiliste sostenendo l’ammissibilità di omologa anche contro il diniego, in coerenza con la Direttiva UE. Questa disomogeneità ha portato il legislatore ad intervenire (L. 103/2023 e D.Lgs 136/2024) chiarendo le condizioni per l’omologa forzosa. Dunque oggi la giurisprudenza dovrebbe uniformarsi: l’omologa forzosa del Fisco è ammessa soltanto se sono rispettate le soglie (30% o 40%) e il piano non è liquidatorio. Aspettiamo le prime applicazioni di questi parametri: ad esempio, un Tribunale potrebbe trovarsi a decidere su un Erario dissenziente con offerta 35%. Se gli altri creditori sono oltre 25% del debito, la soglia 40% non è centrata e quindi quell’accordo andrebbe negato. Vedremo se i giudici seguiranno alla lettera (probabile, essendo norma chiara). Questo mette in luce l’importanza di tenere aggiornata la prassi alle modifiche normative.

Accordi ad efficacia estesa: essendo novità recente (introdotta compiutamente col CCII nel 2022), ci sono pochi precedenti. Un caso di rilievo è il già citato Tribunale di Reggio Calabria, decreto 9 giugno 2023: riguardava l’omologa di un accordo di ristrutturazione di una squadra di calcio di serie B, con previsione di classi omogenee (Erario e fornitori) e estensione ai dissenzienti. In quel caso, da quanto pubblicato, il Tribunale ha omologato nonostante il voto contrario dell’Erario, ritenendo soddisfatta la condizione di convenienza per il Fisco (infatti fu offerto il 5% su ~€12 milioni di debiti fiscali, con impegno del socio a versare nuova finanza – scenario dove liquidazione avrebbe dato zero, quindi 5% è parso accettabile). Questa pronuncia, precedente però alla L.103/23, appare “permissiva” (omologa con Erario non aderente pagato solo 5%). Ci si domanda se oggi, con la soglia minima del 30%, quell’accordo sarebbe omologabile: 5% è ben sotto 30, quindi forse no. Ma quel decreto fa scuola su un punto: il giudice ha valorizzato la continuità aziendale come interesse anche erariale, affermando che permettere alla squadra di proseguire genererà più ricchezza e gettito fiscale futuro di quanto una liquidazione immediata con forse recupero 0% avrebbe fatto. Questa logica economica di “fisco paziente oggi per incassare domani” è importante e probabilmente ispiratrice della norma attuale.

Altra giurisprudenza sui crammings: Trib. Catania 31/3/2022 fu un caso in cui l’INPS non aderì a una transazione fiscale e il tribunale ritenne preclusa l’omologa forzata (prima di riforma), evidenziando la mancanza di base legale all’epoca. Diversamente, Trib. Salerno 23/1/2023 adottò una linea ancor più rigida: negò l’omologa perché il piano offriva al Fisco solo il 10% mentre ad altri chirografari il 30%, quindi ravvisò disparità (pur se legge non obbligava parità di trattamento, il tribunale fece applicazione rigorosa del principio di par condicio). Ora la legge in parte dà ragione a Salerno, imponendo 30% minimo.

Risoluzione dell’accordo: pochi casi noti pubblicamente. Uno fu Cass. 24875/2014 (in tema di sequestro penale): la Cassazione disse che se l’accordo non è adempiuto, il sequestro di beni pro insolvenza è legittimo. Altro è Cass. 11868/2019 che ha dichiarato legittima l’istanza di fallimento da parte di un creditore estraneo dopo il termine di 120 giorni, se il debitore non lo aveva pagato. Insomma, i giudici riconoscono che se l’impresa non rispetta il piano, i creditori possono agire senza dover chiedere una risoluzione formale in sede civile (basta dimostrare l’inadempimento e lo stato d’insolvenza). Anche i Tribunali tendono a dichiarare il fallimento su istanza di creditori non soddisfatti nel caso l’accordo fallisca, piuttosto che far partire un contenzioso sulla risoluzione in sé.

