Gestione Crisi D’impresa: Cosa Fa L’Avvocato E Come Funziona La Consulenza

Vuoi sapere come gestire una crisi d’impresa e cosa può fare un avvocato per te?

Qui di seguito la guida di Studio Monardo, gli avvocati specializzati in gestione crisi d’impresa e cancellazione debiti dell’impresa.

Buona lettura e in fondo alla guida troverai tutti i nostri contatti per una consulenza diretta approfondita.

Introduzione

La crisi d’impresa è una fase delicata della vita aziendale in cui la continuità del business è messa a rischio da squilibri economici o finanziari. Riconoscere e gestire per tempo la crisi è cruciale per evitare l’insolvenza irreversibile e la conseguente liquidazione giudiziale (il vecchio “fallimento”). Negli ultimi anni l’approccio normativo in Italia è profondamente cambiato: con l’entrata in vigore del Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII) – D.Lgs. 14/2019, modificato più volte fino al 2024 – l’ordinamento promuove una gestione tempestiva e consapevole della crisi, in linea con le direttive europee.

Questa guida, aggiornata alle normative vigenti ad aprile 2025, fornisce agli imprenditori una panoramica chiara e pratica degli strumenti giuridici a disposizione per affrontare la crisi d’impresa. Parleremo del ruolo fondamentale dell’avvocato nel processo di risanamento, delle fasi della consulenza legale e strategica, e descriveremo in modo accessibile le diverse procedure previste dal Codice della Crisi: dai piani di risanamento e accordi di ristrutturazione, al concordato preventivo (anche nella forma semplificata introdotta di recente), alla composizione negoziata della crisi, fino alla liquidazione giudiziale.

Obiettivo della guida: offrire consigli operativi, esempi concreti e casi pratici per aiutare gli imprenditori a intervenire tempestivamente alla comparsa dei segnali di difficoltà e a scegliere consapevolmente il percorso migliore per salvaguardare l’azienda o, nei casi estremi, gestire un’uscita ordinata dal mercato. Il linguaggio utilizzato è semplice e diretto, evitando tecnicismi inutili, così da rendere comprensibili concetti giuridici complessi anche a chi non ha formazione legale.

Crisi vs insolvenza: Nel Codice della Crisi la crisi viene identificata come lo stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza futura, ad esempio l’inadeguatezza dei flussi di cassa previsti a far fronte alle obbligazioni nei successivi 12 mesi. L’insolvenza è invece lo stato più grave in cui l’impresa non è più in grado di pagare regolarmente i propri debiti esigibili. Riconoscere questa differenza è importante: gli strumenti di composizione della crisi sono pensati per intervenire prima che l’insolvenza diventi conclamata, quando esistono ancora margini per ristrutturare l’impresa. Se si attende troppo a lungo, l’unica soluzione potrebbe restare la liquidazione giudiziale.

Nei paragrafi che seguono esamineremo dapprima come individuare tempestivamente i sintomi della crisi e quali obblighi normativi gravano sugli amministratori d’azienda per prevenire e segnalare le difficoltà. Approfondiremo poi il ruolo dell’avvocato e le fasi tipiche di una consulenza legale in materia di crisi d’impresa. Successivamente passeremo in rassegna i principali strumenti giuridici oggi a disposizione per regolare la crisi o l’insolvenza, spiegandone il funzionamento pratico e le condizioni di utilizzo (inclusi i più recenti istituti introdotti o riformati dal Codice della Crisi, come la composizione negoziata e il concordato semplificato). Per ciascuno strumento forniremo esempi e consigli utili. Infine, concluderemo con una serie di consigli pratici generali e una riflessione finale sull’importanza di affrontare la crisi con consapevolezza e tempestività.

Nota: Questa guida non sostituisce il parere professionale, ma intende fornire un orientamento iniziale. Ogni situazione di crisi ha caratteristiche uniche: per questo è fondamentale farsi affiancare da professionisti qualificati come Studio Monardo in grado di adattare gli strumenti normativi alle specifiche esigenze della propria impresa.

Come rilevare la crisi d’impresa: obblighi e segnali di allarme

Uno degli aspetti chiave della riforma introdotta dal Codice della Crisi è l’enfasi sulla prevenzione e sull’allerta precoce. Ciò significa che gli imprenditori devono dotarsi di strumenti per individuare i segnali di crisi prima che diventino problemi irreversibili. La legge impone precisi obblighi di monitoraggio e segnalazione allo scopo di favorire un intervento tempestivo. Vediamo quali sono questi obblighi e quali indicatori tenere d’occhio.

Adeguati assetti organizzativi e monitoraggio continuo

L’art. 2086 del Codice Civile, come modificato dalla riforma, obbliga l’imprenditore che operi in forma societaria o collettiva a istituire assetti organizzativi, amministrativi e contabili adeguati alla natura e dimensione dell’impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi e della continuità aziendale. In parole semplici, ogni azienda deve dotarsi di una struttura di controllo interno che permetta di monitorare costantemente lo stato di salute dell’impresa. Ciò include:

  • Contabilità aggiornata e attendibile: bilanci, conti economici mensili, report finanziari periodici per capire l’andamento di ricavi, costi e flussi di cassa.
  • Indicatori di allerta finanziaria: ad esempio indici di liquidità, indice di indebitamento, DSCR (Debt Service Coverage Ratio) prospettico a 6-12 mesi, ecc. Se il DSCR previsto scende sotto 1 (cioè i flussi di cassa attesi non coprono il servizio del debito), è un segnale di possibile crisi.
  • Monitoraggio dei debiti e dei crediti: controllo delle scadenze dei debiti verso banche, fornitori, Fisco e contributi; verifica dei ritardi nei pagamenti dei clienti che possano creare tensione di cassa.
  • Piano industriale e budget: l’azienda dovrebbe avere un budget e un piano industriale, da aggiornare se cambiano le condizioni, per prevedere l’andamento futuro. Deviazioni significative (es. calo del fatturato non previsto o margini in contrazione) vanno analizzate subito.
  • Sistema di controlli interno o organo di controllo: se la società per dimensione rientra nei casi previsti dalla legge, deve nominare un organo di controllo (come il collegio sindacale o il revisore legale). Questo organo svolge anche un ruolo attivo nell’allerta come vedremo, ma in generale aiuta a individuare irregolarità o segnali di difficoltà.

Segnali precoci di crisi: Alcuni sintomi tipici di uno stato di crisi imminente includono: calo significativo e prolungato del fatturato, perdite d’esercizio che erodono il patrimonio netto, uso costante di fidi bancari al limite, ritardi nei pagamenti a fornitori o stipendi, insoluti da parte dei clienti, aumento anomalo dell’indebitamento, esposizioni scadute verso l’Erario (IVA, ritenute, imposte non versate) o verso gli enti previdenziali. Se uno o più di questi fenomeni si manifestano, l’imprenditore dovrebbe immediatamente attivarsi per un’analisi approfondita. Ignorare questi campanelli d’allarme nella speranza di una ripresa spontanea è estremamente rischioso.

Esempio pratico: Un’azienda manifatturiera nota che da due anni chiude i bilanci in perdita e che il suo capitale netto si è dimezzato rispetto al capitale sociale iniziale. Inoltre, fatica a pagare puntualmente i fornitori e ha iniziato a ritardare il versamento dell’IVA trimestrale. Questi sono chiari segnali di allarme: la direzione dovrebbe attivare subito un check-up finanziario e coinvolgere un consulente per capire la gravità della situazione. Grazie agli “assetti adeguati” predisposti (controllo di gestione e bilanci mensili), l’azienda rileva per tempo il problema e può correre ai ripari prima di diventare insolvente.

Obblighi di segnalazione degli organi di controllo e early warning

Il Codice della Crisi prevede che alcuni soggetti abbiano il dovere di segnalare tempestivamente la situazione di crisi agli amministratori, per spingerli ad attivare le procedure di composizione e risanamento. In particolare:

  • Organo di controllo (sindaci o revisore legale): se la società ha un collegio sindacale, un sindaco unico o un revisore, questi devono monitorare la gestione e l’andamento aziendale. Qualora rilevino “fondati indizi di crisi”, hanno l’obbligo di segnalare per iscritto all’organo amministrativo (tipicamente il CDA o l’amministratore unico) che sussistono i presupposti per la nomina di un esperto indipendente ai fini di accedere alla composizione negoziata. Nella segnalazione devono indicare chiaramente le anomalie riscontrate e fissare un termine (non oltre 30 giorni) entro il quale gli amministratori devono riferire le iniziative intraprese. In pratica, i sindaci dicono: “Abbiamo riscontrato segnali di crisi, entro 30 giorni diteci cosa fate (per esempio attivare la composizione negoziata) per affrontarla”. Se l’organo amministrativo non risponde o non adotta misure, i sindaci/revisori potranno avere esimenti di responsabilità e, in casi estremi, valutare di informare il tribunale. Questo meccanismo di early warning interno è stato rafforzato dal correttivo del 2024, che ha esteso e precisato tali obblighi.
  • Creditori pubblici qualificati: inizialmente la riforma prevedeva che creditori come l’Agenzia delle Entrate, l’INPS o l’Agente della Riscossione segnalassero formalmente all’imprenditore il superamento di determinati ritardi o soglie di debito non pagato (ad esempio rilevanti scaduti fiscali o contributivi), invitandolo a prendere provvedimenti. A seguito delle modifiche normative, queste segnalazioni esterne sono state in parte affinate: attualmente, l’Agenzia delle Entrate-Riscossione e altri enti possono inviare comunicazioni di allerta quando l’esposizione debitoria supera certi limiti, in modo da sollecitare il debitore ad attivare uno strumento di composizione. Queste comunicazioni non aprono automaticamente una procedura, ma fungono da ulteriore campanello d’allarme ufficiale che il legislatore ha messo a tutela dei creditori pubblici.
  • Banche e intermediari finanziari: anche le banche hanno un obbligo di comunicazione introdotto dal Codice della Crisi (ulteriormente chiarito nel 2024). Se una banca riduce o revoca drasticamente gli affidamenti a causa delle condizioni deteriorate dell’impresa, deve darne comunicazione all’imprenditore (e all’eventuale organo di controllo). Lo scopo è mettere l’azienda di fronte alla presa d’atto che la propria meritevolezza creditizia è peggiorata e dunque è ora di correre ai ripari. Ad esempio, se una banca decide di non rinnovare un fido o denuncia un grave deterioramento del rating, questa informazione deve essere comunicata formalmente, così che l’imprenditore ne sia consapevole e non interpreti la riduzione del credito come un fatto isolato.

In sintesi, il sistema di allerta precoce disegnato dalla normativa crea una rete di sicurezza: dentro l’azienda, attraverso sindaci e revisori, e fuori dall’azienda, attraverso creditori pubblici e banche. Tutti hanno l’obiettivo di evitare che la crisi venga ignorata. Resta però centrale il ruolo attivo dell’imprenditore: queste segnalazioni sono un aiuto, ma spetta a chi guida l’impresa prendere sul serio i segnali e agire prontamente.

Esempio pratico: Una SRL commerciale supera i nuovi limiti oltre i quali è obbligatorio nominare un revisore unico. Viene nominato il revisore e questi, dopo alcuni mesi, nota che la società sta accumulando debiti fiscali e ha un DSCR inferiore a 1, segno che nei prossimi 6 mesi potrebbero mancare liquidità per pagare tutti. Il revisore invia al CDA una segnalazione formale indicando che ci sono i presupposti per attivare una procedura di composizione negoziata e chiede di sapere entro 30 giorni cosa intendano fare gli amministratori. Grazie a questa pressione, gli amministratori finalmente contattano un consulente e decidono di presentare istanza di composizione negoziata, invece di continuare a sperare in un miglioramento improbabile.

Doveri degli amministratori in caso di crisi

Gli amministratori di società hanno un dovere legale preciso di attivarsi senza indugio quando la società entra in uno stato di crisi. Questo dovere di diligenza è stato reso ancora più stringente dal Codice della Crisi e dalle riforme correlate. In particolare:

  • Divieto di aggravare il dissesto: se l’impresa è già in crisi conclamata o insolvente, gli amministratori devono astenersi dal compiere operazioni che possano aggravare il dissesto. Continuare ad accumulare debiti sapendo di non poterli onorare, o dissipare risorse residue in tentativi disperati, può esporre gli amministratori a responsabilità civili (verso i creditori per mala gestio) e persino penali (bancarotta preferenziale o fraudolenta) se poi si arriva alla liquidazione giudiziale. Agire tempestivamente invece può ridurre queste responsabilità.
  • Convocare l’assemblea per perdita del capitale: il Codice Civile già prevedeva che se le perdite riducono il capitale di oltre un terzo, o al di sotto del minimo legale, gli amministratori devono convocare l’assemblea dei soci per gli opportuni provvedimenti (ricapitalizzazione o scioglimento). In ottica di crisi, rispettare rigorosamente questi obblighi significa non nascondere la testa sotto la sabbia. Una perdita grave di capitale è spesso sintomo di crisi; l’assemblea potrebbe deliberare un aumento di capitale o altre azioni per risanare. Ignorare la perdita sperando in tempi migliori è inaccettabile e porta a conseguenze peggiori.
  • Valutare gli strumenti di composizione: il Codice della Crisi fornisce diversi strumenti (che tratteremo dopo) da attivare in caso di difficoltà: piani di risanamento, accordi di ristrutturazione, concordato preventivo, composizione negoziata, ecc. È dovere degli amministratori, anche sulla base dei consigli dei professionisti, valutare quale di questi strumenti sia opportuno attivare. L’inazione è la scelta peggiore. Persino la scelta di richiedere una liquidazione giudiziale immediata (dichiarare il proprio fallimento) può essere considerata più diligente, in casi estremi, rispetto al lasciar andare l’azienda alla deriva accumulando danni per i creditori.
  • Documentare le decisioni: è importante che l’organo amministrativo documenti, tramite verbali e relazioni, le analisi compiute e le decisioni prese per fronteggiare la crisi. Questo non solo per buona governance, ma anche perché in futuro, se le cose andassero male, tali documenti potranno dimostrare che gli amministratori hanno agito con tempestività e cognizione, proteggendoli da accuse di inattività colposa. Ad esempio, verbalizzare che in data X si è deliberato di incaricare un advisor e predisporre un piano di ristrutturazione mostra che non si è stati fermi.

In sintesi: la legge oggi pretende dall’imprenditore e dai suoi amministratori un atteggiamento proattivo di fronte alla crisi. La tempestività è l’elemento chiave. Muoversi in anticipo spesso consente di attivare soluzioni meno drastiche, preservare il valore aziendale e mantenere la fiducia di creditori e stakeholders. Al contrario, aspettare che i problemi diventino ingestibili porta l’impresa in un vicolo cieco in cui le uniche opzioni sono le più dolorose (liquidazione fallimentare). Nelle sezioni seguenti vedremo come concretamente un avvocato esperto di crisi d’impresa può guidare l’imprenditore attraverso le varie fasi e strumenti per risolvere la crisi.

Il ruolo dell’avvocato nella gestione della crisi d’impresa

Affrontare una crisi aziendale richiede un approccio multidisciplinare: competenze finanziarie, gestionali e legali devono integrarsi. In questo contesto, l’avvocato riveste un ruolo fondamentale come consulente strategico-legale dell’imprenditore. Un avvocato esperto in crisi d’impresa (spesso definito anche esperto in ristrutturazioni aziendali o restructuring) assiste l’azienda nel navigare tra obblighi normativi, negoziazioni complesse con i creditori e procedure giudiziali o stragiudiziali. Vediamo in concreto quali compiti svolge l’avvocato e perché la sua presenza è determinante in ciascuna fase della gestione della crisi.

  • Analisi legale della situazione: Sin dai primi segnali di crisi, l’avvocato aiuta a fotografare la situazione giuridica dell’impresa. Ciò include la verifica dei contratti in essere (ad esempio clausole di covenant bancari che potrebbero essere state violate, penali contrattuali in caso di ritardi nelle forniture, ecc.), l’analisi di eventuali contenziosi pendenti o decreti ingiuntivi avviati dai creditori, lo stato degli adempimenti fiscali e contributivi, e in generale la mappatura di tutti i debiti e creditori. Questa analisi legale preliminare si affianca a quella economico-finanziaria svolta con il supporto di un commercialista o di un esperto finanziario. L’avvocato, grazie alla sua esperienza, può individuare i punti critici: ad esempio, se un creditore ha già titolo esecutivo potrebbe a breve pignorare i conti; oppure se vi sono garanzie personali (fideiussioni dei soci) occorrerà considerare le implicazioni anche per il patrimonio personale dell’imprenditore. In questa fase l’avvocato verifica anche se sussistono i presupposti formali per accedere a specifici strumenti (ad esempio, definisce se l’azienda è in “stato di crisi” o già “insolvente” ai sensi di legge, valutazione che condizionerà la scelta della procedura da adottare).
  • Consulenza strategica e scelta dello strumento di risanamento: Una volta compresa la situazione, l’avvocato, in collaborazione con l’imprenditore e altri consulenti (commercialisti, consulenti del lavoro, advisor aziendali), delinea le possibili strategie di risanamento o composizione. Questo è un momento cruciale in cui l’esperienza del legale fa la differenza: occorre scegliere lo strumento giuridico più adatto al caso concreto. Ad esempio, se la crisi sembra superabile con pochi aggiustamenti e l’accordo di un numero limitato di creditori, potrebbe bastare un piano attestato di risanamento (strumento privatistico). Se invece serve coinvolgere molti creditori in un accordo vincolante, un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato dal tribunale potrebbe essere la via. Se l’azienda è già insolvente ma esistono prospettive di salvare l’attività, si opterà per un concordato preventivo (magari in continuità aziendale). L’avvocato spiega all’imprenditore i pro e contro di ciascuna opzione: durata, costi, obblighi di pubblicità (alcune procedure diventano pubbliche e possono intaccare la reputazione), effetti sugli eventuali procedimenti esecutivi in corso, implicazioni sui contratti e sui dipendenti, ecc. Inoltre, si considera la tempistica: c’è urgenza immediata di bloccare i creditori? In tal caso bisogna attivare subito misure protettive (stay) che alcuni strumenti offrono. Al contrario, se c’è margine di qualche mese, si può tentare prima una soluzione stragiudiziale (come la composizione negoziata). L’avvocato aiuta a formulare un piano d’azione, spesso sotto forma di cronoprogramma: ad esempio, “entro 1 mese predisponiamo un piano di risanamento e cerchiamo l’accordo con le banche; se entro 3 mesi non funziona, depositiamo una domanda di concordato preventivo in bianco per bloccare le azioni esecutive”. Questa pianificazione strategica è fatta su misura della singola impresa in crisi.
  • Gestione delle trattative con i creditori: L’avvocato è spesso il negoziatore capo quando si tratta di confrontarsi con banche, fornitori, fisco e altri creditori. Forte della delega ricevuta dall’imprenditore, il legale può dialogare con i legali delle controparti o con i responsabili crediti delle banche, presentando proposte di ristrutturazione del debito. In queste trattative l’avvocato assicura che le proposte siano formulate in modo legalmente valido e sostenibile. Ad esempio, se propone alle banche una moratoria dei pagamenti o un haircut (taglio) del credito, deve farlo sapendo come poi quell’accordo potrà essere formalizzato (con un contratto o come parte di un accordo ex art.57 CCII). L’avvocato inoltre cura che nelle fasi di negoziazione non vengano pregiudicati i diritti dell’impresa: ad esempio, evita ammissioni di insolvenza che potrebbero essere usate contro l’azienda in un’istanza di fallimento, mantiene la riservatezza delle informazioni sensibili condivise (facendo sottoscrivere accordi di riservatezza se necessario), e gestisce eventuali tensioni legali (se un creditore minaccia azioni legali, l’avvocato può evidenziare che una soluzione concordata conviene a tutti, poiché in caso di fallimento quel creditore rischierebbe di recuperare meno). Se l’impresa aderisce alla composizione negoziata con l’ausilio di un esperto indipendente, l’avvocato collabora strettamente con l’esperto per formulare proposte ai creditori e per mettere in atto i passi formali (come la richiesta al tribunale di misure protettive, che l’avvocato redige e presenta).
  • Redazione del piano e della documentazione legale: Qualunque sia lo strumento scelto (piano di risanamento, accordo, concordato, ecc.), sarà necessario predisporre documenti complessi. L’avvocato si occupa di redigere o supervisionare l’aspetto legale di tali documenti. Nel caso di un piano attestato di risanamento, collaborerà con l’esperto attestatore e il team aziendale per mettere per iscritto il piano operativo di risanamento, verificando che sia chiaro l’impegno dei vari creditori coinvolti (e predisponendo gli accordi da far sottoscrivere loro). Nel caso di un accordo di ristrutturazione dei debiti, l’avvocato redigerà il testo dell’accordo, che spesso è un contratto articolato in cui l’azienda assume obblighi (pagare certe percentuali ai creditori, magari in certe tempistiche) e i creditori aderiscono rinunciando a parte dei loro crediti o accettando dilazioni. Questo accordo dovrà poi essere omologato dal tribunale, quindi il legale lo scrive già pensando ai requisiti di legge (ad esempio includendo le classi di creditori o altre clausole richieste dalla normativa). Nel concordato preventivo, la documentazione è ancora più complessa: serve un piano concordatario dettagliato, corredato dalla relazione di un professionista attestatore sulla fattibilità, un elenco di tutti i creditori suddivisi eventualmente in classi, una relazione degli amministratori sulla causa della crisi e sulla proposta, ecc. L’avvocato è regista di questa fase documentale, assicurando che ogni elemento richiesto dal Codice sia presente e che i documenti siano depositati nei formati e nei termini previsti. Errori o omissioni documentali possono portare all’inammissibilità della domanda, per cui la precisione del legale è vitale.
  • Gestione delle procedure giudiziali: Se si intraprende una procedura concorsuale (accordo di ristrutturazione in tribunale, concordato preventivo, liquidazione giudiziale, ecc.), l’avvocato rappresenta e assiste l’impresa in ogni fase davanti al tribunale. Nei procedimenti di omologazione (accordi e concordati), l’avvocato partecipa alle udienze, interloquisce con il commissario giudiziale (figura nominata dal tribunale per vigilare sull’azienda durante il concordato) e risponde alle eventuali opposizioni dei creditori. Ad esempio, se alcuni creditori si oppongono all’omologa di un accordo o di un concordato sostenendo che la proposta non li soddisfa adeguatamente, l’avvocato prepara le controdeduzioni per dimostrare che invece il piano rispetta i requisiti di legge (ad esempio offrendo ai dissenzienti non meno di quanto otterrebbero in caso di liquidazione giudiziale). Nel caso del concordato preventivo, c’è la fase di voto dei creditori: l’avvocato assiste l’azienda nel presentare il piano ai creditori, spesso in una adunanza convocata dal giudice, e nel raccogliere le adesioni. Si occupa anche di verificare la regolarità delle espressioni di voto, contestando eventuali voti negativi se ritiene che il credito di quel votante fosse contestato o non avente diritto. In caso di concordato semplificato (di cui diremo a breve), l’avvocato presenta la proposta al tribunale e argomenta sulla convenienza del piano rispetto al fallimento, poiché in assenza di voto dei creditori è il giudice a valutare questo aspetto. Durante tutta la procedura, l’avvocato è il punto di riferimento per interfacciarsi con gli organi della procedura (giudice, commissario, eventuale liquidatore) e per tutelare gli interessi dell’imprenditore nel rispetto delle norme.
  • Esecuzione del piano e follow-up: Ottenuta l’omologazione di un accordo o l’omologa del concordato, oppure sottoscritto un accordo stragiudiziale, il ruolo dell’avvocato non termina. Bisogna dare attuazione a quanto previsto. L’avvocato può assistere l’impresa nella fase di esecuzione del piano di risanamento: ad esempio predisponendo transazioni con singoli creditori secondo i termini concordati, monitorando che l’azienda rispetti le scadenze dei pagamenti concordati e che i creditori facciano la loro parte (ad esempio, se l’accordo prevede la rinuncia ad ipoteche o garanzie, verificando che i creditori le formalizzino). Nel concordato preventivo, dopo l’omologa il tribunale nomina un liquidatore giudiziale se si tratta di un concordato liquidatorio (ossia finalizzato a cedere i beni): l’avvocato continuerà a consigliare l’imprenditore sulle interazioni con il liquidatore e magari a gestire questioni residuali (ad esempio, se emergono crediti contestati, o se serve chiarire il trattamento di qualche posizione). Nel concordato in continuità, l’impresa prosegue l’attività sotto la vigilanza di un commissario fino a soddisfazione dei creditori secondo il piano: l’avvocato collabora perché eventuali modifiche o assestamenti del piano vengano autorizzati dal tribunale (a volte i piani pluriennali necessitano di aggiustamenti, e serve un legale per presentarli all’autorità). Se invece si giunge alla liquidazione giudiziale (fallimento), l’avvocato può assistere gli organi sociali durante la procedura: ad esempio, aiutare gli ex amministratori a preparare l’inventario o a rispondere alle domande del curatore, e soprattutto difendere gli amministratori nel caso di azioni di responsabilità o istanze di bancarotta. Infatti, se la crisi sfocia in fallimento, spesso i curatori valutano se ci sono state colpe degli amministratori: avere avuto accanto un avvocato lungo tutto il percorso, che ha consigliato azioni tempestive e corrette, mette l’imprenditore in una posizione molto migliore per dimostrare di aver fatto tutto il possibile.
  • Coordinamento con gli altri professionisti: La crisi d’impresa richiede un lavoro di squadra. L’avvocato di solito coordina le proprie azioni con quelle del commercialista o consulente finanziario che elabora i numeri del piano di risanamento. Ad esempio, se il commercialista propone di tagliare certi costi o di dilazionare certi debiti, l’avvocato valuta come tradurre ciò in accordi legali vincolanti. Viceversa, se l’avvocato vede che legalmente sarebbe possibile “forzare” un accordo sui creditori dissenzienti (come nel caso del cram-down fiscale di cui parleremo), lo segnala al consulente finanziario così da tenere duro su certe proposte senza cedere a tutte le richieste dei creditori. L’avvocato inoltre dialoga eventualmente con esperti del lavoro (se la crisi implica esuberi di personale, vanno seguite procedure di legge), con consulenti del settore (per capire se vendere rami d’azienda può essere un’opzione, e come contrattualizzarla) e con eventuali investitori interessati a rilevare o finanziare l’azienda (predisponendo le due diligence e i contratti di ingresso di nuovi soci/investitori). In sintesi il legale funge da regista che garantisce la coerenza legale di tutte le azioni intraprese nel progetto di risanamento.

