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1. Introduzione
Il panorama normativo italiano in materia di insolvenza e gestione della crisi d’impresa è stato rivoluzionato dall’introduzione del Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII), emanato con il D.Lgs. 14/2019. Tale Codice ha sostituito integralmente la vecchia Legge Fallimentare del 1942, segnando il passaggio da una logica principalmente liquidatoria ad un sistema che privilegia l’emersione precoce della crisi e il risanamento aziendale ove possibile. L’entrata in vigore del Codice, inizialmente prevista nel 2020, è stata più volte posticipata a causa della pandemia COVID-19 e per consentire il recepimento della Direttiva UE 2019/1023 (cd. Direttiva Insolvency). Il Codice è divenuto pienamente efficace il 15 luglio 2022, contestualmente a una serie di modifiche correttive che ne hanno adeguato il contenuto ai principi europei e alle mutate esigenze economiche.
Nei mesi e anni successivi, il legislatore ha emanato tre decreti correttivi per affinare la disciplina. In particolare, il D.Lgs. 17 giugno 2022 n. 83 (spesso indicato come correttivo-bis) ha recepito la Direttiva Insolvency introducendo nuovi strumenti di regolazione della crisi e rafforzando quelli esistenti. Più di recente, il D.Lgs. 13 settembre 2024 n. 136, pubblicato in G.U. il 27 settembre 2024, conosciuto come Correttivo-ter, ha apportato ulteriori modifiche sostanziali al Codice, risolvendo dubbi interpretativi emersi nella prima applicazione e introducendo alcune novità attese dagli operatori. Questa guida è aggiornata alla normativa vigente ad aprile 2025, incluse le ultime modifiche legislative (come il Correttivo-ter) e le più significative pronunce giurisprudenziali intervenute sinora.
Obiettivi del nuovo Codice: Il CCII mira a prevenire le crisi d’impresa e, quando possibile, a favorirne il risanamento piuttosto che la liquidazione. I principi ispiratori includono: (a) la tempestiva emersione delle difficoltà aziendali tramite strumenti di allerta precoce che incentivino l’imprenditore ad attivarsi volontariamente; (b) la valorizzazione dell’autonomia privata nelle soluzioni della crisi, grazie a procedure stragiudiziali o semplificate e a una minore invasività dell’autorità giudiziaria; (c) la tutela della continuità aziendale come valore da preservare quando l’impresa è risanabile, così da salvaguardare posti di lavoro e valore economico. In sintesi, il legislatore ha inteso creare un sistema nel quale l’insolvenza non venga affrontata soltanto a posteriori (con il fallimento, ora liquidazione giudiziale), ma attraverso una serie di strumenti preventivi e di soluzione negoziale della crisi che possano evitare l’esito distruttivo e massimizzare la soddisfazione dei creditori.
Destinatari della guida: Questa guida, dal taglio giuridico-tecnico ma con linguaggio divulgativo, è rivolta principalmente agli imprenditori e ai loro consulenti. L’obiettivo è fornire una panoramica dettagliata e operativa dei principali istituti introdotti o rivisitati dal nuovo Codice della Crisi, spiegandone il funzionamento pratico e gli adempimenti richiesti, senza rinunciare al rigore normativo. Verranno illustrati tutti i principali strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza previsti dal Codice – dagli strumenti di allerta alla composizione negoziata, dal concordato preventivo (nelle varie forme) agli accordi stragiudiziali (piani attestati di risanamento, accordi di ristrutturazione), fino alla liquidazione giudiziale – con riferimenti alle norme di legge, alle più recenti novità introdotte (come il concordato semplificato e il PRO – Piano di Ristrutturazione Omologato) e alle interpretazioni emerse in dottrina e giurisprudenza.
Struttura della guida: Il documento è organizzato in sezioni e capitoli numerati, ciascuno dedicato a uno specifico istituto. In ogni sezione verranno descritti: i presupposti di applicazione, le finalità, il procedimento di attivazione, i vantaggi e gli svantaggi pratici, nonché gli obblighi e le responsabilità che ricadono sugli attori coinvolti (imprenditore, organi sociali, creditori, organi di controllo, ecc.). Saranno inclusi esempi concreti, casi pratici (reali o verosimili), tabelle riepilogative e schemi esplicativi per facilitare la comprensione operativa. Infine, una sezione conclusiva riassumerà i punti chiave emersi e fornirà consigli operativi su come un imprenditore dovrebbe muoversi per gestire al meglio una situazione di crisi, dal monitoraggio dei segnali iniziali alle scelte tra i vari strumenti offerti dalla legge.
Prima di entrare nel vivo, è importante chiarire alcuni concetti generali che ricorreranno frequentemente: cosa si intende per crisi d’impresa e per insolvenza, quali sono i doveri di amministratori e sindaci nell’ottica della prevenzione, e come il nuovo Codice ha ridefinito il ruolo dell’imprenditore nella gestione della propria difficoltà economica. Questi aspetti generali saranno trattati nel prossimo capitolo, per poi proseguire con l’analisi specifica dei singoli istituti.
2. Principi generali e novità della riforma
In questa sezione introduttiva esaminiamo i principi cardine e le definizioni chiave del Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza, utili per contestualizzare gli strumenti operativi descritti nei capitoli successivi. Comprendere il significato di crisi e insolvenza, nonché i doveri generali posti a carico dell’imprenditore e degli organi societari, è fondamentale per poi addentrarsi nelle singole procedure.
2.1 La nozione di “crisi” vs “insolvenza”: Il CCII distingue chiaramente tra stato di crisi e stato di insolvenza. Per stato di crisi si intende una situazione di difficoltà economico-finanziaria reversibile, in cui l’impresa sperimenta squilibri patrimoniali o di liquidità tali da rendere probabile in futuro l’insolvenza se non si interviene. In altri termini, la crisi è uno stadio anticipatorio dell’insolvenza, un campanello d’allarme: l’azienda potrebbe ancora assolvere regolarmente le proprie obbligazioni nel presente, ma presenta segnali di sofferenza (perdite significative, flussi di cassa negativi, erosione del patrimonio netto, ecc.) che, se ignorati, potrebbero evolvere nell’incapacità di pagare i debiti alla scadenza. Il Codice enfatizza la necessità di cogliere questi segnali tempestivamente e di attivarsi per prevenirne l’aggravamento.
Per stato di insolvenza, invece, si intende la situazione più grave e conclamata in cui l’imprenditore non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni con i mezzi ordinari. L’insolvenza si manifesta tipicamente con inadempimenti protratti, mancati pagamenti generalizzati, protesti, pignoramenti subiti, ecc. In sostanza, mentre la crisi guarda al futuro prossimo (un’insolvibilità probabile se non si interviene), l’insolvenza è un fatto attuale (un’incapacità in atto di adempiere). Questa distinzione è cruciale perché la maggior parte degli strumenti introdotti dal Codice – in particolare gli strumenti di allerta e quelli di composizione negoziata – sono orientati a gestire lo stato di crisi prima che degeneri in insolvenza. Solo in caso di insolvenza conclamata (o quando la crisi non è affrontabile con strumenti di risanamento) si ricorre alle procedure liquidatorie come la liquidazione giudiziale.
2.2 Doveri di gestione e prevenzione a carico dell’imprenditore e degli organi sociali: Uno dei pilastri del nuovo Codice è l’affermazione del principio secondo cui prevenire è meglio che curare. Già nel Codice Civile – all’art. 2086, comma 2 – è stato inserito (per effetto del D.Lgs. 14/2019) un obbligo esplicito per l’imprenditore che operi in forma societaria o collettiva: adottare un assetto organizzativo, amministrativo e contabile adeguato alla natura e dimensione dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi e della continuità aziendale. Questo significa che ogni impresa deve dotarsi di strumenti interni di monitoraggio della propria salute finanziaria, capaci di far emergere per tempo eventuali squilibri. Ad esempio, sistemi di contabilità e controllo di gestione accurati, budget e piani finanziari, indicatori per tenere d’occhio la sostenibilità del debito e i flussi di cassa futuri. L’adeguatezza di tali assetti è proporzionata alla natura dell’azienda (una piccola impresa avrà strumenti semplificati rispetto a una grande società), ma in ogni caso non è più ammesso procedere “a vista”: la legge richiede una gestione proattiva, orientata a cogliere segnali di crisi prima che sia troppo tardi.
Accanto all’organizzazione interna, vi sono obblighi di attivazione in capo agli amministratori e, in certa misura, ai soci. Quando emergono fondati indizi di crisi (si pensi a perdite rilevanti che intaccano il patrimonio, o all’incapacità di far fronte regolarmente al servizio del debito), gli amministratori hanno il dovere di intervenire senza indugio per adottare le necessarie misure correttive o, se del caso, per attivare uno degli strumenti formali di regolazione della crisi previsti dal Codice. L’inerzia o il ritardo colpevole nell’affrontare la crisi può esporli a responsabilità civili verso la società e i creditori. La giurisprudenza, anche prima della riforma, riteneva gli amministratori responsabili delle aggravamento del dissesto quando avevano omesso di reagire tempestivamente, protraendo indebitamente l’attività a fronte di un’insolvenza ormai manifesta (c.d. wrongful trading all’italiana). Ora questi principi sono stati ulteriormente rafforzati a livello normativo.
2.3 Maggior tutela della continuità aziendale: In linea con i principi europei, il nuovo sistema privilegia soluzioni che preservino, ove possibile, la continuità aziendale. Ciò si traduce nell’introdurre strumenti che permettono all’impresa di ristrutturare il proprio debito e riorganizzarsi (attraverso accordi con i creditori o piani attestati) e nel riservare la liquidazione giudiziale come extrema ratio. Ad esempio, il concordato preventivo in continuità consente di proseguire l’attività (direttamente o tramite cessione/transito dell’azienda a terzi) durante e dopo la procedura, se ciò massimizza il soddisfacimento dei creditori rispetto a una chiusura immediata. Anche negli strumenti stragiudiziali come la composizione negoziata, la finalità primaria è il risanamento e non la liquidazione: l’esperto indipendente che assiste l’imprenditore cercherà soluzioni per mantenere in vita l’impresa, se vi sono prospettive ragionevoli di recupero. Preservare i valori aziendali in funzionamento (know-how, avviamento, rete commerciale, posti di lavoro) spesso consente anche ai creditori di ottenere soddisfazioni migliori rispetto a uno scenario di fallimento puro, in cui quegli stessi asset perderebbero valore. Il Codice richiede comunque che qualsiasi piano in continuità assicuri ai creditori un risultato non inferiore a quello che otterrebbero dalla liquidazione: questo principio del miglior soddisfacimento alternativo serve a bilanciare l’interesse al salvataggio con la tutela dei creditori.
2.4 Lessico: da “fallimento” a “liquidazione giudiziale”: Un cambiamento non solo formale ma anche culturale portato dal CCII è la sostituzione del termine fallimento con liquidazione giudiziale. L’intento è di attenuare lo stigma legato alla parola “fallito” e di sottolineare come l’accento sia posto sulla procedura (la liquidazione del patrimonio) piuttosto che sulla “colpa” dell’imprenditore. Naturalmente, al di là del nome, la sostanza della procedura liquidatoria rimane quella di sempre: si tratta dell’iter giudiziario di spossessamento e realizzo dei beni sotto controllo di un curatore nominato dal tribunale, finalizzato a soddisfare i creditori secondo le regole del concorso. Tuttavia, la riforma ha modernizzato anche questa fase (come vedremo nel Capitolo 10), prevedendo ad esempio tempi più rapidi, maggior digitalizzazione nelle vendite dei beni, possibilità di esdebitazione del debitore persona fisica al termine della procedura, ecc. Il messaggio che si vuole dare all’imprenditore è chiaro: la liquidazione giudiziale non è più da intendersi come una “pena infamante”, bensì come uno strumento ordinato per chiudere una vicenda d’impresa non più recuperabile; ciononostante, tutto il sistema è costruito per evitarla quando esistono alternative valide di risanamento.
2.5 Panoramica degli strumenti offerti dal Codice: Prima di approfondire le singole misure nei capitoli seguenti, giova elencare brevemente quali sono i principali strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza previsti dal CCII, collocandoli su un ipotetico continuum temporale dalla fase precoce di emersione della crisi fino alla fase liquidatoria finale:
- Strumenti di allerta e prevenzione (allerta interna ed esterna): meccanismi per intercettare i segnali di crisi in azienda e farli emergere tempestivamente. Qui rientrano l’obbligo di assetti organizzativi adeguati, le segnalazioni dei creditori pubblici qualificati (Fisco, INPS, etc.) e i doveri di intervento degli organi di controllo. Questi non sono “procedure” in senso stretto, ma strumenti che preludono eventualmente all’attivazione delle soluzioni successive (Cap. 3).
- Composizione negoziata della crisi: è una procedura volontaria e stragiudiziale introdotta di recente (2021) che consente all’imprenditore in crisi di farsi affiancare da un esperto indipendente per condurre trattative riservate con i creditori e trovare un accordo di ristrutturazione o altra soluzione concordata (Cap. 4). È uno strumento di natura preventiva che l’imprenditore può attivare prima di ricorrere eventualmente alle procedure giudiziarie più formali.
- Soluzioni negoziali stragiudiziali assistite: includono i piani attestati di risanamento e gli accordi di ristrutturazione dei debiti. I primi (piani attestati) sono piani di risanamento concordati privatamente con i creditori, accompagnati da una relazione di un professionista indipendente che attesta la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano (Cap. 8). Gli accordi di ristrutturazione, invece, sono accordi sottoscritti con una parte significativa di creditori (almeno il 60%) e omologati dal tribunale, con effetti vincolanti e protettivi (es. esenzione da revocatorie) anche per i dissenzienti in certi casi (Cap. 7). Questi strumenti consentono di ristrutturare l’impresa fuori dalle procedure concorsuali classiche, ma con un certo grado di controllo/ausilio dell’autorità giudiziaria (specie per gli accordi omologati).
- Concordato preventivo: è la procedura concorsuale giudiziale attraverso cui l’imprenditore in crisi o insolvente propone ai creditori un piano di regolazione della crisi da approvare sotto supervisione del tribunale (Cap. 5). Può essere in continuità aziendale (se prevede la prosecuzione dell’attività, diretta o indiretta) oppure liquidatorio (se prevede la cessazione dell’attività e la liquidazione dei beni, con determinate garanzie di pagamento minimo ai creditori chirografari). Il concordato preventivo richiede il voto dei creditori e l’omologazione del tribunale, ed è uno strumento centrale del sistema.
- Concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio: è una particolare forma di concordato senza voto dei creditori, introdotta nel 2021 come possibile sbocco della composizione negoziata in caso di esito negativo (Cap. 6). Permette di liquidare il patrimonio dell’impresa sotto controllo giudiziale ma con una procedura più snella rispetto al concordato ordinario (ad esempio, non è previsto il commissario giudiziale né il voto dei creditori), al fine di accelerare la soluzione ed evitare il fallimento quando le trattative sono fallite ma c’è comunque una proposta liquidatoria da formalizzare.
- Piano di ristrutturazione soggetto ad omologazione (PRO): è un nuovo strumento, introdotto in attuazione della Direttiva UE, che consente di presentare un piano di ristrutturazione ai creditori suddivisi in classi, derogando alle normali regole di parità di trattamento tra creditori, purché il piano sia approvato da tutte le classi e omologato dal tribunale (Cap. 9). In sostanza, il PRO si pone a metà strada tra un accordo negoziale e un concordato: è molto flessibile nel contenuto (ad esempio, non richiede pagamento minimo del 20% ai chirografari, neppure se liquidatorio) ma presuppone il consenso di tutte le classi di creditori votanti. È uno strumento innovativo e potenzialmente molto potente per ristrutturazioni complesse.
- Liquidazione giudiziale: è la procedura liquidatoria giudiziaria che prende il posto del fallimento (Cap. 10). Interviene quando l’insolvenza è conclamata e non vi sono soluzioni alternative praticabili. Comporta lo spossessamento dell’imprenditore, la nomina di un curatore, la vendita dei beni e il riparto del ricavato tra i creditori secondo l’ordine dei privilegi. Rappresenta il rimedio finale per chiudere la crisi d’impresa quando ogni tentativo di risanamento è fallito o impossibile.
Nel prosieguo della guida, ciascuno di questi istituti sarà analizzato in dettaglio. Per facilitare l’orientamento, si farà spesso riferimento ai riferimenti normativi (articoli del Codice della Crisi) e si forniranno schemi riassuntivi. La Tabella 1 di seguito anticipa, in sintesi, alcune caratteristiche comparate dei principali strumenti:
Strumento | Natura | Finalità | Necessità di consenso creditori |
---|---|---|---|
Allerta e adeguati assetti (Cap. 3) | Misure organizzative e segnalazioni | Prevenire e intercettare la crisi | N/A (obblighi interni, non richiede consenso) |
Composizione negoziata (Cap. 4) | Procedura stragiudiziale assistita | Risanare l’impresa con accordi volontari | Consenso volontario dei creditori alle proposte (negoziazione assistita, senza voto formale) |
Piano attestato di risanamento (Cap. 8) | Accordo privato con attestazione | Ristrutturazione extragiudiziale con protezione da revocatorie | Consenso integrale dei creditori coinvolti (accordo puramente contrattuale) |
Accordo di ristrutturazione (Cap. 7) | Accordo omologato dal tribunale | Ristrutturazione con efficacia estesa e protezione legale | Consenso di almeno 60% dei crediti; vincola solo i consensienti (salvo estensioni settoriali al 75%) |
Concordato preventivo (Cap. 5) | Procedura concorsuale giudiziale | Risanamento (continuità) o liquidazione concordata | Voto dei creditori (maggioranza per classi o categorie) + omologazione tribunale (possibile cram-down) |
Concordato semplificato (Cap. 6) | Procedura concorsuale semplificata | Liquidazione rapida post-composizione negoziata | No voto dei creditori (decisione rimessa al tribunale su proposta del debitore ed esito composizione) |
PRO – Piano ristrutturazione omologato (Cap. 9) | Procedura concorsuale flessibile | Ristrutturazione con deroghe a parità tra creditori | Approvazione di tutte le classi di creditori (maggioranza in ciascuna classe) + omologazione tribunale |
Liquidazione giudiziale (Cap. 10) | Procedura concorsuale liquidatoria | Liquidazione del patrimonio e chiusura dell’impresa | N/A (procedura avviata d’ufficio su insolvenza, creditori non votano il programma di liquidazione) |
Tabella 1 – Panoramica sintetica dei principali strumenti del Codice della Crisi.
Nei capitoli seguenti si passerà dalla fase precoce (allerta e composizione negoziata) a quella intermedia (accordi, concordati, piani di risanamento) fino alla fase terminale (liquidazione giudiziale), esaminando per ciascun istituto le modalità operative e fornendo esempi pratici. Cominciamo quindi dagli strumenti di allerta e prevenzione, il primo tassello del mosaico.
3. Strumenti di Allerta Precoce e Prevenzione della Crisi
Il Codice dedica ampio spazio agli strumenti di emersione tempestiva della crisi, noti anche come strumenti di allerta precoce. Si tratta di meccanismi volti a far sì che i segnali di difficoltà dell’impresa vengano individuati e affrontati prima che la situazione degeneri in insolvenza conclamata. Questi strumenti operano su due fronti: all’interno dell’azienda, attraverso gli obblighi organizzativi e le segnalazioni degli organi di controllo, e all’esterno, attraverso le segnalazioni dai cosiddetti creditori pubblici qualificati (Agenzia Entrate, INPS, Agente della Riscossione). In questa sezione analizzeremo entrambi i profili, tenendo conto anche delle modifiche normative più recenti (come quelle introdotte dal Correttivo-ter del 2024) e di come un imprenditore debba concretamente attrezzarsi per rispettare tali obblighi e gestire eventuali segnalazioni.
3.1 Adeguati assetti organizzativi e monitoraggio interno
Come evidenziato nel capitolo precedente, l’art. 2086 c.c. impone all’imprenditore collettivo di dotarsi di assetti adeguati per rilevare tempestivamente la crisi. Il Codice della Crisi (art. 3 CCII) dettaglia ulteriormente cosa ciò significhi in pratica, elencando alcuni indicatori e strumenti utili. Dopo le modifiche del Correttivo-ter 2024, è stato chiarito che i segnali elencati in tale norma hanno funzione predittiva e preventiva, e non devono essere intesi come allarmi di una crisi già in atto. In altre parole, l’azienda deve monitorare elementi che possano evidenziare squilibri prospettici, così da intervenire ancor prima che si manifesti uno stato di dissesto conclamato.
Gli indicatori tipici da tenere sotto controllo includono, ad esempio: indici di liquidità (rapporto tra attivo a breve e passivo a breve), DSCR (Debt Service Coverage Ratio) ovvero l’indice di copertura del servizio del debito nei sei/dodici mesi successivi, l’andamento del fatturato e dei margini, la presenza di debiti scaduti verso banche, fornitori o Erario, ecc. Già nel 2019 il CNDCEC (Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti) aveva elaborato una serie di indici di allerta quantitativi che potevano segnalare la probabile crisi (come un DSCR inferiore a 1, oppure determinate soglie di indebitamento rapportate a patrimonio e flussi di cassa). Tali indici, sebbene pensati per il sistema originario di allerta poi sospeso, restano utili come riferimento pratico. Tuttavia, il legislatore col correttivo ha voluto sottolineare che nessun singolo numero magicamente decreta lo stato di crisi: piuttosto, è la combinazione di informazioni che l’imprenditore deve saper leggere in ottica prospettica. Per coadiuvare le imprese in questo compito, è stata predisposta una lista di controllo particolareggiata (check-list) disponibile nella piattaforma telematica per la composizione negoziata, contenente una serie di domande e parametri per autodiagnosticare la propria situazione. Inoltre vi è un test pratico di verifica della ragionevole perseguibilità del risanamento, anch’esso utilizzabile come strumento interno di valutazione.
Ad esempio, un’azienda che noti un calo consistente del fatturato per più trimestri, accompagnato da tensioni di cassa che la costringono a pagare i fornitori con ritardi sempre maggiori, o che veda crescere l’indebitamento finanziario oltre i limiti concessi dalle banche, dovrebbe immediatamente attivare un’analisi approfondita. Grazie ad adeguati assetti contabili, l’imprenditore dovrebbe disporre di bilanci infrannuali e prospetti finanziari in grado di quantificare l’entità delle perdite e di proiettare i flussi di cassa futuri: se da queste analisi risulta che senza interventi la cassa diventerà negativa e non si potranno pagare stipendi e debiti nei prossimi mesi, siamo di fronte a segnali di crisi imminente. A questo punto, cosa deve fare l’imprenditore? La legge gli chiede di non ignorare tali segnali e di attivarsi subito, esaminando le possibili misure correttive. Le opzioni potrebbero includere la rinegoziazione di un fido bancario, la ricerca di nuovi apporti di capitale dai soci, tagli ai costi, oppure, se la situazione lo suggerisce, l’accesso a uno degli strumenti formalizzati (come la composizione negoziata di cui al capitolo 4). L’importante è la tempestività: ogni settimana o mese di ritardo può peggiorare la situazione e ridurre le chance di successo di un risanamento.