Clausole di salvaguardia per atti urgenti: in dottrina si discute se l’azienda in accordo possa effettuare atti eccedenti l’ordinaria amministrazione senza autorizzazione, poiché il CCII non prevede un regime simile a quello del concordato con riserva. Ad esempio, vendere un immobile durante l’attesa dell’omologa: serve autorizzazione? Il CCII non la menziona, quindi formalmente no, ma quell’atto potrebbe essere inefficace se in frode ai creditori estranei. La giurisprudenza invita alla cautela: meglio chiedere un provvedimento di urgenza ex art. 55 se serve vendere beni o contrarre nuovo debito rilevante. Diversi tribunali (es. Trib. Bologna 13/6/2023) hanno autorizzato affitti d’azienda o finanziamenti in corso di omologa su istanza del debitore, applicando analogia con misure protettive atipiche.

Massime notarili sui requisiti formali: nella prassi notarile, la Commissione Studi del CNN ha pubblicato massime in cui afferma che non è necessaria l’autentica delle firme dei creditori sugli accordi. La ragione: la legge non lo prescrive e un eventuale problema di prova dell’adesione può essere superato con mezzi ordinari (documenti con firme digitali, PEC). Questa interpretazione è condivisa da sentenze (Trib. Monza 3/12/2015) e dottrina. Quindi l’accordo può essere sottoscritto semplicemente. Tuttavia, alcuni notai suggeriscono di depositare in Conservatoria eventuali patti di transazione su garanzie, se opportuno, e comunque di fare autentiche se l’accordo è soggetto a condizione sospensiva e c’è da iscrivere previsioni. Ma non è obbligo.

Massime dei dottori commercialisti: la FNC (Fondazione Nazionale Commercialisti) e il CNDCEC hanno emanato linee guida su piani e accordi (documento n.65/2014 etc.) delineando best practice su predisposizione documenti, attestazione, valutazione convenienza. Questi non sono legge ma influenzano molto: ad esempio, si suggerisce di includere sempre nell’accordo un prospetto di come saranno pagati i creditori estranei (per aiutare l’attestatore e il giudice a cogliere la compliance con 120gg). Oppure consigliano di indicare in modo analitico quali contratti pendenti si intendono mantenere. Tali prassi migliorano la qualità delle proposte.

Tribunale di Milano – linee guida: Il Tribunale di Milano, molto attivo in materia concorsuale, ha pubblicato linee guida per la predisposizione di piani e domande di omologa (2022), in cui richiede: evidenza chiara del calcolo delle percentuali di credito aderenti, attestazione con stress test (se vendite calano del 10%, l’azienda regge?), e approfondimento sul rispetto best interest per estranei. Queste linee guida non vincolanti stanno diventando standard officiosi anche altrove.

Corte Costituzionale: finora ha toccato solo indirettamente l’istituto. Una sentenza importante è la n. 83/2013, che dichiarò infondata la questione di legittimità su 182-ter L.F. (transazione fiscale) laddove consentiva al Fisco di non aderire e bloccare concordati, considerandola scelta legislativa. Ora che la legge è cambiata, la Consulta non è intervenuta ma verosimilmente giudicherebbe la nuova norma (cram-down fiscale) come bilanciamento ragionevole tra interesse erariale e continuità, quindi costituzionalmente legittima.

Giurisprudenza comparata: un accenno – la disciplina italiana degli accordi è stata ispirata anche dalle pratiche di altri paesi (es. in Francia, la procédure de sauvegarde n’a pas besoin du vote unanime; in Spagna c’è l’acuerdo extrajudicial de pagos con 60% soglia). Ora, dopo la direttiva UE, c’è convergenza. Gli accordi italiani si avvicinano ai Scheme of Arrangement britannici e ai Chapter 11 pre-pack americani per efficacia, pur restando distinti. Ciò rende i giudici più aperti a soluzioni innovative (ad es. cross-class cramdown nel concordato è già realtà, nell’accordo per ora solo intra-class).