Perché rivolgersi a un avvocato esperto: Un imprenditore in difficoltà potrebbe essere tentato di “fare da sé” per risparmiare costi professionali, ma è una mossa pericolosa. Le normative della crisi sono tecniche e in continua evoluzione; gli errori possono compromettere irrimediabilmente un possibile salvataggio. Ad esempio, presentare in ritardo una domanda di concordato o con documenti incompleti può portare al suo rigetto e aprire la strada immediatamente al fallimento richiesto dai creditori. Oppure, condurre trattative senza conoscere le norme espone al rischio di compiere atti poi impugnabili (pagare un creditore e non altri poco prima di un fallimento espone al rischio di azioni revocatorie o persino penali per preferenze). Un avvocato specializzato, aggiornato alle ultime riforme (come il Correttivo ter del 2024 appena entrato in vigore), sa quali strumenti sono effettivamente applicabili e come massimizzare le chances di successo. Inoltre, avendo gestito magari decine di crisi, può portare esperienza pratica: conosce l’orientamento dei tribunali, sa anticipare le mosse dei creditori più aggressivi, e sa anche dare un supporto mentale all’imprenditore che spesso vive momenti di forte stress e solitudine decisionale. In definitiva, l’avvocato in una crisi d’impresa è contemporaneamente consigliere, negoziatore e rappresentante legale: un alleato indispensabile per attraversare la tempesta con maggiori probabilità di salvare la nave.

Fasi della consulenza legale e strategica nella crisi d’impresa

Affrontare una crisi richiede un percorso strutturato, suddiviso in fasi successive, ognuna con obiettivi precisi. In questa sezione delineiamo le tipiche fasi di una consulenza legale-strategica per la gestione della crisi d’impresa, dal primo check-up fino all’eventuale esecuzione di un piano di risanamento o, in extrema ratio, alla liquidazione. Comprendere queste fasi aiuta l’imprenditore a orientarsi e a sapere cosa aspettarsi, passo dopo passo. Ogni fase è illustrata con esempi pratici per renderne chiaro il contenuto.

1. Analisi preliminare della situazione di crisi

Obiettivo: ottenere una diagnosi accurata e completa della situazione attuale dell’azienda, sia dal punto di vista economico-finanziario che legale.

Questa fase iniziale equivale a fare una radiografia dello stato di salute dell’impresa. In pratica, l’imprenditore insieme ai consulenti (commercialista e avvocato in primis) raccoglie e analizza tutte le informazioni rilevanti: bilanci degli ultimi anni, situazione di cassa, elenco dei debiti suddivisi per tipologia (banche, fornitori, fisco, leasing, ecc.), elenco dei crediti da incassare, impegni futuri (ordini in portafoglio, contratti in corso), eventuali procedure legali in atto (cause, decreti ingiuntivi, ipoteche o pignoramenti già notificati).

Dal lato economico-finanziario, si cerca di capire l’entità del disequilibrio: quanti debiti scaduti o in scadenza a breve non sono sostenibili con la liquidità corrente? Qual è il cash burn rate (tasso di consumo di cassa) mensile se nulla cambia? Ci sono asset vendibili o non strategici che potrebbero generare liquidità? L’attività core dell’azienda è ancora profittevole oppure genera perdite operative? Si costruiscono scenari: ad esempio, se l’azienda ottenesse una dilazione dei debiti fiscale e un nuovo fido dalla banca, tornerebbe in equilibrio? Oppure necessita di un taglio permanente del debito perché il debito accumulato è troppo grande rispetto ai flussi di cassa futuri?

Dal lato legale, come accennato nel capitolo precedente, l’avvocato verifica i contratti e le posizioni potenzialmente critiche: se, ad esempio, alcuni fornitori hanno contratti che permettono la risoluzione automatica in caso di mancato pagamento, c’è il rischio che interrompano le forniture; se ci sono garanzie personali, l’imprenditore potrebbe vedersi aggredire il patrimonio personale; se l’azienda fa parte di un gruppo, bisogna valutare interazioni con società controllate o collegate (che magari condividono fideiussioni incrociate).

Un aspetto cruciale è determinare lo “stato” dell’azienda: è in semplice situazione di crisi o è già insolvente? Questo determina l’urgenza e quali strade sono percorribili. Ad esempio, se l’azienda è insolvente (non paga più sistematicamente i debiti, i fornitori sono fermi in attesa di pagamenti, le banche hanno revocato i fidi), aspettare troppo a presentare una domanda di concordato o ad avviare trattative può far scattare istanze di fallimento da parte dei creditori. Se invece c’è ancora un po’ di ossigeno finanziario, si può agire in modo più ordinato e meditato. A volte questa valutazione la si fa anche con l’aiuto di indici predisposti dal Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti (indici di allerta), ma in pratica l’esperienza congiunta del consulente finanziario e dell’avvocato porta a capire abbastanza presto la gravità.

Al termine di questa fase, idealmente, si redige una sorta di rapporto diagnostico. Può essere un documento interno in cui si mette nero su bianco: l’ammontare esatto del deficit (ad esempio “Debiti a breve eccedenti le liquidità per 2 milioni di euro”), le cause principali che hanno portato alla crisi (es. calo vendite per perdita cliente chiave, aumento costi materie prime, eccessivo leverage finanziario accumulato per investimenti non redditizi, ecc.), e una prima ipotesi se la crisi appare reversibile (cioè se l’azienda, riducendo i costi o rinegoziando il debito, può tornare a generare utili) oppure irreversibile (attività strutturalmente non profittevole, mercato non più favorevole). Questa onesta fotografia aiuta poi a scegliere la strategia.

Esempio pratico: La società Alfa S.p.A., produttrice di componenti meccanici, ha visto un calo del fatturato del 30% nell’ultimo anno a causa della perdita di un importante cliente e dell’aumento del costo dell’acciaio. Nonostante ciò, ha mantenuto lo stesso livello di spese generali e personale. Ora si trova con 5 milioni di debiti verso banche e fornitori, di cui 1 milione già scaduto. I consulenti analizzano i bilanci e scoprono che Alfa ha un margine lordo ancora positivo sulle vendite attuali, ma le spese fisse erodono il margine causando perdite. Legalmente, notano che alcuni fornitori hanno già inviato ingiunzioni di pagamento. Fortunatamente Alfa ha anche 2 milioni di crediti verso clienti (incassi attesi). Diagnosi: crisi seria ma potenzialmente reversibile se si ristrutturano i debiti e si riducono i costi. Insolvenza non ancora conclamata (qualche debitore è in ritardo ma l’azienda sta ancora funzionando e incassa). Questo quadro, ben dettagliato, sarà la base per decidere come intervenire.

2. Pianificazione della strategia di risanamento

Obiettivo: definire un piano d’azione strategico, scegliendo quali strumenti e mosse attuare per risolvere la crisi, con un chiaro percorso e tempistiche.

In questa fase, i dati raccolti nell’analisi preliminare vengono utilizzati per progettare una strategia di uscita dalla crisi o di gestione dell’insolvenza. Si tratta di rispondere alla domanda: come possiamo raddrizzare la rotta? La risposta spesso combina interventi sul modello di business (riduzione costi, dismissione attività non redditizie, ricerca di nuova finanza, ecc.) con interventi giuridici sui debiti (taglio o dilazione del debito attraverso accordi, protezione dai creditori mentre si attuano i cambiamenti, ecc.).

Si valutano vari scenari, ad esempio:

  • Scenario A: risanamento in continuità – L’azienda ha prospettive di tornare redditizia una volta alleggerito il debito e i costi. Strategia: mantenere in vita l’attività. Come? Potrebbe essere sufficiente un accordo con le banche per ristrutturare i mutui (allungandone la durata) e con qualche fornitore per ottenere uno sconto a fronte di pagamento immediato di una parte del dovuto. L’avvocato qui potrebbe proporre un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato dal tribunale per avere efficacia verso tutti i principali creditori (specie se il 60% di loro è d’accordo). In parallelo, l’imprenditore si impegna a immettere liquidità personale o di soci, oppure a cedere un ramo d’azienda non strategico per fare cassa.
  • Scenario B: ristrutturazione con discontinuità – L’azienda può essere salvata solo attraverso un cambiamento radicale, ad esempio vendendo l’attività a un investitore più grande o trasferendo il business “pulito dai debiti” a una nuova società (NewCo). Strategia: utilizzare uno strumento concorsuale che consenta la discontinuità. Questo tipicamente è il concordato preventivo in continuità indiretta, dove l’azienda propone ai creditori di soddisfarli in parte grazie al prezzo ricavato dalla cessione dell’azienda (o di un ramo) a un nuovo soggetto che la proseguirà. L’avvocato pianifica quindi un concordato, trovando magari fin da subito un possibile acquirente (concordato con offerta concorrente).
  • Scenario C: liquidazione ordinata – La situazione è compromessa e non c’è modo di rendere di nuovo profittevole l’attività. In questo caso la strategia punta a liquidare i beni ottenendo però la massima soddisfazione possibile per i creditori e, se consentito, la liberazione dell’imprenditore dai debiti (esdebitazione). Qui si valuta se conviene avviare una liquidazione giudiziale (ex fallimento) il prima possibile per fermare l’emorragia, oppure se è preferibile un percorso concordato come il concordato preventivo liquidatorio (dove l’imprenditore mantiene inizialmente un maggior controllo, propone un piano di liquidazione magari più vantaggioso per i creditori, e poi un liquidatore nominato dal tribunale esegue le vendite). Un’altra opzione introdotta di recente, se preceduta da una composizione negoziata andata a vuoto, è il concordato semplificato (ne parleremo), che consente una liquidazione più rapida con proposta del debitore senza voto dei creditori.
  • Scenario D: soluzione stragiudiziale riservata – Se la crisi è ancora contenuta e c’è volontà di tutti i principali attori di trovare un accordo, si può tentare di restare fuori dalle aule di tribunale. Strategia: predisporre un piano attestato di risanamento, cioè un piano di risanamento con la certificazione di un esperto indipendente, e convincere individualmente ciascun creditore chiave ad aderire (ad esempio le banche a rinegoziare i debiti, i fornitori principali a non agire e ad accettare dilazioni). Questo scenario ha il vantaggio della riservatezza (niente iscrizioni presso il tribunale, se non eventualmente la pubblicazione volontaria del piano in registro imprese per benefici fiscali), ma richiede un elevato grado di fiducia reciproca tra l’imprenditore e i suoi creditori, oltre che una crisi non troppo estesa.

Per valutare quale scenario adottare, l’avvocato e il team considerano anche aspetti pratici:

  • Tempi: quanto rapidamente i creditori potrebbero agire forzosamente? Se ad esempio c’è un’asta immobiliare fissata a breve su un bene dell’azienda, occorre magari depositare una domanda di concordato per ottenere lo stay (sospensione) di quell’asta. Se invece non ci sono azioni esecutive imminenti, c’è spazio per negoziare qualche mese. La composizione negoziata ad esempio richiede tempi (la nomina dell’esperto, le trattative per qualche mese), quindi serve un minimo di stabilità nel frattempo.
  • Maggioranze e adesioni: se la stragrande maggioranza dei creditori appare collaborativa e ottimista sulla possibilità di risanamento, uno strumento negoziale (piano attestato o accordo ristrutturazione) può funzionare. Se invece molti creditori sono litigiosi o già sul piede di guerra, forse conviene un concordato preventivo, dove il consenso è ottenuto a maggioranza e i dissenzienti vengono comunque vincolati.
  • Costi e risorse disponibili: le procedure concorsuali hanno costi (spese legali, compenso del commissario e dell’attestatore, eventuale tribunale). Bisogna valutare se l’azienda ha cassa sufficiente per sostenerli. Ad esempio, un concordato richiede di pagare le spese di procedura in prededuzione (cioè prima dei creditori chirografari). Se l’azienda è priva di liquidità, potrebbe essere necessario che i soci apportino fondi freschi almeno per coprire i costi iniziali e alcune urgenze (ad esempio pagare fornitori strategici o stipendi per mantenere operativa l’attività durante il processo).
  • Impatto sul business: alcune procedure diventano pubbliche e possono spaventare clienti e fornitori. Ad esempio, l’apertura di un concordato preventivo viene iscritta nel Registro delle Imprese ed è di pubblico dominio; alcuni clienti potrebbero essere riluttanti a ordinare se sanno che il fornitore è “in concordato”. Viceversa, una composizione negoziata è riservata (non pubblica), almeno fino ad eventuali misure protettive richieste al tribunale. L’avvocato e l’imprenditore ponderano anche questo: se il business è molto sensibile alla reputazione (pensiamo ad esempio a un fornitore nel settore alimentare certificato, i clienti potrebbero essere preoccupati di interruzioni), forse meglio tentare prima una strada poco visibile.
  • Vincoli legali specifici: ci sono situazioni in cui la legge “impone” di fatto certe scelte. Ad esempio, se l’impresa è molto piccola e non raggiunge le soglie di fallibilità, non potrà accedere al concordato preventivo ma solo al concordato minore (procedura di sovraindebitamento) o alla composizione negoziata. Oppure, se tra i creditori c’è principalmente il Fisco e si vuole includerlo in un accordo, bisognerà considerare la transazione fiscale e le sue regole (il Fisco può aderire a piani di rientro e anche riduzioni, ma con condizioni particolari). Dal 2023-2024 la normativa ha introdotto la possibilità di cram-down fiscale (omologa forzosa nonostante il diniego del Fisco, in certi casi), quindi un avvocato aggiornato potrebbe dire: “Non preoccupiamoci se l’Agenzia delle Entrate non aderisce subito, possiamo proporre al giudice di omologare comunque l’accordo, purché diamo al Fisco almeno il valore di liquidazione e la sua adesione fosse determinante per la maggioranza”. Questo tipo di valutazioni influenza la scelta dello strumento (il cram-down fiscale è applicabile negli accordi di ristrutturazione e concordati, ma non esiste in un piano attestato puramente privato).

Dopo aver vagliato tutto ciò, si mette a punto un piano strategico vero e proprio. Questo può essere formalizzato in un documento interno oppure semplicemente condiviso tra consulenti e imprenditore. Ad esempio: “Decidiamo di procedere così: attiviamo immediatamente la Composizione Negoziata nominando un esperto, per guadagnare tempo e tentare un accordo bonario con le banche (durata stimata 3-4 mesi). Contestualmente predisponiamo un piano di risanamento e individuiamo un investitore interessato a entrare. Se entro 4 mesi non troviamo accordo, siamo pronti a depositare un concordato preventivo in continuità con l’offerta dell’investitore per salvare l’azienda e pagare i creditori in percentuale.” Ogni passaggio avrà dei responsabili (ad esempio il commercialista prepara il piano economico, l’avvocato prepara la domanda di composizione negoziata, l’advisor cerca investitori) e delle scadenze.

Esempio pratico: Riprendiamo la società Alfa dell’esempio prima. Dall’analisi è emerso che Alfa è potenzialmente redditizia se riduce i costi e rifinanzia il debito. Strategia scelta: risanamento in continuità, senza discontinuità. L’avvocato suggerisce di utilizzare un Accordo di Ristrutturazione dei Debiti omologato (per gestire banche e fornitori), accompagnato da un aumento di capitale dei soci e dalla dilazione del debito fiscale tramite transazione fiscale. Pianificazione: prima di tutto, Alfa approccerà le sue tre banche principali proponendo una bozza di accordo: estensione dei mutui da 5 a 10 anni e conversione di parte degli interessi in capitale sociale (le banche diventano piccole socie). In parallelo, attiva la composizione negoziata per avere un esperto che aiuti a validare il piano e per ottenere la sospensione delle azioni esecutive (un fornitore ha già minacciato pignoramento). Si dà un termine di 3 mesi alle trattative. L’avvocato intanto inizia a redigere l’accordo e a predisporre la richiesta di omologa per il tribunale. Se le banche (che rappresentano il 70% del debito) aderiscono e anche i maggiori fornitori accettano un 20% di taglio sulle loro fatture in cambio di pagamento immediato del resto, allora l’accordo avrà raggiunto la soglia del 60% e potrà essere omologato. Il piano prevede che i fornitori estranei vengano pagati integralmente nei 6 mesi successivi (così la legge richiede). I soci apporteranno 500.000 euro freschi da utilizzare in parte per i pagamenti iniziali. Viene anche deciso di mettere in vendita un immobile non strumentale di proprietà per ricavare liquidità aggiuntiva. Tutto questo è messo in un cronoprogramma concordato: composizione negoziata subito, accordo firmato entro 90 giorni, omologa entro altri 60 giorni. L’azienda comunica al personale che sta affrontando una ristrutturazione ma che l’obiettivo è salvaguardare l’attività e l’occupazione.

3. Negoziazione con i creditori e misure protettive

Obiettivo: interagire con i creditori per ottenere il loro supporto alla strategia di risanamento, gestendo al contempo la pressione delle loro azioni (ottenendo se possibile sospensioni o accordi-ponte).

Questa fase è quella operativa in cui si mettono in pratica le idee strategiche pianificate. In base allo scenario scelto, la negoziazione potrà assumere forme diverse: da incontri informali con singoli creditori, alla convocazione di tavoli con più parti, all’attivazione formale della procedura di Composizione Negoziata della crisi con la nomina di un esperto terzo.