Dal lato organizzativo, gli adeguati assetti presuppongono anche che siano state chiaramente attribuite responsabilità e procedure interne per gestire queste situazioni. Ad esempio, in una società di capitali di medie dimensioni, potrebbe esserci un ufficio di pianificazione e controllo incaricato di produrre un rapporto mensile agli amministratori su indicatori chiave (KPI finanziari), con un semaforo verde/giallo/rosso sullo stato di salute aziendale. Oppure, nelle piccole imprese, il commercialista esterno potrebbe assumere questo ruolo di “sentinella”, elaborando trimestralmente i dati di bilancio e segnalando all’imprenditore eventuali trend preoccupanti. Quel che il Codice chiede è che esista un tale meccanismo, commisurato alla realtà dell’impresa. In mancanza, gli amministratori potranno essere ritenuti inadempienti al dovere di cui sopra, con tutte le conseguenze del caso (responsabilità per mala gestio).
Va aggiunto che il Correttivo-ter ha esteso il novero di soggetti tenuti alla vigilanza sull’adeguatezza degli assetti: non solo gli organi di controllo societari (collegio sindacale, sindaco unico, ecc.), ma ora anche il revisore legale (cioè la società di revisione o il revisore unico quando presente) ha l’obbligo di valutare l’assetto organizzativo aziendale e segnalare per iscritto agli amministratori l’eventuale sussistenza di uno stato di crisi o insolvenza. Questa modifica (introdotta all’art. 25-octies CCII) è importante perché coinvolge attivamente anche i revisori contabili nel sistema di allerta interno. In pratica, se il revisore durante il suo controllo periodico nota che l’azienda è in grave perdita o che vi sono significative incertezze sulla continuità aziendale (come previsto dal principio di revisione ISA 570), dovrà attivarsi segnalando formalmente al board la situazione e sollecitando interventi (esattamente come farebbe un collegio sindacale). La Relazione Illustrativa al correttivo ha specificato che tale obbligo scatta solo al concretizzarsi di uno stato di crisi o insolvenza conclamato, non per meri segnali preliminari di difficoltà, per evitare “falsi allarmi” e segnalazioni inutilmente allarmistiche. Ciò non di meno, il messaggio al revisore è chiaro: non limitarsi a certificare i numeri, ma farsi parte attiva nel richiamare l’attenzione degli amministratori sulla tenuta della continuità aziendale.
Esempio pratico 1 – Allerta interna: Beta Srl è un’azienda manifatturiera che da due anni consecutivi chiude il bilancio in perdita erosiva del capitale. Il suo DSCR a 6 mesi è sceso sotto 1 (cioè i flussi di cassa prospettici non coprono le rate di mutuo in scadenza), e l’indebitamento verso fornitori ha superato i 120 giorni medi di dilazione. Il collegio sindacale di Beta Srl, riscontrati questi elementi nel corso delle proprie verifiche, invia una segnalazione scritta al consiglio di amministrazione evidenziando la sussistenza di fondati indizi di crisi e richiedendo al board di riferire in merito alle azioni intraprese (come previsto dall’art. 24 CCII nella disciplina dell’allerta, la cui efficacia è stata posticipata ma rimane un principio di buona pratica). Il CdA, ricevuta la segnalazione, si riunisce immediatamente e decide di attivarsi: contatta un advisor finanziario per valutare un piano di risanamento e, contestualmente, avvia un confronto preliminare con le banche. Se Beta Srl ignorasse la lettera dei sindaci, questi – per tutelarsi – potrebbero decidere di informare il tribunale della situazione (ad esempio tramite una denuncia ex art. 2409 c.c. per gravi irregolarità degli amministratori, qualora ne ricorrano gli estremi) al fine di evitare di essere corresponsabili di un aggravamento del dissesto. Questo esempio evidenzia come funziona l’allerta “interna”: gli organi di controllo agiscono da sentinelle e pungolo per gli amministratori, ma sta poi a questi ultimi muoversi per tempo. Nel prossimo paragrafo vedremo invece l’allerta “esterna”, ossia cosa succede quando sono soggetti pubblici esterni (Fisco, enti previdenziali) a segnalare la crisi dell’impresa.
3.2 Segnalazioni dei creditori pubblici qualificati (allerta esterna)
Oltre ai meccanismi di allerta interni, il Codice (Titolo II, art. 25-novies e seguenti CCII) ha previsto che alcuni enti pubblici – in particolare l’Agenzia delle Entrate, l’INPS e l’Agente della Riscossione – svolgano un ruolo attivo nell’individuazione delle crisi d’impresa attraverso segnalazioni ai debitori quando questi superino determinate soglie di debito scaduto verso tali enti. Questi soggetti vengono definiti creditori pubblici qualificati in quanto detengono crediti fiscali e previdenziali che, se non onorati, possono essere sintomatici di difficoltà finanziaria dell’impresa. L’idea è che Fisco e previdenza, avendo una visione tempestiva dei mancati pagamenti di imposte e contributi, possano far scattare un “alert” formale all’imprenditore, mettendolo di fronte all’evidenza della crisi e suggerendogli di intervenire.
Le soglie di esposizione debitoria che fanno scattare l’obbligo di segnalazione, introdotte dal D.L. 152/2021 (conv. L. 233/2021) con decorrenza dal 1° gennaio 2022, sono le seguenti:
- INPS: ritardo di oltre 90 giorni nel versamento di contributi previdenziali per un importo superiore ad €15.000 per imprese con dipendenti (e che rappresenti almeno il 30% dei contributi dovuti nell’anno precedente), oppure superiore a €5.000 per imprese senza dipendenti. In pratica, se un’azienda accumula debiti contributivi oltre queste soglie e non li paga per tre mesi, l’INPS deve intervenire.
- Agenzia delle Entrate: esistenza di un debito scaduto e non versato relativo all’IVA, risultante dalle comunicazioni periodiche (LIPE), superiore a €5.000. Dunque basta un’omissione rilevante di versamento IVA trimestrale oltre tale importo per far scattare l’allerta.
- Agente della Riscossione (AdER, ex-Equitalia): presenza di crediti affidati per la riscossione, autodichiarati o definitivamente accertati, scaduti da oltre 90 giorni, per importi superiori a €100.000 (imprese individuali), €200.000 (società di persone) o €500.000 (altre società di capitali). Questo riguarda in pratica l’accumulo di cartelle esattoriali non pagate di importo elevato.
Queste soglie – come si evince – non sono affatto altissime o “astronomiche”, specie per l’Agenzia Entrate e l’INPS: €5.000 di IVA non versata può capitare anche a PMI di modeste dimensioni, così come €15.000 di contributi arretrati. Ciò significa che il sistema di allerta esterno è tarato per cogliere segnali di crisi nelle fasi iniziali, prima che i debiti diventino insostenibili. L’ottica è preventiva: l’impresa con quei debiti potrebbe ancora salvarsi, ma intanto viene avvertita ufficialmente.
Come avviene la segnalazione? Gli enti creditori monitorano in automatico il verificarsi di queste condizioni e, trascorsi 60 giorni dal superamento della soglia senza che il debitore abbia sanato la posizione, inviano una comunicazione formale tramite PEC (posta elettronica certificata) all’imprenditore e, se esiste, all’organo di controllo societario. Nella comunicazione si evidenzia il superamento della soglia debitoria e si invita espressamente l’imprenditore ad attivare la procedura di composizione negoziata della crisi (o comunque a prendere provvedimenti per regolarizzare). In altre parole, la lettera non dichiara “sei in crisi” in senso tecnico, ma suona un campanello d’allarme molto chiaro: “hai accumulato debiti rilevanti con il fisco/la previdenza; valuta di rivolgerti all’esperto indipendente per trovare una soluzione prima che sia troppo tardi”. Questo invito formale alla composizione negoziata è una novità assoluta e mira a pubblicizzare presso l’imprenditore lo strumento di aiuto (ne parleremo approfonditamente nel capitolo 4).
Le tempistiche di invio di tali segnalazioni sono precise: ad esempio, l’Agenzia Entrate invia l’avviso entro 60 giorni dalla scadenza della liquidazione IVA in cui si è riscontrato il debito (come illustrato in Tabella, per il 1° trimestre 2022 la scadenza era 31/5 e l’avviso andava entro il 30/7). INPS e Agente della Riscossione operano entro 60 giorni dal verificarsi del ritardo o dal superamento della soglia. Questo significa che, in teoria, già a metà 2022 molte imprese hanno cominciato a ricevere tali segnalazioni relative ai loro debiti accumulati a inizio 2022.
Qual è l’effetto di queste segnalazioni? Dal punto di vista strettamente giuridico, la ricezione della segnalazione non obbliga l’imprenditore ad attivare la composizione negoziata né altra procedura: non c’è (né potrebbe esserci, trattandosi di una scelta imprenditoriale) un automatismo per cui scatta d’ufficio una procedura concorsuale. Tuttavia, la segnalazione ha diversi effetti indiretti molto importanti:
- In primo luogo, come detto, informa ufficialmente l’organo amministrativo e di controllo. Ciò significa che eventuali amministratori “distratti” o inconsapevoli non hanno più alibi: sono stati formalmente avvisati che l’azienda ha un serio problema. Da questo momento, ogni inerzia può costituire colpa grave. Infatti, se gli amministratori ignorassero l’avvertimento e la situazione poi evolvesse in insolvenza, i creditori (e il curatore in caso di fallimento) potrebbero facilmente contestare che dal tal giorno (data PEC) essi sapevano e non hanno fatto nulla.
- In secondo luogo, la segnalazione è inviata contestualmente all’organo di controllo (collegio sindacale o sindaco unico). Questo coinvolgimento serve a dare più forza all’allerta: il collegio sindacale, ricevuta la PEC, non può girarsi dall’altra parte. Se gli amministratori non reagiscono adeguatamente, i sindaci devono prendere in considerazione un intervento. Il Correttivo-ter 2024, come accennato, ha precisato che i revisori legali sono ora equiparati ai sindaci in questi obblighi di monitoraggio. In pratica, se l’azienda non fa nulla dopo la segnalazione, gli organi di controllo devono attivarsi per evitare di essere corresponsabili. Alcuni commentatori suggeriscono che i sindaci, per tutelarsi, nelle situazioni più gravi potranno arrivare a presentare una denuncia al tribunale ex art. 2409 c.c. per “gravi irregolarità” degli amministratori consistenti nella mancata adozione di iniziative in presenza di crisi conclamata. Il che potrebbe portare, se il tribunale lo ritiene, anche alla rimozione degli amministratori inerti e alla nomina di un amministratore giudiziario o alla apertura di una procedura.
- Infine, la segnalazione traccia un confine temporale netto. Se l’imprenditore, dopo averla ricevuta, non intraprende alcuna azione e la crisi degenera in insolvenza, difficilmente potrà difendersi in seguito dicendo di non essersi accorto della gravità del problema. Al contrario, se invece reagisce attivando ad esempio la composizione negoziata, quella reazione potrà essergli riconosciuta come comportamento diligente e buona fede (ad esempio potrebbe pesare positivamente in caso di successiva valutazione della condotta ai fini di esdebitazione, o per evitare contestazioni di bancarotta semplice per tardiva richiesta di fallimento).
In sintesi, l’allerta esterna funge da sprone: non impone soluzioni, ma mette l’imprenditore con le spalle al muro rispetto alla consapevolezza della crisi.
Esempio pratico 2 – Allerta esterna: Gamma S.p.A. opera nel settore dell’edilizia e, complice un rallentamento dei cantieri, nel 2024 accumula debiti IVA per oltre 200.000€. Inoltre, fatica a pagare i contributi ai dipendenti, accumulando arretrati per 4 mesi pari a 20.000€. A ottobre 2024, Gamma S.p.A. riceve due PEC: una dall’Agenzia delle Entrate che segnala il mancato versamento di IVA > €5.000 (in realtà molto di più nel suo caso) invitando alla composizione negoziata, e una dall’INPS per i contributi arretrati > €15.000. Il consiglio di amministrazione si riunisce e si rende conto di essere effettivamente in crisi di liquidità. Dopo confronto col proprio commercialista, decide di seguire il consiglio implicito: a novembre deposita istanza di composizione negoziata tramite la piattaforma telematica (vedremo nel cap. 4 come). I sindaci, che avevano ricevuto le stesse PEC, annotano a verbale la tempestiva reazione degli amministratori. Poniamo però il caso alternativo: Gamma S.p.A. ignora gli avvisi, sperando in un affare risolutivo, e continua ad accumulare debiti. A febbraio 2025 un creditore fornitore chiede il fallimento (liquidazione giudiziale) di Gamma. In tribunale emergerà che mesi prima erano arrivate quelle segnalazioni: sarà molto difficile per gli amministratori giustificare il loro immobilismo, ed è probabile che il tribunale disponga la liquidazione giudiziale e segnali la condotta degli organi sociali al Pubblico Ministero per le valutazioni del caso (ad es. bancarotta semplice per aggravamento del dissesto). L’esempio mostra come le segnalazioni pubbliche creino un percorso obbligato: non giuridicamente obbligatorio, ma di fatto necessario per chi voglia evitare guai peggiori.
Sospensione e attuazione delle procedure di allerta: Va ricordato che la disciplina originaria del Codice (nel 2019) prevedeva anche l’istituzione degli OCRI (Organismi di Composizione della Crisi d’Impresa) presso le Camere di Commercio e una procedura di composizione assistita che si sarebbe attivata su segnalazione degli organi di controllo o dei creditori pubblici. Tuttavia, l’entrata in vigore di queste procedure di allerta formale è stata più volte rinviata e, da ultimo, posposta al 31 dicembre 2023. Nel frattempo, il legislatore ha introdotto la composizione negoziata (nel 2021) che di fatto ha preso il posto di quell’allerta “pubblica” in chiave meno coercitiva e più negoziale. Ad oggi (2025), gli OCRI non sono mai diventati operativi e si ritiene che la volontà sia di abbandonare definitivamente il vecchio impianto di allerta obbligatoria in favore degli strumenti introdotti (la composizione negoziata appunto). Dunque, le segnalazioni esterne dei creditori pubblici rimangono l’unico elemento attuato di quel sistema di allerta originario, ma non sfociano più automaticamente in una procedura innanzi all’OCRI: semplicemente, sollecitano l’imprenditore ad attivare spontaneamente la composizione negoziata o altre misure.
In conclusione, dal punto di vista pratico un imprenditore deve tenere bene a mente che: a) deve organizzare la propria azienda per cogliere per tempo i segnali di crisi (e questa è una responsabilità anche in ottica di diligenza professionale); b) in caso di difficoltà nei pagamenti fiscali/contributivi, c’è un rischio concreto di ricevere avvisi formali da ADE/INPS, che non possono essere ignorati; c) il dialogo con gli organi di controllo interni è fondamentale: sindaci e revisori non sono “nemici”, ma alleati nell’individuare problemi (e potrebbero salvarvi da responsabilità peggiori se li ascoltate); d) se i segnali di crisi ci sono, conviene attivarsi volontariamente (con piani di risanamento, composizione negoziata, etc.) piuttosto che aspettare segnalazioni esterne o, peggio, istanze di fallimento di creditori. Nei prossimi capitoli vedremo proprio quali strumenti concreti l’imprenditore ha a disposizione una volta presa coscienza della crisi: il primo e più immediato è la composizione negoziata della crisi.
4. La Composizione Negoziata della Crisi d’Impresa
La composizione negoziata per la soluzione della crisi d’impresa è uno degli strumenti cardine introdotti di recente (dal D.L. 118/2021, confluito poi nel Codice della Crisi agli artt. 17-25 septies CCII) per aiutare le imprese in difficoltà. Si tratta di una procedura volontaria, riservata e stragiudiziale, che consente all’imprenditore in stato di crisi o di insolvenza reversibile di tentare un risanamento con l’assistenza di un esperto indipendente, al di fuori delle aule di tribunale. L’obiettivo è facilitare le trattative tra l’impresa e i suoi creditori (e altri stakeholder) per individuare soluzioni concordate che evitino l’aggravarsi della crisi e scongiurino il ricorso a procedure concorsuali più invasive (concordato, liquidazione). Questa procedura, concepita inizialmente come misura “ponte” in epoca Covid, è divenuta strutturale ed è ora un elemento centrale del sistema di gestione della crisi.
In questo capitolo vedremo: come si accede alla composizione negoziata, quale è il ruolo dell’esperto e come si svolgono le trattative, quali strumenti e tutele sono a disposizione durante la procedura (misure protettive, finanziamenti prededucibili, ecc.), quali possono essere gli esiti possibili (accordi con i creditori, piani attestati, concordato semplificato, etc.), il tutto con un taglio pratico-operativo. Analizzeremo anche le modifiche normative apportate dal Correttivo-ter 2024 che hanno ulteriormente perfezionato questo istituto (semplificando ad esempio alcuni adempimenti e introducendo la possibilità di transazione fiscale nell’ambito della composizione).
4.1 Accesso alla procedura e nomina dell’esperto indipendente
Chi può accedere e quando: La composizione negoziata può essere richiesta da qualsiasi imprenditore commerciale o agricolo, di qualsiasi dimensione, che si trovi in condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario tali da far presumere la crisi o l’insolvenza, ma che appare risanabile (ovvero per cui esistono concrete prospettive di recupero). Non è necessario essere formalmente “insolventi”; anzi, l’idea è di muoversi prima. Può accedervi anche l’imprenditore già insolvente, purché l’insolvenza sia reversibile (ad esempio carenza di liquidità temporanea, ma azienda con buone potenzialità di riassetto). È una procedura volontaria: solo l’imprenditore stesso può attivarla (non i creditori né il tribunale).
Per avviare la composizione negoziata, l’imprenditore deve presentare una istanza tramite la piattaforma telematica nazionale predisposta dalle Camere di Commercio (gestita da Unioncamere). Sulla piattaforma (raggiungibile online) l’imprenditore si registra e carica una serie di documenti obbligatori: ultimi bilanci, situazione economico-patrimoniale aggiornata, elenco dei creditori e relativi importi, una relazione sulle cause della difficoltà e sulle prospettive di risanamento, ecc. Inoltre, deve essere compilato un questionario di autodiagnosi (check-list) in cui l’imprenditore risponde a domande sullo stato dell’azienda (ad esempio: esistono debiti scaduti di una certa entità? Ci sono protesti? Il margine operativo è sufficiente a coprire gli oneri finanziari? ecc.). Questo questionario, predisposto dagli esperti del CNDCEC e di Unioncamere, aiuta a delineare il quadro e a verificare se vi siano chance di risanamento. Sempre tramite la piattaforma, l’imprenditore effettua un test pratico sulla ragionevole perseguibilità del risanamento: in sostanza un algoritmo che, inseriti certi dati finanziari, valuta se l’azienda ha prospettive di equilibrio (questo test è richiesto dalla norma come ausilio, non come responso vincolante).
Una volta caricati i dati, l’istanza viene inoltrata e da quel momento inizia l’iter di nomina dell’Esperto indipendente. L’Esperto è una figura chiave: si tratta di un professionista terzo, con competenze in materia di ristrutturazione aziendale, iscritto in un apposito elenco, che viene designato da una Commissione istituita presso la Camera di Commercio. Tipicamente, la Commissione è composta da rappresentanti delle professioni (commercialisti, avvocati) e del sistema camerale, che seleziona un nominativo tenendo conto della dimensione e settore dell’impresa e della specifica esperienza necessaria. Ad esempio, se l’azienda è agricola, sarà preferito un esperto con esperienza in imprese agricole; se ha rilevanti aspetti legali, un avvocato, ecc. L’Esperto deve essere indipendente (nessun conflitto di interessi né rapporti negli ultimi anni con l’impresa o i creditori principali). Entro 5 giorni dalla presentazione dell’istanza, la Commissione individua l’esperto e questi, verificata l’assenza di conflitti, accetta l’incarico. Da quel momento si costituisce la triade del negoziato: imprenditore, esperto, creditori.
Vale la pena sottolineare che l’avvio della composizione negoziata è riservato, non viene pubblicato in registri pubblici (salvo l’ipotesi di misure protettive, come vedremo). Ciò serve a incoraggiare gli imprenditori: sanno che possono “provare” la negoziazione senza esporsi subito al rischio di perdere la fiducia del mercato. È una differenza importante rispetto ad esempio al concordato preventivo, la cui domanda è pubblica e nota ai più (spesso con ripercussioni negative su fornitori, clienti, banche).
Costo e impegno iniziale: L’accesso alla piattaforma è gratuito, ma ovviamente l’imprenditore dovrà sostenere i costi dei professionisti che lo assistono nel predisporre documenti e nel seguire il procedimento (spesso un commercialista o advisor finanziario). L’Esperto nominato verrà pagato secondo parametri stabiliti (c’è un decreto con la tabella dei compensi legata alla complessità e alla durata dell’incarico), ma il suo compenso è a carico dell’impresa richiedente. Tuttavia, tali compensi dell’esperto e i costi connessi hanno natura di crediti prededucibili: significa che se malauguratamente l’impresa finirà in concordato o liquidazione giudiziale dopo la composizione, quei compensi saranno pagati con priorità (questa previsione serve a incentivare gli esperti ad accettare e svolgere con impegno l’incarico, e indirettamente è una tutela anche per l’imprenditore che non rischia di pagare inutilmente in caso di insuccesso, almeno non perde la possibilità che quei costi siano riconosciuti nella procedura successiva).
Il ruolo dell’esperto indipendente: Una volta accettato l’incarico, l’esperto convoca l’imprenditore per un primo incontro (di norma entro pochi giorni) per approfondire la situazione. A differenza di un commissario giudiziale in un concordato, l’esperto non ha poteri sostitutivi né decisionali sull’impresa: il suo ruolo è di facilitatore e mediatore. Egli deve anzitutto valutare se ci sono effettive prospettive di risanamento e, se sì, aiutare l’imprenditore a individuare le possibili soluzioni e a condurre le trattative con i creditori. Se invece sin dall’inizio l’esperto constata che non c’è trippa per gatti (ad esempio l’azienda è completamente decotta, nessuna prospettiva realistica di salvataggio), può invitare l’imprenditore a desistere e magari a valutare una soluzione liquidatoria, spingendolo verso la chiusura dell’attività prima di aggravare il dissesto.