In sintesi, la giurisprudenza attuale favorisce una lettura dell’accordo come strumento concorsuale flessibile: tutela i non aderenti, ma rispetta la volontà della maggioranza dei creditori e l’autonomia negoziale. I tribunali supportano accordi ben congegnati e bocceranno invece accordi fumosi o squilibrati. Importante è studiare i casi concreti (ad esempio il caso di Reggio Cal. e altri) per capire come predisporre un buon fascicolo.

10.2 Prassi bancaria e prassi notarile

Prassi bancaria: Le banche italiane, tramite l’ABI, hanno emanato negli anni alcune linee guida interne per la gestione delle posizioni in crisi e ristrutturazioni. Dopo il 2009, con la crisi finanziaria, era stata promossa ad esempio la “Moratoria ABI – Imprese” in cui le banche concedevano dilazioni standardizzate a PMI in difficoltà. Oggi, le banche considerano l’accordo di ristrutturazione come uno strumento di credit workout avanzato. Nei loro processi interni, una posizione che entra in Utp (inadempienza probabile) può evolvere in un accordo ex art. 57: in tal caso, l’istruttoria per aderire passa spesso dai comitati crediti con relazione che evidenzia la convenienza (spesso comparando con ipotesi di liquidazione). Molte banche prima di aderire richiedono:

  • di nominare un advisor finanziario comune (spesso scelto dalle banche maggiori) che passi al vaglio il piano dell’impresa e faccia eventuali stress test;
  • pattuire un “intercreditor agreement” tra le banche aderenti, per coordinarsi (es. nominare una banca agente per monitorare l’esecuzione del piano, concordare clause di standstill reciproche, impegni a non agire singolarmente).
  • eventualmente, ottenere covenant nel nuovo accordo (es. ratio finanziari da rispettare, obbligo di reporting trimestrale con bilancio di verifica, ecc.); anche se l’accordo di ristrutturazione non è uno strumento con organi di vigilanza come il concordato, nulla vieta che i creditori mettano condizioni e parametri da controllare periodicamente. Non è infrequente vedere accordi in cui l’azienda si impegna a mantenere entro certi limiti l’indebitamento o a destinare eventuali extra profitti anticipatamente ai creditori.

Un’altra prassi bancaria è quella di prevedere una “clausola di riassetto”: ad esempio, se l’azienda nei 2 anni successivi ottiene utili straordinari o vende un asset oltre una certa soglia, si impegna a destinare una quota aggiuntiva ai creditori falcidiati (specie banche). Questo viene inserito per ragioni di equità: le banche accettano stralcio, ma se poi il valore dell’azienda rimbalza oltre le attese, vogliono una piccola partecipazione al “upside”. È un meccanismo simile all’earn-out. Giuridicamente, è valido come patto aggiuntivo (condizione risolutiva parziale).

Le banche inoltre, se l’accordo prevede cessione di beni o azioni in loro favore, curano tramite i notai e i legali la corretta formalizzazione (pignori su nuove azioni emesse, trascrizione ipoteche per eventuali nuovi finanziamenti concessi in prededuzione, ecc.).

Prassi notarile: I notai sono spesso coinvolti a vario titolo:

  • Autentica del verbale CDA o assemblea che approva l’accordo (per le SpA, serve verbale notarile ex art. 44 CCII che deliberi la proposta di accordo).
  • Possibile finanziamento soci contestuale: se i soci finanziano o capitalizzano come da piano, il notaio verbalizza l’aumento di capitale o il finanziamento postergato.
  • Atti di disposizione immobiliari: se l’accordo prevede vendita di un immobile, di solito si fa atto notarile di vendita con menzione che avviene in esecuzione di accordo ex art. 57 omologato (per giustificare esenzione revocatoria e imposte fisse).
  • Garanzie reali: il notaio redige atti di costituzione di nuove ipoteche o pegni promessi nell’accordo (ad es. i soci mettono ipoteca su un loro immobile a garanzia del nuovo debito residuo). Anche eventuali trust a garanzia o escrow account sono curati da notai se predisposti.