  • Composizione Negoziata della Crisi: Introdotta nel 2021 e ora parte integrante del Codice, è uno strumento volontario e riservato in cui l’imprenditore, affiancato da un esperto nominato dalla Camera di Commercio, conduce trattative con i creditori per trovare una soluzione. È utile attivarla quando si vuole un contesto ordinato e protetto per negoziare. L’istanza si presenta via piattaforma telematica e, se ammessa, viene nominato un esperto indipendente (spesso un professionista iscritto in appositi elenchi). La procedura è confidenziale: non comporta un’immediata pubblicità. L’esperto esamina la situazione e convoca l’imprenditore e i creditori principali a incontri (anche separati o congiunti) per cercare un accordo. Durante la composizione negoziata, l’imprenditore rimane alla guida dell’azienda, ma deve rapportarsi lealmente con l’esperto e fornire tutte le informazioni richieste. Un vantaggio chiave: l’imprenditore può chiedere al tribunale misure protettive, ovvero una moratoria delle azioni esecutive dei creditori durante le trattative (solitamente per max 4 mesi, prorogabili di altri 4) se ciò è necessario per il buon esito delle negoziazioni. Ad esempio, può chiedere che nessun creditore possa pignorare i beni o depositare istanza di fallimento nel frattempo. Queste misure protettive, se concesse, vengono pubblicate (quindi la riservatezza totale viene meno, ma l’azienda ottiene respiro). La composizione negoziata è risultata utile in molti casi per far sedere attorno a un tavolo le parti in conflitto con la guida di un soggetto imparziale. Come visto, è un percorso dedicato alle imprese in squilibrio che però hanno prospettive di risanamento, anche tramite cessione dell’azienda. Le statistiche mostrano che circa il 19% delle composizioni negoziate si chiude con un esito positivo (accordi o accesso a strumenti di regolazione) – non altissimo, ma non trascurabile – mentre il restante 81% termina senza accordo e l’azienda deve cercare altre soluzioni (concordato, liquidazione, ecc.). In ogni caso, tentare la composizione negoziata è segno di diligenza da parte dell’imprenditore e può evitare colpe per ritardo. Esempio in negoziazione: l’esperto potrebbe proporre a una banca di accordare nuovi fidi di emergenza con garanzia prededucibile, oppure convincere i soci ad accettare un piano di sacrifici condivisi dove tutti rinunciano a qualcosa (banche a parte degli interessi, fornitori a un percentuale del credito, l’imprenditore a parte delle proprie quote cedendole a un nuovo investitore).
  • Trattative stragiudiziali dirette: In altri casi, si preferisce negoziare direttamente senza attivare la composizione negoziata. L’avvocato organizza incontri bilaterali con ciascun creditore o con gruppi omogenei. Ad esempio, convoca tutte le banche finanziatrici in un meeting (spesso in presenza di un advisor finanziario che presenta il piano di risanamento numerico) e discute le possibili opzioni: “Banca X, saresti disposta a trasformare il tuo fido scoperto in un mutuo a 5 anni? Banca Y, puoi concedere 2 anni di solo interesse senza rimborso capitale sul leasing?”. Allo stesso modo incontra i fornitori critici: “Se vi paghiamo il 50% del dovuto entro 6 mesi, accettate di stralciare il restante 50%? Qual è il minimo che vi serve per continuare a fornire materiali?”. Queste negoziazioni possono essere delicate; a volte conviene stipulare accordi temporanei (detti standstill): i creditori accettano di congelare le loro pretese per un certo periodo (nessuna azione legale, nessun incasso oltre magari a piccoli pagamenti concordati) mentre si lavora al piano definitivo. L’avvocato formalizza questi standstill in accordi scritti.
  • Utilizzo di accordi-ponte: durante le negoziazioni, può emergere la necessità di interventi immediati. Ad esempio, l’azienda ha urgente bisogno di liquidità per comprare materie prime altrimenti la produzione si ferma. Una banca potrebbe concedere un piccolo nuovo finanziamento a breve termine prededucibile (cioè che sarà rimborsato prima degli altri debiti se poi la questione va in tribunale, come previsto dal CCII per i finanziamenti autorizzati). L’avvocato richiede al tribunale l’autorizzazione a contrarre questo finanziamento, magari nell’ambito di un accordo di ristrutturazione in corso di definizione. Oppure, se il fisco sta per iscrivere ipoteca sugli immobili per tasse non pagate, l’avvocato può intavolare con l’Agenzia delle Entrate una transazione fiscale provvisoria offrendosi di versare subito la parte corrente delle imposte se l’ente sospende le azioni coercitive in attesa del piano generale.
  • Comunicazione e trasparenza controllata: un elemento spesso sottovalutato è come comunicare la situazione ai vari stakeholder. In negoziazione, l’avvocato aiuta l’imprenditore a calibrare le informazioni. Bisogna essere sufficientemente trasparenti con i creditori da convincerli ad aderire (devono capire la gravità, ma anche vedere la prospettiva di soluzione), ma senza generare panico. Ad esempio, con i fornitori strategici si può condividere il piano di rilancio, mostrando i numeri attestati dal professionista indipendente, così che capiscano che accettare uno stralcio del 30% è meglio che rischiare un fallimento e recuperare magari solo il 10%. Con le banche, si forniscono business plan dettagliati e perizia di un esperto per dimostrare che l’azienda risanata può stare sul mercato e ripagare i nuovi termini del debito. La presenza di un esperto attestatore è preziosa: quell’attestazione di veridicità e fattibilità del piano dà fiducia ai creditori (non sono solo parole dell’imprenditore interessato, ma c’è un terzo che certifica i numeri).

Durante la negoziazione, gli avvocati prestano attenzione anche a non creare disparità tra creditori che potrebbero invalidare successivi accordi. Ad esempio, evitare di pagare sotto banco un creditore lasciando a bocca asciutta altri, perché se poi la cosa finisce in una procedura concorsuale, quel pagamento preferenziale potrebbe essere revocato dal curatore e minare la fiducia residua. Tutti i passi devono essere fatti tenendo conto dell’eventuale “giorno dopo”.

Esempio pratico: La società Beta S.r.l., in crisi di liquidità, avvia trattative dirette coi suoi 5 maggiori fornitori, che hanno fermato le consegne in attesa di pagamenti. Grazie alla mediazione dell’avvocato, Beta raggiunge con tutti e 5 un accordo: pagherà il 30% del debito arretrato subito (utilizzando un fido bancario ottenuto con garanzia del Fondo PMI) e il restante 70% in 12 rate mensili, in cambio essi riprendono le forniture regolari. Questo accordo viene messo per iscritto e i fornitori si impegnano a non intraprendere azioni legali purché Beta rispetti i pagamenti concordati. Nel frattempo Beta contatta anche l’Agenzia delle Entrate per rateizzare l’IVA non versata dell’ultimo anno: l’Agenzia accetta un piano di dilazione in 24 mesi (con piccolo interesse) perché Beta dimostra di aver messo in sicurezza i fornitori e di poter proseguire l’attività. Nel giro di un mese quindi Beta stabilizza i rapporti cruciali. Resta la questione della banca: Beta ha un mutuo scaduto e insoluto. Qui l’avvocato consiglia di formalizzare il tutto con un accordo di ristrutturazione: include nell’accordo anche la banca offrendo questa manovra – fornitori sono d’accordo, Fisco pure – e chiede al tribunale di omologare l’accordo dando efficacia anche se mancasse qualche piccolo creditore. Alla fine la banca aderisce spontaneamente vedendo che tutti gli altri hanno trovato un’intesa e che Beta può ripartire.

4. Accesso agli strumenti legali (procedure di regolazione della crisi)

Obiettivo: formalizzare giuridicamente la soluzione individuata, depositando presso il tribunale l’eventuale procedura concorsuale scelta (concordato preventivo, omologazione di accordo, ecc.), oppure – se la via stragiudiziale è riuscita – finalizzare gli accordi privati con i creditori.

Questa fase può essere vista come la “messa a terra” ufficiale del piano di risanamento. A seconda del percorso intrapreso, ci sono due situazioni principali:

  1. Soluzione stragiudiziale raggiunta: in tal caso non serve il deposito di una procedura concorsuale. Tuttavia, spesso si rende comunque opportuno dare una forma legale vincolante agli accordi. Ad esempio, se i creditori hanno accettato un piano attestato di risanamento, l’avvocato curerà che tutti firmino gli accordi individuali derivanti dal piano (es. scritture private in cui ognuno accetta la nuova scadenza o la riduzione del credito). Potrebbe anche depositare (su base volontaria) il piano e l’attestazione al Registro delle Imprese per ufficializzarne la data certa e usufruire dei vantaggi di legge (esenzione da revocatoria, tassazione attenuata delle eventuali rinunce dei creditori). Da quel momento l’esecuzione passa allo stadio successivo (vedi fase 5). L’accesso agli strumenti legali qui è “indiretto” perché non c’è un giudice coinvolto, ma comunque vengono applicate norme (ad esempio l’art. 56 CCII per il piano attestato).
  2. Soluzione concorsuale (giudiziale) necessaria: se invece il risanamento passa per uno strumento che richiede l’intervento del tribunale, in questa fase si presenta la domanda relativa e si segue l’iter previsto. I principali casi sono:
    • Domanda di omologazione di accordo di ristrutturazione dei debiti: l’imprenditore, tramite l’avvocato, deposita in tribunale l’accordo sottoscritto con i creditori che rappresentano almeno il 60% dei debiti (o il 30% se si tratta di accordo agevolato, oppure con le altre varianti), accompagnandolo con il piano e l’attestazione di un professionista sulla sua idoneità a assicurare l’integrale pagamento dei creditori estranei. Si chiede al giudice di omologare (confermare) l’accordo, rendendolo efficace anche nei confronti dei creditori che non hanno firmato (purché siano stati comunque pagati integralmente, come da legge, o siano di categorie omogenee soggette ad efficacia estesa se ricorrono le condizioni). Il tribunale fissa un’udienza; nel frattempo, su richiesta, può concedere misure protettive per impedire azioni esecutive (simili a quelle nel concordato). Se nessuno si oppone, o se le opposizioni vengono respinte, l’accordo viene omologato con decreto e diventa definitivo. Da quel momento l’accordo è legalmente vincolante. Questa procedura è più snella del concordato perché non prevede voto di tutti i creditori, ma solo l’adesione qualificata preventiva.
    • Ricorso per concordato preventivo: l’imprenditore deposita la domanda di concordato presso il tribunale competente, allegando il piano dettagliato, la proposta ai creditori, i documenti contabili obbligatori e la relazione attestativa di un professionista indipendente (attestatore) che certifichi la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano. A differenza dell’accordo, qui tutti i creditori chirografari (e anche i privilegiati per l’eventuale parte non coperta dal loro privilegio) parteciperanno al voto sulla proposta. Dopo il deposito, il tribunale verifica l’ammissibilità formale (requisiti di legge, percentuali minime eventualmente richieste per i concordati liquidatori, etc.). Se ammette il concordato, nomina un commissario giudiziale e fissa l’adunanza dei creditori per il voto (di solito entro 4-6 mesi). Nel frattempo concede le misure protettive: nessuno può iniziare o proseguire azioni di recupero crediti o cause esecutive contro l’azienda. L’azienda prosegue l’attività sotto la vigilanza del commissario (in continuità l’imprenditore resta al timone ma ogni atto fuori ordinaria amministrazione richiede autorizzazione; in caso di concordato meramente liquidatorio può essere nominato fin da subito un liquidatore giudiziale). All’adunanza dei creditori, il piano viene illustrato (spesso dall’imprenditore con l’assistenza dell’avvocato e del commissario) e si apre la votazione: ogni creditore vota sì o no (anche per corrispondenza in molti casi). La regola di maggioranza: il concordato è approvato se ottiene il voto favorevole di creditori che rappresentino la maggioranza dei crediti ammessi al voto. Nel caso ci siano classi di creditori, serve la maggioranza in ogni classe, salvo la possibilità di cram-down interclassi se previsto (il CCII consente l’omologazione anche in mancanza di adesione di una classe dissenziente, a certe condizioni, recependo la Direttiva UE). Dopo il voto, se è approvato, il tribunale procede all’omologa: tiene conto di eventuali opposizioni di creditori dissenzienti (che possono lamentare ad esempio che il piano li tratti peggio della liquidazione giudiziale, o violi priorità). Se tutto è regolare, emette decreto di omologazione. Da quel momento il concordato è vincolante per tutti i creditori anteriori. Nel caso di concordato liquidatorio, il decreto di omologa nomina un liquidatore giudiziale che eseguirà le vendite dei beni e distribuirà i proventi. Nel concordato in continuità, l’imprenditore rimane a condurre l’azienda e attua il piano di pagamento sotto la vigilanza del commissario (che a quel punto spesso diventa commissario per l’esecuzione). – Variante: Concordato “in bianco” o con riserva: se c’è necessità di protezione immediata e il piano non è ancora pronto, l’azienda può presentare un ricorso contenente la sola domanda di concordato riservandosi di depositare entro un certo termine il piano e i documenti (max 60-120 giorni). Questo dà subito lo stay e un po’ di tempo per finalizzare la proposta. L’avvocato cura di chiedere la concessione del termine massimo e magari di ottenere autorizzazioni urgenti a pagamento di fornitori essenziali nel frattempo. Va però considerato che se poi il piano non arriva o è inammissibile, il tribunale può dichiarare l’azienda fallita d’ufficio. Quindi è un’arma da usare solo se effettivamente si prevede di completare il piano nel termine.
    • Ricorso per concordato semplificato (post composizione negoziata): Questo è un caso particolare introdotto da poco. Se la composizione negoziata si è conclusa senza successo e non si è trovata altra soluzione, l’imprenditore entro 60 giorni dalla chiusura delle trattative può presentare una proposta di concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio. In pratica è un concordato liquidatorio senza voto dei creditori: la proposta viene valutata direttamente dal tribunale ai fini dell’omologa, senza passare per un’adunanza di creditori. Ciò velocizza i tempi e supera l’ostacolo di dover ottenere consensi da creditori che magari in fase di trattativa non si sono accordati. Ovviamente, essendo “semplificato” dal lato del procedimento (niente voto), è richiesto un maggiore scrutinio da parte del giudice sulla convenienza per i creditori. Il tribunale nomina comunque un commissario giudiziale che esamina la proposta. All’udienza, i creditori possono esporre le loro contestazioni ma non c’è un voto formale; il giudice omologa il concordato solo se ritiene che quello che i creditori otterranno dal piano proposto sia non inferiore a quanto otterrebbero dalla liquidazione giudiziale e che la proposta sia eseguita correttamente. Ad esempio, se l’imprenditore propone di liquidare tutti i beni stimando di pagare il 25% ai chirografari, e il commissario verifica che in un fallimento ne prenderebbero forse 20%, il giudice può omologare anche se i creditori urlano contro. In caso di omologa, viene nominato un liquidatore giudiziale che procederà alla vendita dei beni come da piano. Il concordato semplificato è dunque un modo per evitare i costi e i tempi di un lungo fallimento, sfruttando il fatto che comunque c’è stato il tentativo di comp. negoziata prima. Tuttavia, come notato in alcuni casi pratici, i tribunali sono molto rigorosi nell’accettare queste proposte: se il piano è troppo incerto o sbilanciato, possono rigettarlo, e a quel punto l’azienda finisce comunque in liquidazione giudiziale. L’avvocato, nel proporre un concordato semplificato, dovrà quindi preparare una proposta estremamente trasparente e credibile, magari con vendite già individuate e valori quanto più sicuri possibile, per convincere il giudice.
    • Istanza di liquidazione giudiziale (fallimento): Questo è il caso estremo in cui l’imprenditore stesso richiede al tribunale la dichiarazione di fallimento della propria azienda (si chiama autofallimento). Di solito è l’ultima spiaggia quando si riconosce che ogni tentativo di risanamento è vano o è fallito, e la prosecuzione rischia solo di aggravare i danni. Paradossalmente, presentare istanza di fallimento spontanea può essere visto come un atto di responsabilità se l’insolvenza è conclamata: si evita di far perdere altro tempo e denaro ai creditori. In alcuni casi, l’autofallimento fa parte di un accordo con i creditori: ad esempio l’imprenditore può dire “mi dichiaro fallito ora, però ho individuato un acquirente che comprerà l’azienda dal fallimento a un prezzo tale da soddisfare in parte i creditori, e mi sono impegnato a collaborare col curatore, in cambio chiederò l’esdebitazione (cancellazione dei debiti residui)”. L’avvocato prepara il ricorso di liquidazione, che è abbastanza semplice (basta dimostrare lo stato di insolvenza). Dopo la sentenza dichiarativa, la procedura passa in mano al curatore e al giudice delegato (v. sezione successiva). L’avvocato in questo caso sposta il suo ruolo eventualmente a difensore dell’imprenditore nelle fasi successive (ad esempio, evita che vengano contestate irregolarità, assiste nelle audizioni col curatore, ecc.).

Durante tutta questa fase 4, l’avvocato è estremamente impegnato nel rispettare i termini legali e nel gestire tutte le comunicazioni necessarie. Ad esempio, se si deposita un concordato, entro un certo termine i creditori possono depositare le loro osservazioni od opposizioni; se c’è da notificare qualcosa (come la proposta di concordato ai creditori nella fase di omologa, specialmente nel caso di cram-down fiscale, la legge richiede notifiche specifiche), sarà cura dell’avvocato assicurarsi che sia fatto.

Esempio pratico: La società Gamma S.p.A., dopo trattative infruttuose con alcuni creditori ostili, decide di procedere con un concordato preventivo. L’avvocato deposita la domanda con riserva (“in bianco”) perché vuole bloccare subito un’asta su un immobile fissata la settimana successiva. Il tribunale concede il termine di 60 giorni e sospende l’asta. In quei 60 giorni, Gamma finalizza il piano: chiuderà lo stabilimento secondario e venderà quell’immobile (oggetto dell’asta) direttamente come concordato, userà il ricavato per pagare in parte i debiti e concentrerà la produzione nel sito principale. Il piano prevede il pagamento del 100% dei creditori privilegiati (banche con ipoteca, dipendenti, ecc.) e del 30% ai chirografari in 2 anni. Il commissario nominato verifica i numeri. I creditori votano: il 75% approva (alcuni fornitori erano arrabbiati ma quando hanno visto che l’alternativa, il fallimento, avrebbe dato forse il 10%, hanno votato sì). Un piccolo gruppo vota no e fa opposizione in omologa lamentando che il 30% è troppo poco. In udienza l’avvocato di Gamma dimostra, numeri alla mano, che in caso di fallimento i chirografari avrebbero preso circa il 15%, e porta un’attestazione integrativa di un esperto che conferma la convenienza. Il tribunale respinge le opposizioni e omologa il concordato. Viene nominato un liquidatore limitatamente alla vendita dell’immobile (come previsto nel piano), mentre l’azienda continua con la sua attività core sotto la supervisione del commissario. Gamma inizia così a operare “in concordato omologato” e nei due anni seguenti eseguirà i pagamenti promessi.

5. Attuazione del piano e monitoraggio finale

Obiettivo: dare esecuzione agli accordi o al piano concordatario e concludere la procedura di crisi, ripristinando la normale operatività dell’impresa (se salvata) oppure completando la liquidazione (se si è dovuti arrivare a quella).

Questa fase è quella conclusiva, ma non meno importante: molte crisi d’impresa falliscono non nella progettazione ma nella mancata esecuzione delle soluzioni previste. Un piano di risanamento non vale nulla se non viene realizzato nei fatti. Pertanto, è essenziale un attento monitoraggio e gestione anche dopo l’omologa di un concordato o la firma di un accordo.

  • Esecuzione di accordi stragiudiziali (piano attestato): Se l’azienda sta seguendo un piano attestato di risanamento, questa fase è “libera” da controlli giudiziari, ma non per questo semplice. L’impresa deve rispettare gli impegni presi con i creditori nei tempi convenuti. L’avvocato può assumere il ruolo di coordinatore dell’esecuzione: ad esempio, verifica che ai creditori sia stato pagato puntualmente quanto previsto dalle scadenze dell’accordo. Se l’accordo prevedeva la cessione di un immobile o la vendita di azioni, l’avvocato seguirà quegli atti (notai, contratti di vendita, etc.). Inoltre, grazie alle esenzioni previste dalla legge, eventuali atti compiuti in esecuzione del piano non potranno essere revocati in futuro e non costituiranno reato di bancarotta preferenziale; tuttavia, per sicurezza, è buona norma evitare di discostarsi da quanto scritto: se all’ultimo un creditore estraneo non viene pagato come promesso, quell’atto di preferenza ad altri potrebbe perdere la protezione. Dunque l’avvocato controlla la conformità dell’esecuzione al piano attestato.
  • Adempimento di un accordo di ristrutturazione omologato: In caso di accordo ex art.57 CCII omologato dal tribunale, la legge non prevede la nomina di un commissario: spetta all’azienda attuare l’accordo. Tuttavia, i creditori non dormono: se l’azienda non rispetta i patti (es. salta una rata concordata), l’accordo perde efficacia e i creditori possono di nuovo agire. Alcuni accordi includono clausole risolutive automatiche se l’impresa manca agli impegni. Quindi serve rigore. L’avvocato spesso rimane affianco all’impresa per un certo periodo, magari con un calendario dei pagamenti concordati e check mensili. Se sorge un imprevisto che impedisce temporaneamente di rispettare l’accordo, c’è la possibilità (prevista dal CCII) di chiedere una modifica o rinegoziazione dell’accordo in tribunale, ma bisogna farlo prima che scada un pagamento e previa attestazione che la modifica è necessaria e non peggiora la posizione dei creditori. Anche in questo un legale è necessario.
  • Esecuzione del concordato preventivo: Dopo l’omologa, se è un concordato con continuità, l’impresa prosegue la gestione ordinaria e straordinaria secondo quanto previsto dal piano. Il tribunale normalmente nomina il commissario giudiziale come commissario monitorante per l’esecuzione (o un altro professionista ad hoc). L’azienda periodicamente (es. ogni 6 mesi) deve rendicontare lo stato di avanzamento dei pagamenti ai creditori e dello svolgimento del piano. L’avvocato aiuta a preparare queste relazioni da inviare al commissario/giudice delegato. Se l’impresa incontra difficoltà ad attuare il piano (ad esempio vendite inferiori alle stime, quindi meno cassa per pagare le rate concordatarie), potrà valutare con l’avvocato e l’attestatore se proporre una modifica del piano (è ammesso richiedere modifiche in corso di esecuzione, ma serve l’approvazione dei creditori o almeno del tribunale a seconda dell’entità della modifica). Inoltre, dopo aver completato i pagamenti promessi (ad esempio, tutte le 8 rate semestrali ai creditori chirografari), l’azienda dovrà presentare istanza di chiusura del concordato. È un atto formale con cui il tribunale, verificato che il piano è stato adempiuto, dichiara chiuso il concordato. Da quel momento l’impresa è libera da vincoli e torna alla piena normalità giuridica (anche se di fatto se ha pagato tutti i debiti, sarà “rinata” finanziariamente). Se invece il concordato è liquidatorio, in realtà l’azienda di solito si estingue al termine: il liquidatore, una volta venduti i beni e distribuiti i fondi, presenta il rendiconto finale; i creditori possono contestare ma se tutto è regolare il giudice approva il rendiconto e dichiara chiuso il concordato, la società viene cancellata (se era società di capitali). L’avvocato magari aiuta il liquidatore nelle questioni legali (ad es. cause pendenti da definire, cessioni di crediti fiscali, etc.) e tutela eventualmente gli ex amministratori da questioni di responsabilità.
  • Liquidazione giudiziale (fallimento) in corso: Se alla fine l’impresa è stata posta in liquidazione giudiziale, l’esecuzione consiste nella vendita dell’attivo e distribuzione ai creditori secondo le regole. Qui l’imprenditore non ha più il controllo; il curatore fallimentare fa tutto. All’imprenditore (specie se ditta individuale o socio illimitatamente responsabile) spetterà eventualmente chiedere l’esdebitazione a chiusura del fallimento, cioè la cancellazione dei debiti rimasti insoddisfatti. Oggi il diritto all’esdebitazione è riconosciuto pressoché a tutti i debitori falliti onesti, incluse le società di persone e gli imprenditori individuali (non alle società di capitali che, cessando, non hanno bisogno di esdebitazione). L’avvocato può aiutare a presentare l’istanza di esdebitazione e a dimostrare i requisiti (aver cooperato con il curatore, non aver ritardato la procedura, ecc.). Nel caso di liquidazione controllata (procedura per i non fallibili), c’è un analogo istituto.
  • Casi particolari post-crisi: A volte, se l’impresa è stata salvata, si pone il tema di riorganizzare la governance per il futuro: l’avvocato può consigliare di modificare lo statuto per introdurre regole più prudenti, o di sostituire manager che hanno portato alla crisi. Oppure, se l’imprenditore ha perso l’azienda (perché venduta in concordato a terzi), potrebbe voler ripartire con una nuova iniziativa: dovrà stare attento a non incorrere in sanzioni come l’inibizione a intraprendere nuove imprese in caso di bancarotta fraudolenta (ma quello è se ci sono reati). Se tutto è stato fatto correttamente, l’imprenditore può voltare pagina, magari traendo insegnamento dall’esperienza.