L’esperto mantiene un ruolo super partes: pur essendo scelto da una commissione su input dell’imprenditore, una volta nominato deve agire nell’interesse generale di favorire un accordo equo tra tutte le parti. Egli ha accesso a tutte le informazioni aziendali (può chiedere documenti, confrontarsi con dipendenti chiave, ecc.) e si interfaccia sia con l’imprenditore che con i creditori. In pratica organizzerà incontri con i principali creditori, cercando di capire le rispettive posizioni e mediare su possibili concessioni o ristrutturazioni.
Durata della procedura: La composizione negoziata ha una durata iniziale di 180 giorni (6 mesi) dall’accettazione dell’incarico da parte dell’esperto. Entro questo termine idealmente si dovrebbero concludere le trattative. È possibile ottenere una proroga oltre i 180 giorni solo in due casi: se tutte le parti coinvolte (quindi l’imprenditore e i creditori con cui si tratta) lo richiedono congiuntamente e l’esperto è d’accordo, oppure se è necessario attendere l’esito di un ricorso al tribunale per misure protettive o cautelari richieste dall’imprenditore (vedi par. 4.2). In ogni caso, la durata massima complessiva difficilmente supera i 240 giorni (8 mesi) salvo situazioni eccezionali. Questo limite temporale serve a evitare che le trattative si trascinino all’infinito senza esito, cristallizzando una situazione di incertezza. Se il termine decorre senza aver trovato soluzione, la procedura si chiude.
Gestione dell’impresa durante la composizione: Uno degli aspetti più apprezzati dagli imprenditori è che nella composizione negoziata la gestione dell’impresa rimane in capo all’imprenditore. Non c’è spossessamento, non c’è un amministratore esterno. L’imprenditore prosegue nella gestione ordinaria e straordinaria, ma con alcuni vincoli. In particolare, egli deve concordare preventivamente con l’esperto il compimento di atti di straordinaria amministrazione e l’esecuzione di pagamenti non coerenti con l’andamento delle trattative o con le prospettive di risanamento. Questo significa che, mentre può continuare l’attività day-by-day, se volesse, ad esempio, vendere un cespite importante, o pagare anticipatamente un fornitore particolare fuori dalle normali condizioni, dovrebbe prima informare l’esperto e discuterne. Lo scopo è impedire che, durante le trattative, l’imprenditore compia atti che possano pregiudicare i creditori o alterare la par condicio (ad esempio svuotando l’azienda di beni o favorendo qualche creditore a discapito di altri). In caso di contrasto, l’esperto non può bloccare l’atto direttamente (non ha poteri di veto), ma se ritiene che l’imprenditore stia agendo in modo gravemente pregiudizievole può segnalarlo al tribunale e questo potrebbe revocare eventuali misure protettive concesse, o comunque l’esperto lo evidenzierà nella relazione finale. In definitiva, però, l’imprenditore mantiene il timone dell’azienda, assistito dall’esperto che è un “advisor-facilitatore“, non un commissario. Ciò preserva la continuità gestionale e l’operatività corrente, fattori cruciali se l’obiettivo è uscire dalla crisi senza interrompere l’attività.
In sintesi, l’accesso alla composizione negoziata è semplice e non porta immediatamente alcuno stigma pubblico. Un imprenditore in difficoltà, soprattutto dopo aver ricevuto magari le segnalazioni di allerta di cui al capitolo 3, dovrebbe considerare seriamente questa strada: è un modo per ottenere l’assistenza di un professionista esperto e provare a rinegoziare i propri debiti in maniera organizzata e protetta, con costi contenuti rispetto a un concordato e senza perdere la guida dell’impresa. Nei paragrafi seguenti vedremo come, una volta nominato l’esperto e avviate le trattative, si possa beneficiare di misure protettive (come il blocco delle azioni esecutive) e quali possibili accordi si possono raggiungere.
4.2 Svolgimento delle trattative, misure protettive e altri strumenti in composizione negoziata
Una volta nominato l’esperto indipendente e avviata la composizione negoziata, si entra nel vivo delle trattative con i creditori e dell’eventuale utilizzo di strumenti a supporto (come le misure protettive dal tribunale). In questo paragrafo analizziamo come tipicamente si svolge questa fase centrale: dall’approccio iniziale verso i creditori, alle eventuali richieste al tribunale per congelare le azioni di recupero, fino agli interventi che l’esperto può suggerire per facilitare un accordo.
Primo contatto con i creditori: L’esperto, d’intesa con l’imprenditore, individua i principali soggetti da coinvolgere nelle trattative. Generalmente si parte dai creditori più rilevanti (es. banche finanziatrici, fornitori strategici, Fisco e previdenza se vi sono debiti tributari) poiché sono quelli il cui atteggiamento può determinare il successo o meno del risanamento. L’esperto invia una comunicazione iniziale a tali creditori, informandoli che l’azienda ha richiesto la composizione negoziata e che li inviterà a un tavolo di confronto, ricordando anche l’obbligo di riservatezza imposto dalla legge: tutte le parti coinvolte devono mantenere confidenziali le informazioni apprese durante la procedura. Questo è cruciale per evitare fughe di notizie che potrebbero destabilizzare l’impresa (ad esempio, se trapelasse la notizia che l’azienda è “in composizione negoziata”, fornitori e clienti potrebbero perdere fiducia).
Spesso, l’esperto convoca una prima riunione plenaria con i creditori chiave, in cui l’imprenditore espone in modo franco la situazione aziendale, le cause della crisi e soprattutto le linee guida di un possibile piano di risanamento (ad esempio: “abbiamo bisogno di un periodo di moratoria sui debiti di 12 mesi e di una dilazione su 5 anni”, oppure “cerchiamo nuova finanza per x euro, garantita dagli asset immobiliari, con cui pagare i debiti in misura del 40%”, ecc.). Questa riunione serve a tastare il terreno: i creditori potranno porre domande, manifestare preoccupazioni, e l’esperto agirà da moderatore cercando di far emergere le posizioni di ciascuno.
Collaborazione delle parti: È fondamentale che tutte le parti collaborino in buona fede. La legge lo richiede espressamente: sia l’imprenditore che i creditori devono comportarsi con lealtà, astenendosi da azioni che possano compromettere le trattative. Ad esempio, i creditori dovrebbero evitare, per quanto possibile, di aggravare la posizione dell’impresa durante la negoziazione (come attivare pignoramenti aggressivi), purché vedano che la controparte è seria nel tentare un accordo. Per facilitare ciò, la normativa ha previsto che i creditori che partecipano alle trattative non possano divulgare le notizie apprese sullo stato dell’impresa e in generale che tengano un atteggiamento costruttivo.
Misure protettive (stay delle azioni esecutive): Uno strumento molto importante a disposizione dell’imprenditore nella composizione negoziata è la possibilità di richiedere al tribunale l’applicazione di misure protettive e cautelari sul patrimonio. In pratica, ciò consente all’imprenditore di ottenere un “ombrello” temporaneo contro iniziative che potrebbero far saltare il tavolo: tipicamente, il blocco o la sospensione delle azioni esecutive e cautelari da parte dei creditori (pignoramenti, sequestri) e il divieto per i creditori di acquisire titoli di prelazione sul patrimonio del debitore durante le trattative. Questa protezione è simile all’automatic stay del Chapter 11 americano, seppur con delle differenze di estensione e di concessione.
Per attivare le misure protettive, l’imprenditore deve presentare un ricorso al Tribunale competente (quello del luogo in cui ha sede l’impresa), allegando la documentazione depositata nella piattaforma e una proposta di piano di risanamento (anche semplificata). Il tribunale valuta se la richiesta è funzionale al buon esito delle trattative e se non vi è pregiudizio per i creditori. Se accoglie, emette un decreto che concede le misure protettive per un periodo iniziale (in genere 30 giorni rinnovabili fino a max 120 giorni). Durante questo periodo, i creditori per legge non possono iniziare o proseguire azioni esecutive individuali né iscrivere ipoteche giudiziali, ecc., e i processi esecutivi pendenti sono sospesi. È importante notare che le misure protettive non sono automatiche con la presentazione dell’istanza di composizione: vanno specificamente richieste e concesse dal giudice. Tuttavia, la legge prevede che dalla pubblicazione del ricorso nel registro delle imprese (atto che va fatto contestualmente) le misure richieste abbiano comunque effetto provvisorio fino alla decisione del giudice (quindi c’è una tutela immediata).
Le novità introdotte dal Correttivo-ter hanno inciso anche su questo aspetto: è stato previsto, ad esempio, che in attesa delle certificazioni di debiti tributari e contributivi (che l’imprenditore deve allegare al ricorso), si possa inserire una autodichiarazione provvisoria in piattaforma, per non ritardare la richiesta di misure protettive (visto che ottenere i certificati dall’Agenzia Entrate e INPS poteva richiedere tempo). Inoltre, sono stati meglio specificati i criteri per la proroga delle misure oltre i 4 mesi e inserito un comma 5-bis all’art. 18 CCII per disciplinare alcuni aspetti tecnici.
Le misure protettive rappresentano un’arma a doppio taglio: se da un lato proteggono l’impresa mentre cerca l’accordo, dall’altro precludono ai creditori di agire singolarmente, il che può generare preoccupazione in essi (temono di “perdere tempo” sotto lo scudo). Pertanto i tribunali concedono lo stay solo se vedono che l’impresa sta effettivamente negoziando in buona fede e c’è la possibilità di un’intesa. In qualsiasi momento, se risulta che le trattative non possono concludersi positivamente, il tribunale può revocare le misure protettive. Ad esempio, se un creditore dimostra che il debitore sta solo prendendo tempo e la sua proposta è manifestamente irricevibile, il giudice potrebbe togliere la protezione.
Sospensione e revoca delle linee di credito: Un tema delicato durante le trattative riguarda il comportamento delle banche. Spesso l’avvio di una procedura di composizione negoziata potrebbe essere visto dalle banche come un segnale di rischio e indurle a revocare gli affidamenti o a congelare le linee di credito concesse all’azienda (scoperti di conto, anticipi fatture, etc.). Ciò però rischierebbe di far precipitare la crisi. Il legislatore è intervenuto (sia nel 2021 che col correttivo 2024) per mitigare questo problema: in base all’art. 16, comma 5 CCII come modificato, l’accesso alla composizione negoziata in sé non può essere considerato dalle banche come causa di riclassificazione del merito creditizio dell’impresa né come motivo per revocare fidi, salvo giustificate ragioni. Se una banca decide comunque di sospendere o revocare linee di credito durante la negoziazione, deve comunicarne le specifiche ragioni sia all’impresa che ai suoi organi di controllo. In pratica, la banca deve motivare perché ritiene di non poter più mantenere il credito, e tale comunicazione dev’essere messa a conoscenza anche dei sindaci/revisori dell’impresa. Questa trasparenza serve a far emergere eventuali comportamenti opportunistici. Inoltre, è sancito che la prosecuzione dei rapporti bancari (continuare a erogare fido a un’impresa in composizione) non costituisce di per sé motivo di responsabilità per gli istituti di credito: questo per tranquillizzare le banche che temono azioni di responsabilità da altri creditori se non revocano i fidi (in passato c’era il timore della revocatoria per concessione abusiva di credito). Insomma, si cerca di creare un clima in cui la banca sia incentivata a mantenere aperto il rubinetto almeno durante i negoziati. In caso contrario, la revoca improvvisa di fidi potrebbe far fallire sul nascere ogni trattativa.
Possibili interventi durante la procedura: Durante i mesi di composizione negoziata, l’esperto e l’imprenditore possono studiare e proporre varie soluzioni ai creditori. Eccone alcune:
- Moratoria sui debiti (convenzione di moratoria): Il Codice prevede espressamente la possibilità di concludere, durante la composizione, una convenzione di moratoria ex art. 11 co.1 DL 118/21 (ora art. 23 CCII) che vincoli anche i creditori dissenzienti appartenenti alla medesima categoria, se vi aderisce almeno il 75% di quelli di quella categoria. In pratica, se i creditori finanziari (per esempio) che rappresentano almeno il 75% del loro credito accettano di sospendere le azioni e dilazionare le scadenze, tale accordo può essere esteso anche al 25% che non ha aderito, per la durata della moratoria. Questa convenzione però non può imporre ai non aderenti rinunce definitive al credito (no taglio del capitale dovuto), può solo riguardare temporaneamente scadenze e azioni conservative. Serve come “timeout” collettivo per guadagnare tempo e respirare.
- Accordo stragiudiziale con adesione qualificata: L’esito auspicato della composizione è spesso il raggiungimento di un accordo volontario con i creditori. Può essere un unico accordo sottoscritto da tutti (magari un accordo quadro) o accordi bilaterali con ciascuno. Può prevedere ristrutturazione del debito (riduzioni, dilazioni), nuove garanzie, ecc. Un particolare tipo di accordo introdotto dal Codice è l’accordo con l’intervento dell’esperto (art. 23 co.5 CCII), in cui l’esperto stesso controfirma l’accordo raggiunto attestando che esso è idoneo a risanare l’impresa e riequilibrarne la situazione finanziaria. Questo accordo controfirmato dall’esperto ha un vantaggio: conferisce esenzione dalle azioni revocatorie per gli atti, pagamenti e garanzie posti in essere in esecuzione dell’accordo. In pratica è come un “piano attestato rafforzato”: pur senza omologa del tribunale, l’esperto garantisce terzietà e veridicità dei dati, e ciò basta per proteggere l’accordo da eventuali revocatorie fallimentari successive. Il lato negativo è che, non essendo prevista una percentuale di adesione ridotta, in sostanza l’accordo deve coinvolgere tutti o quasi i creditori interessati per funzionare (altrimenti i non aderenti potrebbero far precipitare la situazione). Questo strumento è innovativo ma alcuni lo ritengono poco utilizzabile proprio perché richiede un consenso pressoché unanime. Resta il fatto che se l’esperto riesce a far convergere tutti su un accordo e lo firma, l’impresa ha di fatto ottenuto un piano attestato con la benedizione di legge.
- Ricorso a strumenti concorsuali semplificati: Se durante la composizione l’esperto si rende conto che serve comunque l’intervento del tribunale per vincolare eventuali creditori dissenzienti, può indirizzare l’imprenditore verso un concordato preventivo o un accordo di ristrutturazione da formalizzare. Il vantaggio di passare attraverso la composizione prima è che l’imprenditore arriva a quel punto con le idee più chiare e magari con un accordo di massima già scritto. In particolare, se l’esperto certifica che è stata trovata una soluzione che necessita però di essere cristallizzata con una procedura concorsuale (ad es. un concordato in continuità con un certo piano), l’imprenditore può depositare domanda di concordato preventivo anche semplificata approfittando dei lavori preparatori fatti. In altre situazioni, se le trattative falliscono, come vedremo nella sezione 4.3, potrà comunque optare per un concordato semplificato liquidatorio.
Finanziamenti durante la composizione: Un problema frequente è: l’impresa in crisi avrebbe bisogno di liquidità nuova per superare la fase critica, ma chi presta soldi a un’impresa in crisi? Per incoraggiare i finanziatori, la legge prevede che i nuovi finanziamenti autorizzati dall’esperto funzionali al migliore esito delle trattative siano considerati crediti prededucibili (prioritari) in caso di successivo fallimento o concordato. Ciò rassicura chi immette denaro fresco: se poi le cose vanno male, verrà rimborsato prima di altri debiti. Inoltre, il tribunale può autorizzare l’imprenditore a contrarre finanziamenti prededucibili o a concedere garanzie sui beni dell’impresa, su parere favorevole dell’esperto, se reputati necessari per la continuazione dell’attività o per portare avanti le trattative (art. 22 CCII). Anche questa è una misura pensata per tenere in vita l’impresa durante la negoziazione.
Esempio pratico 3 – Svolgimento della composizione: Delta Srl, impresa metalmeccanica, avvia la composizione negoziata e l’esperto convoca subito le tre banche finanziatrici e il maggior fornitore (acciaieria) perché sono i creditori cruciali. Scopo: ottenere una moratoria di 6 mesi sui pagamenti dei mutui e dilazionare di 120 giorni i debiti verso fornitore, nel frattempo cercare un investitore. L’esperto fa sedere al tavolo tutti e Delta espone un piano: ingresso di un socio al 30% con apporto di €500.000 (ancora da trovare), a fronte del quale pagherà i debiti per il 70% entro 1 anno. Banche e fornitore chiedono garanzie e di vedere una bozza di accordo. Nel frattempo l’esperto suggerisce a Delta di chiedere al tribunale misure protettive per evitare che una delle banche, formalmente in default sui covenants, revochi gli affidamenti. Il tribunale concede lo stay dei pagamenti per 3 mesi. Ciò tranquillizza Delta che non subisce azioni. Dopo trattative, due banche su tre accettano la proposta (dilazione e saldo all’80% in 1 anno), la terza è più restia. L’esperto allora propone una convenzione di moratoria: le due banche favorevoli coprono l’80% dell’esposizione bancaria totale; pertanto, con la loro adesione, la moratoria può essere estesa anche alla terza banca dissenziente (che rappresenta il 20%). La convenzione firmata dalle due banche e da Delta stabilisce che nessuna banca chiederà rimborsi per 6 mesi. La terza banca, pur non firmando, è vincolata dalla moratoria (essendo stessa categoria e essendoci >75% adesione), purché non le sia richiesto alcun sacrificio definitivo sul credito. Ciò dà a Delta il tempo di concretizzare l’ingresso del socio. A 4 mesi dall’inizio, Delta Srl trova un investitore disposto a mettere €500.000, ma a condizione di “pulire” il bilancio dai debiti pregressi con un accordo generale. Allora l’esperto redige un accordo quadro di ristrutturazione: Delta pagherà il 80% di ogni credito bancario in 12 mesi con i soldi nuovi, e il 50% del debito verso fornitore entro 6 mesi. Tutti i creditori coinvolti sottoscrivono l’accordo e l’esperto lo controfirma attestando che è sostenibile e risanante. Grazie a ciò, i pagamenti fatti e le garanzie eventualmente date all’investitore (che ha chiesto ipoteca su un capannone a fronte del suo apporto) saranno protetti da revocatoria. Delta Srl esce così dalla composizione negoziata con un accordo stragiudiziale firmato da tutti e un nuovo socio: ha evitato la necessità di un concordato preventivo e soprattutto ha evitato la liquidazione. Questo esempio mostra vari strumenti in azione: misure protettive, convenzione di moratoria, accordo asseverato. Naturalmente ogni caso è diverso: non sempre si troverà il consenso unanime, e come vedremo ora, in caso di insuccesso ci sono procedure di uscita.
4.3 Esiti della composizione negoziata: accordo, piano o concordato
La composizione negoziata può portare a diversi esiti conclusivi, a seconda di come vanno le trattative. In uno scenario ottimale, l’esito è positivo, con il raggiungimento di un accordo o comunque di una soluzione che evita l’insolvenza. In altri casi, purtroppo, le trattative possono fallire o evidenziare l’impossibilità di risanamento: anche in tali ipotesi la legge prevede dei percorsi di sbocco, il principale dei quali è il concordato semplificato per la liquidazione (introdotto proprio come uscita dalla composizione). Vediamo quindi le possibili conclusioni:
a) Raggiungimento di un accordo con i creditori (esito favorevole): È la situazione ideale. L’impresa e i creditori, grazie alla mediazione dell’esperto, trovano un accordo stragiudiziale che risolve la crisi. Può trattarsi, come nell’esempio Delta Srl, di un accordo unico sottoscritto da tutti i creditori coinvolti, oppure di più accordi bilaterali (ad esempio, separate intese con ciascuna banca, con ciascun fornitore, ecc.). L’importante è che nel complesso l’impresa ottenga ciò che le serve per ritrovare l’equilibrio (siano esse dilazioni, riduzioni di debito, nuovi finanziamenti, cessioni di rami d’azienda con accollo di passività, ecc.) e i creditori abbiano accettato le soluzioni proposte.
In tal caso, l’esperto redige la sua relazione finale in cui dà conto delle attività svolte e attesta che la crisi risulta superata o che comunque è stato concluso un accordo idoneo a risolverla. Questa relazione viene caricata in piattaforma e comunicata all’imprenditore. A questo punto, la composizione negoziata si chiude. Non vi è bisogno di omologa da parte di un tribunale (poiché l’accordo è privato), né la conclusione viene pubblicata ufficialmente. Semplicemente, l’azienda prosegue la sua attività eseguendo quanto pattuito negli accordi. Se l’esperto aveva controfirmato l’accordo (rendendolo esente da revocatoria), quell’effetto protettivo opera ipso iure. Se erano state concesse misure protettive dal tribunale, decadranno con la chiusura della procedura, ma a quel punto non servono più perché c’è un accordo.
Un caso particolare di esito positivo è quando, grazie alle trattative, l’imprenditore perfeziona un piano attestato di risanamento (strumento dell’art. 56 CCII, ex art. 67 LF). Può accadere che l’esperto, valutando la situazione, consigli all’imprenditore di predisporre un piano di risanamento fattibile e farlo attestare da un professionista indipendente (diverso dall’esperto). Se i creditori sono disponibili a fidarsi di tale piano, lo si può adottare come soluzione. In questo caso formale, la composizione si chiude e resta in piedi il piano attestato che verrà eseguito dall’impresa. Il vantaggio è che il piano attestato è un atto unilaterale dell’impresa (più dichiarazioni individuali dei creditori) e gode di esenzione da revocatoria per gli atti in esso previsti, quindi ha efficacia protettiva simile all’accordo controfirmato dall’esperto. La differenza è che qui l’attestatore è scelto dall’azienda e il piano potrebbe anche non avere la firma di tutti i creditori (basta che quelli importanti aderiscano volontariamente). In sostanza, la composizione negoziata può fungere da incubatore anche per un piano attestato.
b) Impossibilità di trovare un accordo (esito negativo): Purtroppo non sempre i negoziati vanno a buon fine. Ci sono casi in cui i creditori restano rigidi o l’impresa non ha proprio margini per offrire qualcosa di accettabile. L’esperto, nel corso del suo mandato, può in qualsiasi momento interrompere la procedura se ritiene che non vi siano concrete prospettive di risanamento o che comunque non si raggiungerà un accordo. Lo può fare autonomamente prima della scadenza dei 180 giorni, redigendo la relazione finale in cui darà conto del perché le trattative non hanno portato frutti. Anche l’imprenditore potrebbe rinunciare e ritirarsi (ad esempio se capisce che i creditori chiave non intendono concedere nulla di utile). In ogni caso, se a fine periodo non c’è un accordo, la composizione negoziata si chiude con esito negativo.
Ora, chiusa la porta della composizione, si apre il bivio delle procedure concorsuali. L’imprenditore insolvente non può ovviamente ignorare il fallimento delle trattative: deve decidere come gestire la crisi a questo punto. Il CCII offre una chance particolare: il concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio (art. 25-sexies CCII). Questo istituto, introdotto dall’art. 2 DL 118/2021, è pensato proprio come “via d’uscita” quando la composizione negoziata non ha permesso un risanamento ma l’imprenditore vuole comunque evitare l’instaurazione di una liquidazione giudiziale caotica.