La prassi è di allegare copia conforme del decreto di omologa agli atti notarili derivati, per dare piena contezza e pubblicità. L’omologa funge un po’ da “ombrello” legittimante.

Inoltre, i notai nelle esecuzioni di accordi forniscono consulenza su eventuali apporti di capitale di società terze: se una società terza interviene ad acquisire partecipazioni come parte del risanamento, occorre strutturare l’operazione (patti parasociali, condizioni sospensive legate all’omologa, etc.). Non di rado l’accordo di ristrutturazione fa da cornice a un ingresso di nuovi investitori (non obbligatorio come nel concordato, ma può succedere). In tali casi, è essenziale coordinare atto di aumento di capitale (a investitore) e efficacia dell’accordo: di solito l’accordo stabilisce che l’aumento deve essere deliberato e sottoscritto entro X giorni dall’omologa, e il mancato ingresso può costituire condizione risolutiva dell’accordo (o magari l’investitore condiziona l’impegno all’omologa inoppugnabile). I notai curano queste clausole sospensive con attenzione.

Prassi dei professionisti attestatori: anch’essa importante. Col tempo si sono sviluppati Principi di attestazione (CNDCEC 2015) che gli attestatori seguono. Ad esempio:

  • l’attestatore deve eseguire verification procedures su dati e non basarsi solo su asserzioni del debitore (Cass. penale ha condannato attestatori troppo “leggeri” per falso in attestazioni).
  • l’attestatore deve valutare la meritevolezza del piano: se percepisce che l’imprenditore ha nascosto atti in frode (es. ha pagato fuori dal piano un amico) deve segnalarlo, perché ciò potrebbe portare il tribunale a negare l’omologa per violazione par condicio. Un caso: Cass. 34488/2019 (penale) ha confermato la condanna di un attestatore che non segnalò pagamenti preferenziali prima del deposito.
  • oramai negli accordi, l’attestatore include quasi un mini piano alternativo di liquidazione per dimostrare il best interest: ciò è prassi e giurisprudenza lo esige. Nei modelli di relazione, c’è una sezione “convenienza per creditori non aderenti vs liquidazione giudiziale”.

Durata medie: la prassi, stando a statistiche pre-Covid, è che un accordo di ristrutturazione richiede 6-9 mesi dal primo contatto coi creditori all’omologa. Dipende dalla complessità. Con la composizione negoziata, forse i tempi di negoziazione iniziale si allungano (l’esperto ha 3-6 mesi, poi il deposito accordo), ma la percentuale di successo potrebbe crescere perché le parti arrivano più preparate. Post omologa, l’esecuzione di solito dura dai 1 a 5 anni a seconda del piano (la legge non mette un tetto alla durata del piano come nel concordato, che può essere anche lungo). Banche preferiscono non oltre 5-6 anni, se no preferiscono far scattare un concordato.

Risoluzione anticipata: prassi nel 10-20% di accordi è rinegoziare in corsa se l’azienda va meglio o peggio. Se va meglio, i creditori talvolta chiedono pagamenti anticipati pro-rata (magari il debitore paga tutti prima e si chiude). Se va peggio, a volte trasformano l’accordo in un concordato (ovvero presentano un concordato quando prevedono di non reggere l’accordo). In entrambi i casi, trasparenza e dialogo coi creditori sono essenziali: meglio concordare modifiche che arrivare a rotture unilaterali.