Monitoraggio: Un suggerimento utile è prevedere sempre un periodo di tutoring dopo la chiusura formale della crisi. Ad esempio, l’azienda può continuare a farsi assistere trimestralmente dal consulente che l’ha aiutata, per assicurarsi che rimanga in carreggiata. Molte imprese che escono da un concordato sono indebolite e vanno seguite perché basta poco per ricadere in difficoltà. Il Codice della Crisi, nel promuovere la cultura dell’anticipazione, suggerisce all’impresa risanata di mantenere gli assetti adeguati e magari potenziali (ad esempio istituendo un controller interno, o un advisor periodico) per non rifare errori.

Esempio pratico: La società Delta S.r.l. ha completato il suo accordo di ristrutturazione omologato: ha pagato puntualmente tutte le 24 rate mensili dovute ai creditori finanziari e ai fornitori che avevano aderito. L’avvocato di Delta deposita un breve ricorso al tribunale riferendo l’avvenuto adempimento integrale dell’accordo e chiede la dichiarazione di adempimento. Il tribunale la emette, mettendo la parola fine alla procedura concorsuale. Delta ora è un’azienda libera dai debiti pregressi (o li ha ridotti a quanto pagato). Nell’anno successivo, però, il mercato non si riprende come sperato e Delta rischia di tornare in affanno. Stavolta però l’imprenditore, scottato dall’esperienza, attiva subito il suo advisor per rinegoziare per tempo alcuni contratti di fornitura e ridurre costi, evitando di accumulare nuovi debiti. In sostanza, ha imparato a gestire l’azienda in modo prudente, tenendo d’occhio quegli stessi indicatori di allerta e con riunioni periodiche con il suo commercialista e avvocato per accertarsi di non deviare di nuovo verso la crisi.

Con questa fase di esecuzione si conclude il percorso di gestione della crisi. Idealmente, l’impresa esce dalla crisi risanata, più snella e con una struttura finanziaria sostenibile, pronta a proseguire l’attività. In altri casi, l’impresa può cessare di esistere (perché liquidata), ma almeno la crisi è stata gestita in modo ordinato, limitando i danni a creditori e dipendenti e permettendo all’imprenditore di ripartire senza il fardello dei debiti (dopo l’esdebitazione). In ogni scenario, l’importante è aver agito in modo consapevole e tempestivo, come rimarchiamo nella sezione finale di consigli pratici.

Strumenti giuridici per la soluzione della crisi d’impresa

In questa sezione presentiamo in dettaglio i principali strumenti legali che il nostro ordinamento mette a disposizione per affrontare e risolvere la crisi d’impresa. Ciascuno di questi strumenti ha finalità e requisiti specifici: alcuni sono di natura stragiudiziale (accordi privati, seppur regolati dalla legge), altri sono procedure concorsuali vere e proprie con l’intervento del tribunale. Sapere distinguere e conoscere il funzionamento di ciascuno aiuta l’imprenditore, assieme al proprio avvocato, a scegliere quello giusto al momento giusto. Gli strumenti che esamineremo sono:

  • Piano attestato di risanamento (strumento privatistico certificato)
  • Accordi di ristrutturazione dei debiti (e varianti: agevolati, ad efficacia estesa)
  • Composizione negoziata della crisi (procedura stragiudiziale assistita da esperto)
  • Concordato preventivo (procedura concorsuale classica, in continuità o liquidatorio)
  • Concordato semplificato (procedura speciale liquidatoria senza voto, post-composizione negoziata)
  • Piano di ristrutturazione soggetto a omologazione (PRO) (nuovo strumento concorsuale flessibile)
  • Liquidazione giudiziale (l’ex fallimento, procedura liquidatoria giudiziale)
  • Strumenti per il sovraindebitamento e imprese minori (concordato minore, liquidazione controllata, ecc.)

Per ognuno spiegheremo cos’è, quando si usa, quali vantaggi e limiti offre, e daremo esempi concreti di applicazione. È bene ricordare che questi strumenti non sono mutuamente esclusivi: a volte si usano in combinazione o in sequenza (esempio: composizione negoziata seguita da concordato semplificato, oppure piano attestato fallito e poi accordo di ristrutturazione). La flessibilità e l’adattamento al caso concreto sono fondamentali.

Piano attestato di risanamento

Il piano attestato di risanamento è uno strumento di origine negoziale (non richiede il coinvolgimento iniziale di un giudice) il cui scopo è risanare l’esposizione debitoria e riequilibrare la situazione finanziaria dell’impresa attraverso un piano credibile, certificato da un esperto indipendente. Questo istituto esisteva già nella vecchia legge fallimentare (art. 67 L.F. esonerava dalla revocatoria gli atti eseguiti in attuazione di un piano attestato) e oggi è regolato dall’art. 56 del Codice della Crisi.

Caratteristiche principali:

  • È un atto unilaterale del debitore rivolto ai creditori, non sottoposto ad omologazione giudiziale . Significa che l’imprenditore predispone un piano e lo comunica ai suoi creditori per convincerli ad aderire, ma non c’è una sentenza o decreto che lo renda obbligatorio per tutti.
  • Si chiama “attestato” perché richiede l’intervento di un professionista indipendente (tipicamente un commercialista o esperto di crisi iscritto all’Albo dei gestori della crisi) che attesti due cose fondamentali: la veridicità dei dati aziendali su cui si basa il piano e la fattibilità economica del piano stesso. Questa attestazione serve a dare credibilità: i creditori sapranno che un esperto terzo ha controllato numeri e assunti del piano, riducendo il timore che l’imprenditore stia dipingendo un quadro troppo roseo.
  • Il piano deve avere data certa (ad esempio mediante atto notarile o deposito al Registro Imprese) e un contenuto minimo indicato dalla legge: in pratica deve descrivere la situazione aziendale, le cause della crisi, le azioni da intraprendere per risanare (ristrutturazione debito, aumento capitale, dismissioni, riorganizzazione aziendale, ecc.), i tempi e i modi di attuazione, e i risultati attesi in termini di equilibrio patrimoniale e finanziario. Non esiste un modello fisso, ma è essenziale che sia sufficientemente dettagliato e credibile.
  • Accordi con i creditori: Il piano di per sé è un documento dell’impresa, ma affinché sia efficace occorre che il debitore concluda accordi con i creditori in coerenza col piano. Ad esempio, se il piano prevede che le banche proroghino le scadenze dei debiti, bisognerà firmare con le banche atti aggiuntivi di proroga; se prevede che alcuni fornitori rinuncino al 20% del credito, ciascuno dovrà sottoscrivere un accordo di stralcio in tal senso. Il piano funge da cornice e giustificazione economica, ma gli effetti concreti passano per contratti bilaterali. L’insieme di questi accordi esecutivi forma, di fatto, la transazione globale di risanamento.

Vantaggi del piano attestato:

  • Riservatezza e rapidità: Poiché non c’è coinvolgimento formale del tribunale, non c’è pubblicità legale iniziale. Il piano può rimanere riservato tra azienda e creditori. Questo è ideale per imprese che temono il danno reputazionale di una procedura concorsuale pubblica. Inoltre, si evita il formalismo e i tempi delle cause in tribunale: se c’è intesa coi creditori, si può concludere anche in poche settimane.
  • Flessibilità: Il contenuto dell’accordo lo decide l’imprenditore con i creditori. Non ci sono requisiti di maggioranza imposti: se persuadi anche solo i creditori necessari (ad es. quelli principali), il piano può funzionare anche se qualcuno non è d’accordo (purché chi non aderisce venga comunque pagato regolarmente, altrimenti potrebbe agire contro). Questo strumento è particolarmente indicato quando il numero di creditori è ridotto o comunque c’è la ragionevole possibilità di avere il consenso di tutti quelli coinvolti nel sacrificio.
  • Protezione dagli effetti fallimentari: La legge concede premialità a chi esegue un piano attestato di risanamento. In particolare, gli atti, pagamenti e garanzie che sono compiuti in esecuzione del piano non sono soggetti all’azione revocatoria fallimentare. Ciò significa che se anche successivamente l’impresa dovesse fallire, il curatore non potrà “togliere indietro” (revocare) i pagamenti fatti ai creditori secondo il piano, né le garanzie concesse. Questo è fondamentale per convincere i creditori ad aderire: sanno che se poi qualcosa va storto, i soldi incassati non saranno reclamati dal curatore. Inoltre, la norma prevede l’esenzione da responsabilità penale per eventuali reati di bancarotta semplice o preferenziale relativi ad atti compiuti in esecuzione del piano. Ciò tutela l’imprenditore (e i creditori favorevoli) dal timore di ripercussioni penali se successivamente vi fosse un fallimento; ad esempio un pagamento preferenziale in esecuzione del piano non sarà punibile come bancarotta preferenziale.
  • Beneficio fiscale: Se il piano viene pubblicato nel Registro delle Imprese, la legge fiscale offre un bonus: le eventuali riduzioni di debito concesse dai creditori (sopravvenienze attive che normalmente sarebbero tassabili come utili straordinari) in parte non concorrono a formare reddito imponibile. Questo allevia l’impatto fiscale dell’operazione di risanamento (altrimenti può capitare che un’azienda salvata da 1 milione di debiti stralciati si trovi con quell’importo tassato come profitto!). La pubblicazione è obbligatoria proprio se si vuole questo beneficio, altrimenti sarebbe opzionale.

Svantaggi e limiti del piano attestato:

  • Non offre di per sé un vincolo per i creditori dissenzienti. Se uno o più creditori non aderiscono all’accordo, restano liberi di agire per il pagamento integrale. Questo strumento non permette di imporre loro un taglio o una dilazione contro la loro volontà (diversamente da concordato o accordi omologati). Quindi funziona bene solo in situazioni dove c’è accordo volontario di tutti i soggetti chiave. Se ho 10 fornitori e uno si chiama fuori e fa decreti ingiuntivi, il piano attestato non può bloccarglieli (a meno di convincerlo in un secondo momento).
  • Non c’è un automatic stay: come detto, i creditori possono agire, a meno che non abbiano contrattualmente accettato di non farlo. Perciò durante la negoziazione e l’esecuzione, l’azienda è un po’ esposta: occorre fidarsi della parola data. Se un creditore rimangia l’accordo e tenta un pignoramento, l’azienda deve reagire con strumenti ordinari (ad esempio chiedendo al giudice un termine ex art.182-bis per depositare un accordo di ristrutturazione, oppure depositare un concordato di corsa).
  • Non consente di alterare le cause dei crediti unilateralmente. Esempio: nel concordato si possono sciogliere contratti in essere con autorizzazione del giudice. Nel piano attestato, se ho un contratto oneroso (tipo un affitto altissimo di un capannone che mi pesa), devo negoziare col locatore una riduzione; non posso imporgliela. Similmente, se devo cedere un ramo d’azienda, devo fare accordi rispettando i diritti dei dipendenti (non c’è il paracadute delle norme concorsuali per trasferire contratti di lavoro, va applicato l’art.2112 c.c. normalmente). Quindi meno potere di ingegneria giuridica rispetto a procedure concorsuali.
  • Richiede un attestatore credibile: anche se è un vantaggio, c’è il tema del costo e della scelta del professionista giusto. Un attestatore scrupoloso impiegherà un po’ di tempo per analizzare l’azienda e redigere la relazione di attestazione, generando costi. Però questo è inevitabile e anche utile per la riuscita.

Quando usare il piano attestato: in genere quando l’impresa ha una crisi contenuta, un numero limitato di creditori principali e una prospettiva di risanamento abbastanza rapida. Tipico esempio: tensione finanziaria dovuta a uno squilibrio temporaneo, dove magari bastano 2-3 anni di respiro per tornare solvibili. Oppure quando i debiti sono concentrati su pochi istituti bancari e questi sono disposti a collaborare. Se c’è un forte partner disposto a sostenere l’impresa (un socio che apporta capitali freschi) ma a condizione di non passare per procedure pubbliche, un piano attestato può fare al caso. È invece sconsigliabile se l’azienda è assediata da molti creditori già sul piede di guerra o se serve tagliare la posizione di qualcuno (ad esempio un creditore fiscale che per policy non accetta stralci senza procedura – in tal caso conviene altro strumento con transazione fiscale).

Esempio concreto di piano attestato: Un’impresa edile, la “Costruzioni XYZ Srl”, si trova in difficoltà perché ha affrontato investimenti in cantieri poi bloccati dalla pandemia. Ha 3 banche esposte per mutui e anticipi fatture per 2 milioni totali, 5 fornitori principali cui deve 800.000€, e debiti fiscali per IVA per 200.000€. I soci sono disposti a immettere 500.000€ ma solo se evitano la pubblicità di un concordato. Si opta per un piano attestato: un professionista assevera che, con 500k di nuovi apporti e dilazionando i debiti in 5 anni, la società torna liquida e in utile. Le banche accettano di allungare i mutui di 2 anni e di rinunciare agli interessi di mora (ciascuna firma una scrittura col debitore). I fornitori accettano di ricevere il 50% entro 6 mesi (usando buona parte dei soldi nuovi) e il restante 50% in 12 mesi successivi – firmano anche loro accordi individuali. L’Agenzia delle Entrate acconsente a una rateazione ordinaria in 24 mesi (nessun taglio, ma va bene). Il piano, datato e firmato dall’attestatore, viene pubblicato nel Registro Imprese per garantire la data certa e il beneficio fiscale sulle remissioni di interessi e penali. XYZ esegue i pagamenti secondo i patti; dopo un anno e mezzo, con i cantieri ripartiti, l’azienda è risanata e i creditori hanno ottenuto quanto concordato.

Accordi di ristrutturazione dei debiti

L’accordo di ristrutturazione dei debiti (spesso abbreviato in ADR da Accordo di Debt Restructuring) è un altro strumento di soluzione negoziale della crisi, con una differenza chiave rispetto al piano attestato: l’accordo viene sottoposto all’omologazione del tribunale. Si tratta quindi di un accordo privato tra debitore e una parte consistente dei suoi creditori, che però acquista efficacia concorsuale (opponibile anche ai terzi) grazie all’intervento omologatorio del giudice. È disciplinato dagli artt. 57-64 CCII. Vediamone i punti essenziali:

Caratteristiche principali:

  • Deve intercorrere tra il debitore e tanti creditori che rappresentino almeno il 60% dei crediti totali (versione ordinaria). Questa soglia è stata mantenuta nel CCII. Significa che bisogna ottenere il consenso (sottoscrizione dell’accordo) di creditori titolari di almeno il 60% dell’ammontare complessivo dei debiti dell’impresa. Non occorre il 60% di ogni singola classe o categoria, ma del totale dei debiti finanziari e non. Esistono varianti a questa regola:
    • Accordo agevolato ex art. 61-bis CCII, dove la soglia è ridotta al 30% se vengono soddisfatte certe condizioni (generalmente se l’accordo non prevede pagamenti dilazionati oltre 120 giorni dei creditori estranei e assicura una certa soddisfazione minima). Questo per favorire imprese con moltissimi piccoli creditori: se pochi grandi creditori rappresentano il 30% e aderiscono, si può chiedere comunque omologa agevolata.
    • Accordi ad efficacia estesa ex art. 61 CCII: qui il concetto è che se un accordo ottiene l’adesione di particolari categorie di creditori in certe misure (es. banche e finanziari al 75%), il tribunale può estendere gli effetti dell’accordo anche ai creditori dissenzienti appartenenti a quella stessa categoria (purché non superino il 25% del totale). È un meccanismo di “cram-down di gruppo”: tipicamente pensato se quasi tutte le banche sono d’accordo tranne una piccola, il giudice può forzare l’accordo anche su quella minoranza, in modo da evitare che un hold-out blocki la ristrutturazione.
  • Necessita di una attestazione di un professionista indipendente sulla veridicità dei dati aziendali e sulla fattibilità del piano sottostante all’accordo. Questo è analogo a quanto visto per il piano attestato e garantisce che il giudice (e i creditori estranei) possano confidare che l’accordo è serio e sostenibile. Inoltre deve attestare che i creditori estranei all’accordo saranno pagati per intero secondo le scadenze pattuite originariamente (o entro 120 giorni dalla scadenza originaria), e che comunque l’accordo offre ai non aderenti un trattamento non inferiore a quello che avrebbero in caso di liquidazione (best interest test).
  • Una volta sottoscritto dalle parti necessarie, l’accordo viene depositato in tribunale insieme al piano e alla documentazione contabile. Il debitore può contestualmente chiedere al tribunale di essere autorizzato a pagare determinati creditori strategici o fornitori essenziali anche se anteriori (per non interrompere l’attività) e/o di ottenere la sospensione delle azioni esecutive immediatamente (misure protettive analoghe a quelle del concordato). Il tribunale, esaminati i documenti, convoca un’udienza per l’omologazione entro 4 mesi (termine CCII). I creditori estranei (che non hanno aderito) e eventuali creditori aderenti dissenzienti sulla proposta possono fare opposizione. Se non emergono cause ostative, il tribunale omologa l’accordo con sentenza. Da quel momento, l’accordo acquista efficacia erga omnes per i creditori aderenti, e per alcuni effetti anche rispetto agli estranei (ad es. la sospensione delle azioni esecutive durante i pagamenti concordati).
  • I creditori estranei (non firmatari) non sono giuridicamente obbligati dal taglio o dalle dilazioni previste dall’accordo: devono essere pagati integralmente nei termini stabiliti originariamente, o come detto entro 120 giorni dalla scadenza originaria o dall’omologa. Questo significa che l’accordo di ristrutturazione di base non li può penalizzare. Tuttavia, l’omologazione porta benefici anche su di loro: ad esempio, se l’accordo prevede nuova finanza o garanzie per attuarlo, il tribunale può estendere la prededucibilità anche di questi aspetti. Inoltre, in alcune varianti (ad efficacia estesa) certi estranei vengono di fatto inclusi (es. la banca che non firma viene trattata come se avesse firmato se quell’accordo esteso è concesso).
  • L’accordo omologato ha effetti protettivi simili a una procedura concorsuale: come detto, consente l’esenzione da revocatoria degli atti compiuti in esecuzione (stesso vantaggio del piano attestato ma qui avallato dal giudice), nonché l’esenzione da certe responsabilità penali (bancarotta preferenziale e semplice) per i pagamenti eseguiti in coerenza all’accordo. Inoltre, su richiesta, già dal deposito della domanda di omologa, il debitore può ottenere dal giudice la sospensione delle azioni individuali dei creditori (di tutti o alcuni in particolare). Di default, dopo l’omologa, i creditori aderenti ovviamente sono vincolati a non agire se non secondo l’accordo; i non aderenti, essendo pagati integralmente come da contratto, non dovrebbero aver motivo di agire oltre (se l’impresa rispetta le scadenze). In caso di difficoltà nell’esecuzione, l’accordo può essere rinegoziato e modificato in tribunale (con nuova attestazione).

Quando utilizzare un accordo di ristrutturazione:

  • Quando l’impresa ha troppi creditori per fare un piano attestato con ognuno, ma allo stesso tempo riesce a ottenere il consenso di una larga maggioranza (60% o più) di essi. In particolare, è spesso usato per ristrutturare debiti finanziari: si cerca l’intesa con le banche (che di solito sommate rappresentano più del 60% dei debiti di un’azienda indebitata). Una volta che le banche sono d’accordo su un piano di rientro o riduzione, l’accordo viene omologato e i fornitori minori vengono pagati integralmente (magari con un leggero ritardo). Così si risana l’azienda senza passare per un concordato che avrebbe coinvolto tutti.
  • Quando si vuole evitare il voto di tutti i creditori come nel concordato (che è più imprevedibile e complesso), ma c’è comunque bisogno di una parziale imposizione. Ad esempio, se ho 100 creditori e 90 hanno aderito tranne 10 testardi (che però rappresentano solo il 20% del debito), l’accordo di ristrutturazione (magari con efficacia estesa) è utile: non devo fare votare tutti 100 (rischiando magari che qualcuno voti contro per dispetto), mi basta convincere quell’80% di peso e poi il giudice può proteggere l’operazione dal sabotaggio del 20% residuo.
  • Quando occorre includere il Fisco o enti previdenziali: tradizionalmente questi enti erano restii a stralciare i crediti. La “transazione fiscale” nell’ambito di concordati o accordi è lo strumento per farlo. Oggi in un accordo di ristrutturazione, il debitore può proporre il pagamento parziale di tributi e contributi (che aderiscono secondo le regole interne) e se non aderiscono ma la loro adesione sarebbe determinante per la soglia e il trattamento è almeno pari al liquidatorio, il tribunale può omologare lo stesso (il cram-down fiscale). Questo è un notevole incentivo: prima un accordo con taglio di debiti fiscali era possibile solo se l’Agenzia aderiva; adesso, se la proposta al Fisco è ragionevole e indispensabile, il giudice può comunque convalidarla anche senza il “sì” esplicito. Ci sono condizioni (assenza di frodi fiscali, l’adesione del Fisco era decisiva per raggiungere il 60%, ecc.), ma in sostanza risolve un collo di bottiglia frequente. Ad esempio, un accordo dove tutte le banche e fornitori aderiscono, ma l’Agenzia delle Entrate no: col cram-down il giudice può includere anche l’Erario considerandolo come aderente.
  • Quando l’impresa è già in una situazione in cui servono misure immediate di protezione – l’accordo può fornire un quadro concorsuale che giustifica la sospensione di azioni esecutive (previa domanda di misure protettive come dicevamo). Meno completo di un concordato in termini di moratorie generali, ma comunque efficiente.