Vediamo cos’è: il concordato semplificato è una procedura concorsuale giudiziale a cui si può accedere solo in seguito a una composizione negoziata fallita (serve la relazione finale dell’esperto che attesti l’assenza di soluzione di continuità). Consente all’imprenditore di proporre al tribunale un piano che prevede la mera liquidazione dei suoi beni e la distribuzione del ricavato ai creditori, senza bisogno dell’approvazione dei creditori. È “semplificato” proprio perché salta la fase del voto: i creditori potranno eventualmente essere sentiti dal tribunale ma non votano la proposta. La proposta può prevedere che taluni beni siano liquidati tramite assegnazione a specifici creditori o altri strumenti (ad esempio, la vendita in blocco dell’azienda a un soggetto individuato, con riparto del prezzo). Il tribunale valuta la proposta e, se la ritiene fattibile e tale da assicurare ai creditori un risultato non inferiore a quello della liquidazione giudiziale, può omologarla (approvarla). In udienza, i creditori possono sollevare opposizioni se ritengono la proposta iniqua, ma non c’è un voto. Se omologato, il concordato semplificato viene attuato con la nomina di un liquidatore giudiziale (figura analoga a un curatore, nominato dal tribunale) che procede a vendere i beni secondo il piano e distribuire le somme ai creditori secondo le priorità di legge.
Il concordato semplificato ha alcune caratteristiche peculiari: ad esempio, non prevede il commissario giudiziale (figura normalmente presente nel concordato preventivo ordinario) né l’attestazione di un professionista sulla fattibilità del piano (qui l’attestazione è “surrogata” dalla relazione finale dell’esperto della composizione). Questo lo rende più rapido e meno costoso. Inoltre, proprio perché nasce in extremis dopo tentativi falliti, la legge consente che sia utilizzato solo per liquidare e non per continuare l’attività (non è un concordato in continuità, ma solo liquidatorio). È pensato per quei casi in cui l’imprenditore onesto dice: “Non sono riuscito a trovare un accordo, cedo il passo: ecco il mio patrimonio, lo liquido in modo ordinato e trasparente, così i creditori prendono il massimo possibile senza le lungaggini del fallimento”.
Esempio pratico 4 – Concordato semplificato dopo composizione fallita: EcoBuild Srl opera nelle costruzioni edili. A seguito di costi lievitati e ritardi nei pagamenti, accumula debiti e ricorre alla composizione negoziata. L’esperto però, dopo 3 mesi di tentativi, constata che i principali creditori (banche e grossi fornitori) non accettano le proposte di EcoBuild, pretendendo pagamenti integrali che l’azienda non può permettersi. Non emergono investitori interessati e l’attività peraltro è ferma. L’esperto conclude negativamente la composizione. EcoBuild è di fatto insolvente e rischia istanze di fallimento. A questo punto gli amministratori, per evitare l’apertura di una liquidazione giudiziale “classica” che li vedrebbe immediatamente esautorati, decidono di utilizzare l’ultima carta: presentano al tribunale una domanda di concordato semplificato (entro 60 giorni dalla relazione finale, come prescritto). Nella proposta indicano di vendere l’unico cantiere di proprietà e alcuni mezzi d’opera ad un certo prezzo (hanno già una trattativa con un compratore interessato), stimando di ricavare tot euro da distribuire ai creditori, con una percentuale di soddisfo del 30% per i chirografari. Allegano la relazione finale dell’esperto che da atto del tentativo fatto. Il tribunale valuta che in caso di fallimento i tempi sarebbero più lunghi e probabilmente i creditori, attendendo anni, recupererebbero forse anche meno del 30%. Non ci sono atti di frode. Dunque il giudice omologa il concordato semplificato. Viene nominato un liquidatore che in pochi mesi perfeziona la vendita del cantiere e distribuisce il 30% a tutti i chirografari, chiudendo la procedura. EcoBuild viene poi cancellata. In questo modo, pur essendo l’epilogo comunque liquidatorio, si è evitata una procedura fallimentare lunga, e gli amministratori (che hanno collaborato attivamente) potranno probabilmente evitare sanzioni e magari ottenere l’esdebitazione personale residua.
c) Accesso ad altre procedure concorsuali (concordato preventivo o liquidazione giudiziale): Da notare che l’imprenditore non è obbligato a scegliere il concordato semplificato. Ha anche l’opzione, se del caso, di presentare un concordato preventivo “normale” o di cercare un accordo di ristrutturazione dei debiti (di cui parleremo nel cap. 7) qualora, pur non avendo concluso durante la composizione, abbia raccolto sufficienti consensi informali. Ad esempio, se EcoBuild Srl del caso di cui sopra avesse avuto l’adesione di alcune banche per un concordato in continuità, avrebbe potuto depositare un concordato preventivo vero e proprio (sottoponendolo poi a voto dei creditori). Oppure, se un’impresa ha convinto il 70% dei creditori a firmare un accordo ma il 30% è fuori, potrebbe optare per l’accordo di ristrutturazione omologato dal tribunale. La composizione negoziata, insomma, non preclude poi l’utilizzo degli strumenti “tradizionali” di regolazione della crisi: anzi, sovente li prepara. Molti concordati preventivi di successo nascono dalle ceneri di trattative condotte in composizione. Il vantaggio del concordato preventivo rispetto al semplificato è che consente anche soluzioni in continuità (ad esempio, proseguire l’attività ristrutturando il debito con falcidie, cosa che nel semplificato non è possibile perché lì puoi solo liquidare). D’altro canto, il concordato preventivo è molto più lungo e complesso (richiede voto dei creditori, commissario, attestazione). Dunque la scelta dipende dal contesto: se c’è ancora chance di salvataggio in extremis magari con nuova finanza, si andrà verso un concordato preventivo in continuità; se invece proprio non c’è prospettiva se non liquidare, tanto vale il semplificato.
d) Ritiro dell’imprenditore e istanza di liquidazione giudiziale: In rarissimi casi, l’imprenditore potrebbe decidere egli stesso di gettare la spugna e chiedere la liquidazione giudiziale (ossia l’ex fallimento) presentando ricorso in tribunale. Questo può accadere se reputa… questo può accadere se l’imprenditore reputa inevitabile la liquidazione e preferisce non attendere oltre. Presentando istanza di liquidazione giudiziale volontaria, l’imprenditore dimostra cooperazione e può talvolta accelerare la conclusione della vicenda (ad esempio facilitando la successiva esdebitazione personale). In ogni caso, con la relazione finale dell’esperto la composizione negoziata si chiude formalmente.
Riassumendo gli esiti della composizione negoziata:
- Esito positivo: accordo con i creditori o altro strumento di regolazione (piano attestato, accordo omologato) che risolve la crisi senza ricorrere a procedure concorsuali.
- Esito negativo ma con soluzione concordataria: deposito di un concordato (ordinario o semplificato) per evitare la liquidazione giudiziale.
- Esito negativo senza soluzione concordataria: possibile inizio di liquidazione giudiziale (fallimento) su istanza di creditori o stessa impresa.
La composizione negoziata, in conclusione, rappresenta un tentativo morbido e anticipato di gestione della crisi. Per l’imprenditore, i vantaggi sono la riservatezza, il mantenimento della gestione e la possibilità di giocarsi una chance di risanamento con l’assistenza di un esperto e con l’ombrello protettivo del tribunale (in caso di misure protettive). È uno strumento relativamente nuovo ma che sta già dando risultati: molte imprese hanno evitato il fallimento grazie a esso. Ovviamente non è la panacea universale – occorrono comunque prospettive industriali credibili e un minimo di collaborazione dei creditori. In mancanza di queste condizioni, bisogna saper prendere atto della realtà e utilizzare gli altri istituti (concordati o liquidazione) per gestire la crisi in modo ordinato. Nei prossimi capitoli analizzeremo proprio tali istituti “concorsuali” tradizionali, iniziando dal concordato preventivo.
5. Il Concordato Preventivo
Il concordato preventivo è la più nota e collaudata tra le procedure concorsuali di regolazione della crisi d’impresa. Si tratta di una procedura giudiziale tramite la quale l’imprenditore in crisi o insolvente propone ai creditori un accordo, sotto il controllo del tribunale, per evitare la liquidazione giudiziale e regolare la propria posizione debitoria in modo ordinato. In pratica, è un “patto” concorsuale tra debitore e creditori: il debitore offre un determinato trattamento dei crediti (pagamento parziale, dilazionato, o altre soluzioni) e i creditori votano se accettare; se la maggioranza approva e il tribunale ritiene il piano conforme alla legge, il concordato viene omologato ed eseguito, sostituendo le normali pretese dei creditori.
Il concordato preventivo può assumere due forme principali:
- Concordato in continuità aziendale: quando prevede che l’attività d’impresa continui, sia direttamente ad opera del debitore (continuità diretta) sia tramite la cessione o conferimento dell’azienda a un terzo che la prosegue (continuità indiretta). L’obiettivo è il risanamento dell’impresa come operatore economico, oltre che la soddisfazione dei creditori in misura concordata.
- Concordato liquidatorio: quando invece prevede la cessazione dell’attività e la liquidazione del patrimonio dell’impresa, con distribuzione del ricavato ai creditori secondo le proposte concordatarie. In sostanza, l’impresa chiude, ma lo fa attraverso un piano concordato con i creditori (spesso per ottenere condizioni di realizzo migliori rispetto a una liquidazione fallimentare).
Va sottolineato che il CCII incoraggia la continuità aziendale: infatti, mentre per il concordato in continuità non vi sono soglie rigide di soddisfacimento dei creditori, il concordato liquidatorio è ammesso solo se garantisce ai creditori chirografari una soddisfazione minima del 20% e prevede un apporto di risorse esterne (cioè valore aggiunto apportato dall’imprenditore o da terzi) pari ad almeno il 10% dell’attivo liquidabile. Questi requisiti, introdotti dal Codice, assicurano che il concordato liquidatorio offra qualcosa in più rispetto a una liquidazione ordinaria (dove spesso i chirografari ricevono percentuali molto basse) e che il debitore contribuisca con risorse proprie al pagamento (ad esempio conferendo nuovi beni o capitali, o rinunciando a crediti verso la società, ecc.). Tali vincoli non si applicano ai concordati in continuità, proprio per favorire le soluzioni di risanamento: nel concordato in continuità, però, il piano deve assicurare che i creditori non ricevano meno di quanto otterrebbero da una liquidazione dell’impresa (principio del best interest test).
Vediamo ora più in dettaglio come funziona un concordato preventivo, distinguendo gli aspetti relativi alla continuità aziendale da quelli liquidatori, e poi il procedimento di ammissione, voto e omologazione, evidenziando anche le novità più recenti (come il meccanismo di cram-down interclassi introdotto nel 2024).
5.1 Concordato in continuità aziendale
Un concordato in continuità è essenzialmente un piano di ristrutturazione aziendale sottoposto all’approvazione dei creditori e del tribunale. L’impresa prosegue la propria attività durante e dopo la procedura, generando flussi che saranno utilizzati per pagare (in tutto o in parte) i creditori secondo le tempistiche previste. La continuità può essere “diretta”, se il debitore stesso rimane alla guida dell’azienda anche dopo l’omologa, oppure “indiretta”, se il piano prevede che l’azienda (o rami di essa) venga trasferita a un soggetto terzo (ad esempio venduta a un investitore che ne garantisce la prosecuzione, oppure conferita in una newco). In entrambi i casi, il valore della capacità produttiva dell’impresa è messo a frutto per il soddisfacimento dei creditori.
Nel concordato in continuità, la legge consente una grande flessibilità nel formulare il piano. Ad esempio, è possibile proporre ai creditori chirografari un pagamento parziale del loro credito (una falcidia), oppure una moratoria (pagamento integrale ma posticipato di alcuni anni), oppure ancora altre forme come conversione del credito in azioni o obbligazioni della società (debt-equity swap). È anche possibile trattare diversamente categorie diverse di creditori, purché ciò avvenga nel rispetto di criteri di omogeneità e senza discriminazioni ingiustificate all’interno di classi comparabili. A tal fine, il debitore di regola suddivide i creditori in classi secondo posizione giuridica e interessi economici omogenei (ad esempio: una classe di banche finanziatrici, una classe di fornitori chirografari, una classe di creditori privilegiati degradati al chirografo, ecc.). La suddivisione in classi è obbligatoria se ci sono creditori con cause di prelazione o crediti differenti per posizione (nel concordato in continuità spesso tutti i creditori chirografari possono comunque essere considerati omogenei salvo accordi specifici).
Un elemento chiave è che il piano in continuità deve dimostrare la fattibilità del risanamento aziendale. Il debitore deve allegare al piano una relazione dettagliata con dati industriali: generalmente si presenta un piano industriale pluriennale con proiezioni di conto economico, stato patrimoniale e flussi di cassa, che mostri come l’azienda potrà ritornare in equilibrio (o mantenersi in equilibrio) e generare le risorse per soddisfare i creditori secondo la proposta. Su questo piano viene redatta la relazione di un attestatore indipendente (un professionista nominato dal debitore ma iscritto in apposito albo e senza conflitti) che deve attestare sia la veridicità dei dati aziendali, sia la fattibilità economica e giuridica del piano (art. 87 CCII). L’attestatore quindi svolge un ruolo di garante della serietà e solidità del piano, a tutela dei creditori che dovranno votare.
Nel concordato in continuità possono essere previste anche operazioni straordinarie: la legge, ad esempio, consente la cessione dell’azienda in esercizio o di singoli rami, oppure l’ingresso di nuovi soci con aumento di capitale, o la fusione con altra società, se ciò è funzionale al migliore soddisfacimento dei creditori e al risanamento. Queste operazioni devono essere indicate nel piano e, se comportano particolari modifiche per i creditori (ad es. un accollo di debiti da parte del terzo acquirente), vanno opportunamente disciplinate.
Un aspetto delicato nei concordati, soprattutto in continuità, riguarda il trattamento dei creditori privilegiati (come banche ipotecarie, Erario e INPS per i tributi/contributi, dipendenti per TFR e stipendi). In un concordato, i creditori privilegiati devono tendenzialmente essere pagati per intero nel rispetto delle prelazioni, salvo che accettino volontariamente un trattamento inferiore (deve esserci il loro voto favorevole in classe) oppure salvo che il loro credito privilegiato risulti in parte incapiente sul patrimonio. Infatti, se un credito privilegiato è parzialmente non coperto dai beni su cui insiste la prelazione (si pensi a una banca con ipoteca su un immobile che vale meno del debito), la parte scoperta del credito viene degradata a chirografaria e trattata come tale. Nel concordato in continuità spesso è difficile pagare integralmente i privilegiati finanziari o tributari, ma la legge consente di soddisfarli anche in forma dilazionata (entro determinati termini) purché la dilazione non alteri la loro reasonable expectation di soddisfazione.
Una importante novità apportata dal Codice (già con D.Lgs. 83/2022 e poi confermata) riguarda la transazione fiscale e contributiva nel concordato. Il debitore può proporre, all’interno del piano concordatario, il pagamento parziale o dilazionato dei debiti fiscali e previdenziali (transazione fiscale ex art. 63 CCII), deviando dalla regola per cui IVA e ritenute non potevano essere falcidiate nella vecchia legge. Oggi è ammesso includere anche IVA e ritenute nel trattamento concordatario, a condizione che l’Amministrazione finanziaria aderisca alla proposta. Se l’Erario (e gli enti previdenziali) rifiutano ingiustificatamente un’offerta concordataria che invece la maggioranza degli altri creditori approva e che garantisce all’Erario almeno quanto otterrebbe in liquidazione, il tribunale può comunque omologare il concordato nonostante il voto contrario del Fisco (il c.d. cram-down fiscale). Questa facoltà, introdotta già nel 2020 e confermata nel CCII, evita che un singolo creditore pubblico possa bloccare un concordato vantaggioso per tutti gli altri, purché siano rispettate certe tutele (ad esempio: che il trattamento offerto al Fisco sia equo in rapporto agli altri e non inferiore al valore di liquidazione del suo credito). Si tratta di un meccanismo di particolare rilievo pratico, dato che in passato molti concordati naufragavano per il diniego dell’Amministrazione finanziaria.
Esempio pratico – Concordato in continuità: Alfa S.p.A., azienda manifatturiera con 100 dipendenti, accumula debiti per 10 milioni (8 verso banche con ipoteche su capannoni, 2 verso fornitori chirografari). L’azienda ha ancora mercato e ordini, ma un eccesso di indebitamento la rende non sostenibile. Alfa propone un concordato in continuità: presenta un piano quinquennale in cui prevede di cedere un immobile non strategico e ottenere nuova finanza da un investitore interessato a entrare nel capitale. Con queste risorse, il piano propone di pagare integralmente nei 5 anni le banche ipotecarie (magari rinegoziando i mutui) e di pagare i fornitori chirografari al 40% in 4 anni. I dipendenti saranno tutti mantenuti in servizio (nessun licenziamento) e i debiti verso di loro (TFR, arretrati) saranno pagati entro un anno dall’omologa. Un professionista indipendente attesta che il piano è fattibile: i flussi generati dall’attività, uniti alla vendita dell’immobile e all’apporto del socio, consentono di rispettare quelle percentuali. I creditori vengono suddivisi in tre classi: classe A banche ipotecarie, classe B fornitori chirografari, classe C (eventuale) creditori privilegiati diversi (in questo caso solo dipendenti, ma vengono pagati al 100% entro 1 anno, quindi probabilmente fuori concordato o comunque senza voto perché soddisfatti integralmente in preferenza). Si procede al voto: le banche (classe A) accettano perché preferiscono rientrare in 5 anni piuttosto che escutere garanzie e forse ricavare meno; i fornitori (classe B) accettano perché una soddisfazione al 40% in continuità è per loro conveniente rispetto a un fallimento (dove forse otterrebbero il 10%) e perché mantenere Alfa come cliente in attività porta loro futuro fatturato. Il tribunale verifica che nessuna classe riceve meno di quanto avrebbe in liquidazione (si calcola il valore di liquidazione e si vede che i fornitori prenderebbero forse 5-10% in un fallimento, quindi il 40% è ben superiore). Accerta anche la regolarità del piano e omologa il concordato. Alfa prosegue l’attività: l’investitore immette fondi, l’immobile viene venduto e le banche ristrutturano il debito. In pochi anni Alfa esce dalla crisi, conserva i posti di lavoro e i fornitori hanno sia incassato parte dei crediti pregressi sia mantenuto un cliente. Questo esempio illustra l’utilità del concordato in continuità: è uno strumento di ristrutturazione guidata, che richiede consenso dei creditori ma consente la sopravvivenza dell’impresa quando c’è fiducia nelle sue prospettive.
5.2 Concordato preventivo liquidatorio
Il concordato liquidatorio si applica quando, purtroppo, non vi sono prospettive di risanamento dell’impresa, ma si vuole evitare la liquidazione giudiziale (fallimento) realizzando il patrimonio in modo più efficiente e distribuendo il ricavato secondo un piano concordato. In sostanza, è una liquidazione negoziata con i creditori: l’imprenditore mette sul piatto tutti i suoi beni (e spesso anche risorse aggiuntive di terzi) e propone ai creditori di soddisfarli con quello che si ricaverà, in una certa misura percentuale.
Come detto, il Codice richiede che in tal caso i creditori chirografari abbiano almeno il 20% (pena inammissibilità della proposta). Inoltre, deve esserci un contributo di risorse esterne pari ad almeno il 10% dell’attivo, cioè valore non derivante dalla semplice liquidazione dei beni già compresi nell’attivo (ad esempio: nuovi finanziamenti apportati dai soci, rinunce a crediti dei soci, denaro messo da un terzo a fondo perduto, etc.). Queste condizioni intendono assicurare un “premio” ai creditori rispetto al fallimento. Tuttavia, possono essere modulate: se alcuni creditori rinunciano espressamente a tali percentuali minime, il tribunale può considerare ammissibile anche un concordato liquidatorio più basso, purché non lesivo per gli altri.
Il piano di un concordato liquidatorio normalmente prevede la vendita dei beni dell’impresa: immobili, impianti, magazzino, crediti, partecipazioni, etc. Spesso viene nominato un liquidatore concordatario (anche se può essere lo stesso debitore a gestire la liquidazione sotto controllo del commissario e del giudice). La differenza col fallimento è che qui c’è un piano approvato: magari si è già individuato un acquirente per alcuni asset prima ancora di depositare il piano (es: vendita di ramo d’azienda a Tizio per X euro, da realizzare subito dopo l’omologa), oppure si fissa una strategia di liquidazione (es: vendita in blocco dell’intero complesso aziendale tramite procedure competitive). Il concordato liquidatorio, potendo deviare dalle regole ordinarie, consente ad esempio di fare assegnazioni di beni ai creditori in conto soddisfazione: potrebbe proporsi che un certo immobile venga assegnato a una banca ipotecaria a soddisfacimento del suo credito, oppure che le rimanenze di magazzino siano trasferite ad un creditore fornitore a titolo di pagamento.
I creditori privilegiati nel concordato liquidatorio devono essere anch’essi soddisfatti per il valore di stima dei beni oggetto di prelazione. Se il ricavato atteso non è sufficiente a pagarli al 100%, la parte insoddisfatta diventa chirografaria e deve ricevere (sommata agli altri chirografi) almeno il 20% complessivo. Ad esempio, se un immobile ipotecato vale 60 a fronte di un debito ipotecario di 100, il piano potrebbe prevedere che la banca ipotecaria prenda l’immobile (o il ricavato della vendita) da 60 come soddisfacimento parziale e il restante 40 sia degradato tra i chirografi: quel 40 concorrerà insieme agli altri chirografari e ne riceverà almeno 8 (il 20%). Il tutto, chiaramente, deve essere confermato dall’attestatore nella sua relazione: va attestato che il valore di liquidazione dei beni è quello indicato (da qui l’importanza di perizie di stima per immobili, macchinari, etc.) e che le percentuali proposte sono realistiche dati i valori di realizzo.
Procedura semplificata di liquidazione dei beni: spesso i tribunali, in sede di omologa del concordato liquidatorio, impartiscono direttive su come dovranno essere liquidati i beni (ad esempio attraverso procedure competitive vigilate dal commissario giudiziale, analoghe a quelle fallimentari, per massimizzare il ricavato). Il piano può però già contenere modalità specifiche, e se i creditori l’hanno votato, si presume che le accettino. In tal caso il commissario e il liquidatore dovranno attenersi a quelle. Ad esempio, il piano può dire: “immobile X sarà venduto tramite asta telematica da tenersi entro 6 mesi dall’omologa con base d’asta €1.000.000, rilanci minimi etc.”; oppure “immobile Y sarà assegnato al creditore Banca Beta per €500.000 in pagamento del suo credito ipotecario di importo pari”.