10.3 Criticità applicative frequenti e suggerimenti operativi

Criticità:

  • Individuazione del perimetro dei creditori da coinvolgere: scegliere con chi fare l’accordo e chi pagare fuori è un’arte delicata. Se sbagli e lasci fuori creditori “pericolosi” (ad es. uno con titolo esecutivo che non puoi pagare subito), quello può far saltare il banco. Suggerimento: fare una mappa di tutti i creditori, classificandoli per importanza e aggressività, e predisporre misure (inclusione nell’accordo o pagamento) per ognuno. Non trascurare creditori minoritari: anche un piccolo creditore può presentare istanza di fallimento. Se proprio non puoi pagarlo subito, chiedi misure protettive per congelarlo.
  • Timing: spesso le aziende arrivano troppo tardi a proporre l’accordo, con cassa esausta e fornitori sul piede di guerra. In tale situazione, anche solo resistere fino all’omologa (che dà 120 gg per pagarli) è dura. Suggerimento: valutare l’accordo per tempo, magari durante la composizione negoziata, e se la liquidità è scarsa, prevedere finanziamenti ponte (garantendo prededuzione) per traghettare l’azienda durante la procedura. Coinvolgere eventualmente sponsor (clienti disposti a prepagare forniture future, soci, etc.).
  • Resistenza di qualche creditore: è fisiologico che non tutti siano entusiasti. Un creditore isolato che non aderisce può ancora opporsi. Spesso i creditori dissenzienti paventano che in fallimento avrebbero trattamento migliore. L’azienda deve prepararsi a confutare ciò con numeri (es. per questo servono stime realistiche su valore assets in liquidazione). E magari offrire qualche miglioria ad hoc: ad es. al creditore ipotecario dissenziente offrire interessi un po’ più alti nel piano per persuaderlo a desistere dall’opposizione (che, se il giudice vede che comunque prende interessi e 100% capitale, sarebbe pretestuosa). Insomma, a volte conviene fare un piccolo “side-deal” con l’oppositore potenziale per neutralizzarlo – con cautela per non violare par condicio, ma possibile se c’è giusta causa (ad esempio è un creditore che altrimenti farebbe saltare fornitura strategica: gli offri pagamento leggermente anticipato rispetto agli altri, giustificandolo per la sua funzione essenziale nel piano).
  • Costi della procedura: se l’azienda è molto piccola, i costi fissi (attestatore, avvocati, eventuali perizie immobiliari) possono essere proibitivi. Ad esempio, per un debito di €300.000, un accordo potrebbe non valere la pena perché l’attestatore e legale costano magari 30-40k. In tali casi, valutare alternative come la composizione negoziata semplice (che ha costi minori, l’esperto ha compensi calmierati) o la procedura di sovraindebitamento (piani di ristrutturazione minori ex art. 67 CCII). Suggerimento: dimensionare lo strumento alla taglia dell’impresa. L’accordo di ristrutturazione è più adatto a PMI medio-grandi e grandi, per le micro-imprese spesso conviene il procedimento di composizione della crisi da sovraindebitamento.
  • Coordinamento con advisor diversi: nelle trattative spesso entrano diversi consulenti (legali delle banche, advisor finanziari, consulenti del lavoro per esuberi). Rischio di scoordinamento e perdite di tempo. Suggerimento: l’imprenditore nomini un Project Manager della ristrutturazione (può essere l’avvocato principale o l’advisor finanziario) che calendarizzi incontri, tenga aggiornato un data room con tutte le informazioni condivise e faccia pressing per le risposte. Gestire un accordo è come gestire un progetto: servono timeline e responsabilità chiare, altrimenti si rischia di sforare tempi e far saltare la fiducia.
  • Gestione della comunicazione interna: i dipendenti vanno informati in modo onesto ma rassicurante. Se sapranno solo via gossip del deposito accordo, potrebbero agitarsi. Meglio organizzare un incontro interno spiegando che l’azienda sta ristrutturando i debiti e non ci saranno impatti negativi sui salari (anzi, se il piano li prevede, discuterli subito). Il personale che si sente coinvolto sarà più motivato a contribuire al rilancio.
  • Clausole penali e di default incrociato: attenzione a eventuali contratti con clausole di “default cross acceleration” (tipo: se entri in procedura concorsuale, scatta risoluzione). L’art. 64 le rende inefficaci per contratti pendenti, ma per contratti già risolti prima potrebbe essere tardi. Suggerimento: se sai di avere un contratto di fornitura cruciale con clausola risolutiva insolvency, prima di depositare l’accordo cerca di concordare con quella controparte una rinuncia ad applicarla. La legge dovrebbe impedirlo comunque, ma prevenire è meglio (a volte il fornitore non consapevole potrebbe comunque interrompere e poi star lì a discutere di efficacia clausola). Un confronto preventivo elimina il problema.
  • Durata e monitoraggio: durante l’esecuzione del piano, la criticità è rilassarsi troppo dopo l’omologa. Alcune imprese, ottenuta l’omologa, tornano a “business as usual” senza implementare i cambiamenti promessi (taglio costi, nuove strategie). Questo porta a fallire l’accordo. Suggerimento: implementare un sistema di governance della ristrutturazione: magari un Comitato di Sorveglianza interno con CFO, advisor, rappresentanti dei principali creditori, che si riunisca trimestralmente per verificare KPI del piano. Non obbligatorio, ma utile a mantenere disciplina e trasparenza. I creditori apprezzano e se c’è un piccolo problema (es. un trimestre va male) lo si affronta insieme con aggiustamenti (es. creditori concedono un’estensione) invece di aspettare il default finale.