Limiti dell’accordo di ristrutturazione:

  • Necessità di raggiungere quell’elevata percentuale di consenso. Non sempre facile, soprattutto se i creditori sono molto eterogenei.
  • I creditori estranei, come detto, vanno pagati integralmente (non consente di scaricare loro perdite). Quindi l’accordo deve comunque prevedere risorse sufficienti per soddisfare anche chi non firma. Spesso implica che l’impresa deve avere un po’ di liquidità (ad esempio per pagare i piccoli fornitori al 100%). In un concordato invece potresti proporre di pagare tutti al 40% e costringere anche i piccoli ad accettarlo a maggioranza.
  • Procedimento meno standardizzato del concordato: ogni accordo è un caso a sé, i giudici potrebbero avere interpretazioni differenti su alcuni punti (anche se ormai c’è abbastanza giurisprudenza).
  • Se l’azienda poi non rispetta l’accordo omologato, i creditori possono chiedere la risoluzione o, nel caso, il fallimento. Non c’è un commissario che vigila giorno per giorno (è un pro e contro). Quindi è cruciale che l’azienda poi esegua, altrimenti si ritorna al punto di partenza o peggio.

Esempio concreto di accordo di ristrutturazione: La “Alfa Trasporti SRL” ha 10 milioni di debiti: 7 con banche (mutui e leasing per i camion), 2 con fornitori di carburante e manutenzione, 1 con l’Agenzia Entrate per IVA arretrata. Il business potrebbe reggere se il debito fosse spalmato su più anni e ridotto in parte (perché hanno perso fatturato con l’avvento di un concorrente). Alfa elabora un piano e ottiene che 6 milioni di debiti bancari (85% del totale banche) siano convertiti in un nuovo finanziamento a tasso ridotto da rimborsare in 7 anni; le banche rinunciano agli altri 1 milione di interessi e oneri. I fornitori (che sono il 20% del totale crediti) accettano anch’essi: prendono il 80% in 6 mesi e stralciano il 20%. L’Agenzia Entrate invece, di fronte a una proposta di saldo del 50% dell’IVA in 12 mesi, non aderisce formalmente (per policy). Tuttavia, le banche e i fornitori firmatari rappresentano già oltre il 60% dei debiti complessivi, quindi si va in tribunale per l’omologa: il giudice, visto che l’adesione del Fisco sarebbe determinante per superare la soglia (e in effetti con il Fisco si arriverebbe all’85% di adesioni) e considerato che quell’alternativa è più conveniente per l’Erario del fallimento (dove forse recupererebbe 20%), applica il cram-down fiscale e omologa ugualmente l’accordo includendo l’Erario tra i creditori come se fosse aderente. Alfa ottiene così di liberarsi di una parte dei debiti e di restituire il resto in modo sostenibile. I creditori non aderenti (qualche piccolo fornitore che ha preferito star fuori, e lo stesso Erario per la parte residua) vengono pagati integralmente secondo gli accordi: nel caso del Fisco, il 50% come previsto più il restante 50% che era stato offerto viene comunque considerato soddisfatto grazie al cram-down (quindi l’altra metà è di fatto stralciata). Dopo l’omologa, Alfa esegue i pagamenti e continua l’attività.

Composizione negoziata della crisi d’impresa

La Composizione Negoziata della Crisi d’Impresa è uno strumento introdotto in via d’urgenza nel 2021 (D.L. 118/2021) e poi confluito nel Codice della Crisi (artt. 17-25 septies CCII). Si tratta di un percorso di risanamento assistito da un esperto indipendente, caratterizzato dalla volontarietà e riservatezza, volto ad aiutare l’imprenditore in stato di crisi a trovare un accordo con i propri creditori prima di dover ricorrere a procedure concorsuali giudiziarie.

Caratteristiche principali:

  • Accesso volontario: Possono attivare la composizione negoziata tutte le imprese iscritte al Registro Imprese (società o ditte individuali, anche agricole), che si trovano in condizioni di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario tali da rendere probabile la crisi o l’insolvenza, ma che hanno potenzialità di risanamento. L’iniziativa spetta esclusivamente all’imprenditore (non può essere avviata dai creditori o imposta).
  • Piattaforma telematica e nomina dell’esperto: L’imprenditore presenta istanza tramite una piattaforma nazionale dedicata, allegando informazioni sulla situazione aziendale. Un’apposita commissione (presso la CCIAA) designa un esperto indipendente, scelto da elenchi di professionisti qualificati (commercialisti, avvocati, consulenti con esperienza in ristrutturazioni), che prenderà in carico la procedura. L’esperto, una volta nominato e accettato l’incarico, convoca l’imprenditore per comprendere la situazione e poi contatta i creditori principali per avviare le trattative.
  • Riservatezza: La composizione negoziata è definita un percorso riservato e stragiudiziale. Ciò significa che, almeno nella fase iniziale, non vi è pubblicità verso l’esterno: né i creditori minori, né fornitori, clienti o pubblico sanno ufficialmente che l’impresa è in composizione negoziata. Questo tutela la reputazione dell’azienda durante le trattative preliminari. Solo se vengono attivate alcune tutele (come le misure protettive o una eventuale autorizzazione a finanziamenti) subentra la pubblicità nel Registro Imprese.
  • Ruolo dell’esperto: L’esperto non ha poteri decisori vincolanti, ma funge da facilitatore e mediatore. Analizza i dati aziendali, individua possibili soluzioni di ristrutturazione e mette attorno a un tavolo (fisicamente o virtualmente) l’imprenditore e i creditori per discutere le proposte. Il suo compito è guidare le parti verso un accordo amichevole (ristrutturazione del debito, rinegoziazione dei contratti, ricerca di nuovi investitori, vendita di asset, etc.). Egli deve agire con imparzialità, pur essendo scelto in parte su base fiduciaria: il suo obiettivo è trovare un punto di equilibrio tra il bisogno dell’impresa di risanarsi e l’interesse dei creditori a essere soddisfatti in misura migliore di quanto accadrebbe in caso di fallimento. L’esperto redige relazioni periodiche sull’andamento delle trattative. Se capisce che non c’è concretezza (ad esempio l’imprenditore non collabora o i creditori sono totalmente reticenti), può proporre la chiusura anticipata del percorso.
  • Durata: La composizione negoziata ha una durata iniziale di 3 mesi (dall’accettazione dell’esperto) prorogabile su richiesta motivata fino a un massimo di 6 mesi totali. In casi eccezionali il termine può estendersi a 12 mesi se c’è la concreta possibilità di raggiungere l’accordo (ma è l’estremo). Quindi è un intervento relativamente breve e concentrato. L’idea è di anticipare la soluzione prima che la situazione peggiori.
  • Misure protettive e cautelari: Durante la composizione negoziata, l’imprenditore può chiedere al tribunale l’applicazione di misure protettive temporanee, cioè lo stop alle azioni esecutive e cautelari dei creditori. Ad esempio, se c’è un creditore pronto a pignorare i conti o a far vendere all’asta un immobile aziendale, l’imprenditore può chiedere che tali azioni siano sospese per il tempo delle trattative. Le misure protettive possono riguardare tutto il patrimonio o solo alcuni creditori specifici (è indicato nell’istanza quali creditori intendono bloccare). Il tribunale, valutato che la richiesta non sia manifestamente abusiva e sentito l’esperto, concede la protezione per un periodo iniziale (tipicamente 120 giorni) prorogabile fino ad un totale di 240 giorni. Durante questo periodo, i creditori soggetti alla protezione non possono iniziare o proseguire azioni esecutive o cautelari, né acquisire titoli di prelazione sul patrimonio (es. niente nuove ipoteche). È una sorta di “ombrello” simile all’automatic stay del concordato, ma calibrato. La concessione delle misure viene pubblicata nel Registro Imprese e sul sito di giustizia, rendendo di pubblico dominio che l’impresa è in composizione negoziata (questo è il trade-off: se vuoi protezione, devi svelare al mercato la situazione). Se però le misure non servono, si può condurre l’intera negoziazione in silenzio. Oltre alle misure protettive, il tribunale può anche concedere misure cautelari specifiche, ad esempio sospendere temporaneamente un contratto in essere di cui l’impresa vorrebbe chiedere la risoluzione (es: un contratto molto oneroso).
  • Possibili esiti positivi: La composizione negoziata si conclude positivamente se:
    • le parti raggiungono un accordo stragiudiziale di ristrutturazione (che può prendere forma di contratto semplice, piano attestato di risanamento sottoscritto dai creditori chiave, convenzione di moratoria, ecc.),
    • oppure se decidono di avviare uno degli strumenti di regolazione della crisi previsti dal CCII. Ad esempio, le trattative possono condurre a presentare un concordato preventivo o un accordo di ristrutturazione formale (questi strumenti possono essere attivati “in esito” alla comp. negoziata con qualche vantaggio procedurale).
    • Un caso particolare di esito positivo, sebbene non di risanamento dell’impresa ma di gestione controllata dell’insolvenza, è quando l’imprenditore, constatato che non c’è possibilità di risanamento, utilizza l’opportunità offerta dall’art. 23 co. 1 lett. f CCII di proporre entro 60 giorni un concordato semplificato per la liquidazione. È considerato un esito (se il tribunale poi omologa, quantomeno i creditori ottengono qualcosa in modo ordinato).
  • Esiti negativi: Se non si raggiunge un accordo e l’imprenditore non intraprende altre procedure, la composizione negoziata viene chiusa per esito negativo. L’esperto redige una relazione finale dove può anche segnalare eventuali condotte dell’imprenditore che possano necessitare comunicazione al pubblico ministero (ad esempio se ha aggravato il dissesto fraudolentemente durante le trattative). Tuttavia, l’esperto non dichiara insolvenza né avvia procedure d’ufficio: semplicemente il percorso si conclude. Sta poi ai creditori eventualmente intraprendere azioni (come chiedere il fallimento), oppure l’imprenditore stesso può andare in liquidazione volontaria.
  • Vantaggi per l’imprenditore diligente: La legge prevede che se l’imprenditore ha agito in buona fede durante la composizione negoziata, certi atti compiuti in conformità alle trattative non saranno soggetti a revocatoria fallimentare (similmente al piano attestato) e che eventuali finanziamenti erogati all’impresa durante la comp. negoziata, se autorizzati, abbiano status di prededucibili in caso di successivo fallimento. Inoltre, per incentivare l’uso di questo strumento, la normativa esclude (temporaneamente) la punibilità per bancarotta semplice e preferenziale rispetto ad atti compiuti nelle trattative autorizzati dall’esperto. Infine, l’avvio della composizione negoziata consente di sospendere l’eventuale obbligo di riduzione del capitale per perdite previsto dal codice civile: se durante le trattative il patrimonio netto va sotto zero, non si è costretti a liquidare la società immediatamente, purché poi il concordato o l’accordo risani.

Esperienza pratica: Dalla sua introduzione, la composizione negoziata è stata utilizzata da diverse centinaia di imprese. I dati a fine 2024 indicano che circa il 19% delle procedure avviate si sono chiuse con un qualche accordo positivo, mentre l’81% con esito negativo (per mancate prospettive di risanamento o trattative fallite). È quindi uno strumento che non garantisce il successo, ma offre un tentativo guidato. Anche quando fallisce, però, spesso l’impresa guadagna tempo per prepararsi a un’alternativa (concordato, vendita asset, ecc.).

Quando utilizzarla:

  • Se l’impresa è in una situazione di difficoltà ma non ancora disperata, e c’è volontà di negoziare con i creditori. Soprattutto se la crisi è sorta per cause temporanee e si pensa di poter convincere creditori della bontà di un piano di risanamento.
  • Se servono decisioni rapide con i creditori: il format della comp. negoziata crea subito un contesto di discussione focalizzato e con scadenze (3-6 mesi).
  • Se la presenza di un facilitatore imparziale può aiutare a superare sfiducia: ad esempio se i creditori non credono ai bilanci dell’imprenditore, l’esperto può certificare i dati, portando credibilità.
  • Se l’imprenditore desidera massimizzare la riservatezza iniziale: rispetto a depositare un concordato (che è subito pubblico), la comp. negoziata consente di sondare le possibili intese lontano dai riflettori. Solo se si richiede protezione si diventa pubblici.
  • Anche come “precursore”: molte imprese l’hanno attivata per poi, durante il percorso, strutturare un piano da presentare in concordato. In tal senso la comp. negoziata può servire per guadagnare un paio di mesi di tempo protetto per preparare i documenti di un concordato più solido, con la benedizione che “si è provato extra-giudiziale prima”.

Esempio concreto di composizione negoziata: La “Gamma Tech Srl” (produzione di componenti elettronici) ha visto triplicare il costo delle materie prime e ritardi nelle consegne, finendo per accumulare debiti con fornitori e banche. Gamma intuisce che potrebbe superare la crisi se riesce a ottenere un rifinanziamento e un differimento dei pagamenti, magari anche nuovi investitori interessati al suo know-how. Decide di attivare la composizione negoziata. Viene nominato un esperto, il dott. Rossi, che analizza i conti di Gamma e incontra i rappresentanti delle banche e i fornitori principali. Rossi vede margini di risanamento: consiglia di cercare un partner finanziario e nel frattempo propone alle banche una moratoria. Gamma chiede al tribunale e ottiene il blocco delle azioni esecutive (aveva qualche decreto ingiuntivo pendente) per 4 mesi. La notizia della procedura diventa pubblica, ma Gamma ne approfitta comunicando al mercato che ha un piano di rilancio in corso con l’assistenza di un esperto nominato dal tribunale, cercando di dare fiducia. Durante le trattative, l’esperto individua una società interessata a entrare nel capitale di Gamma e portare risorse fresche. Dopo 3 mesi di incontri, si arriva a uno schema di accordo: il nuovo investitore immette 2 milioni in cambio del 60% delle quote, le banche accettano di consolidare i debiti su 5 anni, e i fornitori accettano di ridurre del 20% i crediti in cambio di pagamento cash del restante 80% grazie all’apporto dell’investitore. L’esperto aiuta a mettere tutto nero su bianco. A questo punto Gamma e creditori scelgono di formalizzare il tutto come un accordo ex art. 57 CCII da omologare (per sicurezza). La comp. negoziata si chiude con esito positivo, e Gamma deposita subito l’accordo in tribunale per l’omologa. Nel frattempo le misure protettive continuano. L’accordo viene omologato poche settimane dopo e Gamma esce definitivamente dalla crisi con un nuovo socio e meno debiti.

Concordato preventivo (in continuità e liquidatorio)

Il concordato preventivo è storicamente la principale procedura concorsuale “alternativa” al fallimento, pensata per evitare la liquidazione giudiziale attraverso un accordo con i creditori sotto controllo del tribunale. Nel nuovo Codice della Crisi il concordato preventivo resta centrale, con alcune innovazioni, ed è disciplinato dagli artt. 84-120 CCII. Il concordato preventivo può assumere connotazioni diverse, ma in generale prevede che l’imprenditore in stato di crisi o insolvenza presenti ai creditori una proposta di soddisfacimento parziale o dilazionato dei loro crediti, accompagnata eventualmente da un piano di ristrutturazione dell’impresa, il tutto soggetto ad approvazione dei creditori stessi e omologazione del tribunale.

Tipologie principali di concordato:

  • Concordato in continuità aziendale: quando nel piano è prevista la continuità dell’attività d’impresa, cioè l’azienda prosegue (in gestione diretta del debitore o tramite un diverso imprenditore che subentra). La continuità può essere diretta (il debitore stesso continua a operare durante e dopo il concordato) o indiretta (il piano prevede la cessione o affitto dell’azienda a un altro soggetto che garantirà la prosecuzione dell’attività). Questo tipo di concordato è volto a preservare il valore aziendale come going concern, proteggere posti di lavoro, mantenere rapporti commerciali, nella convinzione che ciò massimizzi il recupero per i creditori rispetto a una vendita spezzettata. Nel concordato in continuità, la legge consente ad esempio di trattare in modo specifico i creditori strategici (pagandoli regolarmente per assicurarsi la fornitura) e di predisporre un piano di rilancio industriale oltre che di pagamenti. Spesso i creditori accettano percentuali di recupero inferiori al 100% perché credono nel piano di rilancio e preferiscono che l’azienda non muoia. Ci sono alcune regole particolari: i creditori privilegiati possono essere pagati dilazionati anche oltre un anno (cosa che in liquidatorio di solito non è permessa senza consenso), i creditori strategici possono essere pagati in prededuzione se funzionali alla continuità, e c’è esenzione dall’obbligo di soddisfare minimo 20% ai chirografari che vigeva per i liquidatori (nel CCII la percentuale minima fissa per i chirografari è stata eliminata, sostituita da parametri di convenienza e migliore soddisfazione che in liquidazione).
  • Concordato liquidatorio: quando il piano non prevede la prosecuzione dell’attività, ma solo la liquidazione del patrimonio e la ripartizione del ricavato ai creditori. In sostanza è una forma di liquidazione controllata dal tribunale e accettata dai creditori, con la differenza rispetto al fallimento che è il debitore a proporre come liquidare e in che tempi, e offre magari qualche vantaggio ai creditori (ad esempio l’apporto di risorse esterne, oppure la rinuncia del debitore a ottenere l’esdebitazione per ottenere il consenso). Nel concordato liquidatorio tradizionalmente la legge imponeva un soddisfacimento minimo ai creditori chirografari (nel vecchio codice fallimentare era 20%). Il CCII nella sua versione iniziale aveva eliminato soglie rigide, ma potrebbe aver reintrodotto percentuali minime con i correttivi o comunque richiede che l’attivo liquidato dia un valore aggiunto rispetto alla liquidazione giudiziale. In ogni caso, nel concordato liquidatorio omologato, la gestione dell’impresa passa a un liquidatore giudiziale nominato dal tribunale, il quale si occupa di vendere i beni secondo il piano e distribuire il denaro ai creditori. Il debitore in pratica cede il timone, ma ha evitato il fallimento e magari ottenuto condizioni più favorevoli (ad es. mantenere la sede aperta per più tempo, vendere l’azienda intera a un soggetto scelto che garantisca un prezzo migliore, etc.). Una variante recente è il concordato semplificato, che però formalmente non è un concordato preventivo ordinario ma una procedura a sé stante (l’abbiamo trattato a parte), riservata al post-composizione negoziata.

Procedura di concordato in sintesi:
Molti elementi li abbiamo già toccati nella Fase 4 prima, quindi qui li riassumiamo focalizzati:

  • Il debitore (impresa) propone il concordato depositando ricorso e piano in tribunale. Deve essere in stato di crisi o insolvenza (accertato dal tribunale in fase di ammissione). Il piano deve assicurare che i creditori ricevano almeno quanto otterrebbero in caso di liquidazione giudiziale (principio del best interest of creditors). Inoltre devono essere indicate le eventuali classi di creditori chirografari, formate secondo posizione giuridica e interessi economici omogenei.
  • Ammissibilità: Il tribunale verifica che siano presenti tutti i documenti (elenco creditori, inventario attivo, attestazione, ultime dichiarazioni fiscali, ecc.), che se è liquidatorio ci sia un valore apprezzabile da distribuire e che il piano non sia manifestamente impossibile. Se tutto ok, dichiara aperto il concordato e nomina un commissario giudiziale.
  • Da quel momento, scattano le misure protettive automatiche: divieto per i creditori di iniziare o proseguire azioni esecutive (esteso anche ai coobbligati salvo autorizzazioni diverse), e di acquisire cause di prelazione. I contratti in corso continuano ma il debitore, per atti straordinari, deve avere ok del giudice previa relazione del commissario.
  • Si fissa l’adunanza dei creditori (di solito 120-180 giorni dopo). Entro 30 giorni prima dell’adunanza i creditori ricevono il viso con la proposta e il parere del commissario sulla fattibilità. Possono inviare il loro voto per iscritto o partecipare all’adunanza.
  • All’adunanza (presieduta dal giudice delegato e col commissario presente), si discute e poi si apre ufficialmente la votazione (che può restare aperta ancora 20 giorni per raccogliere voti scritti tardivi). Ogni creditore ha un numero di voti proporzionale al credito (in euro) ammesso.
  • Approvazione: se c’è una sola classe di creditori chirografari, serve la maggioranza del 50%+1 dei crediti ammessi al voto. Se ci sono più classi, serve che il 50%+1 del totale crediti ammessi al voto approvi e inoltre che la maggioranza delle classi voti favorevolmente. Con i correttivi, ora esiste possibilità di omologa anche se non tutte le classi approvano, a certe condizioni: in pratica un cram-down interclassi ispirato alla direttiva UE. Significa che se almeno una classe rilevante approva e le classi dissenzienti sono trattate equamente e non peggiori del fallimento, il tribunale può ugualmente omologare (questo però caso avanzato, di solito si cerca di avere tutti a favore).
  • Omologazione: una volta che i creditori approvano il concordato (o la condizione di cram-down è soddisfatta), il tribunale tiene udienza di omologa. Se nessuno ha fatto opposizione o se le opposizioni vengono rigettate, viene emessa sentenza di omologazione. Da quel momento il piano è vincolante per tutti i creditori anteriori (anche per quelli che non hanno votato o hanno votato no, purché fossero ammessi al voto o in qualche modo considerati). I creditori privilegiati che non hanno votato perché soddisfatti integralmente secondo il piano restano comunque legittimati a escutere le loro garanzie se il piano non venisse eseguito (ma se il piano è omologato, di fatto dovranno attendere l’esecuzione).
  • Esecuzione: se concordato con continuità, il debitore attua il piano sotto vigilanza, se liquidatorio, il tribunale nomina contestualmente un liquidatore che esegue le vendite e paga i creditori con la supervisione del GD.