Ruolo dei garanti e soci: Nel concordato preventivo liquidatorio, i soci o soggetti terzi spesso intervengono per migliorare la proposta. Ad esempio, i soci della società debitrice possono offrire essi stessi una somma di denaro a fondo perduto da destinare ai creditori (questo costituisce quell’apporto esterno del 10%). Oppure un coobbligato o fideiussore potrebbe offrire ai creditori un quid pluris. Tali offerte entrano a far parte integrante della proposta concordataria. In cambio, spesso i creditori rinunciano ad azioni verso quei terzi (ad esempio rinunciano a escutere i soci fideiussori, se il piano prevede che i soci versino X per tutti).
Esempio pratico – Concordato liquidatorio: Beta S.r.l., impresa commerciale, cessa l’attività a causa di perdite pesanti. Ha debiti per 5 milioni verso vari fornitori e banche chirografarie, e possiede come attivo un capannone stimato 2 milioni e magazzino per 0,5 milioni. I soci di Beta offrono ulteriori €200.000 per facilitare un concordato. Viene presentato un piano liquidatorio che prevede: vendita del capannone (si ha già una manifestazione di interesse a 2 milioni) e liquidazione del magazzino tramite un broker, più il contributo dei soci. Il totale atteso è €2,7 milioni, che consentirebbe di pagare i creditori chirografi al 54% circa. Si propone dunque il 50% per essere conservativi. Un professionista attesta che il capannone vale almeno 2 milioni (con perizia annessa) e che quindi il 50% ai chirografi è garantito (supera abbondantemente il 20% minimo). I creditori votano: accettano perché, pur perdendo metà dei loro crediti, preferiscono incassare in tempi ragionevoli quel 50% piuttosto che affrontare un fallimento incerto (dove magari i 2,7 milioni sarebbero erosi da spese e tempi lunghi). Il tribunale omologa il concordato. Viene nominato un liquidatore giudiziale (talvolta lo stesso commissario) il quale provvede a formalizzare la vendita del capannone all’offerente individuato e a liquidare il magazzino come da piano. Dopo un anno circa, il liquidatore ripartisce il ricavato e i creditori ricevono esattamente il 50% pattuito (o magari qualcosa in più se le vendite sono andate meglio del previsto: in tal caso, l’eccedenza viene distribuita proporzionalmente, salvo diverse previsioni). Beta S.r.l. viene poi cancellata. I creditori rinunciano a pretendere altro (il concordato una volta eseguito libera l’azienda dai debiti residui).
5.3 Procedimento: dalla domanda al voto e all’omologazione
Il percorso procedurale di un concordato preventivo può essere suddiviso in varie fasi: presentazione della domanda, ammissione e fase intermedia con il commissario giudiziale, adunanza e voto dei creditori, e infine omologazione da parte del tribunale. Vediamole in ordine cronologico:
- Domanda di concordato (ricorso): L’imprenditore deposita presso il tribunale competente un ricorso contenente la proposta di concordato, il piano e i documenti obbligatori (stati patrimoniali degli ultimi tre anni, elenco creditori e debiti, inventario, relazione attestatore, etc.). È possibile, se non si ha ancora il piano definitivo, presentare una domanda cosiddetta “in bianco” o “con riserva” (art. 44 CCII), con la quale si chiede l’ammissione al concordato riservandosi di presentare il piano e la proposta entro un termine (di norma 60-120 giorni prorogabili). Questa opzione serve a bloccare subito le azioni esecutive dei creditori (perché dalla pubblicazione della domanda si produce uno stay automatico analogo a quello visto per la composizione negoziata) e guadagnare tempo per finalizzare il piano. Il tribunale concede la “prenotazione” se ricorrono i presupposti e nomina un commissario giudiziale provvisorio. Entro il termine assegnato, il debitore depositerà il piano e la proposta definitiva.
- Ammissione alla procedura e nomina del commissario giudiziale: Una volta presentato il piano definitivo, il tribunale verifica la completezza della documentazione e la fattibilità giuridica del piano (cioè l’assenza di cause immediate di inammissibilità, come il non rispetto di soglie minime, mancanza di attestazione, ecc.). Se tutto è in ordine, emette un decreto di apertura del concordato preventivo dichiarando l’azienda ammessa alla procedura. Con lo stesso decreto nomina un Commissario Giudiziale, figura terza (di solito un commercialista esperto in procedure) che avrà il compito di vigilare sull’operato del debitore durante la procedura e di relazionare ai creditori e al tribunale sulla proposta. Il tribunale fissa anche la data di convocazione dei creditori per la votazione (tradizionalmente chiamata “adunanza dei creditori”). Da questo momento, il debitore è sotto controllo: mantiene l’amministrazione ordinaria dell’impresa (non c’è spossessamento), ma ogni atto di straordinaria amministrazione deve essere autorizzato dal giudice delegato, sentito il commissario. Inoltre, gli atti dispositivi compiuti in violazione potrebbero essere revocati. I creditori, dal canto loro, non possono iniziare o proseguire azioni esecutive individuali né acquisire prelazioni (lo stay prosegue).
- Fase di istruttoria e voto dei creditori: Il commissario giudiziale esamina la situazione aziendale e la proposta, e redige una relazione particolareggiata per i creditori (ex art. 108 CCII) in cui descrive lo stato patrimoniale del debitore, le cause della crisi, il contenuto del piano e della proposta, e formula un giudizio motivato sulla convenienza della proposta rispetto all’alternativa liquidatoria. Questa relazione viene comunicata ai creditori prima del voto, in modo che possano esprimersi con cognizione di causa. Nel giorno fissato (che oggi può anche essere sostituito da votazione scritta o telematica), i creditori discutono ed esprimono il proprio voto sulla proposta concordataria. Il meccanismo di voto prevede che il concordato sia approvato se ottiene la maggioranza di oltre la metà dei crediti ammessi al voto (esclusi i privilegiati soddisfatti per intero che non votano). Se vi sono diverse classi, la maggioranza si calcola nell’ambito di ciascuna classe. È sufficiente, ai fini dell’approvazione globale, che abbiano votato sì la maggioranza delle classi e che il totale dei crediti favorevoli sia >50% del totale dei crediti votanti. In pratica: se tutte le classi approvano, non c’è dubbio; se alcune classi no, è possibile un cram-down interclassi (vedi oltre) purché almeno una classe di creditori “non inferiore” abbia detto sì. Il commissario raccoglie i voti (in adunanza o nelle 20 giorni seguenti, termine entro il quale i creditori possono far pervenire il proprio voto per iscritto). Al termine comunica l’esito. Ad esempio, se ci sono 3 classi e due hanno approvato e una no, bisognerà valutare il cram-down; se c’è una classe unica, serve >50% dei crediti votanti favorevoli. Nel conteggio del quorum, i creditori che non votano affatto equivalgono a voti negativi (per questo è importante coinvolgere attivamente i creditori e convincerli a esprimersi).
- Omologazione del concordato: Se la proposta è stata approvata dalle maggioranze richieste, si passa alla fase di omologazione. Il tribunale fissa un’udienza di omologazione in cui eventualmente discutere le opposizioni (i creditori dissenzienti o rimasti silenti possono presentare opposizione chiedendo di non omologare per vari motivi: ad es. perché riterrebbero il piano inattuabile, o la proposta inferiore al realizzo fallimentare, ecc.). Il tribunale, se non ritiene fondate le opposizioni, procede a verificare d’ufficio il rispetto di tutte le condizioni di legge: corretto trattamento dei privilegiati, classi omogenee, rispetto del best interest test (nessun creditore deve ottenere meno di quanto avrebbe in una liquidazione giudiziale, condizione che il giudice valuta appunto stimando il valore di liquidazione del patrimonio e confrontandolo con quanto offerto ai creditori in concordato) e fattibilità del piano. Una novità fondamentale apportata dal Correttivo-ter 2024 è l’introduzione di un meccanismo esplicito di omologazione forzata (cram-down) interclassi: in base al nuovo art. 112, comma 2, lett. d) CCII, il tribunale può omologare il concordato anche senza l’approvazione di tutte le classi, a condizione che la proposta sia stata approvata da almeno una classe di creditori “interessati dai risultati della votazione” (dunque una classe di creditori non postergati) e che nessuna classe dissenziente riceva un trattamento deteriore rispetto alla propria priorità (absolute priority rule). In sostanza, se ad esempio due classi hanno votato sì e una classe ha votato no, il giudice può ugualmente omologare se la classe dissenziente è economicamente soddisfatta almeno quanto le classi di pari rango e non avrebbe comunque potuto ottenere di più in liquidazione. Questo adeguamento recepisce lo spirito della Direttiva Insolvency sul cram-down interclassi, riducendo il potere di veto delle minoranze dissenzienti. Va comunque garantita l’equità: il tribunale verifica che il piano non alteri indebitamente le priorità legali a scapito di classi che dissentono. Già prima del 2024, una forma di cram-down esisteva (il tribunale poteva omologare nonostante il voto contrario di creditori privilegiati se ricevevano almeno il valore di liquidazione del loro pegno/ipoteca), ma ora c’è una norma generale per le classi. Infine, il tribunale verifica anche l’assenza di atti in frode ai creditori: se il debitore ha occultato o simulato atti per pregiudicare i creditori, il concordato non può essere omologato. Qualora invece tutte le condizioni siano rispettate, il tribunale emette decreto di omologazione. Da quel momento, la proposta concordataria diventa vincolante per tutti i creditori anteriori (anche quelli che hanno votato no o non hanno votato affatto, e anche quelli che non hanno presentato domanda tempestiva di ammissione al voto, salvo eccezioni di legge).
- Esecuzione del concordato: A seguito dell’omologa, la procedura passa alla fase attuativa. Il debitore (o il liquidatore nominato, nel caso del concordato liquidatorio) compie gli atti previsti dal piano: paga le percentuali dovute ai creditori secondo le scadenze concordate, vende i beni come da piano, etc., sotto la vigilanza del commissario giudiziale (che dopo l’omologa assume il ruolo di commissario per l’esecuzione). I creditori devono comportarsi secondo quanto stabilito: ad esempio, quelli chirografari rinunciano alla parte di credito eccedente la percentuale concordataria, quelli privilegiati attendono i pagamenti dilazionati concordati, e così via. Se il debitore non adempie al piano, il tribunale può dichiarare la risoluzione del concordato (su istanza dei creditori) e in tal caso, di regola, si apre la liquidazione giudiziale. Per questo è cruciale che il piano sia realistico e che l’imprenditore lo esegua con disciplina.
Una volta completata l’esecuzione (o in ogni caso decorso il termine finale previsto), il commissario presenta il rendiconto e il tribunale dichiara chiusa la procedura concordataria. La società debitrice resta obbligata solo per le eventuali percentuali non soddisfatte come da concordato (ad es., se ai chirografari si era proposto il 30% e quello è stato pagato integralmente, il restante 70% del debito originario viene legalmente cancellato dall’effetto esdebitatorio del concordato omologato).
Novità post-omologa (art. 118-bis CCII): Il Correttivo-ter ha introdotto anche l’art. 118-bis, che colma una lacuna prevedendo la possibilità di apportare modifiche al piano di concordato già omologato qualora, in fase di esecuzione, sopravvengano circostanze che ne impediscono temporaneamente o definitivamente l’attuazione. Prima, in caso di imprevisti, l’unica strada era chiedere la risoluzione e magari proporre un nuovo concordato o fallimento. Ora, invece, su ricorso del debitore, il tribunale può autorizzare modifiche o integrazioni al piano omologato (sentito il commissario e con eventuale voto dei creditori se la modifica li incide significativamente). Questo strumento aumenta la flessibilità e la resilienza del concordato: ad esempio, se un bene da liquidare non trova acquirenti al prezzo stimato, si potrà modificare il piano riducendo proporzionalmente le percentuali o prolungando i tempi, anziché far saltare l’intero concordato.
5.4 Casi particolari e giurisprudenza sul concordato preventivo
La prassi del concordato preventivo è ultradecennale e la giurisprudenza ha affrontato negli anni innumerevoli questioni. Con l’entrata in vigore del CCII, molti principi consolidati sono stati recepiti, ma vi sono anche aspetti innovativi su cui si sono avute le prime sentenze.
Ad esempio, prima applicazione del cram-down interclassi: subito dopo il Correttivo-ter, alcuni tribunali hanno applicato la nuova norma. Si ipotizzi un concordato in continuità con due classi, di cui una (minoritaria in termini di crediti) voti contro: oggi il tribunale può omologare comunque se ritiene rispettata la regola di priorità assoluta per la classe dissenziente. Le prime pronunce paiono confermare un approccio favorevole all’omologazione forzata se il dissenting class non avrebbe ottenuto di più in caso di liquidazione e se almeno un’altra classe “pari grado” ha detto sì. Anche sul fronte della transazione fiscale si registrano pronunce importanti: la Cassazione aveva già chiarito che il tribunale può omologare il concordato nonostante il voto negativo del Fisco quando l’offerta è vantaggiosa rispetto al fallimento, principio ora in parte normativizzato. Inoltre, la giurisprudenza ha definito cosa si intende per risorse esterne nel 10%: ad esempio, versamenti dei soci post-piano, rinunce a crediti intra-gruppo, ecc., sono considerati validi apporti esterni.
Un altro tema oggetto di decisioni è il concetto di fattibilità: i giudici distinguono tra fattibilità “giuridica” (valutabile dal tribunale, es. non conflittualità con norme imperative) e fattibilità “economica” (valutazione di merito che spetta anzitutto ai creditori, salvo piani manifestamente irrealizzabili). Il CCII ha in parte formalizzato questi criteri, affidando al tribunale un controllo di ragionevolezza sulla fattibilità economica ma non un sindacato completo nel merito.
Segnaliamo inoltre che alcune criticità operative del passato sono state affrontate dal nuovo Codice: ad esempio, la definizione di “valore di liquidazione” (rilevante per valutare la convenienza per i creditori) è ora più puntuale, includendo anche costi di realizzo e tempi. Oppure l’estensione ex lege della prededuzione a crediti sorti in funzione del concordato (professionisti, finanziatori ponte) – già prassi collaudata, ora sancita (art. 6 CCII).
In sintesi, il concordato preventivo è uno strumento complesso ma flessibile, che grazie alle recenti riforme è stato ulteriormente perfezionato per bilanciare meglio l’interesse al recupero dell’impresa e la tutela dei creditori. Resta però un percorso che richiede competenza nella preparazione e gestione, e un dialogo trasparente con i creditori. Nei prossimi capitoli vedremo altri due strumenti correlati: il concordato semplificato, che è una variante particolare del concordato preventivo per casi specifici, e gli accordi di ristrutturazione.
6. Il Concordato “Semplificato” per la Liquidazione del Patrimonio
Tra le innovazioni apportate dal D.L. 118/2021 e poi inserite nel Codice vi è il concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio (art. 25-sexies CCII). Si tratta di una procedura concorsuale speciale, attivabile esclusivamente quando una composizione negoziata della crisi si conclude senza accordo, ma l’imprenditore intende comunque evitare la liquidazione giudiziale offrendo ai creditori una soluzione liquidatoria.
Le peculiarità principali di questo concordato “semplificato” sono:
- Accesso limitato: solo l’imprenditore che ha esperito la composizione negoziata senza esito positivo può accedervi. Egli deve presentare la domanda entro 60 giorni dall’archiviazione della composizione (dalla comunicazione della relazione finale dell’esperto). Ciò garantisce che questo strumento resti un’eccezione legata al percorso negoziale fallito.
- Oggetto esclusivamente liquidatorio: il piano può prevedere soltanto la liquidazione dei beni del debitore e la ripartizione del ricavato tra i creditori. Non è ammessa la continuità aziendale nel concordato semplificato: l’impresa è destinata a cessare. In pratica è un concordato liquidatorio “puro”, sebbene semplificato nelle forme.
- Mancata votazione dei creditori: ed è questo l’aspetto davvero distintivo: i creditori non votano sulla proposta. Il piano viene sottoposto direttamente al tribunale per l’omologazione, previa convocazione dei creditori solo per eventualmente essere ascoltati (possono presentare osservazioni od opposizioni). Non c’è quindi la fase di voto e maggioranze, che nel concordato preventivo ordinario è essenziale. Questo rende la procedura più rapida e snella (si evita l’adunanza e il conteggio dei voti), ma anche più “dura” per i creditori, che subiscono le decisioni.
- Assenza di commissario giudiziale e attestatore: la legge definisce “semplificato” questo concordato anche perché non prevede organi concorsuali ordinari come il commissario giudiziale né la figura dell’attestatore indipendente. Il controllo sulla veridicità dei dati e fattibilità è affidato, in sostanza, alla precedente attività dell’esperto nella composizione negoziata e al giudizio del tribunale. In particolare, il tribunale tiene conto della relazione finale dell’esperto e del suo parere sui presumibili risultati liquidatori. Di norma, nella proposta di concordato semplificato l’imprenditore allegherà quella relazione e ulteriori elementi per dimostrare che la soluzione offerta ai creditori è la migliore possibile nelle circostanze date.
- Nomina di un liquidatore giudiziale: se il concordato semplificato viene omologato dal tribunale, quest’ultimo nomina un liquidatore (spesso un professionista) che si occuperà di vendere i beni secondo il piano e distribuire il ricavato ai creditori. Anche qui, non c’è il commissario, ma direttamente il liquidatore post-omologa.
Proceduralmente, l’imprenditore deposita un ricorso spiegando perché la composizione non ha prodotto soluzioni di continuità e formulando la proposta liquidatoria: ad esempio indicando quali beni saranno venduti e a quale valore stimato, e quale percentuale si prevede di pagare ai creditori (oppure che i creditori privilegiati saranno soddisfatti fino a capienza e i chirografari riceveranno X%). Importante: pur non essendoci voto, il piano deve comunque rispettare le regole di trattamento dei creditori analoghe a quelle del concordato ordinario – ad esempio rispettare le cause di prelazione (un chirografario non può essere pagato prima di un privilegiato salvo rinuncia di quest’ultimo), garantire il best interest test (che i creditori ottengono non meno di quanto avrebbero in fallimento), ecc. Il tribunale, ricevuta la domanda, apre la procedura e fissa un’udienza in cui i creditori possono eventualmente comparire per esprimere le loro contestazioni. Se uno o più creditori ritengono che la proposta li danneggi oltremisura, possono opporsi. Il tribunale valuta le opposizioni ma ha potere di decidere anche in caso di dissenso: omologa il concordato se ritiene che la proposta sia equa e conveniente rispetto all’alternativa liquidatoria (che sarebbe la liquidazione giudiziale). In pratica, il giudice fa una valutazione di merito sulla convenienza per i creditori (cosa che nel concordato ordinario spetta ai creditori con il voto).
Una volta omologato, il concordato semplificato produce effetti analoghi a un concordato ordinario: i debiti restano definiti secondo la proposta e, ad esecuzione avvenuta, l’imprenditore è liberato dai debiti residui. La funzione principale di questo strumento è evitare il costo e il dispendio di tempo di un fallimento quando ormai l’esito liquidatorio è scontato, fornendo però ai creditori una soddisfazione magari leggermente migliore e più rapida. Dal lato dell’imprenditore, è vantaggioso perché gli consente di chiudere la vicenda più velocemente e con minor stigma (è pur sempre un concordato, non un fallimento).
Esempio pratico: riprendiamo EcoBuild S.r.l. dell’esempio precedente (cap. 4.3), che dopo una composizione negoziata fallita propone un concordato semplificato. EcoBuild possiede un cantiere edile parzialmente completato e qualche macchinario; propone di vendere il cantiere a un costruttore terzo disposto a pagare €1 milione, e i macchinari per €200k, così da avere €1,2 milioni da distribuire ai creditori (che sono chirografari per €4 milioni). Stima dunque di pagare il 30%. Il tribunale verifica che in un fallimento probabilmente dal cantiere si sarebbe ricavato non di più (forse di meno, visto il rischio di degrado nel tempo), e quindi ritiene la proposta ragionevole. Alcuni creditori contestano che il 30% è basso, ma il giudice nota che nessuno ha offerto di più per il cantiere e che non ci sono ipotesi migliori. Dunque omologa il concordato semplificato. Viene nominato un liquidatore, che formalizza la cessione del cantiere a quello stesso costruttore per €1 milione e vende i macchinari. In pochi mesi, distribuisce €1,2 milioni pari al 30% a tutti i creditori chirografari. La procedura si chiude e EcoBuild viene cancellata. I creditori hanno ricevuto qualcosa in tempi brevi (meglio del rischio di zero dopo anni di fallimento), l’imprenditore ha chiuso la vicenda e potrà chiedere l’esdebitazione personale per eventuali garanzie prestate.
Il concordato semplificato è dunque uno strumento di chiusura rapida, che però – si ribadisce – non è attivabile liberamente ma solo come sbocco della composizione negoziata. Ciò per evitare che lo si usi elusivamente saltando il confronto con i creditori: infatti, nella composizione negoziata c’è stato comunque un tentativo di dialogo (anche se infruttuoso) e l’intervento di un esperto indipendente, che offre garanzie di trasparenza. Le prime applicazioni pratiche di questo istituto (Tribunale di Milano, Tribunale di Roma 2022) mostrano che viene utilizzato in situazioni dove la stragrande maggioranza dei creditori era ormai rassegnata alla liquidazione e dove il patrimonio è relativamente semplice da liquidare. Per i creditori il fatto di non votare è sicuramente spiazzante, ma in questi casi la scelta è spesso tra “qualcosa subito” (concordato semplificato) e “incertezza e attesa” (fallimento) – ragione per cui tendono comunque a non opporsi.
Con il concordato semplificato chiudiamo il ventaglio degli strumenti concorsuali giudiziali centrati sul ruolo attivo del debitore (concordati). Passiamo ora a esaminare altri strumenti di regolazione della crisi, di natura più negoziale ma con intervento dell’autorità giudiziaria: gli accordi di ristrutturazione dei debiti, che potremmo definire concordati stragiudiziali omologati.
7. Gli Accordi di Ristrutturazione dei Debiti
Gli accordi di ristrutturazione dei debiti (ARD) rappresentano uno strumento ibrido tra il piano puramente negoziato e la procedura concorsuale. Previsti dall’art. 57 e seguenti CCII (in continuità con il vecchio art. 182-bis l.fall.), consistono in un accordo di natura contrattuale che il debitore conclude con una parte significativa dei propri creditori al fine di ristrutturare l’indebitamento e superare la crisi, accordo che viene poi omologato (convalidato) dal tribunale acquisendo così efficacia giuridica verso tutti i creditori aderenti e talvolta anche verso alcuni non aderenti.