In conclusione, i suggerimenti operativi chiave sono: pianificazione anticipata, trasparenza e dialogo costante con i creditori, coinvolgimento di professionisti esperti e indipendenti, e monitoraggio rigoroso dell’esecuzione. L’accordo di ristrutturazione è uno strumento potente e relativamente flessibile, ma va gestito con rigore quasi pari a una procedura concorsuale tradizionale, senza improvvisazioni.

Come sottolineato anche dalla Cassazione, la riuscita dell’accordo dipende in larga misura dalla credibilità che il debitore sa recuperare agli occhi dei creditori. Ciò si ottiene con comportamenti corretti (niente favoritismi occulti), stime realistiche, e l’umiltà di accettare la supervisione di terzi (attestatore, magari un monitoring trustee).

11. Conclusioni

Abbiamo percorso tutte le sfaccettature di “come funziona l’accordo di ristrutturazione del debito” nell’ordinamento italiano, evidenziandone la natura, i requisiti, il procedimento e gli effetti, nonché le novità normative di questi ultimi anni. Per un imprenditore in difficoltà, l’accordo di ristrutturazione rappresenta oggi un’opzione concreta per uscire dalla crisi mantenendo il controllo della propria impresa e salvaguardandone la continuità. Rispetto a soluzioni più drastiche, comporta trattative serrate ma offre esiti potenzialmente win-win: l’azienda è risanata, i creditori ottengono in tempi ragionevoli il massimo possibile (spesso più che in fallimento), i posti di lavoro sono preservati, e anche l’erario può beneficiare di un soggetto economico che torna a produrre reddito.

Gli strumenti normativi aggiornati al 2025 – inclusa la possibilità di imporre l’accordo ai dissenzienti in categorie e di superare l’eventuale veto del Fisco in presenza di certe garanzie – rendono l’accordo di ristrutturazione ancora più efficace e attrattivo. La presenza della composizione negoziata poi può essere sfruttata come anticamera per costruire un accordo robusto con l’assistenza di un esperto terzo.

Naturalmente, l’accordo di ristrutturazione non è una panacea universale: non può salvare aziende decotte o settori senza prospettive; richiede che almeno una parte significativa dei creditori abbia fiducia nel piano dell’imprenditore. Richiede inoltre disciplina nell’esecuzione e un costante impegno a rispettare gli impegni presi.