Vantaggi del concordato preventivo:

  • Consente di imporre sacrifici a tutti i creditori, con un voto a maggioranza e l’omologazione, evitando che pochi dissenzienti paralizzino la soluzione. È l’unico strumento (insieme al PRO di cui diremo) che permette un’effettiva riduzione del debito erga omnes e, se ben costruito, di salvare l’impresa in difficoltà.
  • Offre un ombrello protettivo pieno: dall’apertura, i creditori non possono aggredire l’azienda. Questo dà respiro per attuare operazioni sul perimetro (ad esempio vendere asset senza timore di pignoramenti contestuali).
  • È uno strumento flessibile che può prevedere tante soluzioni creative: coinvolgimento di investitori, conversione di crediti in quote societarie (se i creditori accettano), cessione di rami d’azienda, riorganizzazione del personale (nel concordato si possono trasferire contratti di lavoro con il meccanismo dell’art. 189 CCII e richiedere la CIGS per concordato per gestire esuberi con ammortizzatori, etc.).
  • Una volta omologato e adempiuto, il concordato produce la liberazione dai debiti residui: l’impresa è “pulita”. Se poi non adempie, c’è la risoluzione e potenziale fallimento, ma se adempie, i creditori non possono chiedere altro oltre quanto avuto. Quindi è una fresh start per l’azienda (diversamente dall’accordo, dove i non aderenti restano per intero creditori finché non li paghi).
  • In caso di insuccesso (risoluzione del concordato e fallimento), alcuni atti compiuti nel concordato restano validi e non revocabili, e il periodo del concordato non viene scrutinato per bancarotta preferenziale, a meno di abusi: quindi c’è comunque un avanzamento. Inoltre i creditori hanno perso tempo ma spesso non perdono posizione, perché se il concordato salta di solito si calcola come decorrenza per eventuali interessi o altro la data di omologa, etc. E i creditori nel frattempo hanno avuto la possibilità di votare e dire la loro, quindi più giustizia partecipativa.

Svantaggi del concordato:

  • È una procedura lunga e complessa: richiede molte formalità, documentazione impegnativa e tempi di esecuzione lunghi (la Banca d’Italia stimava mediamente oltre 500 giorni per completare un concordato con successo, e poi diversi anni per l’esecuzione nei casi di pagamento dilazionato). Questo può stressare l’azienda e i suoi stakeholder (clienti impazienti, fornitori incerti se continuare forniture).
  • Costi elevati: Ci sono costi professionali (commissario, liquidatore, attestatore, legali) e costi di procedura (contributo unificato, bollati, eventuale comitato creditori spese, ecc.). Un concordato per PMI può costare decine di migliaia di euro in totale, per grandi aziende anche di più. Bisogna avere risorse per sostenerli.
  • Pubblicità negativa: Il concordato è pubblico e di solito se ne viene a conoscenza nel settore. Ciò può far perdere fiducia a controparti commerciali: alcuni clienti potrebbero smettere di ordinare, pensando che l’azienda forse non consegnerà o è inaffidabile; i fornitori potrebbero chiedere pagamento anticipato su nuove forniture. È un effetto collaterale da gestire con attenzione e tanta comunicazione positiva.
  • L’esito del voto è incerto: convincere la maggioranza dei crediti è un’operazione politica di un certo rilievo. Bisogna sondare prima gli umori (magari con la comp. negoziata appunto). Non di rado concordati depositati con ottimismo finiscono non approvati per vari motivi (creditori che si coalizzano contro, ecc.).
  • Anche se approvato, serve comunque l’ok finale del giudice. Se per esempio il piano prevede qualcosa di non equo per alcuni, i dissenzienti possono opporsi e il tribunale potrebbe negare l’omologa, ribaltando tutto. Quindi c’è un livello di rischio giuridico.
  • Durante il concordato, l’impresa è in una sorta di limbo gestionale: gli atti straordinari li autorizza il giudice (sentito il commissario). Questo può rallentare operazioni importanti, benché a volte inevitabili (si può chiedere autorizzazione urgente per acquistare materie prime ad es., ma è una complicazione rispetto alla gestione libera).
  • Il concordato non cancella eventuali garanzie personali: se i soci hanno dato fideiussioni ai creditori, quei creditori, pur aderendo al concordato con la società, possono escutere i garanti per la parte non pagata. Quindi attenzione: la liberazione dai debiti riguarda la società, ma non i coobbligati. Si può cercare di negoziare anche per loro (spesso i creditori se sanno che la società paga un 40%, vogliono il restante 60% dai garanti).

Esempio concreto di concordato preventivo in continuità: La “Delta Moda S.p.A.”, catena di negozi d’abbigliamento, a causa di lockdown e e-commerce, è insolvente con 50 milioni di debiti. Tuttavia ha ancora un buon marchio e punti vendita attivi. Propone un concordato in continuità: un fondo di investimento è pronto a immettere 10 milioni per rilanciarla se i debiti vengono ridotti; Delta prevede di tenere aperti 30 negozi su 50 e chiudere gli altri 20. Il piano offre ai fornitori chirografari (che hanno 30 milioni di crediti) il 40% pagato in 4 anni con i proventi delle vendite e l’apporto del fondo; alle banche con garanzie immobiliari (15 milioni di crediti garantiti da ipoteche su negozi) propone il soddisfo integrale ma con vendita di alcuni immobili non strategici; ai dipendenti garantisce la continuità per la maggior parte, con CIGS e incentivi all’esodo per quelli in esubero. I creditori votano: le banche ipotecarie votano sì (tanto prendono il 100% anche se aspettano l’asta di un immobile), i fornitori dopo iniziale resistenza votano sì perché il 40% subito e 4 anni è allettante rispetto al 5-10% incerto in fallimento. Il concordato viene approvato con l’80% di voti favorevoli. Alcuni creditori (locatori di negozi chiusi) fanno opposizione lamentando che perdono il contratto e prendono solo il 40% di credito residuo: il giudice però ritiene equa la proposta perché i locali vengono liberati e possono essere riaffittati, e il 40% supera di gran lunga quanto avrebbero in fallimento senza affittuari. Omologa concessa. Delta esegue: chiude 20 negozi (resi ai proprietari), concentra risorse sui restanti 30, il fondo entra in società con 10 milioni che vanno in parte a finanziare le uscite del concordato. A fine piano, Delta paga il 40% promesso ai chirografari e torna in utile nei nuovi negozi. I creditori incassano e l’azienda continua a vivere, seppur ridimensionata.

Concordato semplificato (per la liquidazione del patrimonio)

Il concordato semplificato è una procedura introdotta di recente (D.L. 118/2021, articolo 18, poi art. 25-sexies CCII) come “valvola di sfogo” in caso di fallimento delle trattative nella composizione negoziata. Si tratta di uno strumento concorsuale liquidatorio con notevoli semplificazioni: non prevede il voto dei creditori, e viene valutato ed eventualmente omologato direttamente dal tribunale su proposta del debitore.

Presupposto di accesso: il concordato semplificato è subordinato al fatto che l’imprenditore abbia esperito una composizione negoziata senza successo. In pratica, solo chi ha percorso la strada della comp. negoziata e non ha trovato accordi può, entro 60 giorni dalla chiusura di quella procedura, presentare questa proposta al tribunale. Non è accessibile liberamente a chiunque, serve quel passaggio. Questa limitazione è voluta per evitare abusi (cioè saltare il voto dei creditori senza almeno aver tentato prima un accordo con loro).

Finalità: è liquidatorio, cioè destinato alle situazioni dove non c’è possibilità di salvare l’azienda come going concern, ma si vuole evitare il fallimento classico e offrire comunque ai creditori un pagamento ordinato col patrimonio disponibile.

Procedura e caratteristiche:

  • Il debitore predispone una proposta di concordato semplificato, allegando un piano di liquidazione dei suoi beni. Questo piano indica quali beni o asset saranno venduti e come si distribuiranno i ricavi. Può includere l’intervento di eventuali terzi che acquistano beni o l’azienda in blocco. Deve essere accompagnato dalla relazione di un professionista indipendente che illustri la situazione e le prospettive di realizzo.
  • La proposta viene depositata in tribunale. Il tribunale, verificato che c’è stato il percorso di comp. negoziata e che la proposta rispetta i requisiti (in particolare che ai creditori viene assicurato almeno il valore di liquidazione giudiziale), nomina un commissario giudiziale.
  • Non c’è assemblea di creditori né votazione. Tuttavia i creditori vengono comunque informati: il commissario comunica la proposta e il suo parere ai creditori e questi possono formulare osservazioni scritte o presentare opposizioni all’omologa se contrari.
  • L’udienza di omologazione vede quindi il tribunale valutare la proposta e sentire eventuali creditori oppositori. Il giudice verifica principalmente due cose: la fattibilità e convenienza della proposta rispetto all’alternativa del fallimento. Cioè: esiste una ragionevole aspettativa di realizzare X euro col piano proposto, e X euro sono maggiori o almeno pari a quanto i creditori riceverebbero in una liquidazione giudiziale? Se sì, e non ci sono violazioni di legge, può omologare il concordato semplificato anche contro il parere di tutti i creditori, poiché la legge non richiede il loro consenso formale.
  • Una volta omologato, come in un concordato liquidatorio, viene nominato un liquidatore giudiziale, che può essere lo stesso commissario o altra persona, per attuare le vendite e distribuire il ricavato ai creditori secondo quanto previsto. Finita la liquidazione, il tribunale dichiara chiuso il concordato semplificato e l’azienda (se è società) di norma si avvia alla cancellazione.
  • Se invece il tribunale non omologa (ad esempio perché ritiene la proposta non conveniente o non trasparente), dichiara inammissibile la proposta e a quel punto di solito i creditori o il PM chiederanno la liquidazione giudiziale (fallimento).
  • Durante il procedimento, su istanza, il debitore può ottenere misure protettive simili al concordato ordinario, e la procedura segue per certi versi la disciplina della liquidazione giudiziale se non diversamente disposto.

Differenze chiave dal concordato preventivo classico:

  • Mancanza di voto dei creditori: Il potere decisionale è spostato sui giudici. Questo è un enorme cambiamento: i creditori possono solo fare opposizione, ma non c’è un meccanismo di consenso quantitativo. Quindi se la proposta è solida e “il meglio possibile”, i creditori devono accettarla volenti o nolenti.
  • Accesso limitato: Come detto, non è uno strumento di prima istanza. Richiede quell’iter della comp. negoziata fallita.
  • Tempi potenzialmente più rapidi: Poiché salta la fase di votazione (che di solito porta via mesi), un concordato semplificato può arrivare a omologa più velocemente. Ed è concepito come procedura di closing dopo la comp. negoziata.
  • Campo di utilizzo ristretto: solo liquidazione. Non si può fare un concordato semplificato in continuità. Se c’è una chance di continuità, quell’azienda dovrebbe fare un concordato preventivo classico. Quindi il semplificato è per situazioni dove purtroppo l’azienda non è salvabile come attività, ma magari c’è un’offerta per l’intero complesso o per beni, e conviene procedere così per massimizzare il valore ed evitare il rito più lungo del fallimento.

Vantaggi possibili:

  • Evita ai creditori inerti o litigiosi di bloccare una soluzione. Se l’esperto in comp. negoziata ha individuato, ad esempio, un acquirente che paga 1 milione per prendere l’azienda intera e quel milione è il miglior scenario per i creditori, ma loro non hanno trovato un accordo per formalizzarlo (magari perché litigano su altro), con il semplificato l’imprenditore può comunque far andare in porto la vendita attraverso il tribunale. In pratica può forzare un esito che beneficerà tutti ma che non avevano saputo concordare da soli.
  • È più efficiente del fallimento in alcuni casi: si parte da un piano già definito, spesso con compratore individuato, invece di passare per la procedura fallimentare con aste che richiedono tempo. Ciò può significare maggior realizzo (un acquirente in concordato può impegnarsi a un prezzo, mentre in fallimento la stessa azienda, ferma, magari va all’asta a meno).
  • L’imprenditore mostra di aver fatto tutto il possibile: in caso di successivo fallimento, un tentativo di comp. negoziata + concordato semplificato rigettato indica comunque la volontà di evitare il peggio. Potenzialmente può mitigare accuse di mala gestio, anche se non è una protezione formale.
  • I costi dovrebbero essere minori di un concordato ordinario, per via delle fasi ridotte.

Criticità:

  • I creditori potrebbero percepire il semplificato come penalizzante per i loro diritti, e alcuni dottrina e giurisprudenza hanno guardato con diffidenza questo strumento. C’è il rischio di contenziosi e opposizioni forti: e se il tribunale rigetta l’omologa, si è perso tempo.
  • Finora (2022-2024) il concordato semplificato è stato applicato raramente. Ci sono stati casi di omologazione ma anche casi di rifiuto. Ad esempio, la recente pronuncia del Tribunale di Lecce nel febbraio 2025 ha rigettato un concordato semplificato ritenendo il piano troppo aleatorio. Ciò dimostra che i giudici pretendono proposte molto serie. Non basta dire “liquiderò il patrimonio”: bisogna avere già elementi concreti (acquirenti, valori di perizia).
  • Non essendoci voto, i creditori scontenti spesso cercheranno di far valere eventuali vizi per far fallire l’omologa. Quindi l’avvocato deve predisporre la domanda con estrema cura.
  • Vale solo come soluzione di ripiego: se c’erano risorse per fare un concordato ordinario che salvasse qualcosa, non usare il semplificato solo per evitare il voto (i giudici non gradirebbero l’uso strumentale).

Esempio concreto di concordato semplificato: Una piccola azienda artigiana, “Zeta Mobili”, dopo aver tentato invano la comp. negoziata, non è riuscita a trovare un accordo di ristrutturazione perché due banche litigavano su chi dovesse prendere ipoteca su un capannone. L’esperto tuttavia aveva trovato un acquirente interessato a comprare tutti i macchinari e il magazzino di Zeta per 300.000€, somma che avrebbe coperto in buona parte i debiti chirografari (le banche comunque hanno ipoteche e recupereranno dal capannone). Finita la comp. negoziata senza accordo, Zeta propone un concordato semplificato: vendere immediatamente i macchinari e le scorte all’acquirente per 300k (già pronto), vendere poi l’immobile all’asta e distribuire il ricavato secondo le priorità di legge. I creditori chirografari prenderebbero circa il 50%, molto di più che in fallimento stimato (20%). Le banche ipotecarie recuperano circa l’80% del loro credito vendendo il capannone (comunque meglio di un fallimento con capannone vuoto?). Alcuni creditori chirografari contestano perché speravano nel 100%, ma il tribunale, vista la perizia del commissario che attesta che 50% è il max ottenibile, omologa il concordato semplificato. Un liquidatore effettua subito la vendita dei macchinari (già concordata e autorizzata), incassa 300k e li distribuisce proporzionalmente ai chirografari, poi procede a vendere il capannone restituendo alle banche il loro. In meno di un anno la procedura si chiude e Zeta viene cancellata. I creditori hanno ricevuto più rapidamente di quanto avrebbero fatto in un fallimento e l’attività di Zeta prosegue indirettamente nell’azienda acquirente che ha integrato i suoi asset.

Piano di ristrutturazione soggetto a omologazione (PRO)

Il Piano di Ristrutturazione Soggetto a Omologazione, noto con l’acronimo PRO, è un istituto innovativo introdotto nel Codice della Crisi a seguito delle modifiche del 2022 (artt. 64-bis, 64-ter, 64-quater CCII) per recepire la Direttiva UE 2019/1023 in materia di ristrutturazioni preventive. Il PRO si pone a metà strada tra un accordo di ristrutturazione e un concordato: è sostanzialmente un piano di risanamento negoziato con i creditori, che tuttavia viene portato all’attenzione del tribunale per essere omologato e reso vincolante anche per eventuali dissenzienti. Si può definire come un concordato semplificato nelle formalità o un accordo rafforzato. Vediamone le caratteristiche:

Chi può accedervi: gli imprenditori commerciali non piccoli (quindi soggetti fallibili) in stato di crisi o insolvenza. Sono esclusi gli imprenditori sotto soglia (che hanno le procedure di sovraindebitamento) e immagino anche le grandi imprese soggette ad amministrazione straordinaria (che hanno il loro regime). Quindi la platea è la stessa di concordato/accordi. Deve esserci uno stato di crisi o insolvenza (definizioni come solito: crisi = probabile insolvenza, insolvenza = non poter adempiere regolarmente).

Natura del piano: Il PRO è un piano di ristrutturazione che può prevedere misure di ogni tipo – ristrutturazione del debito, aumenti di capitale, cessioni di beni, modifiche societarie – finalizzate a risanare l’impresa. A differenza del concordato preventivo tradizionale, il PRO offre maggiore libertà nella distribuzione del valore generato dal piano, introducendo la possibilità di derogare ai principi della responsabilità patrimoniale e della par condicio creditorum, a condizione che vengano rispettate alcune tutele fondamentali, prima fra tutte il pagamento integrale dei creditori lavoratori entro 30 giorni dall’omologazione. In termini semplici, il PRO consente di deviare dall’ordine normale di soddisfazione dei creditori e di riservare al debitore o ai soci una parte del valore (se ciò è funzionale al risanamento), cosa che normalmente non sarebbe ammessa (nel fallimento e in concordato vige la par condicio, tutti i creditori chirografari pari rango e i soci prendono qualcosa solo dopo che i creditori sono integralmente soddisfatti). Col PRO, invece, si può concordare che i creditori prendano, ad esempio, il 70% del valore realizzato e il 30% resti in azienda per sostenerne il rilancio, remunerando indirettamente i soci, purché nessun creditore abbia meno di quanto otterrebbe dalla liquidazione e i lavoratori vengano pagati integralmente subito. Questo meccanismo è pensato per favorire ristrutturazioni in cui anche gli azionisti mantengono un incentivo a risanare (non perdono tutto il capitale necessariamente) e dove si possono disegnare soluzioni più flessibili (ad esempio convertire parte dei debiti in strumenti partecipativi, o lasciare una parte di utili futuri ai vecchi proprietari). È un modo per incoraggiare i debitori ad attivarsi senza la prospettiva di “azzeramento” che hanno nel concordato tradizionale. Naturalmente, i creditori devono accettare questo schema votando il piano, altrimenti non va in porto.

Procedimento:

  • Il debitore elabora il PRO e lo deposita in tribunale con ricorso, insieme a una relazione di un professionista indipendente che attesti veridicità dei dati e fattibilità del piano. È prevista la suddivisione dei creditori in classi omogenee (simile al concordato). Il tribunale all’inizio valuta di non avere elementi di inammissibilità e nomina un giudice delegato e un commissario giudiziale (quest’ultimo come ausilio e controllo, analogamente al concordato).
  • Durante la pendenza, l’imprenditore rimane in possesso dell’azienda (debtor in possession), con la supervisione del commissario. Quindi il regime d’esercizio è simile al concordato in continuità: l’azienda continua a operare, ma atti straordinari con autorizzazione.
  • Si apre una fase di votazione sul piano da parte delle classi di creditori. Qui c’è una differenza: nel concordato ordinario serve maggioranza in numero e valore, qui il CCII stabilisce che la approvazione di tutte le classi si considera raggiunta se in ciascuna classe si ottiene o la maggioranza in valore dei crediti ammessi al voto, oppure i 2/3 dei crediti dei creditori votanti, purché rappresentino almeno la metà dei crediti di quella classe. Questa doppia soglia facilita l’approvazione se non tutti votano: es. in una classe un po’ pigri, se vota il 60% dei crediti ma di questi il 67% dice sì, e i sì rappresentano comunque ≥50% dei crediti totali di classe, la classe è considerata approvante. Il requisito “tutte le classi approvano” è quello base; tuttavia, analogamente al concordato, il tribunale può omologare anche in caso una o più classi non approvino, ricorrendo al meccanismo di cram-down interclassi (se il piano rispetta equità e convenienza per le classi dissenzienti, ecc., come da norme ispirate alla direttiva UE).
  • Una volta ottenuta l’approvazione richiesta, il tribunale procede all’omologazione del PRO, che lo rende efficace anche per i creditori che hanno votato contro o non hanno partecipato (purché ricadano nelle classi approvate/cramdownate). Dopo l’omologa, il piano entra nella fase di esecuzione sotto il controllo del commissario/giudice.
  • Se i creditori non approvano le classi necessarie, il PRO non viene omologato e generalmente l’esito sarà l’apertura di una liquidazione giudiziale (fallimento) a meno che il debitore non abbia un piano B (ma essendo già insolvente, poco altro c’è se il PRO fallisce, se non un concordato, ma a quel punto i creditori han già respinto un piano simile).

Differenze e vantaggi rispetto al concordato preventivo:

  • Permette come detto di divergere dal principio di assoluta priorità: in un concordato ordinario, i soci non possono mantenere valore se i creditori non sono pagati integralmente (salvo i piani in continuità dove è implicito che i soci restano proprietari, ma allora i creditori devono ricevere comunque il massimo possibile). Nel PRO i soci potrebbero ad esempio vedersi riconosciuta una parte del valore di risanamento. Questo allineamento di interessi può fare la differenza nell’impegno del debitore a risanare.
  • Maggiore flessibilità negoziale: si può modulare il trattamento dei creditori in modo più creativo. Esempio, nel PRO potresti proporre a creditori uguali trattamenti diversi se questi approvano in classi separate, mentre nel concordato c’è il vincolo di par condicio per stessi gradi. Qui, derivando dall’idea di piano negoziale, c’è più libertà (purché internamente alla classe c’è parità, ma puoi creare classi ad hoc se giustificato).
  • Procedura potenzialmente più snella: sebbene simile a un concordato, l’idea era di avere un percorso più rapido, con minor rigidità. Tuttavia, di fatto hai comunque un commissario e un giudice, quindi non è del tutto extragiudiziale.
  • Il PRO fu pensato anche per permettere di accedere a nuovi finanziamenti e atti in esenzione da revocatoria in maniera più integrata (il CCII prevede che col PRO si possano autorizzare finanziamenti prededucibili anche in corso di piano, e gli atti eseguiti sono protetti da revocatoria come nel concordato).
  • Uno scenario tipico per cui il PRO è utile: un’azienda grande con tanti creditori differenti che vuole ristrutturarsi mantenendo l’attività e i vecchi soci in parte al comando, convincendo i creditori a tagliare debiti in cambio di valore futuro. Con il PRO si può formalizzare questa “transazione generale” con l’avallo del tribunale.

Limiti:

  • È relativamente nuovo e quindi meno testato. Nel 2023 qualche PRO è stato presentato e omologato, ma la prassi è in evoluzione. Bisogna vedere come i tribunali applicano le regole, specie sul cram-down interclasse e simili.
  • Complessità: un PRO richiede di fatto di fare un piano molto ben elaborato e convincere i creditori a votarlo. Non c’è la scorciatoia della mancanza di voto come nel semplificato. Quindi serve comunque convincere le classi.
  • I creditori potrebbero diffidare del fatto che il PRO consenta al debitore di tenersi “una fetta”: ciò va spiegato chiaramente e giustificato dalla convenienza comparativa. Non tutti i creditori sono pronti ad accettare che i soci mantengano qualcosa, a meno che la prospettiva di liquidazione non li convinca che quella è una contropartita per aver creato più valore (es. i soci restano con quota azienda, ma l’azienda risanata grazie al loro impegno genera più valore per i creditori di uno scenario liquidatorio).
  • Condizioni obbligatorie come il pagamento integrale dei lavoratori entro 30 giorni dall’omologazione: questo è giusto per tutela sociale, ma significa che in un PRO non puoi postergare TFR, stipendi arretrati oltre brevissimo termine. Quindi devi avere soldi freschi per i dipendenti subito (cosa che ad esempio nel concordato in continuità puoi dilazionare un po’ di più alcuni crediti di lavoro se c’è CIGS ecc.). Qui c’è questa rigidità che va considerata nel fabbisogno finanziario iniziale.
  • Ambito soggettivo: solo imprese medio-grandi (non minori), e situazioni di crisi/insolvenza. Non per sovraindebitati (che hanno un istituto simile chiamato “piano di ristrutturazione del sovraindebitato” ma qui parliamo di CCII per imprese maggiori).