In sostanza, l’imprenditore elabora un piano di risanamento e lo negozia con i creditori principali, ottenendo la loro adesione formale mediante sottoscrizione di un accordo. Se raggiunge un determinato quorum di consensi (di regola almeno il 60% dei crediti totali), può chiedere al tribunale l’omologazione di tale accordo. L’autorità giudiziaria, verificata la regolarità e fattibilità, omologa l’accordo rendendolo efficace secondo il suo contenuto. I creditori che hanno aderito sono vincolati e, grazie all’omologa, beneficiano anche di protezioni (ad esempio inibitoria delle azioni revocatorie sugli atti eseguiti in adempimento dell’accordo, similmente al concordato). I creditori non aderenti invece rimangono estranei: essi conservano i loro diritti per intero e possono anche agire separatamente, salvo alcune eccezioni di cui diremo.
Vediamo i punti salienti:
- Consenso richiesto: la legge fissa una soglia minima del 60% dei crediti (in valore) affinché l’accordo possa essere omologato. Ciò significa che se il debitore ottiene adesioni da creditori rappresentanti almeno il 60% dell’ammontare complessivo dei debiti, l’accordo può procedere all’omologa. I creditori che aderiscono normalmente sottoscrivono l’accordo accettando determinati sacrifici (es. riduzione del credito, attesa, conversione in strumenti finanziari, ecc.). È importante notare che non occorre l’unanimità: si punta a coinvolgere una massa critica di crediti, lasciando la minoranza libera ma, di fatto, “neutralizzata” dalla riuscita dell’operazione (poiché i principali creditori sostengono il piano). Ad esempio, se un’azienda ha 10 milioni di debiti e ottiene il sì di banche per 6 milioni, potrà omologare l’accordo con loro; gli altri 4 resteranno fuori.
- Trattamento dei non aderenti: di base, i creditori che non hanno firmato l’accordo non sono toccati dall’accordo stesso: il debitore dovrà continuare a pagarli integralmente secondo i termini originari (salvo eventuali diverse pattuizioni individuali). Questo implica che, quando si struttura un accordo di ristrutturazione, spesso si escludono dall’accordo quei creditori minori che si preferisce pagare regolarmente, concentrandosi invece sui maggiori creditori finanziari o strategici che accettano di ristrutturare. Tuttavia, il CCII prevede alcune forme di estensione degli effetti dell’accordo anche ai dissenzienti in casi particolari (accordi ad efficacia estesa). Ad esempio, se l’accordo riguarda debiti finanziari (banche, obbligazionisti) ed ha ottenuto l’adesione di almeno il 75% degli appartenenti a quella categoria, il debitore può chiedere al tribunale di estenderne gli effetti anche ai creditori finanziari che non hanno aderito, purché siano a parità di condizioni. Questo strumento, ereditato dal vecchio art. 182-septies l.f., serve per evitare che pochi finanziatori dissenzienti impediscano la ristrutturazione di un debito diffuso (tipico esempio: un pool bancario, 80% banche d’accordo e 20% contrarie – il giudice può imporre l’accordo anche al 20% se non peggiora il loro trattamento rispetto agli altri). Similmente, il CCII consente di estendere ai creditori fiscali o previdenziali dissenzienti gli effetti di un accordo se l’adesione della maggioranza di essi e il rispetto di certe soglie lo giustificano – questo sul modello della transazione fiscale cram-down nel concordato.
- Intervento del tribunale: rispetto a un accordo privato qualunque, l’omologazione del tribunale comporta diversi vantaggi. Primo, viene concesso un periodo di protezione dalle azioni esecutive: il debitore, contestualmente al deposito dell’accordo per l’omologa, può chiedere misure protettive simili a quelle del concordato (sospensione dei procedimenti esecutivi, divieto di iniziarne di nuovi per 60-120 giorni). Ciò mantiene lo status quo mentre si finalizza l’accordo e si attende l’omologa. Secondo, l’omologazione rende l’accordo un titolo esecutivo e impedisce che i creditori aderenti possano poi revocare il consenso (diventa “legge tra le parti”). Terzo, come accennato, gli atti esecutivi dell’accordo godono di esenzione da revocatoria fallimentare: se poi l’impresa fallisse, non potranno essere revocati i pagamenti e le garanzie posti in essere in esecuzione dell’accordo omologato (art. 59 CCII), così come non lo saranno eventuali finanziamenti autorizzati dal tribunale nei mesi precedenti all’omologa (c.d. protective shield per i new finance).
- Contenuto dell’accordo: è lasciato alla libera autonomia negoziale. Tipicamente, negli accordi di ristrutturazione i creditori finanziari (banche) accettano di posticipare le scadenze dei mutui, ridurre i tassi, talvolta cancellare una parte del debito o convertirlo in strumenti partecipativi. I fornitori strategici possono accettare dilazioni su crediti pregressi in cambio di continuare la fornitura (per mantenere il cliente in attività). A differenza del concordato, non c’è bisogno di rigidamente rispettare le cause legali di prelazione, perché l’accordo è basato sul consenso: una banca può accettare di essere pagata al 70% del suo credito ipotecario, per dire, ed è una rinuncia volontaria. Ovviamente i creditori che non aderiscono, come detto, dovranno comunque essere pagati integralmente a parte (spesso quindi l’accordo prevede che con parte delle risorse ottenute si pagheranno tutti i piccoli fornitori non aderenti, lasciando che il “taglio” lo subiscano solo i partecipanti all’accordo). Possono anche essere previste operazioni di finanza straordinaria: è frequente che l’accordo di ristrutturazione includa la vendita di un asset importante o l’ingresso di un nuovo investitore i cui apporti vengono destinati a pagare i creditori secondo l’accordo.
- Ruolo dell’attestazione: analogamente al concordato, anche per l’accordo di ristrutturazione è richiesta una relazione di un professionista indipendente che attesti la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano nonché la idoneità dell’accordo a assicurare l’integrale pagamento dei creditori estranei nei termini di legge (art. 56 CCII rinvia all’art. 87). Questo controllo peritale è essenziale per dare fiducia ai creditori e per guidare il giudice nell’omologa. Ad esempio, l’attestatore certificherà che i flussi di cassa previsti consentiranno di pagare regolarmente i creditori non aderenti (il cui pagamento integrale è requisito di legge), e che il piano nel complesso è sostenibile.
Esempio pratico: Gamma S.p.A. ha un indebitamento di 50 milioni, di cui 35 verso banche (5 istituti) e 15 verso fornitori vari. Dopo negoziazioni, Gamma ottiene da 4 banche su 5 (che detengono €30M su 35, quindi l’85% dei crediti bancari e il 60% del totale debiti) l’accordo su una manovra: conversione di €10M di debiti in un finanziamento partecipativo (quasi equity), allungamento della scadenza dei restanti €25M su 7 anni e riduzione tassi, più concessione di nuove linee per cassa di €5M. La banca dissenziente (€5M, ipotecaria) non aderisce. I fornitori, che in gran parte verranno pagati normalmente (anche perché Gamma non può permettersi di perderli), restano estranei. Si firma l’accordo con le 4 banche. Gamma lo presenta al tribunale chiedendo omologa e misure protettive. Il tribunale blocca per 60 giorni eventuali azioni (la banca dissenziente non potrà nel frattempo iniziare pignoramenti) e nomina un ausiliario per valutare. L’attestatore ha dichiarato che con i nuovi termini Gamma potrà pagare puntualmente la banca non aderente (in effetti, con l’iniezione di liquidità e la riduzione del servizio del debito verso le altre, Gamma ha cassa sufficiente per servire integralmente la banca dissenziente alle scadenze originarie). Inoltre, la proposta per le banche aderenti è più conveniente rispetto a un fallimento (in cui forse recupererebbero il 50%). Il tribunale omologa l’accordo. In virtù dell’art. 61 CCII (ex 182-septies), Gamma chiede e ottiene che l’accordo venga dichiarato efficace anche verso la banca dissenziente (stesso trattamento delle altre banche, che hanno l’85% di quella classe): così tutte le 5 banche sono vincolate dalla manovra (la banca dissenziente viene “trascinata” nel riscadenzamento, salvo rinunciare ad ottenere di più dall’eventuale liquidazione – ma qui omologa implica rinuncia alle azioni individuali). Ottenuta l’omologa, Gamma esegue l’accordo: l’investitore apporta 5 milioni freschi che vanno in parte a pagare i fornitori estranei (che così non subiscono perdite) e in parte a supporto del circolante, le banche ridefiniscono i contratti di mutuo secondo i nuovi termini e scambiano le vecchie obbligazioni con nuovi strumenti finanziari emessi da Gamma. L’azienda prosegue l’attività risanata.
L’esempio mostra i vantaggi: si è evitato il concordato (che avrebbe richiesto voto di tutti e avrebbe coinvolto anche i fornitori), concentrandosi su un accordo mirato con le banche. La banca minoritaria contraria è stata comunque vincolata grazie alla regola di efficacia estesa (omologazione con il 85% di adesione finanziari, applicata al 15% restante). I fornitori, essendo stati pagati normalmente, non hanno neanche saputo formalmente dell’accordo (nessuna pubblicità negativa sul mercato). Questo approccio è frequente quando la crisi è principalmente finanziaria e circoscritta a banche.
Negli ultimi anni, gli accordi di ristrutturazione si sono arricchiti di alcune varianti:
- Accordo di ristrutturazione agevolato: il CCII (art. 61) consente al debitore che abbia ottenuto adesioni pari ad almeno il 30% dei crediti di chiedere misure protettive temporanee al tribunale mentre prosegue le trattative per raggiungere il quorum del 60%. È una sorta di pre-accordo protetto che agevola il raggiungimento della soglia.
- Accordo ad efficacia estesa: come visto, possibilità di estendere gli effetti a intere categorie (soprattutto finanziarie) di creditori dissenzienti se la stragrande maggioranza di essi ha aderito.
- Accordi con intermediario esperto: il legislatore ha ipotizzato la figura di un esperto facilitatore (simile a quello della composizione negoziata) anche nell’ambito degli accordi, ma in pratica la composizione negoziata copre già quel ruolo nella fase stragiudiziale antecedente.
- Transazione fiscale negli accordi: analogamente al concordato, il debitore può includere nell’accordo la proposta di pagamento parziale/dilazionato dei debiti fiscali e contributivi (soggetta all’adesione degli enti). Se ottiene l’adesione dell’Erario e dell’INPS, l’accordo li vincola; se non l’ottiene ma la maggioranza degli altri creditori sì e la proposta al Fisco era conveniente, il tribunale può omologare l’accordo anche senza l’adesione del Fisco, limitatamente però all’efficacia di esdebitazione verso gli enti fiscali a fine procedura (meccanismo di cram-down fiscale in accordo, simile a quello del concordato).
In conclusione, gli accordi di ristrutturazione sono uno strumento potente per le imprese che riescono a coinvolgere attivamente i propri principali creditori in un piano di risanamento, senza passare per le formalità di un concordato (assemblea dei creditori, voto di tutti). Hanno costi procedurali minori e impatto reputazionale più contenuto. Di contro, richiedono un alto grado di consenso iniziale: se ci sono troppi creditori eterogenei o conflittuali, diventa impraticabile. Sono particolarmente indicati per ristrutturazioni finanziarie (banche, obbligazionisti) o per imprese con pochi creditori molto grandi. La presenza dell’omologazione giudiziaria offre comunque garanzie e benefici (protezione, esdebitazione, ecc.), differenziandoli nettamente da un semplice accordo privato (piano attestato) di cui parliamo nel capitolo seguente.
8. I Piani Attestati di Risanamento
Il piano attestato di risanamento è lo strumento più “snello” e totalmente stragiudiziale previsto dal quadro normativo: disciplinato dall’art. 56 CCII (già art. 67, co. 3, lett. d) l.fall.), consiste in un piano di risanamento dell’impresa che appare idoneo a garantirne il riequilibrio e il cui contenuto viene attestato da un professionista indipendente. La caratteristica principale del piano attestato è che non richiede né omologazione da parte del tribunale né il coinvolgimento di soglie predefinite di creditori: è essenzialmente un accordo privato tra il debitore e uno, alcuni o tutti i suoi creditori, fondato però su un’analisi e attestazione indipendente che ne certifica la serietà. Lo scopo è duplice: da un lato, offrire all’impresa uno strumento flessibile di ristrutturazione totalmente fuori dalle aule giudiziarie (e quindi confidenziale, rapido, modulabile); dall’altro, assicurare una protezione legale a taluni atti compiuti in esecuzione del piano (in particolare, esenzione dall’azione revocatoria fallimentare).
Vediamo come funziona in pratica:
- Elaborazione del piano: l’imprenditore in difficoltà, magari coadiuvato dai suoi consulenti finanziari, predispone un dettagliato piano di risanamento, che tipicamente include analisi delle cause della crisi, bilanci prospettici, misure da adottare (ristrutturazione del debito, taglio costi, dismissione di asset non strategici, aumento di capitale, ecc.) e l’impatto atteso in termini di ritorno all’equilibrio. Il piano deve mostrare che, se eseguito, l’impresa supererà la crisi e tornerà solvibile.
- Negoziazione con i creditori: trattandosi di un accordo contrattuale, l’impresa deve ottenere dai creditori le concessioni necessarie a realizzare il piano. Può coinvolgere tutti o solo alcuni creditori. Ad esempio, può raggiungere un’intesa con le banche per rinegoziare i finanziamenti, con i fornitori maggiori per dilazionare i pagamenti, con eventuali nuovi investitori per apportare capitali. Non esistono percentuali obbligatorie di adesione: ovviamente, perché il piano funzioni, devono aderire (o comunque essere soddisfatti) creditori sufficienti a rimuovere lo stato di crisi. I creditori possono formalizzare la loro adesione sottoscrivendo accordi bilaterali con il debitore (es. accordo di standstill, accordo di saldo e stralcio, ecc.).
- Attestazione del professionista: qui sta il “sigillo” che qualifica giuridicamente il piano. Un professionista indipendente (iscritto all’albo dei revisori e che possegga requisiti di indipendenza analoghi a quelli dell’attestatore del concordato) viene incaricato di esaminare il piano e redigere una relazione di attestazione. Nella sua relazione, l’attestatore dichiara di aver verificato la veridicità dei dati aziendali di partenza e giudica, sotto la sua responsabilità, che esistono concrete possibilità di risanamento se il piano viene attuato (ossia che il piano è fattibile e idoneo a risanare l’impresa). Questa relazione è un documento cruciale: dev’essere redatta con data certa (spesso si ricorre a un notaio per la sua formalizzazione) e accompagnerà il piano come “scudo” protettivo.
- Esecuzione del piano: una volta ottenuto il consenso necessario dai creditori e l’attestazione, l’impresa mette in atto il piano. Non vi è alcuna procedura pubblica o controllo giudiziario durante l’esecuzione: è a tutti gli effetti gestione ordinaria dell’impresa, seppur seguendo le linee del piano concordato. Ad esempio, se il piano prevedeva che i soci versassero nuovo capitale, essi lo faranno; se prevedeva la cessione di un immobile, l’impresa lo vende e utilizza i proventi per pagare i debiti secondo gli accordi presi, e così via.
Il beneficio legale del piano attestato consiste principalmente nell’esenzione da revocatoria fallimentare per gli atti compiuti in esecuzione del piano. L’art. 56 CCII (rifacendosi alla vecchia norma del 2019 e prima all’art. 67 l.f.) stabilisce che non sono soggetti a revocatoria gli atti, i pagamenti e le garanzie posti in essere in coerenza con un piano di risanamento attestato. Ciò significa che, se anche la società dovesse malauguratamente fallire dopo aver eseguito in parte il piano, quelle operazioni non potranno essere attaccate dal curatore come “preferenze” o “distrazioni”. Questo dà sicurezza sia all’imprenditore sia soprattutto ai creditori/finanziatori che partecipano al piano: ad esempio, una banca che eroga nuova finanza nell’ambito di un piano attestato o che proroga un fido invece di revocarlo, non rischierà poi che il curatore fallimentare le contesti quella concessione di credito come dannosa per gli altri creditori. Allo stesso modo, un fornitore che accetta un pagamento parziale a saldo del suo credito in esecuzione del piano non dovrà restituirlo in caso di successivo fallimento (mentre se avesse ricevuto un pagamento a saldo fuori da un piano del genere, avrebbe potuto subire revocatoria se ricevuto in periodo sospetto).
Va detto però che il piano attestato non vincola i creditori dissenzienti: quindi se qualche creditore non è d’accordo e resta fuori, esso potrà agire per il recupero integrale del suo credito. Per questo, il piano attestato si usa quando c’è sostanziale consenso unanime o comunque tale per cui i creditori estranei sono pochi e marginali (e magari vengono pagati integralmente per evitarne l’ostilità). Se vi fosse una massa critica di creditori contrari, bisognerebbe invece optare per un accordo di ristrutturazione o un concordato.
Esempio pratico: Delta S.r.l. ha debiti per 2 milioni con 3 banche e 1 milione con fornitori. Ha tuttavia ordini in crescita e un business sostenibile, ma le rate del debito finanziario sono troppo pesanti nel breve termine, rischiando insolvenza. Delta elabora con un advisor un piano di risanamento a 5 anni: i soci si impegnano a immettere €300k freschi; l’azienda cederà alcuni macchinari inutilizzati per €200k; chiede alle banche di riscadenziarle i mutui allungando di 3 anni e ai fornitori principali di attendere 6 mesi in più sui pagamenti. Un professionista indipendente esamina il piano, valuta i flussi di cassa prospettici e attesta che, con queste misure, Delta potrà regolarmente pagare tutti i creditori e tornare in utile. Le 3 banche (che si fidano anche dell’attestazione) firmano individualmente delle modifiche ai contratti di finanziamento accettando la dilazione e rinunciando temporaneamente a intraprendere azioni esecutive; i fornitori, visto che verranno pagati integralmente sia pur con ritardo moderato, aderiscono informalmente (non c’è neppure bisogno di contratti formali, basterà che accettino nei fatti di essere pagati più tardi). Con il piano in mano, Delta può comunicare a tutti di avere un percorso definito e un’attestazione indipendente che ne sancisce la serietà. Le banche riportano i crediti da “incagliati” a in bonis perché c’è un piano credibile attestato. Delta esegue il piano: i soci versano i 300k, vende i macchinari superflui ottenendo 200k, con cui liquida intanto i fornitori più piccoli e regolarizza i pagamenti essenziali; grazie alla minore uscita per rate (ridistribuite su più anni), recupera ossigeno sul circolante. Dopo 5 anni, Delta ha pagato tutti, debiti finanziari e commerciali, ed è salva. Non è mai stata “etichettata” come soggetto in procedura concorsuale, quindi la reputazione commerciale è rimasta intatta.
Nell’esempio si vede la potenzialità del piano attestato: nessuna pubblicità (i competitor neanche sapranno che Delta era in crisi, mentre un concordato è pubblico), nessun intervento del tribunale, costi limitati (il compenso dell’attestatore e poco altro), massima flessibilità nei contenuti. Il contraltare è che serve effettivamente un allineamento di interessi forte e fiducia reciproca tra impresa e creditori: se uno degli attori chiave non crede al piano e preferisce andare in azione legale, il piano attestato rischia di saltare. Per questo funziona bene quando la crisi è ancora moderata e l’imprenditore conserva credibilità, oppure in situazioni in cui i creditori principali hanno convenienza evidente ad evitare scenari concorsuali (es: le banche sanno che in fallimento perderebbero di più e quindi supportano il piano volontario).
Da un punto di vista giuridico, il piano attestato non produce effetti vincolanti erga omnes: è un accordo privatistico. Non esistono “voti” o “omologhe”. La sua efficacia discende dai contratti stipulati con i singoli creditori. Se, ad esempio, una banca dovesse rimangiarsi la parola e agire contro Delta nonostante l’accordo, Delta potrebbe solo far valere il contratto in sede civile, ma non c’è un decreto di omologa autoritativo. Questo limite va tenuto presente: il piano attestato è basato sulla fiducia.
Linee guida e prassi: la predisposizione di piani attestati ha dato vita a una prassi consolidata: il CNDCEC ha emanato principi di comportamento per gli attestatori, modulistiche e best practice per redigere piani attendibili, check-list di elementi da considerare (andamento storico, analisi di mercato, stress test sul piano, ecc.). La figura dell’attestatore in questi piani è delicata tanto quanto nel concordato, e nel passato vi sono stati anche casi di attestazioni errate o compiacenti (poi sanzionate anche penalmente come bancarotta semplice). È dunque fondamentale che il professionista attestatore operi con grande scrupolo e indipendenza. D’altro canto, la sua relazione è quella che “converte” un mero accordo privato in un piano attestato con efficacia protettiva: senza attestazione, gli atti compiuti sarebbero suscettibili di revocatoria se il piano fallisse. Perciò, affinché il “paracadute” giuridico funzioni, devono sussistere tutti i requisiti (piano completo, attestazione con data certa anteriore agli atti da proteggere, ecc.).
In definitiva, il piano attestato di risanamento è lo strumento di elezione quando la crisi è ancora in fase iniziale o comunque gestibile con accordi consensuali e riservati. È spesso il primo tentativo che un imprenditore compie per aggiustare la rotta, prima di ricorrere eventualmente a soluzioni più invasive. E anche il sistema normativo lo incoraggia: chi tenta un piano attestato e poi, sfortunatamente, deve ricorrere a procedure, non viene penalizzato per averci provato (anzi, aver tentato un piano potrebbe essere visto come indice di buona fede e diligenza dell’amministratore).
Con i piani attestati terminiamo la rassegna degli strumenti “negoziali” puri. L’ultimo importante istituto da esaminare è il Piano di Ristrutturazione Omologato (PRO), di recente introduzione, che potremmo definire un concordato preventivo peculiare, caratterizzato dalla possibilità di deviare dalle regole di graduazione dei crediti purché vi sia il consenso delle classi di creditori.
9. Il Piano di Ristrutturazione Omologato (PRO)
Tra le novità più rilevanti apportate dal recepimento della Direttiva UE 2019/1023 vi è l’introduzione nel nostro ordinamento del Piano di Ristrutturazione soggetto ad Omologazione, comunemente abbreviato in PRO. Esso è disciplinato dal Capo I-bis del Titolo IV CCII (artt. 64-bis, 64-ter, 64-quater) e rappresenta un nuovo strumento concorsuale che consente al debitore di proporre ai creditori un piano di risanamento con caratteristiche di estrema flessibilità, a patto di ottenere l’approvazione dello stesso da parte delle classi di creditori e l’omologazione dal tribunale.