In ottica operativa, un imprenditore che valuta questa strada dovrebbe:

  1. Rivolgersi prontamente a consulenti legali e finanziari per valutare la fattibilità di un accordo (anche alla luce delle percentuali di credito).
  2. Coinvolgere i creditori chiave in un dialogo onesto, presentando bozze di piano credibili e mostrando apertura ad eventuali aggiustamenti richiesti.
  3. Verificare e migliorare la struttura organizzativa interna per attuare il piano (ad es. assicurarsi che il management sia all’altezza del rilancio, eventualmente cambiando figure se necessario).
  4. Tenere conto non solo degli aspetti giuridici, ma anche di quelli relazionali: ricostruire la fiducia con i fornitori, rassicurare i clienti, motivare i dipendenti – tutti elementi “soft” che però possono fare la differenza nel successo di un’azienda risanata.

L’ordinamento italiano, attraverso il Codice della Crisi, fornisce oggi un quadro normativo moderno e in linea con l’Europa per favorire le ristrutturazioni consensuali. Le sentenze e la prassi professionale hanno rodato molti meccanismi, riducendo l’incertezza applicativa. Dunque, l’accordo di ristrutturazione del debito è ormai un “classico” degli strumenti di risanamento, che un imprenditore dovrebbe conoscere e considerare quando naviga in acque tempestose.

In definitiva, se l’impresa ha ancora un cuore economico valido (prodotto/servizio con mercato) ma è soffocata dai debiti, l’accordo di ristrutturazione può essere il ponte verso un nuovo inizio – un ponte da costruire con attenzione, con l’aiuto di professionisti e con la collaborazione (talora faticosa) dei creditori, ma che può condurre a salvare l’impresa e rilanciarla su basi più sane.

Accordi di Ristrutturazione dei Debiti: Perché Affidarsi a Studio Monardo

Se la tua impresa è gravata da debiti con banche, fornitori, Fisco o INPS, ma presenta ancora potenzialità di rilancio, puoi evitare il fallimento grazie agli Accordi di Ristrutturazione dei Debiti, strumenti previsti dal Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (D.Lgs. 14/2019).

Si tratta di accordi volontari tra l’imprenditore e i creditori, che consentono di rimodulare il debito complessivo, ottenere dilazioni, stralci, moratorie e tutelare l’attività aziendale.
Affidarsi all’Avvocato Giuseppe Monardo significa avere al fianco un professionista esperto e abilitato, capace di costruire un piano efficace, trattare con i creditori e omologare l’accordo in Tribunale per renderlo opponibile anche ai terzi.

Tipologie di accordi disponibili

  1. Accordi ordinari (art. 57 CCII): richiedono l’adesione di almeno il 60% dei creditori, e possono essere omologati in Tribunale.
  2. Accordi agevolati (art. 60 CCII): sufficienti il 30%, ma con particolare attenzione alla sostenibilità del piano.
  3. Accordi con transazione fiscale: includono Agenzia delle Entrate e INPS tra i creditori, con possibilità di stralciare sanzioni e interessi.

Tutti possono essere oggetto di misure protettive, con sospensione di pignoramenti e sequestri durante la trattativa.

Quando è la soluzione giusta

  • Se hai un’azienda ancora attiva ma sovraesposta con il sistema bancario o col Fisco
  • Se vuoi evitare la liquidazione giudiziale (ex fallimento)
  • Se hai già tentato una trattativa ma senza strumenti protettivi
  • Se vuoi bloccare l’aggressione del patrimonio e ottenere tempo
  • Se intendi rilanciare l’attività con un piano serio e sostenibile

Cosa fa per te l’Avvocato Monardo

  • Analizza la tua situazione aziendale e patrimoniale
  • Costruisce un piano di rientro realistico, con l’aiuto di commercialisti e advisor
  • Redige la proposta di accordo da sottoporre ai creditori
  • Rappresenta l’impresa nelle trattative bancarie, tributarie e commerciali
  • Deposita l’accordo in Tribunale e ne chiede l’omologazione
  • Attiva le misure protettive legali per sospendere le azioni in corso
  • Ti assiste fino alla completa esecuzione dell’accordo