Esempio concreto di PRO: Una società industriale, Omega SpA, ha 100 milioni di debiti, un organico di 500 dipendenti e un know-how tecnologico importante. È insolvente, ma un investitore sarebbe disposto a finanziare il rilancio se i debiti vengono ridotti. I soci attuali vorrebbero restare con una quota. Omega elabora un PRO: prevede che i creditori finanziari (banche e obbligazionisti) con 60 milioni di crediti accettino uno haircut del 30% (quindi prendono 42 milioni) e convertano altri 10 milioni in partecipazioni di minoranza; i fornitori (10 milioni) prendono il 50% in cash e il resto li trasformano in voucher da spendere come clienti (nel senso magari particolarità contrattuali); i dipendenti rinunciano a alcune retribuzioni variabili pregresse ma ricevono tutti gli arretrati fissi entro 30 giorni dall’omologa (ciò grazie a 5 milioni che l’investitore nuovo immette subito in azienda dedicati al personale); i soci attuali mettono 5 milioni anch’essi e rimangono col 40% delle quote, mentre l’investitore nuovo prende 40% per 20 milioni di apporto e le banche/obbligazionisti convertiti 20%. In totale, i creditori finanziari recuperano circa il 70% dei crediti in valore presente tra cash e equity, i fornitori 50% ma mantengono il cliente per future forniture, i dipendenti mantengono il lavoro e hanno stipendi arretrati pagati, i soci non perdono tutto e hanno chance di recuperare in futuro se l’azienda torna a crescere. Si costituiscono classi: banche/obbligazionisti, fornitori, dipendenti (non votano perché soddisfatti integralmente e/o non soggetti a voto se privilegiati pagati in prededuzione). Banche e obbligazionisti (classe A) votano sì all’85% (erano ben informati durante comp. negoziata precedente), fornitori (classe B) votano sì al 80%. Il PRO viene omologato dal tribunale. Omega attua il piano: l’investitore e i soci versano i 25 milioni, pagano subito i dipendenti e il 50% fornitori, riavviano produzione. Anni dopo Omega è di nuovo sul mercato competitivo; i creditori finanziari incassano i 42 milioni previsti e mantengono una quota azionaria che magari sale di valore.

Liquidazione giudiziale (ex fallimento)

La liquidazione giudiziale è il nome che il Codice della Crisi dà alla procedura concorsuale di tipo liquidatorio che sostituisce il “fallimento” della legge precedente. In sostanza è la procedura di insolvenza terminale, in cui l’impresa insolvente viene spossessata e un curatore procede a liquidare il suo patrimonio per distribuire il ricavato ai creditori secondo le regole di priorità stabilite dalla legge. Rappresenta la soluzione estrema quando non vi è possibilità di risanamento o accordo.

Presupposti e apertura: Può essere soggetta a liquidazione giudiziale l’imprenditore commerciale non piccolo (sopra le soglie di fallibilità). La procedura si avvia con una sentenza dichiarativa emessa dal tribunale su ricorso del debitore stesso (autofallimento), di uno o più creditori, o su istanza del Pubblico Ministero in casi specifici (insolvenza manifesta, abbandono d’azienda, atti fraudolenti). Il tribunale accerta lo stato di insolvenza (l’incapacità non temporanea di soddisfare regolarmente le obbligazioni). Se accertato, dichiara aperta la liquidazione giudiziale. Nella sentenza nomina un Giudice Delegato e un Curatore (figura centrale che amministra la procedura), e ordina al debitore di depositare i bilanci e le scritture contabili. La sentenza viene pubblicata e iscritta, comportando effetti come la perdita di potere di gestione in capo all’imprenditore (lo spossessamento): l’imprenditore non può più disporre dei suoi beni, la rappresentanza legale passa al curatore.

Organi della procedura:

  • Curatore giudiziale: è un professionista (avvocato, commercialista o esperto di gestione) nominato per amministrare la massa fallimentare. Ha il compito di gestire e liquidare i beni dell’impresa insolvente e di soddisfare i creditori in conformità alla legge. Egli redige l’inventario, esamina l’andamento degli affari del fallito (può proporre azioni di responsabilità verso amministratori o revocatorie di pagamenti preferenziali fatti prima del fallimento), predispone il programma di liquidazione (il piano per vendere i beni, entro 60 giorni dalla dichiarazione, prorogabili a 90). Rappresenta la massa dei creditori.
  • Giudice Delegato (GD): vigila sulla procedura e decide su molte istanze durante il processo (ammissione di crediti, autorizzazioni di atti del curatore se richieste, ecc.).
  • Comitato dei creditori: un organo collegiale composto da 3 creditori nominati dal tribunale, rappresentativi di categorie diverse, con funzioni consultive e di controllo, e con poteri di autorizzazione su atti del curatore (ad esempio il GD delega spesso al comitato l’approvazione delle vendite). Non sempre viene formato se pochi creditori o se non è utile.

Effetti sugli atti e sui creditori: Con la dichiarazione di liquidazione giudiziale:

  • I creditori perdono la possibilità di agire individualmente per il recupero: i loro crediti restano sospesi e confluiscono nel concorso. Devono presentare domanda di insinuazione al passivo entro termini stabiliti (di solito 30-60 giorni prima dell’udienza di verifica).
  • I beni del debitore diventano “massa attiva”: il curatore li gestisce. I contratti in corso d’esecuzione al momento della dichiarazione il curatore può scioglierli o subentrarvi (a seconda di cosa conviene per la massa). I dipendenti: il curatore può sospendere o sciogliere i rapporti di lavoro (con tutele previste come l’intervento di garanzia INPS per TFR e salari arretrati – Fondo di Garanzia).
  • Gli amministratori (se società) decadono dalla funzione (in pratica non possono compiere atti per la società se non eventuali residui fini come consegna documenti). La società in fallimento mantiene la propria soggettività giuridica sino alla chiusura della procedura, ma è rappresentata dal curatore.
  • Atti dispositivi compiuti nei periodi sospetti prima del fallimento possono essere soggetti a azione revocatoria fallimentare per recuperare risorse alla massa (es. pagamenti a creditori fatti nei 6 mesi antecedenti preferendo alcuni ad altri, o atti anomali in un anno/2 anni a seconda dei casi). Questo per ristabilire la par condicio e punire favoritismi pre-fallimentari. Nel CCII queste azioni restano simili al passato con alcune differenze sui termini, ma concettualmente uguali.
  • Avvio di eventuali indagini per bancarotta: la sentenza di liquidazione viene comunicata al PM e può portare ad apertura di indagini penali se ci sono evidenze di reati fallimentari (distrazioni di beni, false comunicazioni, preferenze dolose, ecc.). Per l’imprenditore e gli amministratori questa è una conseguenza possibile e seria.

Svolgimento: Dopo la dichiarazione, il curatore svolge la fase di verifica del passivo: raccoglie le domande di insinuazione dei creditori, le esamina e predispone lo stato passivo (lista di crediti ammessi, con indicazione se privilegiati, chirografari, eventuali esclusi). Il GD tiene un’udienza dove decide su ammissioni ed esclusioni. Dopodiché, curatore e comitato dei creditori definiscono il programma di liquidazione (entro 90 giorni): come vendere i beni (asta, trattativa privata, spezzatino o azienda intera se ancora funziona), eventuali azioni legali da intraprendere (revocatoria, cause pendenti, ecc.), gestione crediti da incassare. Il GD approva il programma e il curatore procede ad attuarlo. Spesso si vendono prima beni mobili/inventario, poi immobili o rami d’azienda. Le vendite di rado soddisfano tutti i creditori, tipicamente i privilegiati possono recuperare in base al valore di garanzia e i chirografari prendono il residuo proporzionale. Ogni tanto arrivano proposte di concordato fallimentare (un accordo del debitore o terzi con creditori per chiudere prima, ma è un altro istituto).

La liquidazione può durare anni, specie se ci sono contenziosi o beni difficili da vendere. Il CCII spinge per velocità, ma la realtà dipende dal caso.

Chiusura: Si chiude con un decreto di chiusura della liquidazione giudiziale quando: o tutti i creditori sono stati pagati (caso rarissimo), oppure non ci sono attivo sufficiente o ne restano pochi da pagare (esaurimento dell’attivo), oppure con concordato fallimentare approvato, ecc. Per le società di capitali, la chiusura porta alla cancellazione della società (che cessa di esistere). Per gli imprenditori individuali, la chiusura consente di chiedere l’esdebitazione delle eventuali passività residue (liberazione dai debiti rimasti insoddisfatti), previa verifica di condotta collaborativa etc. I creditori insoddisfatti non possono più rivalersi sul fallito persona fisica esdebitato; se la fallita era una società, i creditori insoddisfatti restano senza azioni (società estinta, possono solo agire su eventuali garanti personali etc.).

Valutazione per l’imprenditore:
La liquidazione giudiziale è certamente l’esito da evitare se c’è speranza di risanamento, perché comporta la perdita dell’azienda. Tuttavia, a volte, quando la situazione è compromessa, è meglio accettarla presto piuttosto che tardi: prima si liquida, più valore residuo c’è per i creditori. L’imprenditore che capisce di non poter salvare l’impresa può lui stesso chiedere il fallimento: è duro, ma in certi casi eticamente e legalmente è la scelta corretta (riduce i danni futuri). Va ricordato che eventuali ritardi colposi nell’aver portato l’impresa al fallimento possono generare azioni di responsabilità da parte del curatore (per mala gestione o per aver aggravato il dissesto). Per cui, se si vede inevitabile la fine, farlo in modo ordinato (ad esempio collaborando col curatore, anticipando i libri in tribunale, etc.) è consigliabile.

Esempio brevissimo di liquidazione giudiziale: La “Alpha Srl” viene dichiarata insolvente su ricorso di alcuni fornitori. Il tribunale nomina il curatore. Emerse poche speranze: l’azienda era ferma e i macchinari obsoleti. Il curatore vende l’immobile e i macchinari all’asta, incassa un ricavato. Ammessi al passivo 100 creditori per 5 milioni. Si incassano 1.5 milioni dalle vendite; vanno prima al curatore per spese e ai creditori privilegiati (dipendenti, fisco per privilegi, banca su ipoteca sull’immobile). Rimangono 200 mila da dare ai chirografari su 3 milioni di crediti chirografari ammessi: ogni chirografaro prende circa il 6%. La procedura dura 3 anni tra vendite e riparti. La società viene cancellata. I soci hanno perso il capitale; gli amministratori vengono citati dal curatore perché hanno continuato l’attività quando erano già insolventi aggravando il buco, e il curatore riesce a farsi risarcire da loro 100 mila euro (che ripartisce integrando un po’ i creditori). L’imprenditore individuale Tizio di altra ditta in fallimento invece ottiene l’esdebitazione perché ha cooperato: dopo la chiusura, i suoi debiti residui (per 50mila euro) vengono cancellati e può ripartire da zero.

Strumenti per imprese minori e sovraindebitamento (concordato minore, liquidazione controllata)

Non tutte le imprese rientrano nella categoria delle fallibili: le imprese minori (sotto certe soglie dimensionali) e gli imprenditori non commerciali (es. professionisti, agricoltori sotto soglie specifiche) non sono soggetti alle procedure viste finora (concordato preventivo, accordi ex art.57, fallimento). Per loro, il Codice della Crisi, in attuazione della normativa sul sovraindebitamento, prevede procedure ad hoc, che mantengono principi simili ma con adattamenti. Non è l’obiettivo principale di questa guida, ma per completezza menzioniamo brevemente:

  • Concordato minore: È una procedura concorsuale per debitori sotto-soglia (piccoli imprenditori, start-up, professionisti, consumatori in attività economica limitata) che funziona analogamente al concordato preventivo ma con alcune semplificazioni. Ad esempio, non c’è obbligo di attestazione di un professionista indipendente (anche se di fatto serve un piano sostenibile), la votazione ha regole leggermente diverse e il tribunale può omologare anche in mancanza di voto se ritiene la proposta conveniente (in parte simile all’idea del cram down). Il concordato minore può essere in continuità o liquidatorio, e ha soglie di accesso più basse (basta trovarsi in stato di sovraindebitamento non gestibile diversamente). Mira a offrire anche ai piccoli la chance di un accordo con i creditori.
  • Piano di ristrutturazione del consumatore o del debitore civile: Per soggetti non fallibili esiste anche la procedura di piano del consumatore (se persona fisica che ha debiti prevalentemente personali, non d’impresa) o piano di ristrutturazione per altri debitori non fallibili. Questi piani sono simili a un concordato, ma più semplificati: il giudice può omologare il piano del consumatore anche senza l’accordo dei creditori, se ritiene il piano equo e che il sovraindebitato meriti l’esdebitazione.
  • Liquidazione controllata del sovraindebitato: È l’equivalente del fallimento per i non fallibili. Un liquidatore nominato dal tribunale liquida i beni del piccolo imprenditore o persona sovraindebitata e distribuisce il ricavato. Dopo ciò, il debitore può ottenere l’esdebitazione di legge (anche immediatamente a volte, se è nullatenente, c’è l’esdebitazione del debitore incapiente come istituto).

Per un piccolo imprenditore artigiano, quindi, le strade in crisi sono: tentare un accordo piano o accordo con i creditori, oppure se non va liquidazione controllata e esdebitazione. La composizione negoziata è aperta anche a loro (tutte le imprese iscritte, incluse piccole e agricole, possono accedere), quindi anche il piccolo può usare quell’assistenza, con la differenza che l’esito potrà essere un concordato minore o un piano di ristrutturazione.

Esempio: Un artigiano con debiti 300k attiva un piano del consumatore (se in gran parte privati) o un concordato minore. Propone di pagare 50k in 4 anni provenienti dal suo futuro stipendio (magari chiude l’attività e si impiega) in soddisfazione integrale di privilegiati e parziale dei chirografari. Il giudice può omologare anche se qualche creditore è contrario, purché il piano soddisfi il criterio di miglior soddisfazione rispetto alla liquidazione. Se poi l’artigiano esegue quei pagamenti, avrà l’esdebitazione del resto. Se non ce la fa, può cadere in liquidazione controllata dove il liquidatore venderà la casa e altri beni, e poi anch’egli potrà chiedere l’esdebitazione.

Consigli pratici per gli imprenditori su come affrontare la crisi

Abbiamo esaminato in dettaglio obblighi, ruoli e strumenti. Per concludere, riepiloghiamo alcuni consigli pratici rivolti agli imprenditori che si trovano ad affrontare (o temono di affrontare) una situazione di crisi aziendale. Questi suggerimenti sono frutto sia delle previsioni normative sia dell’esperienza pratica su cosa fa la differenza tra un caso di crisi risolto bene e uno degenerato in fallimento rovinoso.

1. Non negare i segnali di crisi – agisci tempestivamente: Il primissimo consiglio è di adottare un atteggiamento1. Non negare i segnali di crisi – agisci tempestivamente: Il primissimo consiglio è di adottare un atteggiamento proattivo e onesto verso i segnali di difficoltà. Se i numeri iniziano a peggiorare (perdite di bilancio, calo di liquidità, ritardi nei pagamenti), non minimizzare pensando “passerà”. La negazione o l’inazione prolungata sono tra le cause principali di fallimenti irreversibili. Al contrario, riconosci di essere in crisi il prima possibile: questo ti darà più opzioni di intervento. La legge oggi valorizza il comportamento dell’imprenditore che rileva tempestivamente la crisi e cerca soluzioni. Ad esempio, se inizi a non dormire la notte pensando alle scadenze, non aspettare che arrivi la cartella esattoriale o la causa del fornitore: prendi subito appuntamento col tuo commercialista o un consulente per analizzare la situazione. Non vergognarti di ammettere la crisi: succede in molte imprese per motivi interni o esterni (basti pensare alla pandemia, all’aumento delle materie prime, ecc.). Quello che conta è come reagisci. Un imprenditore che affronta di petto i problemi spesso ottiene anche maggiore comprensione e collaborazione da parte di dipendenti e partner, perché trasmette serietà e volontà di risolvere.

2. Coinvolgi presto professionisti esperti: Appena percepisci che la crisi non è solo passeggera, chiama un avvocato specializzato in crisi d’impresa e possibilmente anche un consulente finanziario (commercialista o advisor). Non aspettare di essere con l’acqua alla gola per cercare aiuto. Professionisti esperti possono aiutarti a vedere soluzioni che tu, immerso nei problemi quotidiani, non individui. Ad esempio, potrebbero suggerirti di attivare una composizione negoziata o di predisporre un piano di risanamento quando tu magari ignori l’esistenza di questi strumenti. È importante scegliere professionisti con esperienza specifica nel settore del restructuring: il cugino avvocato che fa solo civile o il commercialista che si occupa solo di contabilità non sono la scelta ottimale per gestire una crisi complessa. Chiedi referenze, verifica che abbiano seguito casi analoghi. Anche se ti sembrerà un costo in un momento in cui i soldi scarseggiano, è un investimento che può salvare l’azienda (o massimizzare il valore in caso di liquidazione). Concorda magari parcelle sostenibili (ci sono anche opzioni di successo fee – compensi legati al buon esito). Con i tuoi consulenti, non nascondere nulla: per aiutarti hanno bisogno di un quadro completo e trasparente. Mentire al tuo avvocato o omettere informazioni (es. “quel debito preferisco non dirlo”) è autolesionista. Ricorda che vige il segreto professionale, quindi puoi aprirti.

3. Comunica con i tuoi soci e il tuo organo di controllo: Se hai soci o un consiglio di amministrazione, non tenere la crisi solo per te (ad esempio se sei AD). Convoca un’assemblea o un CDA straordinario, illustra con dati la situazione. Meglio affrontare anche conversazioni difficili (come la necessità di mettere altri soldi in azienda, o di rinunciare a dividendi) subito e non quando è troppo tardi. Se in azienda c’è un collegio sindacale o revisore, il dialogo è fondamentale: questi soggetti hanno obblighi di segnalazione, ma non sono “nemici”, anzi spesso possono diventare alleati nel convincere i soci o terzi della gravità del momento. Un sindaco che vede l’azienda attivarsi e collaborare sarà meno portato a misure drastiche e più incline a supportare richieste (ad esempio potrebbe sostenere davanti alle banche che l’azienda sta reagendo correttamente). Quindi, no all’isolamento: la crisi d’impresa è un problema collettivo dell’azienda, non un affare privato da nascondere finché possibile.

4. Valuta l’opzione della composizione negoziata: Se la tua azienda ha prospettive di sopravvivenza ma necessita di accordi con i creditori, prendi seriamente in considerazione di attivare una composizione negoziata della crisi. Questo strumento, come visto, è riservato e volontario, e ti mette a disposizione un esperto che facilita le trattative. Non aspettare di essere già insolvente conclamato: la composizione negoziata funziona meglio se c’è ancora fiducia e margine di manovra. È ideale ad esempio se prevedi tensioni nei prossimi 6-12 mesi ma non sei ancora saltato: puoi coinvolgere banche e fornitori in anticipo. Molti imprenditori temono che attivarla sia “il segnale di resa”: in realtà può essere interpretata come un atto di responsabilità e professionalità. Ci sono casi di aziende che, grazie alla comp. negoziata, hanno evitato il fallimento raggiungendo accordi (benchè la percentuale di successi sia attorno al 19%, per chi ce la fa i benefici sono enormi). Un consiglio: se la attivi, cerca di instaurare un buon rapporto con l’esperto nominato. Fornisci subito tutte le informazioni richieste, mostra collaborazione, accetta i suoi consigli. L’esperto farà un report finale: se tu hai cooperato e la cosa comunque non è andata a buon fine, lui lo scriverà e questo ti tutelerà (nessuno potrà dire che non hai provato). Inoltre, sfrutta l’esperto come “ambasciatore” neutrale: se un creditore non si fida di te, lascialo parlare con l’esperto che può spiegargli oggettivamente la situazione.

5. Se necessario, chiedi misure protettive (ma prepara il mercato): Nel caso tu attivi la composizione negoziata o un accordo di ristrutturazione o concordato, avrai la possibilità di ottenere d’urgenza misure protettive (lo stay dei creditori). Non esitare a chiederle se hai il timore concreto di azioni aggressive che possano far saltare il banco (pignoramenti, istanze di fallimento, revoche di fidi cruciali). Una protezione del tribunale ti dà quel “respiro” per lavorare al piano senza l’acqua alla gola. Tuttavia, ricorda che le misure protettive vengono pubblicate e rese note: preparati a gestire la comunicazione di questa pubblicità. Prevedi una strategia di comunicazione verso clienti, fornitori e dipendenti: ad esempio, una lettera o un comunicato in cui spieghi che “l’azienda ha avviato un processo di ristrutturazione e ottenuto una protezione temporanea prevista dalla legge, con l’obiettivo di tutelare al meglio tutti i portatori di interesse e garantire la continuità”. Informa i dipendenti direttamente per evitare panico (meglio sentirlo da te che dal gossip). Con i fornitori, se hai buoni rapporti, rassicura che le forniture attuali saranno pagate (le misure protettive bloccano i crediti pregressi, non quelli futuri: quindi offri pronta cassa sulle nuove forniture se puoi, per tenerli a bordo). Questo modo proattivo di comunicare trasmette controllo della situazione, invece di lasciar dilagare voci incontrollate.