Il PRO si presenta, per certi versi, come un “concordato preventivo su misura”. La sua caratteristica distintiva è la possibilità di derogare alle regole legali di graduazione dei crediti (artt. 2740 e 2741 c.c., par condicio creditorum e rispetto dei privilegi), distribuendo il valore generato dal piano in modo non strettamente proporzionale ai privilegi, bensì secondo ciò che viene concordato nelle classi di creditori. In altre parole, nel PRO il debitore può proporre che taluni creditori privilegiati non vengano soddisfatti integralmente, oppure che creditori di grado inferiore ricevano più di creditori di grado superiore, situazioni normalmente vietate salvo consenso unanime nei concordati ordinari. Questa elasticità è consentita a condizione che il piano sia approvato, a maggioranza, da tutte le classi di creditori che il debitore ha formato. Infatti, i creditori devono essere suddivisi in classi omogenee (ciascuna classe contiene crediti con posizione giuridica e interessi omogenei) e il piano deve essere approvato dalla maggioranza dei crediti in ciascuna classe. Solo così il tribunale potrà omologarlo. Dunque, a differenza del concordato preventivo dove è sufficiente la maggioranza dei crediti totali e la maggioranza delle classi (e ora col cram-down anche non tutte le classi), nel PRO serve il consenso di tutte le classi (beninteso, la maggioranza all’interno di ciascuna, non l’unanimità individuale). Ciò significa che ogni categoria di creditori coinvolta deve essere persuasa dal piano.
Per questo il PRO è spesso descritto come un concordato “consensuale”: è pur sempre un procedimento concorsuale dinanzi al giudice, ma che richiede ampio accordo dei creditori, quasi come un accordo negoziale. In assenza di tale accordo (ovvero se una o più classi votano contro), il PRO non può essere imposto per via giudiziale – il CCII, nella formulazione attuale, non prevede un cram-down interclassi per il PRO, a differenza del concordato preventivo. (Da notare che la Direttiva avrebbe consentito meccanismi di cram-down, ma l’Italia li ha implementati nel concordato preventivo e non nel PRO).
Qual è allora la convenienza del PRO? Perché un debitore dovrebbe scegliere questo strumento più “esigente” sul fronte dei consensi? La ragione è che, proprio grazie alla possibilità di deviare dalle regole di priorità, il PRO consente soluzioni creative che un concordato tradizionale non permette, se non con rischi legali. Ad esempio, in un PRO il debitore potrebbe proporre di pagare parzialmente i creditori ipotecari e nel contempo pagare integralmente i chirografari strategici (fornitori essenziali), se ciò è ritenuto funzionale alla prosecuzione dell’attività, senza dover garantire ai primi il 100% prima di dare qualcosa ai secondi. Ovviamente questa proposta dovrebbe convincere sia i creditori ipotecari che i fornitori a votare sì nelle rispettive classi. Se ci riesce, il piano può essere omologato e attuato; in un concordato normale, una simile disparità sarebbe stata respinta per violazione della par condicio, salvo improbabile consenso individuale di tutti i privilegiati a essere falcidiati a vantaggio dei chirografi.
In pratica, il PRO appare utile in situazioni dove l’imprenditore deve riequilibrare radicalmente la struttura finanziaria dell’azienda, magari tagliando pesantemente il debito bancario e garantendo invece maggiori prospettive a fornitori/commerciali o nuovi finanziatori. Oppure dove occorre coinvolgere anche i soci o terzi in operazioni particolari (ad es. conversione di debiti in equity) che alterano le priorità di rimborso ordinarie. Con il PRO si può fare, purché si convincano le parti interessate.
Procedimento: La procedura di un PRO inizia con il deposito del ricorso da parte del debitore, accompagnato dal piano, dalla proposta e da tutti i documenti analoghi a quelli di un concordato (elenco creditori, inventario, attestazione di un professionista etc.). Anche nel PRO è necessaria l’attestazione di un professionista indipendente circa fattibilità e veridicità dati, e la suddivisione dei creditori in classi è obbligatoria. Il tribunale, valutati i presupposti, ammette la procedura e nomina un commissario giudiziale (in questo, PRO e concordato sono simili). Si svolge poi la votazione nelle classi: i creditori di ciascuna classe votano e serve la maggioranza in valore dei crediti per l’approvazione in quella classe. Se tutte le classi approvano a maggioranza, il tribunale passa all’omologazione esaminando legalità e fattibilità e – qui in particolare – il rispetto del principio per cui i lavoratori non siano pregiudicati (la norma prevede espressamente che i diritti dei lavoratori vengano soddisfatti integralmente entro 30 giorni dall’omologazione). Se invece anche una sola classe non raggiunge la maggioranza, il PRO non può essere omologato (in tal caso il debitore potrebbe eventualmente convertire la domanda in un concordato preventivo ordinario, se vuole tentare quella via).
Durante il PRO, analogamente al concordato, il debitore rimane in possesso dell’azienda (salvo nomina di eventuale amministratore giudiziale in casi gravi) e opera sotto la supervisione del commissario. Possono essere concesse misure protettive per bloccare le azioni esecutive dei creditori durante la trattativa e il voto.
Differenze riassuntive rispetto al concordato preventivo:
- Il PRO richiede consenso di tutte le classi (quindi tutti i tipi di creditori coinvolti devono essere a bordo, seppur a maggioranza interna). Il concordato no (basta maggioranza complessiva e ora anche con cram-down può superare dissensi).
- Nel PRO non valgono i limiti del 20% e del 10% per la soddisfazione minima e apporto esterno, neppure se liquidatorio. Quindi si potrebbe fare un PRO liquidatorio che paga i chirografi meno del 20% e senza apporti, cosa non consentita in un concordato normale. Ovviamente, ciò passerebbe solo se quei creditori accettano in massa.
- Il PRO non è tipizzato penalmente: nel senso che, mentre esistono reati specifici connessi al concordato (es. bancarotta concordataria, reati di frode in procedura), per il PRO tali fattispecie non sono espressamente previste (per ora). Questo non significa che vi sia immunità penale: in caso di comportamenti fraudolenti scatterebbero comunque i reati di bancarotta fraudolenta se poi l’impresa fallisse, o altri reati comuni. Ma non c’è una figura criminosa ad hoc per il PRO, segno anche di come sia considerato uno strumento strettamente volontario e concordato.
- Nel PRO è possibile inserire classi di soci o di detentori di strumenti finanziari partecipativi, prevedendo ad esempio sacrifici anche per gli azionisti (come riduzioni di partecipazione, diluizioni, ecc.) nel quadro di ristrutturazione complessiva – attuando così una ristrutturazione anche dell’equity oltre che del debito, cosa non gestibile nel concordato classico se non indirettamente.
Giurisprudenza sul PRO: essendo uno strumento nuovo (in vigore dal luglio 2022), ci sono ancora poche pronunce, ma significative…. vennero in rilievo nella pronuncia del Tribunale di Udine (9 marzo 2023), che ammise un PRO nonostante prevedesse la falcidia dei debiti tributari e contributivi, osservando che nessuna norma nel CCII esclude la possibilità di proporre il pagamento parziale o dilazionato di tali crediti nel PRO, purché inseriti in apposite classi e con il consenso richiesto. In sostanza, grazie al PRO, l’imprenditore può gestire anche debiti fiscali secondo convenienza negoziale (cosa non del tutto libera nel concordato, vincolato dalla disciplina della transazione fiscale ordinaria) se riesce a ottenere l’accordo delle classi di creditori coinvolte.
Un dubbio posto dagli operatori è stato: «Avevamo davvero bisogno di una nuova procedura come il PRO?». Le prime esperienze sembrano suggerire che, pur essendo un istituto di nicchia e richiedendo elevato consenso tra i creditori, il PRO può tornare utile in situazioni straordinarie dove le regole standard del concordato risulterebbero un ostacolo. Ad esempio, in ristrutturazioni finanziarie complesse in cui occorre trattare diversamente creditori dello stesso grado (cosa che nel concordato tradizionale verrebbe tacciata di violazione della par condicio), oppure quando tutti i creditori principali sono d’accordo su una certa distribuzione del valore e vogliono blindarla rapidamente. In definitiva, il PRO offre un contenitore legale flessibile per piani di risanamento consensuali, con il suggello dell’omologazione giudiziale a conferirgli stabilità ed efficacia verso tutti i partecipanti.
Per un imprenditore, decidere di utilizzare il PRO implica essere in grado di convincere tutte le categorie di creditori. Se ciò è fattibile (magari perché il numero di creditori è ristretto e i rapporti consolidati), il PRO consente di costruire soluzioni su misura, anche più aggressive nella riduzione del debito, senza incappare in rilievi di legittimità. Se invece c’è forte eterogeneità o conflittualità tra creditori, probabilmente il concordato preventivo ordinario rimane la strada maestra (potendo sfruttare il cram-down per superare dissensi). Il PRO non sostituisce quindi il concordato, ma lo affianca come opzione alternativa, arricchendo la “cassetta degli attrezzi” a disposizione dell’impresa in crisi.
Esempio pratico – Uso del PRO: Sigma S.p.A. è una società immobiliare in crisi, con 3 banche ipotecarie creditrici (A, B, C), alcuni fornitori chirografari e debiti fiscali per IVA arretrata. L’unico attivo rilevante è un grande immobile. Sigma trova un investitore disposto a rilevare l’immobile per un prezzo però inferiore al totale dei debiti ipotecari. Sigma propone un PRO liquidatorio in cui: destinerà l’intero ricavato della vendita (poniamo 70) alle banche ipotecarie (il cui credito complessivo è 100), pagandole quindi pro-quota al 70% (falcidiando i loro crediti privilegiati); nulla ai chirografari (non residua attivo); ai debiti IVA (privilegiati) offre una dilazione di 2 anni per incassare eventuali futuri crediti fiscali derivanti da perdite. In un concordato preventivo standard, una proposta che paga i privilegiati ipotecari solo al 70% violerebbe la regola che impone ai privilegiati il soddisfacimento integrale del valore di garanzia, e inoltre pagare zero ai chirografari sarebbe sotto la soglia del 20%. In un PRO, invece, Sigma può farlo, a condizione che le classi accettino: e infatti crea una classe unica con le tre banche ipotecarie (che accettano perché sanno che in liquidazione forse avrebbero preso anche meno, magari 60, e preferiscono chiudere subito a 70) e una classe con l’Erario per l’IVA (che accetta la dilazione perché vede un futuro incasso almeno parziale invece di niente). Non c’è classe di chirografari (tanto non otterrebbero nulla – li si considera fuori dal piano ma, essendo l’attivo incapiente, comunque nulla muta per loro). Tutte le classi votano sì. Il tribunale omologa il PRO. Sigma vende l’immobile all’investitore, paga 70 alle banche (liberando l’ipoteca) e chiude. Le banche, avendo approvato, rinunciano al restante 30; i fornitori chirografari purtroppo rimangono insoddisfatti, ma sarebbero rimasti tali anche in fallimento e in PRO non hanno potuto opporsi perché non esprimevano classe avente valore economico. In questo modo, Sigma ha evitato un lungo fallimento e ha gestito la liquidazione in modo concordato e rapido.
Chiudiamo l’analisi del PRO sottolineando che il Correttivo-ter 2024 non ha introdotto modifiche significative al suo impianto (se non coordinamenti minori), segno che il legislatore intende osservarne l’applicazione pratica prima di eventualmente affinarlo. È uno strumento innovativo e dal taglio moderno, allineato alle logiche delle restructuring plans di matrice anglosassone, ma richiede elevate capacità negoziali e un contesto di cooperazione con i creditori.
10. La Liquidazione Giudiziale (il “nuovo Fallimento”)
Nonostante l’enfasi del Codice sul salvataggio e la ristrutturazione, permane naturalmente la procedura destinata ai casi in cui l’insolvenza non può essere risolta: la liquidazione giudiziale, che ha preso il posto del “fallimento” tradizionale. La liquidazione giudiziale è disciplinata dal Titolo V del CCII e costituisce la procedura concorsuale liquidatoria per eccellenza. Vi si fa ricorso quando l’impresa è insolvente e non vi sono strumenti di regolazione negoziale o concordataria possibili o riusciti. In questa sezione esporremo sinteticamente: i presupposti per l’apertura della liquidazione giudiziale, il procedimento e gli organi coinvolti, gli effetti sul debitore e sui creditori, e gli sviluppi della procedura (dalla formazione dello stato passivo alla liquidazione dell’attivo, fino alla chiusura ed esdebitazione).
10.1 Presupposti e iniziativa per l’apertura: Può essere assoggettato a liquidazione giudiziale l’imprenditore commerciale che si trova in stato di insolvenza (art. 121 CCII), purché superi le soglie di non fallibilità previste dall’art. 2 LF (ancora in vigore in via transitoria): dunque restano esclusi i piccoli imprenditori sotto determinati limiti (circa €300k di attivo, €200k di ricavi, €500k di debiti). Anche le società agricole maggiori oggi possono fallire (il CCII non ripropone l’esenzione fallimentare per gli enti agricoli oltre certi limiti). L’insolvenza è definita in modo analogo alla previgente: incapacità persistente di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni. Può manifestarsi con inadempimenti, protesti, fughe o latitanze, patrimonio insufficiente, ecc.
La liquidazione giudiziale si apre su iniziativa di uno dei soggetti legittimati a farne richiesta: può farne istanza lo stesso debitore (fallimento in proprio), uno o più creditori, o il pubblico ministero (quest’ultimo nei casi espressi di legge, ad esempio imprenditore che fugge, oppure segnalazione di organi di vigilanza). L’istanza si deposita presso il tribunale del luogo della sede dell’impresa.
Il tribunale, verificata la sussistenza dei presupposti (qualifica soggettiva e insolvenza), dichiara l’apertura della liquidazione giudiziale con sentenza. La sentenza di apertura nomina i organi della procedura: un giudice delegato (magistrato che sovrintenderà la procedura) e soprattutto un curatore (professionista, solitamente commercialista o avvocato, che gestirà operativamente la liquidazione). Inoltre, ordina il deposito dei bilanci e scritture del debitore, fissa termini per domande di credito, e dispone gli altri adempimenti iniziali (pubblicazione, PEC ai creditori nota dal registro imprese, iscrizione nei registri).
10.2 Effetti dell’apertura della liquidazione giudiziale: Con la sentenza si produce l’effetto base dello spossessamento: il debitore è privato dell’amministrazione e disponibilità dei suoi beni (presenti e futuri, con qualche eccezione per i futuri redditi da lavoro dell’imprenditore persona fisica), che passano sotto il controllo del curatore (art. 142 CCII). Gli atti compiuti dal debitore dopo l’apertura sono inefficaci rispetto ai creditori. Si determina inoltre la cristallizzazione della situazione patrimoniale: i creditori concorsuali (quelli aventi causa o titolo anteriore alla sentenza) non possono iniziare né proseguire azioni esecutive individuali, né acquisire diritti di prelazione (pegno, ipoteca) su beni del debitore, pena nullità (automatic stay concorsuale). I debiti cessano di produrre interessi, salvo i privilegiati nei limiti della capienza del bene. I contratti pendenti non si sciolgono automaticamente (il curatore può subentrare o scioglierli con autorizzazione del GD, art. 172 CCII). Gli eventuali atti anomali compiuti prima della procedura possono essere oggetto di azioni revocatorie da parte del curatore (ora regolate dagli artt. 166-168 CCII, con termini ridotti rispetto al passato: 6 mesi o 1 anno per atti a titolo oneroso con contropartita sproporzionata, 6 mesi per pagamenti di crediti scaduti effettuati nell’anno precedente, 2 anni per atti a titolo gratuito e pegni su debiti preesistenti, ecc., con esenzioni per atti di ordinaria amministrazione e per i pagamenti effettuati nell’ambito o in esecuzione di strumenti di regolazione concordata come concordati o accordi omologati).
L’imprenditore fallito (specie se persona fisica) subisce anche conseguenze personali: deve consegnare beni e documenti al curatore, fornire informazioni, ed è soggetto – se emergono fatti di reato – a possibili imputazioni penali (bancarotta fraudolenta o semplice). Tuttavia, il CCII ha eliminato alcuni aspetti afflittivi del vecchio fallimento (come le pene pecuniarie e l’istituto della riabilitazione civile).
10.3 Procedimento di verifica e liquidazione: Dopo la dichiarazione di liquidazione giudiziale, si apre la fase di accertamento del passivo e dei diritti dei terzi. Il curatore, entro 30 giorni, invia ai creditori noti l’avviso di deposito in tribunale e il termine (non oltre 90 giorni dalla sentenza) entro cui presentare domanda di insinuazione al passivo (art. 201 CCII). I creditori e titolari di diritti reali presentano le loro domande (telematiche), indicando l’importo e la natura del credito, eventuali cause di prelazione, documentazione a supporto. Il curatore prepara lo stato passivo, esaminando le domande e formulando per ciascuna le sue conclusioni (ammissione integrale, parziale, esclusione, eventuali osservazioni). Nella data fissata dal GD si tiene l’udienza di verifica: il giudice, alla presenza del curatore, esamina ogni credito e decide sull’ammissione o esclusione, emanando un decreto che rende esecutivo lo stato passivo. I creditori esclusi o ammessi con riserva possono fare opposizione (ricorso in tribunale separato).
Parallelamente, il curatore – coadiuvato dal comitato dei creditori (organo collegiale formato da 3 o 5 creditori nominati dal GD) – predispone un programma di liquidazione dell’attivo (art. 213 CCII) che sottopone all’approvazione del GD e del comitato. Il programma indica modalità e tempi con cui intende vendere i beni del fallito: vendite all’incanto, trattative private, affidamento a soggetti specializzati, etc., il tutto preferibilmente tramite procedure competitive (oggi per lo più telematiche) per massimizzare l’incasso. Nell’ottica di efficienza, il CCII incoraggia vendite unitarie, a lotto, e l’utilizzo di portali online. Se l’azienda del fallito può avere prospettive di conservazione, il curatore può esercitarla in via provvisoria per poi cederla come azienda funzionante (si parla di “esercizio provvisorio” autorizzato ex art. 211 CCII, se utile per evitare danno grave e in vista di miglior realizzo). In mancanza, di norma l’attività cessa e si liquidano i singoli beni. Il curatore inoltre può proseguire o iniziare azioni giudiziarie di recupero crediti e risarcimenti: tipicamente agirà contro amministratori o sindaci per eventuali responsabilità (azione di responsabilità sociale o verso i creditori ex art. 378 CCII), o promuoverà cause contro terzi per crediti risarcitori (es. revocatoria fallimentare, appunto, o altre cause pendenti in capo al fallito).
Man mano che realizza attivo (incassa vendendo beni o crediti), il curatore procede a distribuzioni ai creditori. Egli predispone piani di riparto (parziali e finale) indicando quanto spetta a ciascun creditore sulla base delle somme disponibili e dei ranghi (privilegiati, chirografari). Il GD approva i riparti e il curatore effettua i pagamenti: i creditori muniti di prelazione vengono soddisfatti prioritariamente nei limiti della capienza dei beni vincolati; i chirografari ricevono eventuali riparti pro-quota residui. Se vi sono liti pendenti (crediti sub iudice), di solito una parte di somme viene accantonata in riserva.
10.4 Chiusura della procedura e esdebitazione: La liquidazione giudiziale si chiude quando tutte le attività sono state liquidate e distribuite, oppure quando è comunque divenuto impossibile proseguire utilmente. Il curatore presenta il conto della gestione e il piano di riparto finale. Una volta eseguiti i pagamenti finali, il tribunale dichiara chiusa la procedura con decreto.
Una delle innovazioni del CCII a favore del debitore persona fisica (imprenditore individuale o socio illimitatamente responsabile) è la semplificazione dell’esdebitazione. L’esdebitazione è l’istituto per cui il fallito persona fisica viene liberato dai debiti residui non soddisfatti, potendo così ripartire senza l’handicap a vita. Nel CCII l’esdebitazione è quasi automatica: trascorsi 3 anni dalla liquidazione giudiziale, il debitore persona fisica ottiene di diritto l’esdebitazione dei debiti residui, salvo che sia stato condannato per bancarotta fraudolenta o altri gravi reati concorsuali (art. 278 CCII). Non serve più una specifica istanza né l’accertamento di meritevolezza come nella vecchia legge (per i casi di particolare indegnità c’è al più la revoca). Addirittura, è prevista un’esdebitazione anticipata del debitore incapiente (art. 282 CCII) in cui, se il fallito non ha alcuna utilità da offrire ai creditori (zero attivo), può essere liberato dai debiti subito dopo la chiusura, senza aspettare 3 anni. Queste norme mirano a favorire il fresh start dell’imprendiore onesto ma sfortunato.
Occorre precisare che la liquidazione giudiziale riguarda normalmente le imprese commerciali di dimensioni rilevanti. Il Codice prevede anche una procedura semplificata di liquidazione controllata per i debitori minori (ex sovraindebitati) e le ditte sotto soglia, davanti al Tribunale in composizione monocratica. Inoltre, esiste il concordato nella liquidazione giudiziale: anche dopo il fallimento, entro determinati termini, il debitore o un terzo può proporre ai creditori un concordato (ad es. offrendo una certa percentuale) per chiudere anticipatamente la procedura; ma si tratta di ipotesi particolari.
Per l’imprenditore, subire la liquidazione giudiziale significa perdere il controllo della propria impresa e veder liquidato il patrimonio per soddisfare i creditori, con tutte le implicazioni negative del caso (dal discredito commerciale alle possibili azioni di responsabilità nei suoi confronti). Pertanto, come messaggio pratico, questo istituto deve essere considerato davvero l’ultima spiaggia. Tuttavia, se la situazione è irreversibilmente compromessa, a volte può essere la scelta più corretta anziché insistere in tentativi di risanamento velleitari: chiedere il fallimento in proprio (cosa che alcuni imprenditori fanno) può porre fine a un’agonia e far ripartire più speditamente la vita economica sotto altra forma. In ogni caso, il Codice ha cercato di rendere anche la liquidazione giudiziale più efficiente e meno punitiva: vendite telematiche per accelerare i tempi, incentivi a depositare l’istanza di fallimento tempestivamente (per evitare sanzioni agli amministratori), esdebitazione “facile” per dare al fallito onesto una seconda chance.
11. Obblighi e responsabilità di imprenditori, amministratori e organi di controllo
Una linea trasversale che attraversa tutto il nuovo Codice della Crisi è il rafforzamento dei doveri di condotta degli attori dell’impresa in funzione della pronta rilevazione e corretta gestione della crisi. Vale la pena, prima di concludere, riepilogare in maniera focalizzata quali sono gli obblighi e le potenziali responsabilità che gravano su:
- Imprenditore e organo amministrativo (es. CdA): Devono istituire assetti adeguati (art. 3 CCII e art. 2086 c.c.) per monitorare la situazione economico-finanziaria e la continuità. Ciò implica dotarsi di strumenti di controllo di gestione, piani finanziari, indici, e reagire ai segnali di crisi senza indugio. L’organo amministrativo ha l’obbligo di attivarsi tempestivamente nell’adottare misure correttive o attivare le procedure di regolazione della crisi non appena emergono situazioni di difficoltà significative. In caso di inerzia colpevole, gli amministratori possono incorrere in responsabilità:
- Verso la società (azione di responsabilità per mala gestio ex art. 2393 c.c., se il patrimonio sociale viene depauperato dall’omessa reazione alla crisi).