Le qualifiche dell’Avvocato Giuseppe Monardo

L’Avvocato Monardo è:

  • Gestore della Crisi da Sovraindebitamento, iscritto presso il Ministero della Giustizia
  • Fiduciario di un Organismo di Composizione della Crisi (OCC)
  • Esperto Negoziatore della Crisi d’Impresa, abilitato ex D.L. 118/2021
  • Coordinatore di una rete nazionale di avvocati e commercialisti esperti in diritto bancario, tributario e delle esecuzioni

Con queste qualifiche può gestire direttamente ogni fase dell’accordo, senza intermediazioni e con strumenti efficaci e tempestivi.

Perché agire ora

  • Perché ogni giorno di ritardo può significare azioni esecutive irreversibili
  • Perché con l’omologazione puoi bloccare anche i creditori dissenzienti
  • Perché l’accordo può salvare l’azienda e tutelare l’imprenditore da responsabilità
  • Perché mostrare iniziativa e correttezza può favorire anche futuri accessi al credito

Conclusione

Gli Accordi di Ristrutturazione dei Debiti sono la soluzione legale più intelligente per uscire dalla crisi senza fallire.
Affidarsi all’Avvocato Giuseppe Monardo significa negoziare in sicurezza, strutturare un piano sostenibile e omologabile, e recuperare il controllo sulla tua impresa con il supporto di un legale esperto e abilitato.

Qui di seguito tutti i contatti del nostro Studio Legale esperto in crisi d’impresa e accordi di ristrutturazione del debito:

Leggi con attenzione: Se stai affrontando difficoltà con il Fisco e hai bisogno di una rapida valutazione delle tue cartelle esattoriali e dei debiti, non esitare a contattarci. Siamo pronti ad aiutarti immediatamente! Scrivici su WhatsApp al numero 351.3169721 oppure inviaci un’e-mail all’indirizzo info@fattirimborsare.com. Ti ricontatteremo entro un’ora per offrirti supporto immediato.

Informazioni importanti: Studio Monardo e avvocaticartellesattoriali.com operano su tutto il territorio italiano attraverso due modalità.

  1. Consulenza digitale: si svolge esclusivamente tramite contatti telefonici e successiva comunicazione digitale via e-mail o posta elettronica certificata. La prima valutazione, interamente digitale (telefonica), è gratuita, ha una durata di circa 15 minuti e viene effettuata entro un massimo di 72 ore. Consulenze di durata superiore sono a pagamento, calcolate in base alla tariffa oraria di categoria.
  2. Consulenza fisica: è sempre a pagamento, incluso il primo consulto, il cui costo parte da 500€ + IVA, da saldare anticipatamente. Questo tipo di consulenza si svolge tramite appuntamento presso sedi fisiche specifiche in Italia dedicate alla consulenza iniziale o successiva (quali azienda del cliente, ufficio del cliente, domicilio del cliente, studi locali in partnership, uffici temporanei). Anche in questo caso, sono previste comunicazioni successive tramite e-mail o posta elettronica certificata.

La consulenza fisica, a differenza di quella digitale, viene organizzata a partire da due settimane dal primo contatto.

Disclaimer: Le opinioni espresse in questo articolo rappresentano il punto di vista personale degli Autori, basato sulla loro esperienza professionale. Non devono essere intese come consulenza tecnica o legale. Per approfondimenti specifici o ulteriori dettagli, si consiglia di contattare direttamente il nostro studio. Si ricorda che l’articolo fa riferimento al quadro normativo vigente al momento della sua redazione, poiché leggi e interpretazioni giuridiche possono subire modifiche nel tempo. Decliniamo ogni responsabilità per un uso improprio delle informazioni contenute in queste pagine.
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