6. Prepara un budget di crisi e conserva la cassa: In periodi di crisi la gestione della liquidità è vitale. Fai un budget di tesoreria a breve termine (settimanale o mensile) per capire quanta cassa hai e per quanto tempo. Identifica le uscite imprescindibili (stipendi, fornitori chiave per non fermare l’attività, utenze) e quelle differibili (ad esempio investimenti non urgenti, spese di rappresentanza, premi). Taglia i costi superflui immediatamente; ogni euro risparmiato è un euro in più per guadagnare tempo. Cerca di accumulare cassa per le trattative: i creditori saranno più disponibili se vedono che puoi offrire subito un pagamento (anche parziale) piuttosto che promesse a lungo termine. Ad esempio, se immagini di proporre ai fornitori un 30% subito e 70% a rate, devi avere quel 30% pronto. Se così non fosse, valuta se puoi ottenere finanziamenti-ponte (con garanzia pubblica, con sovvenzioni, con anticipazioni fatture). Nella crisi spesso cash is king: privilegia gli incassi (spingi sui crediti clienti, magari offrendo sconti per pagamenti anticipati) e modera i pagamenti in uscita con attenzione. Ovviamente fallo nei limiti della correttezza: non pagare nessuno per mesi potrebbe portare ad azioni legali immediate; meglio pagare poco a tutti che tanto a qualcuno e zero ad altri (per equità e anche per evitare poi eventuali revocatorie o accuse di favoritismo). Il tuo consulente legale ti guiderà su quali pagamenti puoi o devi fare (ad esempio salari e contributi vanno onorati il più possibile, se no perdi dipendenti e rischi sanzioni; i debiti strategici idem).

7. Considera soluzioni “esterne” – nuovi soci o investitori: La crisi può essere anche un’opportunità per fare entrare nuovi partner nella società o vendere rami d’azienda non strategici. Spesso l’imprenditore è affezionato al controllo, ma in tempi difficili un socio forte può salvare il business e anche la tua posizione (meglio avere una quota più piccola di qualcosa che sopravvive, che il 100% di niente). Valuta quindi se ci sono competitor, fornitori, clienti o investitori finanziari che potrebbero essere interessati ad entrare. A volte i fornitori o clienti stessi preferiscono sostenere l’azienda in cui sono coinvolti piuttosto che perderla (pensiamo ai casi in cui i fornitori finanziano temporaneamente il cliente in crisi per non perderlo). Fatti aiutare dall’advisor nel cercare possibili interessati – anche tramite il network delle Camere di Commercio o associazioni di categoria. Se emergono potenziali investitori, coinvolgili presto nel processo (possono partecipare alle trattative di composizione negoziata ad esempio). Naturalmente, qualunque nuovo socio vorrà vedere un piano credibile e probabilmente richiederà sacrifici (diluizione quote, cambi di management). Sii aperto a queste possibilità. Esempio: un concorrente potrebbe rilevare un tuo stabilimento evitando il tuo fallimento; in cambio però vorrà licenza su brevetti o assumere alcuni manager chiave. Valuta pragmaticamente cosa è meglio per l’azienda e per te nel lungo termine.

8. Mantieni un dialogo franco con banche e creditori chiave: Non sparire e non evitare le telefonate dei creditori. Al contrario, appena hai un quadro di cosa vuoi fare (magari dopo aver parlato con i consulenti), incontra i creditori principali uno a uno. Spiega loro la situazione, riconosci i tuoi debiti (mai litigare negando l’evidenza – se devi dei soldi non li farai arrabbiare dicendo che hanno torto a chiedere). Dimostra che hai un piano o che ci stai lavorando seriamente. Se hai attivato una procedura (comp. negoziata o altro), informali e spiegane il significato. Molta conflittualità nasce dalla mancanza di informazioni: un fornitore lasciato all’oscuro penserà che stai facendo il furbo o privilegiando altri, e sarà tentato di farti causa subito. Se invece lo informi che “sto affrontando una ristrutturazione, ti chiedo di pazientare 2 mesi e nel frattempo ti garantisco le forniture future in contanti e ti proporrò un piano entro fine mese”, è più probabile che aspetti e non faccia mosse aggressive. Con le banche, cerca un approccio professionale: presentati con dati, mostra il piano di risanamento o almeno un budget di cassa, evidenzia che stai tagliando costi. Spesso le banche apprezzano la trasparenza e preferiscono rinegoziare il credito piuttosto che avviare il recupero giudiziale (costoso e incerto). Fissa riunioni, porta il tuo consulente se necessario (le banche parlano volentieri col consulente finanziario). Se la banca percepisce che stai “prendendo in mano la crisi”, magari ti concede anche nuova finanza di emergenza (specie se garantita dallo Stato o con prededuzione in un accordo). Infine, non illudere i creditori con promesse che non puoi mantenere (“ti pago sicuro tra 15 giorni” se sai che non sarà possibile): questo distrugge la fiducia. Meglio essere prudento-realistici nelle promesse e poi magari sorprendere in positivo.

9. Proteggi il patrimonio personale per quanto lecito: Molti imprenditori hanno mescolato patrimonio aziendale e personale (fideiussioni personali per debiti dell’azienda, immobili personali dati in garanzia, conti correnti personali usati per l’attività). Quando la crisi si manifesta, purtroppo il rischio di perdere beni personali è elevato. È tardi per fare pianificazioni patrimoniali (trust, fondi patrimoniali, donazioni ai familiari) se la crisi è già in atto: anzi, farlo ora potrebbe essere revocabile o considerato in frode ai creditori. Tuttavia, puoi ancora fare alcune mosse nel rispetto della legge: per esempio, negozia con le banche la liberazione di garanzie personali come condizione del nuovo piano (se offri loro un rientro più alto, chiedi in cambio di svincolare la tua fideiussione residua). Oppure, valuta di destinare eventuali beni personali liquidabili ad alimentare il piano concordatario, ottenendo in cambio l’esdebitazione (esplicita o di fatto). Se hai proprietà personali non essenziali, potrebbe convenire venderle volontariamente tu e mettere la liquidità nel risanamento, piuttosto che attendere che vengano pignorate a valori più bassi. Ovviamente questa è una scelta dolorosa, ma fai il calcolo: se vendendo la casa al mare riesci a salvare l’azienda e la tua casa principale, ne vale la pena. Concorda queste mosse con i consulenti per evitare implicazioni di revocatoria. E ricorda: se la società fallisce e tu hai fatto pagamenti a te stesso o ai soci in precedenza (prestiti soci restituiti, compensi eccessivi), il curatore potrebbe chiederti di restituirli. Quindi mantieni un profilo sobrio: non sottrarre risorse all’azienda in crisi per metterle al sicuro personalmente, perché rischi conseguenze giudiziarie (azione di mala gestio o perfino bancarotta). Piuttosto, se c’è margine legale, pensa in anticipo (quando l’azienda sta bene) a separare patrimoni; ma al manifestarsi della crisi agisci in trasparenza.

10. Documenta ogni decisione e mantieni le scritture in ordine: Durante la crisi, tieni un registro delle decisioni importanti. Fai verbali dei Consigli di Amministrazione o assemblee in cui discuti della crisi e annoti le deliberazioni (es. “si decide di attivare composizione negoziata e nominare advisor, perché emergono indici di crisi DSCR <1”). Manda comunicazioni scritte ai sindaci/revisori sulle azioni intraprese. Conserva copia di tutte le proposte fatte ai creditori e delle risposte. Questo non solo aiuta a organizzare il lavoro, ma tornerà utile se a posteriori qualcuno contesterà il tuo operato: avrai le prove che hai agito in modo diligente e informato. Tieni aggiornata la contabilità giorno per giorno: durante le procedure concorsuali dovrai esibire i dati e il commissario/curatore scruterà ogni cosa. Se mancano documenti o si trovano scritture confuse, perderai credibilità e potresti incorrere in sanzioni. Anche eventuali errori fiscali o mancate dichiarazioni pregresse è meglio sistemarle (magari con dichiarazioni integrative) prima di andare dal giudice: mostrati rispettoso delle regole, stai chiedendo un aiuto della legge, quindi tu per primo devi rispettarla. La trasparenza e la completezza informativa sono le tue alleate. Esempio: se fai un pagamento urgente fuori piano, annota perché l’hai fatto (es. fornitore critico che altrimenti fermava la produzione) così se qualcuno lo contesterà, potrai giustificarlo.

11. Prendi decisioni difficili con coraggio (tagli, ristrutturazioni interne): Affrontare la crisi spesso implica prendere decisioni impopolari o dolorose: ridurre personale, chiudere filiali poco redditizie, tagliare prodotti non profittevoli, vendere asset storici. Rimandare questi tagli sperando di evitarli può condannare tutta l’azienda. Meglio intervenire in modo chirurgico e tempestivo. Se devi fare tagli al personale, informati subito sulle procedure di legge (consultazioni sindacali, possibilità di Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria per crisi aziendale, ecc.) e gestiscile umanamente ma con fermezza: spiega ai dipendenti che pochi sacrifici possono salvare tutti gli altri posti di lavoro. Se devi cessare un’attività secondaria che però ti sta a cuore, ricordati che l’obiettivo principale è salvare il cuore dell’impresa. Concentrati sul core business che ha futuro, e sacrifica ciò che la zavorra. Queste azioni interne non sono solo utili economicamente, ma mandano un segnale forte anche ai creditori: se vedono che stai riducendo i costi e prendendo provvedimenti energici, saranno più propensi a credere nel tuo piano di risanamento. Al contrario, se tentenni e non tagli niente, penseranno che non sei realistico.

12. Considera gli impatti fiscali e legali delle scelte – no soluzioni improvvisate: In crisi, la tentazione di inventarsi soluzioni “creative” può essere forte (ad esempio: vendere a prezzo di favore beni a un amico con accordo occulto di riaverli dopo il fallimento; oppure gonfiare fatture per ottenere finanziamenti maggiori). Evita assolutamente scorciatoie illegali o borderline: non solo rischi sanzioni penali, ma spesso questi stratagemmi emergono e fanno saltare l’intera operazione di risanamento. Tutto ciò che fai, fallo alla luce del sole e con l’avallo dei consulenti. Ad esempio, se vuoi cedere un ramo d’azienda a una NewCo dei tuoi familiari, chiedi al tuo avvocato come strutturarlo correttamente e a valori equi, per evitare che un domani un curatore dica che era un atto in frode. Oppure, se il piano prevede di generare utili futuri, considera il carico fiscale: chiedi al commercialista di stimare le tasse sulle remissioni dei debiti (magari puoi sfruttare il beneficio fiscale pubblicando un piano attestato). In sintesi, non improvvisare basandoti sul “sentito dire” o su quello che fece Tizio (ogni caso ha le sue implicazioni). Segui il percorso legale in modo rigoroso: oggi la normativa offre molte vie lecite per ridurre i debiti (transazione fiscale, stralci concordatari, esenzioni da revocatoria), quindi non c’è bisogno di furbizie nascoste.

13. Tieni motivati e informati i tuoi dipendenti chiave: Il capitale umano è cruciale per superare la crisi. Spesso i dipendenti avvertono l’odore di crisi (stipendi in ritardo, voci di fornitori) e l’incertezza può demotivarli o farli scappare – proprio quando hai più bisogno di loro. Identifica un piccolo gruppo di persone di fiducia (management o maestranze chiave) e coinvolgile nel piano di risanamento: spiega la situazione con trasparenza (magari non tutti i numeri, ma le linee generali), chiedi il loro supporto e magari idee su come migliorare efficienza. Questo li farà sentire parte della soluzione e non vittime passibili. Ovviamente, devi essere sincero: non promettere che nessuno sarà toccato se sai che alcuni esuberi sono inevitabili. Piuttosto, spiega che farai il possibile per ridurli e che chi resta sarà l’ossatura per ripartire. Spesso i dipendenti apprezzano la sincerità e ricambiano con impegno extra. Ad esempio, in non poche ristrutturazioni, i lavoratori hanno accettato riduzioni temporanee dell’orario o sospensioni degli straordinari pur di aiutare l’azienda a risparmiare, quando è stato spiegato loro il perché. Inoltre, se la tua impresa è piccola e familiare, i dipendenti potrebbero avere suggerimenti dall’“officina” su dove tagliare costi o come aumentare la produttività (chi meglio di loro conosce certe inefficienze?). Incoraggiali a proporre e valuta le loro idee.

14. Valuta l’utilizzo parziale degli strumenti – piani “ibridi”: Come si è visto, esiste una gamma di strumenti. Non è detto che se ne debba usare uno solo. Spesso le soluzioni vincenti combinano vari pezzi: ad esempio, puoi iniziare con un piano attestato di risanamento per accordarti con alcune banche e, parallelamente, depositare un accordo di ristrutturazione omologato per coinvolgere i creditori fiscali col cram-down. Oppure, puoi tentare la composizione negoziata e, se vedi che molti creditori ci stanno tranne pochi, passare a un concordato preventivo (in cui i pochi dissenzienti verranno comunque trascinati nel voto a maggioranza). Non avere timore di “cambiare cavallo in corsa” se necessario: l’importante è farlo con cognizione. Ad esempio, stabilisci delle tappe (milestone) con i consulenti: “Se entro tale data non otteniamo adesioni sufficienti all’accordo stragiudiziale, predisponiamo il concordato preventivo e lo depositiamo”. Così hai un piano B pronto. L’ordinamento consente anche di trasformare una procedura nell’altra (es. da concordato “in bianco” puoi virare a domanda di liquidazione giudiziale se vedi che non riesci a presentare il piano; oppure da composizione negoziata come detto a concordato semplificato). Sfrutta questa flessibilità in modo strategico, sempre con l’obiettivo di massimizzare il risultato per l’azienda e i creditori.

15. Cura la tua tenuta psicologica e preparati al peggio (piano di uscita): Gestire una crisi d’impresa è stressante; implica lunghe ore di lavoro, conflitti, ansie finanziarie e anche emotive (l’azienda spesso è come un figlio per l’imprenditore). È fondamentale cercare di mantenere la lucidità: confidati con qualcuno (oltre ai consulenti) – può essere un mentor, un collega imprenditore che ci è passato, o anche uno psicologo del lavoro. Questo ti aiuta a reggere lo stress e a non prendere decisioni impulsive dettate dalla paura o dall’orgoglio ferito. Inoltre, sebbene tu stia lottando per salvare l’azienda, preparati anche all’eventualità che non si salvi. Avere un “piano di uscita” ti dà paradossalmente più forza nel trattare, perché hai considerato il worst case e sai come affronterai anche quello. Un piano di uscita può significare: valutare cosa farai se l’azienda chiude (hai competenze per ricollocarti? puoi aprire un’attività più piccola? hai beni personali protetti su cui vivere per un po’? etc.), parlare con la famiglia per avere il loro supporto qualsiasi cosa accada, informarti sulla possibilità di esdebitazione così da sapere che anche nel fallimento c’è vita dopo (il fallito onesto viene liberato dai debiti). Questa preparazione mentale non è sintomo di arrendersi, ma di essere un generale che pianifica sia la vittoria sia l’eventuale ritirata strategica. Paradossalmente, chi è preparato al peggio spesso riesce meglio ad evitarlo, perché non è paralizzato dal terrore di esso.

16. Non perdere di vista l’operatività quotidiana: Mentre ti occupi di piani, procedure e incontri con avvocati, l’azienda deve continuare (se in continuità). Assicurati che almeno una persona (o tu stesso in parte del tempo) si occupi di mandare avanti il business corrente: servire i clienti rimasti, mantenere la qualità dei prodotti/servizi, evitare che la crisi di liquidità diventi anche crisi di reputazione per mal servizo. Molte imprese in concordato, ad esempio, perdono poi mercato perché i titolari si concentrano solo sulla finanza e dimenticano i clienti. Devi fare due cose in parallelo: gestione straordinaria (risanamento) e gestione ordinaria. Se possibile delega quest’ultima a manager operativi di fiducia temporaneamente, spiegando loro l’importanza di tenere duro. Ricordati: se riesci a salvare l’azienda ma nel frattempo hai perso tutti i clienti, avrai vinto la battaglia finanziaria ma perso quella industriale. Quindi proteggi il “core business”: se ci sono fornitori da pagare assolutamente perché altrimenti non puoi consegnare ai clienti top, devi farlo (magari chiedendo autorizzazione nelle procedure per pagarli come crediti prededucibili). Se c’è un cliente chiave preoccupato, chiamalo di persona e rassicuralo che il progetto verrà consegnato. Questa attenzione all’operatività aumenterà anche le chance di successo del tuo piano di risanamento, perché un’azienda che, pur tra le difficoltà, continua a funzionare, appare più meritevole agli occhi di creditori e giudici rispetto a una che si disfa durante la procedura.

17. Impara dalla crisi ed evita di ripetere gli errori: Infine, qualunque sia l’esito – risanamento o purtroppo chiusura – fai tesoro delle lezioni apprese. Se salvi l’azienda, implementa strutture di controllo permanente: magari prima eri molto sbilanciato sull’intuito e poco sui numeri, ora saprai che avere un controllo di gestione efficiente ti allerta in tempo; magari prima dipendevi troppo da un singolo cliente o fornitore, ora diversificherai meglio; forse tenevi una leva finanziaria troppo alta, ora lavorerai per avere meno debito e più capitale. Rendi questi miglioramenti strutturali. Se invece l’azienda non ce l’ha fatta, analizza a mente fredda cosa si poteva fare diversamente (senza colpevolizzarti eccessivamente, ma per apprendere). E soprattutto, riparti se puoi: molti grandi imprenditori hanno avuto fallimenti iniziali prima di trovare la strada del successo. L’importante è ripartire avendo preservato la propria onorabilità: se hai gestito la crisi con correttezza, i fornitori, le banche e anche i futuri soci lo riconosceranno e saranno più disponibili a darti credito in nuove iniziative. Al contrario, se avessi lasciato macerie ingovernate, quell’ombra ti seguirebbe. Quindi consolati sapendo che affrontare bene una crisi è indice di maturità imprenditoriale, e che anche in caso di sconfitta, l’esperienza accumulata sarà il tuo capitale nel futuro.

Conclusione

Affrontare la crisi d’impresa è una sfida complessa, ma come abbiamo visto, non è necessariamente un vicolo cieco. La normativa attuale, aggiornata al 2025, offre un ventaglio di strumenti che, se utilizzati con competenza e nei tempi giusti, permettono spesso di evitare il tracollo definitivo e di rilanciare l’impresa su basi più sane oppure di liquidarla in modo ordinato e dignitoso. Il filo conduttore di tutte queste soluzioni è la tempestività e la consapevolezza: un imprenditore informato, supportato da bravi professionisti e pronto a fare scelte coraggiose ha molte più probabilità di successo.

Ricordiamo alcuni punti cardine emersi in questa guida:

  • Prevenire è meglio che curare: dotarsi di assetti adeguati e monitorare gli indicatori finanziari consente di intercettare i sintomi della crisi con anticipo, quando ancora si può invertire la rotta.
  • Legalità e trasparenza: usare gli strumenti di allerta e composizione previsti dalla legge (come la composizione negoziata) non è un segno di debolezza ma di gestione responsabile. Inoltre, mantenere la correttezza nelle azioni (niente distrazioni o favoritismi illeciti) oltre a essere un dovere, protegge l’imprenditore da future sanzioni.
  • Centralità dell’avvocato e dei consulenti: non si affronta una crisi da soli. Il ruolo dell’avvocato specializzato è quello di un regista che coordina l’orchestra di misure e soggetti coinvolti, dal piano alle trattative fino in tribunale. Scegliere bene i propri alleati professionali è metà della battaglia vinta.
  • Coinvolgimento dei creditori: che sia tramite accordi stragiudiziali, voti in concordato o negoziazioni mediate da esperti, i creditori sono sempre protagonisti delle soluzioni. Vanno convinti con la logica (dimostrando la convenienza della soluzione proposta rispetto alle alternative) e spesso col cuore (instaurando un clima di fiducia e rispetto).
  • Strumenti su misura: ogni crisi è diversa. Il Codice della Crisi mette a disposizione “cassetta degli attrezzi” con piani attestati, accordi, PRO, concordati, ecc. Non c’è uno strumento migliore in assoluto: c’è quello adatto a quel caso. Capire quale si adatta richiede analisi e spesso creatività nel combinarli. L’importante è mantenere l’attenzione sulle finalità: salvare la continuità aziendale quando c’è del valore da preservare, oppure massimizzare il soddisfacimento dei creditori e permettere al debitore di ripartire quando la continuità non è più possibile.
  • Cultura della crisi come parte del ciclo aziendale: storicamente in Italia c’era stigma attorno al fallimento; oggi si vuole promuovere l’idea che la crisi è gestibile e può essere superata, se affrontata senza tabù. Imprenditori più preparati sul fronte della crisi saranno anche più propensi ad assumere rischi consapevoli e a innovare, sapendo di avere paracadute.

In conclusione, agli imprenditori diciamo: non siete soli di fronte alla crisi. Usate questa guida come punto di partenza, dialogate con professionisti, e non perdete l’ottimismo imprenditoriale che vi ha portato a creare e gestire la vostra impresa. Molte aziende, anche famose, sono passate attraverso momenti bui e ne sono uscite più forti (pensiamo ad esempio a casi di ristrutturazioni di successo, sia in Italia sia all’estero, dove grazie a concordati o accordi i marchi hanno continuato a vivere). Con determinazione, trasparenza e gli strumenti giusti, la crisi d’impresa può diventare un’occasione di cambiamento e rinascita più che una fine.

Fonti: Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza aggiornato (D.Lgs. 14/2019 e s.m.i.), Direttiva UE 2019/1023, approfondimenti giurisprudenziali e dottrinali recenti, prassi operative e linee guida ministeriali sulla composizione negoziata, nonché esperienze applicative come da casi riportati (Tribunale di Lecce 18/2/2025 sul concordato semplificato, rapporto Unioncamere 2024 sulla composizione negoziata, Relazione Ufficio Massimario Cassazione 2025 sulle modifiche del Codice). Questi riferimenti confermano e completano quanto esposto, offrendo un quadro normativo e pratico solido per guidare l’imprenditore attraverso le turbolenze della crisi d’impresa.

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  • Analisi dei debiti aziendali (banche, fornitori, fisco, INPS, dipendenti)
  • Esame della situazione patrimoniale e reddituale dell’impresa e dei soci
  • Predisposizione di piani di ristrutturazione del debito
  • Gestione delle trattative con i creditori
  • Attivazione di procedure protette, come:
    • Composizione Negoziata della Crisi d’Impresa (D.L. 118/2021)
    • Concordato minore e Accordi di composizione per imprese non fallibili
    • Liquidazione controllata per chi intende chiudere e ripartire
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Le Qualifiche Dell’Avvocato Monardo

  • Gestore della Crisi da Sovraindebitamento, iscritto al Ministero della Giustizia
  • Fiduciario di un Organismo di Composizione della Crisi (OCC)
  • Esperto Negoziatore della Crisi d’Impresa, abilitato ex D.L. 118/2021
  • Coordinatore di una rete nazionale di avvocati e commercialisti esperti in crisi d’impresa, diritto bancario e tributario

In conclusione

Una crisi d’impresa non si risolve con l’improvvisazione. Serve un piano, servono strumenti legali, serve esperienza.
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