- Verso i creditori sociali: il CCII (art. 378) ha innovato sul punto prevedendo che la violazione degli obblighi di conservazione del patrimonio sociale in situazione di crisi può dar luogo a responsabilità diretta degli amministratori verso i creditori insoddisfatti. In altre parole, se l’impresa insolvente vede aggravarsi il dissesto per il ritardo colpevole degli amministratori nel adottare provvedimenti (ad esempio continuando ad aggravare l’esposizione), gli amministratori possono essere chiamati a rispondere con il proprio patrimonio personale verso i creditori danneggiati. Si tratta di un forte deterrente: l’amministratore diligente, di fronte a segnali di insolvenza, deve evitare di tirare avanti sperando in miracoli (trading on insolvent), perché se così facendo peggiora la situazione, ne risponderà illimitatamente.
- Penale: restano poi le sanzioni penali (bancarotta semplice o fraudolenta) se l’insolvenza poi sfocia in liquidazione giudiziale e vengono accertati comportamenti distrattivi o gravemente imprudenti.
- Organi di controllo societario (sindaci, revisori): Il Codice ha esteso e puntualizzato i loro obblighi di segnalazione. Già dal D.Lgs. 14/2019, le società a responsabilità limitata e cooperative hanno dovuto nominare organi di controllo o revisori se superano determinati limiti (oggi più bassi: basta aver superato per 2 esercizi uno di questi parametri – attivo €4 mln, ricavi €4 mln, 20 dipendenti – per essere obbligati a dotarsi di sindaco/revisore). Questo ampliamento serve proprio a garantire un monitoraggio esterno anche nelle PMI. L’organo di controllo (Collegio sindacale o sindaco unico) ha l’obbligo di verificare costantemente che gli amministratori abbiano predisposto adeguati assetti e di vigilare sulla continuità aziendale. Se rileva fattori di crisi, deve attivare la procedura di allerta interna: ovvero segnalare per iscritto all’organo amministrativo la situazione e le possibili misure (art. 24 CCII). Se gli amministratori non rispondono entro 30 giorni con adeguate iniziative, l’organo di controllo può informare l’OCRI (questo nel vecchio impianto, oggi potrebbe rivolgersi al tribunale ex art. 2409 c.c. per far emergere la situazione). Il Correttivo-ter ha inoltre previsto che anche il revisore legale (se distinto dal sindaco) abbia un analogo obbligo di segnalazione all’organo amministrativo in caso di rilievo di crisi o insolvenza. L’idea è di creare una rete di “sentinelle”. Se sindaci o revisori omettono di vigilare o di segnalare, rischiano responsabilità: ad esempio, i sindaci rispondono verso la società e i creditori per omessa vigilanza ai sensi dell’art. 2407 c.c., e possono essere chiamati anch’essi a risarcire i danni se dalla mancata segnalazione è derivato un aggravamento del dissesto. Anche penalmente, il sindaco connivente con condotte distrattive degli amministratori può rispondere di concorso in bancarotta. In pratica, al verificarsi di una crisi significativa, l’organo di controllo dovrebbe tempestivamente: sollecitare formalmente il CdA a prendere provvedimenti (di ciò deve restare traccia verbale), e se nulla accade, valutare esso stesso l’iniziativa di avvisare un organismo pubblico o l’autorità giudiziaria. Per questo ruolo attivo, il Codice prevede anche tutele: ad esempio, la segnalazione del sindaco non costituisce violazione del dovere di riservatezza ed anzi rientra nei suoi compiti.
- Creditori pubblici qualificati (Agenzia Entrate, INPS, Agente Riscossione): Anche questi soggetti, pur esterni all’impresa, sono chiamati a responsabilità nel sistema di allerta. Hanno l’obbligo di monitorare le posizioni debitorie e inviare le segnalazioni alle imprese e agli organi di controllo al superamento delle soglie. Se omettono di farlo, potrebbero risponderne sul piano erariale o disciplinare (ad esempio, un funzionario che non invia una segnalazione INPS dovuta compie un’omissione di atti del proprio ufficio). L’intento però è cooperativo: fare squadra per far emergere precocemente le crisi.
Riassumendo: il nuovo Codice della Crisi responsabilizza tutti. L’imprenditore non può più permettersi di navigare a vista e poi magari dichiarare fallimento all’ultimo momento: deve dotarsi di strumenti di controllo e agire in prevenzione, pena conseguenze sul piano civilistico (azioni di responsabilità) e, se del caso, penale. Gli amministratori di società sono incentivati ad attivare per tempo composizione negoziata o concordati, perché se non lo fanno e la situazione peggiora, i loro beni personali potrebbero essere aggrediti dai creditori insoddisfatti. I sindaci e revisori devono essere partecipi e attenti, pena rispondere anch’essi. In definitiva, il legislatore ha voluto superare l’atteggiamento passivo e fatalista del passato, creando un ecosistema in cui la crisi d’impresa diventa un fatto da gestire consapevolmente e non da subire passivamente.
12. Conclusione: Sintesi Operativa e Consigli per gli Imprenditori
Abbiamo percorso in dettaglio l’articolato panorama di strumenti e procedure introdotti (o riformati) dal Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza. In chiusura di questa guida, è utile ricapitolare i principi chiave emersi e fornire alcuni consigli pratici rivolti agli imprenditori e agli amministratori, affinché possano tradurre in azioni concrete i precetti normativi ed evitare gli errori più comuni.
12.1 Principi chiave e sintesi:
- Prevenzione e monitoraggio costante: Il nuovo mantra è “intercettare per tempo”. Dotarsi di adeguati assetti (contabili, amministrativi) non è un mero adempimento burocratico, ma una necessità vitale. Significa avere cruscotti che segnalino tempestivamente se l’azienda sta perdendo liquidità, se i margini si erodono, se i debiti a breve superano certi livelli. Un imprenditore oggi deve leggere quei segnali come fa con il cruscotto dell’auto: una spia rossa (es. cash flow negativo, ritardi nei pagamenti ai fornitori, leverage eccessivo) va attenzionata subito, non oscurata con del nastro adesivo. Utilizzare check-list e test come quelli resi disponibili da organi professionali (CNDCEC) o da portali come quello di composizione negoziata aiuta ad autovalutarsi periodicamente. In sintesi: conosci i numeri della tua impresa e tienili d’occhio.
- Tempestività nell’azione: Se emergono difficoltà, agire presto può fare la differenza tra un risanamento di successo e un fallimento rovinoso. Questo comporta mettere da parte l’istinto umano di negare i problemi o rimandarli. Al contrario, aprirsi al confronto con i propri consulenti, con i soci e persino con i creditori principali può portare a trovare soluzioni. La composizione negoziata è lì apposta: non è disonorevole attivarla – anzi, spesso è percepita dai creditori come segno di serietà e volontà di pagare il più possibile. Un imprenditore che propone ai creditori un piano, anche a costo di chiedere sacrifici, verrà visto meglio di chi sparisce e lascia che sia il tribunale a intervenire. Inoltre, ricordiamo che molte soluzioni (piani attestati, accordi) funzionano solo se attivate in fasi iniziali di crisi: quando l’impresa è già tecnicamente insolvente da tempo e magari ha esaurito la fiducia del mercato, anche gli strumenti migliori servono a poco.
- Scelta dello strumento adeguato: Il Codice offre una “cassetta degli attrezzi” diversificata. È fondamentale saper scegliere lo strumento giusto per la propria situazione:
- Crisi ancora affrontabile internamente e con pochi creditori: valutare un piano attestato di risanamento, magari supportato da un accordo in pool con le banche.
- Crisi più grave ma con prospettive di salvataggio e molti creditori eterogenei: la composizione negoziata come primo passo, eventualmente preludio a un concordato preventivo in continuità se serve il voto di tutti.
- Debiti concentrati in banche/obbligazionisti: considerare un accordo di ristrutturazione, specie se si può arrivare al 60-75% di consenso.
- Trattative fallite ma c’è un’offerta per liquidare l’azienda decentemente: il concordato semplificato può evitare il fallimento e dare più controllo sui tempi di liquidazione.
- Situazione irrimediabile senza offerte né piani possibili: non accanirsi e considerare l’istanza di liquidazione giudiziale (meglio se in proprio, gestendo la cosa con ordine e magari concordando vendite pre-pack se possibile).
- Trasparenza e buona fede: Tutti gli strumenti, dal piano attestato al concordato, presuppongono che l’imprenditore metta sul tavolo la realtà dei fatti in modo trasparente. Occultare o truccare le carte è doppiamente deleterio: primo, impedisce di trovare la soluzione giusta perché basata su dati falsati; secondo, se scoperto (e spesso lo sarà, grazie a revisori, attestatori, commissari), fa perdere ogni fiducia a creditori e tribunale. La fiducia è moneta preziosa nella crisi: i fornitori continueranno a fornire materiali solo se credono nella tua sincerità e competenza nel gestire la crisi, le banche rinegozieranno se vedono trasparenza, il giudice omologherà se percepisce correttezza. Viceversa, se vengono alla luce bilanci falsi o distrazioni di attivo non dichiarate, ogni velleità di risanamento crolla e si aprono scenari anche penali. Quindi il consiglio è: giocare a carte scoperte con i propri professionisti e, nei limiti del possibile, con i principali creditori, coinvolgendoli attivamente e ascoltando anche le loro proposte (spesso banche o grandi clienti hanno divisioni specializzate nel recupero crediti che possono suggerire soluzioni, come trasformare debito in equity o concessioni di nuova finanza garantite, ecc.).
- Coinvolgimento di professionisti qualificati: Gestire una crisi d’impresa è operazione multidisciplinare che tocca aspetti finanziari, legali, fiscali. È irrealistico pensare di far da soli. Occorre mettere insieme un team: un consulente finanziario aziendale per i numeri del piano, un legale per gli aspetti procedurali, eventualmente uno specialista del settore se ci sono aspetti industriali peculiari. Anche la scelta dell’attestatore o dell’esperto è fondamentale: deve essere persona competente e indipendente, ma anche pratica e capace di dialogare con creditori. Investire qualche risorsa in buoni professionisti ripaga ampiamente: ad esempio un bravo advisor può convincere una banca a non revocare i fidi mostrando loro analisi imparziali, un attestatore stimato darà maggiore credibilità al piano agli occhi di tutti. Viceversa, rivolgersi a consulenti improvvisati o peggio collusi (che “firmano tutto”) è un grave errore: la loro attestazione verrà demolita in tribunale, e voi avrete sprecato tempo e denaro.
- Documentare le scelte e proteggersi da responsabilità: Dal punto di vista di amministratori e sindaci, è importante tenere traccia di tutto il processo decisionale durante la crisi. Redigere verbali consiliari che motivino perché si è scelto un certo percorso (es. “il CdA rileva tensioni di liquidità e delibera di attivare composizione negoziata ritenendo che vi siano prospettive di risanamento…” oppure “di non attivare la procedura X perché i dati mostrano un recupero nel trimestre…”). Questo servirà, se mai in futuro qualcuno contestasse le vostre scelte, a dimostrare che avete agito con diligenza, valutando le opzioni disponibili. Allo stesso modo, i sindaci dovrebbero mettere per iscritto le sollecitazioni fatte agli amministratori e le risposte ricevute. In caso di esito infausto (es. fallimento), tali documenti potranno proteggere da accuse di negligenza: mostreranno che avete fatto il possibile con le informazioni disponibili in quel momento.
12.2 Consigli operativi finali:
- Fai un “tagliando” periodico alla tua impresa: Come porti l’auto dal meccanico prima che si rompa, ogni impresa dovrebbe periodicamente (almeno ogni trimestre) fare un check-up. Ad esempio: calcola alcuni indicatori chiave (indebitamento/patrimonio, DSCR a 6 mesi, margine operativo, tempo medio incasso vs pagamento). Se noti tendenze negative in 2-3 indicatori, approfondisci subito con il tuo commercialista. È molto più facile aggiustare la rotta quando sei ancora lontano dagli scogli.
- Non ignorare i segnali (interni ed esterni): Se il tuo organo di controllo ti invia una segnalazione formale o se ricevi le famose PEC da Agenzia Entrate/INPS che superi le soglie debitorie, non mettere la testa sotto la sabbia. Questi non sono fulmini a ciel sereno, di solito li precedono mesi di sofferenza aziendale. Prendi atto che sei in crisi, anche se può essere psicologicamente duro ammetterlo, e valuta immediatamente le opzioni: contatta un esperto di crisi, parlane col tuo consulente. Spesso c’è riluttanza per paura dello stigma – ma oggi chiedere aiuto non è più visto come un disonore; anzi, i sistemi di rating bancari ormai valutano positivamente chi affronta attivamente la crisi.
- Valuta la composizione negoziata come primo step: Se ti trovi in difficoltà serie (ma non irreversibili) e specialmente se hai ricevuto segnalazioni, considera fortemente l’idea di accedere alla composizione negoziata. Non costa molto, è riservata e ti dà accesso a un professionista terzo (l’esperto) e a misure di protezione. Puoi sempre decidere di interromperla se intravedi una soluzione autonoma, ma intanto hai guadagnato tempo e protezione dai creditori impazienti. Molte Camere di Commercio (Unioncamere) hanno sportelli dedicati e materiale informativo su come funziona: informati, non basarti su sentito dire.
- Mantieni i rapporti con i creditori chiave: In situazioni di crisi, la comunicazione è vitale. Isolarsi è deleterio. Identifica i tuoi 5-10 creditori più importanti (banche, fornitori strategici, leasing, fisco) e considera di informarli – con l’aiuto dei consulenti – della situazione, rassicurandoli che stai approntando un piano e magari pre-allertandoli che potresti ricorrere a una procedura concordata. Certo, questo va fatto con tatto e dopo aver preparato un abbozzo di piano, altrimenti rischi panico; ma se ben gestita, la franchezza paga. Spesso quei creditori, vedendo proattività, saranno disposti a attendere o a supportarti, perché capiscono che così forse recupereranno più del se ti vedessero fallire improvvisamente. Viceversa, il silenzio e i pagamenti mancati generano solo sfiducia e azioni legali immediate.
- Tieni informati dipendenti e partner: Un elemento spesso trascurato è la gestione del capitale umano durante la crisi. I dipendenti tendono a fiutare i problemi e l’incertezza può portare i migliori a scappare o a perdere motivazione. Senza violare doveri di riservatezza, cerca di coinvolgere la squadra interna, spiegando – nei limiti del necessario – che l’azienda sta attraversando una fase difficile ma che state mettendo in atto misure di risanamento. Magari alcuni dipendenti chiave potranno dare suggerimenti (es. riduzione di certi sprechi) o accettare temporaneamente misure come cassa integrazione con spirito collaborativo, se capiscono la situazione. Anche con i clienti fondamentali, se la crisi rischia di impattare sulle forniture, è opportuno un dialogo: meglio che lo sappiano da te (con un piano B pronto, tipo consegne un po’ ritardate ma garantite) piuttosto che da voci di mercato.
- Aggiornati sulle novità normative: Il diritto della crisi d’impresa è in continua evoluzione. Ad esempio, il Correttivo-ter del 2024 ha introdotto cambiamenti pochi mesi fa (come abbiamo visto) e nuove interpretazioni giurisprudenziali escono di continuo. Se la tua azienda è in equilibrio, è comunque buona norma che tu e il tuo staff amministrativo rimaniate aggiornati – partecipando magari a seminari o corsi sul tema, o seguendo le linee guida emanate da Confindustria, CNDCEC, dal Ministero della Giustizia. Nel 2023, ad esempio, il CNDCEC ha pubblicato nuove Liste di controllo per l’allerta interna e documenti sugli adeguati assetti organizzativi: strumenti pratici pensati proprio per aiutare le imprese ad applicare la normativa. Usali. La Camera di Commercio e le associazioni di categoria spesso organizzano workshop informativi: la conoscenza è la prima arma per prevenire la crisi.
- Non abusare degli strumenti, usali con onestà: Un ultimo consiglio è di natura etica: gli strumenti come concordati, accordi, ecc. non vanno mai usati in malafede (ad esempio solo per dilazionare i tempi e magari far sparire attivo nel frattempo). Oltre a essere illecito, è un boomerang: i tribunali e i creditori sono ormai molto attenti a evitare abusi. Un concordato presentato senza prospettive reali o per prendere tempo verrà facilmente bocciato e l’imprenditore perderà faccia e fiducia residua, oltre a poter incorrere in sanzioni (revoca del concordato per atti in frode, denuncia per bancarotta preferenziale se ha dissipato risorse nel frattempo, etc.). Quindi, se decidi di intraprendere una procedura, fallo in modo genuino, con l’intento di risolvere davvero la crisi coinvolgendo correttamente le parti dovute.
12.3 Conclusione positiva:
Il Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza, pur complesso, può essere visto come un “manuale di istruzioni” che aiuta a pilotare l’impresa anche nelle turbolenze. L’imprenditore non è più solo ad affrontare la tempesta: ha strumenti (le procedure di composizione e concorsuali), ha indicatori (gli indici d’allerta) che fungono da radar, ha delle ancore di salvezza (misure protettive, moratorie, esdebitazione). Ma deve saperli usare per tempo e con competenza. In un’ottica culturale, il successo della riforma si misurerà non tanto nel numero di fallimenti evitati in extremis, quanto nella diffusione di una nuova mentalità: fare impresa in modo consapevole e programmato, dove la gestione della crisi diventa parte integrante della normale gestione d’azienda (come lo è la gestione finanziaria, fiscale, del personale).
In definitiva, il miglior consiglio operativo è: giocare d’anticipo. Se curi la salute della tua azienda giorno per giorno, probabilmente non dovrai mai attivare nessuna procedura; ma se anche dovesse capitare una grave malattia aziendale (una crisi), l’avrai scoperta ai primi sintomi e potrai intervenire con la terapia giusta, con buone chance di guarigione. E se proprio la guarigione non fosse possibile, avrai comunque la possibilità di chiudere in modo ordinato e dignitoso, limitando i danni per te, per i tuoi dipendenti e per i tuoi creditori, e magari potendo ripartire con nuove iniziative in futuro (grazie all’esdebitazione e alle esperienze maturate).
Il Nuovo Codice della Crisi non è un semplice insieme di norme, ma una guida (quasi “amica”) che, letta con lo spirito giusto, può aiutare ogni imprenditore a navigare anche nelle acque più difficili. Far conoscere al management e ai collaboratori almeno i lineamenti di queste regole è già un passo importante: questa guida – ci auguriamo – ha contribuito a questo scopo, fornendo sia una mappa concettuale sia esempi concreti di come utilizzare gli strumenti a disposizione. In tal modo, l’imprenditore potrà affrontare il futuro con maggiore serenità, sapendo di avere preparato la sua impresa non solo ai giorni di sole, ma anche ad eventuali tempeste, con bussola, equipaggio e rotte alternative già predisposte.
Nuovo Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza: Perché Affidarsi A Studio Monardo per affrontarlo con successo
Con l’entrata in vigore del Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (D.Lgs. 14/2019) – pienamente operativo dal 2022 e aggiornato al 2025 – è cambiato tutto:
oggi la gestione delle difficoltà economiche di imprenditori, professionisti e società è regolata da norme nuove, più severe, ma anche più efficaci se affrontate con il giusto supporto.
Affidarsi all’Avvocato Giuseppe Monardo significa avere al proprio fianco un esperto che conosce ogni meccanismo del nuovo Codice, e sa trasformare la crisi in una ripartenza vera e legalmente protetta.
Cosa Prevede il Nuovo Codice
Il nuovo Codice introduce strumenti precisi e articolati per prevenire il fallimento e gestire in modo ordinato i debiti:
- Composizione negoziata della crisi d’impresa
- Piani di ristrutturazione del debito omologati
- Concordato minore per imprese non fallibili
- Liquidazione giudiziale (l’equivalente dell’ex fallimento)
- Sovraindebitamento per imprenditori sotto soglia, consumatori e professionisti
- Esdebitazione, anche per chi non può offrire nulla ai creditori
Il Codice impone obblighi precoci di reazione in caso di squilibrio economico: chi ignora i segnali di crisi rischia responsabilità patrimoniali e personali, specie gli amministratori.
Cosa Fa l’Avvocato Monardo per Te
L’Avvocato Monardo ti guida con metodo e precisione, in ogni fase del percorso previsto dal Codice.
Con lui puoi:
- Capire subito se sei in crisi o a rischio di insolvenza
- Attivare la procedura più adatta: negoziata, giudiziale o stragiudiziale
- Costruire un piano sostenibile per ridurre o azzerare i debiti
- Difenderti da banche, fornitori, fisco e creditori aggressivi
- Proteggere l’impresa, i soci e gli amministratori da responsabilità personali
- Evitare la liquidazione giudiziale o affrontarla nel modo più ordinato
Monardo non si limita alla consulenza teorica: ti assiste operativamente, passo dopo passo, con una rete nazionale di esperti in diritto tributario, bancario e fallimentare.
Le Sue Qualifiche
L’Avvocato Giuseppe Monardo è:
- Gestore della Crisi da Sovraindebitamento, iscritto presso il Ministero della Giustizia
- Fiduciario di un Organismo di Composizione della Crisi (OCC)
- Esperto Negoziatore della Crisi d’Impresa, abilitato ex D.L. 118/2021
- Coordinatore di una squadra multidisciplinare che lavora su tutto il territorio nazionale
Con queste competenze, può attivare in prima persona le procedure previste dal Codice e garantirti la massima protezione legale.
Per Chi È Il Codice della Crisi?
Il Codice si applica a:
- Imprese individuali e società
- Professionisti, artigiani, commercianti
- Start-up e piccole imprese sotto soglia
- Consumatori sovraindebitati
- Amministratori di società a rischio di responsabilità
In conclusione
Il nuovo Codice della Crisi d’Impresa non è solo una legge: è una mappa per uscire dal debito o evitare il tracollo. Ma va letta e applicata con competenza.
Affidarsi all’Avvocato Giuseppe Monardo significa avere una guida legale autorevole, aggiornata e concreta, capace di difendere la tua impresa, il tuo patrimonio e il tuo futuro.
Con Monardo, la crisi diventa gestione. E la gestione, ripartenza.
Qui di seguito tutti i contatti del nostro Studio Legale specializzato in procedure per la crisi d’impresa per aiutare imprenditori in difficoltà: