Liquidazione Giudiziale Imprenditore: Cosa Fare, Quando È Obbligatoria e Come Evitare

Liquidazione Giudiziale Imprenditore: Cosa Fare, Quando È Obbligatoria e Come Evitare

La liquidazione giudiziale è la procedura concorsuale prevista dal nuovo Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (D.Lgs. 14/2019) per gestire l’insolvenza degli imprenditori. Essa ha sostituito il “fallimento” dal 15 luglio 2022, data di entrata in vigore del Codice, conservandone l’impianto di fondo ma introducendo importanti novità terminologiche e procedurali. In questa guida tecnica approfondita forniremo un quadro completo della liquidazione giudiziale rivolto a imprenditori individuali e società, con istruzioni operative, riferimenti normativi aggiornati e orientamenti giurisprudenziali.

Cosa troverai in questa guida di Studio Monardo, gli avvocati specializzati in cancellazione debiti degli imprenditori:

  • La definizione di liquidazione giudiziale e in cosa differisce dal precedente fallimento.
  • I soggetti coinvolti: chi può essere assoggettato alla procedura (imprenditori individuali e società) e chi ne è escluso.
  • Quando è obbligatoria la liquidazione giudiziale: i presupposti di legge (stato d’insolvenza, limiti dimensionali) e gli obblighi dell’imprenditore.
  • Il procedimento completo, suddiviso in fasi: avvio dell’istanza, istruttoria pre-fallimentare, sentenza di apertura, svolgimento (accertamento del passivo, liquidazione dell’attivo, ripartizione) e chiusura della procedura.
  • I ruoli e compiti del Tribunale (Giudice Delegato), del Curatore e – per confronto – del Commissario Giudiziale (figura tipica del concordato preventivo).
  • Gli effetti patrimoniali e personali per l’imprenditore sottoposto a liquidazione giudiziale, inclusi obblighi, limitazioni legali e possibili conseguenze penali in caso di comportamenti scorretti.
  • Gli effetti sui contratti in corso, sui rapporti di lavoro dipendente e sui beni aziendali.
  • Come evitare la liquidazione giudiziale, esplorando gli strumenti di allerta e composizione della crisi, le soluzioni alternative (concordato preventivo, accordi di ristrutturazione) e le possibilità di accordo con i creditori durante la procedura per scongiurare la liquidazione totale.
  • Gli effetti della chiusura della procedura: cosa accade al termine, la riabilitazione dell’imprenditore, l’eventuale esdebitazione (liberazione dai debiti residui) e la sorte dell’impresa.

Utilizzeremo un linguaggio tecnico-legale chiaro e struttureremo il testo in capitoli numerati, con paragrafi brevi e numerati per facilitarne la consultazione. Troverai inoltre checklist operative, schemi procedurali riassuntivi e riferimenti a norme (aggiornate alle ultime modifiche, inclusi i correttivi del 2022 e 2024) e a sentenze e orientamenti giurisprudenziali rilevanti, per offrire una guida rigorosa e aggiornata.

Passiamo ora ad esaminare nel dettaglio la liquidazione giudiziale, iniziando dalla sua definizione e dalle differenze con il vecchio fallimento.

Andiamo ora ad approfondire con Studio Monardo, gli avvocati che aiutano le imprese con debiti:

1. Cos’è la Liquidazione Giudiziale

  1. Definizione generale – La liquidazione giudiziale è la procedura concorsuale giudiziaria finalizzata a liquidare il patrimonio di un imprenditore insolvente per soddisfare in modo proporzionale i suoi creditori. In altre parole, è lo strumento attraverso cui, in caso di insolvenza conclamata, il patrimonio dell’imprenditore (sia persona fisica che società) viene vincolato e gestito da un organo nominato dal tribunale (il Curatore) per convertire i beni in denaro e ripartirlo tra i creditori secondo le regole di legge. Si tratta di una procedura collettiva e forzosa: collettiva perché coinvolge tutti i creditori (che non possono più agire individualmente), forzosa perché attuata coattivamente dall’autorità giudiziaria.
  2. Evoluzione dal “fallimento” – La liquidazione giudiziale ha sostituito il fallimento tradizionale con il nuovo Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza, entrato in vigore a luglio 2022. Il legislatore ha scelto di cambiare denominazione per attenuare la connotazione negativa del termine “fallimento” e lo stigma sociale del “fallito”. Pur nel cambio di nome, va evidenziato che nella sostanza la disciplina rimane molto simile a quella del previgente fallimento. La liquidazione giudiziale conserva infatti i medesimi presupposti (insolvenza dell’imprenditore commerciale non piccolo) e la stessa finalità liquidatoria. Come vedremo, il Codice ha introdotto alcune modifiche procedurali per rendere il processo più efficiente e ha inserito la liquidazione giudiziale in un sistema più ampio, in cui si dà maggiore spazio a soluzioni alternative per il risanamento dell’impresa in crisi.
  3. Finalità della procedura – Lo scopo primario della liquidazione giudiziale è realizzare in modo ordinato e imparziale il patrimonio del debitore a beneficio di tutti i creditori. Ciò significa che, una volta aperta la procedura, i singoli creditori non possono più perseguire autonomamente i propri crediti (ad esempio tramite pignoramenti), ma devono partecipare al concorso presentando domanda nel passivo della procedura. Un organo indipendente (il Curatore) provvederà a raccogliere e liquidare i beni dell’imprenditore insolvente e a distribuirne il ricavato secondo le cause legittime di prelazione (privilegi, ipoteche, pegni) e, in mancanza, proporzionalmente tra i creditori chirografari (senza garanzie). La procedura mira dunque alla par condicio creditorum (parità di trattamento dei creditori), salvo le preferenze stabilite dalla legge.
  4. Collocazione nel Codice della Crisi – Il nuovo Codice della Crisi d’Impresa colloca la disciplina della liquidazione giudiziale dopo quella degli strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza alternativi (piani di risanamento, accordi di ristrutturazione, concordato preventivo). Questa scelta sistematica segnala che la liquidazione giudiziale è considerata una soluzione residuale e ultima ratio: l’“estrema risorsa” da attivare solo quando il risanamento o la continuità aziendale non sono più possibili. In altre parole, il legislatore incentiva le imprese in difficoltà a cercare soluzioni concordate o strumenti di composizione negoziata della crisi per evitare la ben più drastica procedura liquidatoria, come tratteremo nel Capitolo 9.
  5. Base normativa – La disciplina della liquidazione giudiziale è contenuta negli articoli 121-283 del Codice (Parte II del D.Lgs. 14/2019). Tali articoli, integrati e corretti da successivi interventi normativi (D.Lgs. 147/2020, D.Lgs. 83/2022 di attuazione della direttiva UE “Insolvency”, e da un ulteriore correttivo D.Lgs. 136/2024), disciplinano i presupposti, l’apertura, lo svolgimento e la chiusura della procedura. Molte norme riprendono concetti già noti nella legge fallimentare (R.D. 267/1942) eventualmente riadattandoli. Nella trattazione seguente citeremo i principali articoli del C.C.I.I. e, ove opportuno, richiameremo i corrispondenti articoli della vecchia legge fallimentare per evidenziarne la continuità o le differenze.

2. Differenze tra Liquidazione Giudiziale e vecchio Fallimento

  1. Terminologia e approccio culturale – La differenza più evidente è terminologica: si parla di “liquidazione giudiziale” invece che di “fallimento”. Come anticipato, questo cambiamento nasce dall’esigenza di ridurre lo stigma associato al fallimento. Il Codice della Crisi evita espressioni come “fallito” o “procedura fallimentare”, sostituendole con termini più neutri (es. “debitore assoggettato a liquidazione giudiziale”). Nella sostanza, tuttavia, il contenuto della procedura resta analogo: l’imprenditore insolvente viene spossessato dei suoi beni e questi ultimi sono liquidati per pagare i creditori. Si tratta dunque soprattutto di un rebranding normativo, più che di una rivoluzione concettuale.
  2. Struttura procedurale – Il funzionamento operativo della liquidazione giudiziale ricalca ampiamente quello del fallimento. Le fasi fondamentali (istruttoria pre-fallimentare, sentenza dichiarativa, nomina degli organi, verifica del passivo, liquidazione dell’attivo, riparti e chiusura) permangono. Il Codice ha però razionalizzato alcuni passaggi per rendere la procedura più efficiente. Ad esempio, sono stati introdotti termini più stringenti: è fissato un termine di due anni dall’apertura entro cui completare la liquidazione dell’attivo (prorogabile dal giudice solo in casi complessi) e sono incoraggiati riparti parziali periodici ogni quattro mesi per distribuire tempestivamente le somme ai creditori. Il tribunale può inoltre delegare al Giudice Relatore alcune attività istruttorie in fase di apertura per accelerare i tempi. Queste innovazioni mirano a rendere la procedura più rapida e snella rispetto al passato, dove i fallimenti duravano spesso molti anni.
  3. Emersione anticipata della crisi – Una differenza di contesto importante è che il nuovo Codice predispone vari strumenti per intercettare la crisi prima che degeneri in insolvenza. Si pensi agli obblighi organizzativi posti a carico degli amministratori (adozione di assetti adeguati, art. 3 C.C.I.I.) e agli istituti di composizione negoziata della crisi introdotti nel 2021 (D.L. 118/2021) ed ora integrati nel Codice. L’intento è di favorire il risanamento o la ristrutturazione del debito quando ancora l’impresa è in “stato di crisi” (difficoltà reversibili) e di prevenire l’insolvenza. Di conseguenza, nel sistema attuale la liquidazione giudiziale è pensata come extrema ratio, attivata solo dopo aver eventualmente tentato soluzioni alternative (piani attestati, accordi di ristrutturazione dei debiti, concordato preventivo). Questa enfasi sulla prevenzione rappresenta una novità di approccio rispetto al vecchio regime, in cui spesso si arrivava direttamente al fallimento senza passaggi intermedi.
  4. Piccoli aggiustamenti normativi – Altre differenze puntuali includono: l’innalzamento di taluni limiti di importo (anche se i principali – soglie d’impresa minore e debito minimo – restano invariati, come vedremo tra poco); una più precisa disciplina dei contratti pendenti nella liquidazione (il Codice dedica specifici articoli, es. art. 172, 175, 177 C.C.I.I., mentre la legge fall. ne trattava agli art. 72-83); una revisione della terminologia degli atti (es. il vecchio “decreto di esecutività dello stato passivo” diventa un “decreto di accertamento del passivo”). Tuttavia, queste differenze non alterano la natura sostanziale della procedura di liquidazione giudiziale, che rimane sovrapponibile al fallimento nella maggior parte degli aspetti. Un commentatore l’ha definita “una nuova veste per un abito noto”: diverso nome, stessa funzione di liquidazione concorsuale.
  5. Esempio pratico – In concreto, per un imprenditore insolvente, essere dichiarato in liquidazione giudiziale nel 2025 comporta conseguenze molto simili a quelle che avrebbe comportato essere dichiarato fallito nel 2010: perderà l’amministrazione dei beni, un curatore gestirà e venderà il suo patrimonio, i suoi creditori dovranno insinuarsi al passivo e saranno pagati secondo l’ordine dei privilegi. Ciò che cambia è il contesto: oggi quell’imprenditore avrebbe (o avrebbe dovuto avere) strumenti per evitare di arrivare a quel punto (allerta interna, composizione negoziata, ecc.), e durante la procedura potrebbero esserci tempi più contingentati e procedure telematiche più avanzate (ad esempio le vendite tramite Portale delle Vendite Pubbliche). Inoltre, non verrà più etichettato ufficialmente come “fallito”, ma semplicemente come debitore in liquidazione giudiziale.

In sintesi, la liquidazione giudiziale non modifica in modo significativo la disciplina del fallimento, ma la inserisce in un sistema più moderno che privilegia il salvataggio dell’impresa ove possibile e che cerca di ridurre i tempi e i costi delle procedure liquidatorie. Nel prossimo capitolo esamineremo chi sono i soggetti interessati da questa procedura e con quali requisiti.

3. Soggetti coinvolti e requisiti di fallibilità

  1. Imprenditori commerciali insolventi – La liquidazione giudiziale si applica agli imprenditori commerciali in stato di insolvenza che superino certi requisiti dimensionali. Questo è il presupposto soggettivo principale: occorre essere imprenditore commerciale, ossia svolgere un’attività economica professionale organizzata al fine della produzione o scambio di beni o servizi (art. 2082 c.c.), escluse quindi le categorie non commerciali come imprenditori agricoli e professionisti. Inoltre, come vedremo subito, l’impresa non dev’essere di dimensioni minime al di sotto delle soglie di legge. Questi criteri riprendono quelli storicamente previsti per la fallibilità nell’ordinamento italiano. In breve, chi può fallire può oggi essere soggetto a liquidazione giudiziale, e viceversa.
  2. Esclusione delle “imprese minori” – Sono esclusi dalla liquidazione giudiziale (e dalle altre procedure concorsuali maggiori) gli imprenditori che dimostrino di rientrare nella categoria di “impresa minore” ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. d) C.C.I.I.. Il Codice definisce impresa minore l’impresa che rispetta congiuntamente (cioè contemporaneamente) i seguenti tre requisiti di piccola dimensione:
  • Attivo patrimoniale annuo ≤ 300.000 € nei tre esercizi antecedenti la domanda (oppure dalla data di inizio attività se l’impresa è attiva da meno di tre anni).
  • Ricavi annui ≤ 200.000 € (calcolati in qualsiasi modo, ad esempio come fatturato) nei tre esercizi precedenti.
  • Debiti totali ≤ 500.000 €, comprendendo anche quelli non ancora scaduti.

Nota: queste soglie sono identiche a quelle già previste dall’art. 1 della vecchia legge fallimentare dopo la riforma del 2006, e sono state confermate dal nuovo Codice. Il Codice prevede un meccanismo di adeguamento triennale di tali importi (art. 348 C.C.I.I.) in base agli indici ISTAT, ma al 2025 risultano ancora invariate. Pertanto, un’impresa individuale o società che non supera queste tre soglie contemporaneamente viene considerata “minore” e non può essere dichiarata in liquidazione giudiziale.

  1. Procedure alternative per non fallibili – Gli imprenditori sotto soglia (imprese minori), gli imprenditori agricoli, i professionisti, i consumatori e in generale i soggetti non assoggettabili a liquidazione giudiziale hanno comunque accesso ad altre procedure concorsuali, in particolare a quelle di composizione della crisi da sovraindebitamento (come il “concordato minore” e la “liquidazione controllata” previsti dal C.C.I.I. per i soggetti non fallibili). Ad esempio, un piccolo artigiano con debiti di 100.000 € può ricorrere alla liquidazione controllata (ex legge 3/2012), ma non potrà subire una liquidazione giudiziale su istanza dei creditori. Questa distinzione è importante: la guida presente si concentra sulla liquidazione giudiziale, quindi sui casi di insolvenza di imprese non piccole. Se rientri nella categoria dei “non fallibili”, le procedure e le tutele sono differenti (pur avendo finalità analoghe), e dovresti far riferimento alla disciplina specifica sul sovraindebitamento.
  2. Società e soci – La liquidazione giudiziale può colpire tanto le società commerciali (società di capitali o di persone che esercitano attività commerciale) quanto gli imprenditori individuali. In caso di società di persone (snc, sas, etc.) insolvente, l’apertura della procedura coinvolge in estensione anche i soci a responsabilità illimitata. Il Codice infatti prevede (in continuità con l’art. 147 l.fall.) che se è dichiarata la liquidazione giudiziale di una società personale, sono dichiarati in liquidazione giudiziale anche i soci illimitatamente responsabili (pur se persone fisiche) entro l’anno dallo scioglimento del rapporto sociale. Ad esempio, se fallisce una SNC, il tribunale contestualmente dichiara la liquidazione giudiziale dei singoli soci illimitatamente responsabili, con patrimonio personale incluso nella procedura (distinta ma in collegamento con quella sociale). Questa regola garantisce che i creditori sociali possano aggredire anche i beni personali dei soci illimitatamente responsabili, evitando che la procedura sulla sola società sia insoddisfacente. Va precisato che i soci di società di capitali (es: S.r.l., S.p.A.) non rispondono dei debiti sociali, dunque il fallimento della società non trascina i soci (salvo casi di abuso come la responsabilità per società di fatto o azione di responsabilità per mala gestione).
  3. Enti esclusi – Non tutte le entità economiche possono fallire. Anche con il nuovo Codice restano escluse dalla liquidazione giudiziale:
  • Enti pubblici economici (lo prevede espressamente l’art. 1, co.2 C.C.I.I.).
  • Grandi imprese soggette ad amministrazione straordinaria speciale (es. banche, assicurazioni, grandi imprese ex legge Marzano): queste seguono procedure concorsuali speciali di diritto pubblico e non il C.C.I.I.
  • Imprese già cessate da oltre un anno: se l’imprenditore è uscito dal mercato da molto tempo, non è più soggetto a fallimento. In particolare, se una società è cancellata dal Registro Imprese da oltre un anno, non si può più chiederne la liquidazione giudiziale (art. 33 C.C.I.I., in continuità con l’art. 10 l.fall.). Analogamente, la liquidazione giudiziale dell’imprenditore individuale defunto può avvenire solo entro un anno dalla morte. Oltre tali termini, i creditori dovranno rifarsi su eventuali eredi con azioni individuali (se accettano l’eredità) o subire le conseguenze di un’eventuale rinuncia.

Esempio: se un imprenditore individuale è deceduto nel 2020 e i suoi debiti emergono ora, nel 2025, non sarà possibile aprire una liquidazione giudiziale postuma perché oltre il limite annuale. I creditori eventualmente agiranno verso gli eredi (salvo diversa regolamentazione, ad esempio accettazione con beneficio d’inventario).

  1. Soggetti legittimati a richiedere la procedura – I protagonisti “attivi” della liquidazione giudiziale non sono solo il debitore e i creditori, ma anche altri attori istituzionali. La legittimazione a presentare l’istanza di apertura spetta infatti, ai sensi dell’art. 37 C.C.I.I., a:
  • Debitore insolvente (istanza di “autofallimento”).
  • Uno o più creditori (istanza di fallimento da parte di terzi).
  • Pubblico Ministero (P.M.), nei casi previsti (tipicamente se l’insolvenza emerge da procedimenti penali o segnalata da un giudice civile).
  • Organi di controllo o vigilanza sull’impresa (novità del Codice): ad esempio, autorità di vigilanza come Banca d’Italia per alcune imprese finanziarie, o la stessa Agenzia delle Entrate, potrebbero essere legittimate a segnalare l’insolvenza e promuovere l’istanza. Questa previsione è intesa a permettere che enti pubblici preposti possano attivare la procedura in presenza di situazioni di insolvenza grave, a tutela dell’interesse generale (si pensi a casi di insolvenza che mette a rischio dipendenti o creditori diffusi).

Approfondiremo nel capitolo successivo come e quando ciascuno di questi soggetti può (o deve) attivarsi. Ma è importante sin da ora notare che l’imprenditore insolvente non è l’unico soggetto coinvolto: anche i creditori e le autorità possono innescare la procedura.

  1. Insolvenza transfrontaliera e gruppi – Da notare che il Codice disciplina anche l’insolvenza dei gruppi di imprese (con procedure coordinate) e recepisce la normativa UE sull’insolvenza transfrontaliera. Se un imprenditore ha attività in più Stati UE, potrà venire aperta una procedura di insolvenza principale nel Paese del centro degli interessi principali (COMI) e procedure secondarie negli altri, in coordinamento. Questa guida però mantiene il focus sul diritto italiano interno, supponendo che l’insolvenza riguardi primariamente l’Italia.

Checkpoint: Se sei un imprenditore individuale o il rappresentante di una società, verifica innanzitutto se rientri tra i soggetti fallibili. Se la tua impresa è di dimensioni molto piccole (sotto tutte le soglie viste) o è agricola, la liquidazione giudiziale non potrà essere applicata, e dovresti piuttosto considerare le procedure da sovraindebitamento. Se invece superi anche uno solo dei parametri dimensionali (es. debiti per 800mila €), allora rientri nella categoria assoggettabile a liquidazione giudiziale, con tutte le conseguenze che ne derivano.

4. Quando la Liquidazione Giudiziale è obbligatoria (presupposto d’insolvenza)

  1. Stato di insolvenza: presupposto oggettivo – La liquidazione giudiziale può essere aperta soltanto se l’imprenditore si trova in stato di insolvenza, ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. b) C.C.I.I.. L’insolvenza è definita dalla legge come l’incapacità del debitore di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni, manifestata attraverso inadempimenti od altri fatti esteriori che dimostrino questa incapacità. In pratica, un imprenditore è insolvente quando non riesce più, con i flussi di cassa e il patrimonio disponibile, a far fronte ai debiti alle scadenze convenute. Questo concetto, invariato rispetto alla nozione dell’art. 5 legge fallimentare, è un requisito imprescindibile: se non c’è insolvenza non può esservi liquidazione giudiziale, per quanto elevati siano i debiti. Ad esempio, un’impresa molto indebitata ma che sta pagando regolarmente le rate ed è in bonis non è insolvente (può essere in crisi, ma non ancora insolvente).
  2. Indicatori di insolvenza – La legge non elenca specifici indici quantitativi (come rapporti di bilancio) per definire l’insolvenza, demandando al giudice la valutazione caso per caso. Tuttavia la giurisprudenza ha elaborato criteri pratici: inadempimenti significativi e persistenti (p.es. mancato pagamento di fornitori per mesi, scoperti bancari cronicizzati, rate di mutuo scadute, stipendi arretrati), pignoramenti infruttuosi subiti, protesti di assegni o cambiali, blocco dei conti. Anche eventi come la chiusura dell’attività, la fuga dell’imprenditore o la vendita in massa di beni possono costituire “fatti esteriori” rivelatori dell’insolvenza.
    • Cassazione 7252/2014: ha affermato che l’insolvenza è “uno stato d’impotenza non transitoria a soddisfare le obbligazioni inerenti all’impresa, che si esprime nell’incapacità di procurarsi mezzi finanziari normali se non a costo di rovinose decurtazioni patrimoniali”. In breve, l’impresa insolvente non genera più flussi sufficienti e neppure riesce a ottenere credito sul mercato se non a condizioni proibitive.
    • Impresa in attività vs in liquidazione: la valutazione dell’insolvenza può differire a seconda che l’impresa sia operativa o già in fase di liquidazione volontaria. Per un’impresa in esercizio, conta soprattutto la liquidità: anche con attivi consistenti, se manca la cassa per pagare debiti immediati, l’impresa è insolvente. Viceversa, per un’impresa già posta in liquidazione volontaria, rileva di più la eccedenza del passivo sull’attivo (patrimonio netto negativo): poiché l’impresa ha cessato i nuovi affari, l’insolvenza si manifesta come incapienza patrimoniale rispetto ai debiti. La Corte d’Appello di Venezia (2019) ha precisato che un’impresa in liquidazione è insolvente se l’attivo realizzabile non coprirà il passivo, anche se al momento tutti i debiti non sono ancora scaduti.
  3. Debito minimo di 30.000 € – Oltre all’insolvenza, la legge richiede un ulteriore parametro oggettivo: non si procede alla liquidazione giudiziale se l’ammontare complessivo dei debiti scaduti e non pagati è inferiore a 30.000 euro. Questa soglia, introdotta nel 2007 nel vecchio art. 15 l.fall., è stata confermata dal Codice. Significa che piccoli casi di insolvenza sotto tale importo non giustificano l’apertura di una procedura concorsuale (si presume possano risolversi con azioni esecutive individuali). Ad esempio, se un imprenditore ha 25.000 € di debiti scaduti che non riesce a pagare, tecnicamente insolvente, non potrà comunque essere dichiarato in liquidazione giudiziale per il mancato superamento della soglia (salvo che emergano altri debiti occulti che portino il totale sopra 30k). NB: il limite si riferisce ai debiti scaduti e impagati al momento della decisione: se sono stati insoluti almeno 30.000 € di debiti, la soglia è superata e la procedura può partire.
  4. Obbligo di chiedere il proprio fallimento? – Nel nostro ordinamento non esiste un termine fisso entro cui l’imprenditore insolvente deve depositare istanza di liquidazione giudiziale (a differenza di altri paesi, es. in Germania l’organo amministrativo deve farlo entro 3 settimane dall’insolvenza). Tuttavia, esistono forti incentivi e obblighi indiretti a non ritardare indebitamente la dichiarazione di insolvenza:
  • Dovere di gestione prudente: gli amministratori di società hanno, ex art. 2086 c.c., il dovere di attivarsi per adottare strumenti di risanamento quando la società è in crisi o insolvente. Continuare l’attività in stato di insolvenza, aggravando il dissesto, può comportare responsabilità verso creditori per aggravamento del passivo.
  • Conseguenze penali: il Codice prevede il reato di bancarotta semplice anche per l’ingiustificato ritardo nella richiesta di liquidazione giudiziale. L’art. 324 lett. c) e d) C.C.I.I. punisce con reclusione fino a 2 anni l’imprenditore insolvente che aggrava il proprio dissesto astenendosi dal richiedere la propria liquidazione giudiziale o che lo ritarda con colpa grave. Questo significa che, pur senza un termine perentorio, se il tribunale accerta che l’imprenditore ha continuato l’attività accumulando debiti invece di dichiarare fallimento, potrà essere perseguito penalmente.
  • Interesse a beneficiare dell’esdebitazione: un imprenditore persona fisica che collabora tempestivamente ha maggiori chance di ottenere l’esdebitazione (liberazione dai debiti residui) alla fine della procedura. Al contrario, chi dissipa risorse cercando di rimandare il fallimento potrebbe vedersi negato questo beneficio (lo vedremo più avanti).
  • Credibilità presso il tribunale: presentare un’istanza di autofallimento tempestivamente può essere visto con favore dall’autorità giudiziaria, mentre subire l’istanza dai creditori dopo inerzia può far presumere condotte dilatorie.
  1. Quando diventa inevitabile – In pratica la liquidazione giudiziale è obbligatoria o inevitabile quando l’impresa è insolvente e non c’è alcuna soluzione alternativa praticabile. Se l’imprenditore non prende l’iniziativa, uno o più creditori (o il PM) prima o poi lo faranno. L’esperienza mostra che, superato un certo punto di non ritorno (insolvenza grave, perdita di fiducia generalizzata di fornitori e banche), il fallimento è questione di tempo. Dunque l’imprenditore diligente, raggiunto quello stadio, dovrebbe valutare seriamente di chiederlo egli stesso, magari dopo aver tentato un accordo con i creditori. È meglio, dicono in molti, un “piccolo fallimento oggi” che un “grande fallimento domani” (ossia fermare l’emorragia prima che i debiti crescano ancora).
  2. Insolvenza reversibile vs irreversibile – Da un punto di vista aziendale, c’è differenza tra crisi e insolvenza temporanea (che possono essere risolte) e insolvenza conclamata e irreversibile. La liquidazione giudiziale è obbligatoria quando l’insolvenza non è più reversibile: ad esempio, l’impresa ha perso i mercati, ha debiti scaduti enormi che non possono essere rinegoziati, oppure il patrimonio è inferiore ai debiti in modo insanabile. Se invece l’insolvenza è solo temporanea (p.es. un ritardo di pagamenti ma con ordini in crescita e possibilità di finanziamenti nuovi), allora c’è spazio per misure alternative (moratorie, concordati in continuità). In sede di istruttoria, lo stesso tribunale valuta se l’insolvenza può essere superata diversamente: il Codice enfatizza la preferenza per soluzioni che evitino la cessazione dell’attività. Ciò non toglie però che quando tutti i tentativi di salvataggio falliscono, la liquidazione diventa necessaria “in ultima spiaggia”.
  3. Esempi pratici di obbligatorietà:
  • Caso 1: Deterioramento finanziario irreversibile – Una S.r.l. manifatturiera accumula perdite per tre anni, il patrimonio netto diventa negativo, le banche revocano gli affidamenti e avviano decreti ingiuntivi. L’azienda non ha più liquidità per materie prime né credito in piazza. A questo punto l’insolvenza è conclamata: se la società non presenta istanza di liquidazione, lo faranno sicuramente i fornitori o le banche (che superano il credito di 30k). La liquidazione è di fatto obbligata.
  • Caso 2: Sentenza di risarcimento ingente – Un imprenditore individuale perde in tribunale una causa e viene condannato a pagare 500.000 €. Non avendo quelle somme e non potendo rateizzare, di fatto diventa insolvente (prima magari era in equilibrio). Appena il creditore ottiene il titolo, se vede che l’imprenditore non paga, può presentare istanza di fallimento. A meno che l’imprenditore trovi immediatamente un accordo o risorse insperate, la procedura è pressoché inevitabile.
  • Caso 3: Insolvenza con rilevanza pubblica – Una società di medie dimensioni con 50 dipendenti non paga gli stipendi da mesi e sospende i lavori. Qui, oltre ai creditori, può intervenire il Pubblico Ministero, ad esempio su segnalazione dell’Ispettorato del lavoro o d’ufficio, perché la situazione genera allarme sociale. Se l’insolvenza è reale, la dichiarazione di liquidazione può essere sollecitata dalla Procura come atto dovuto per tutelare i lavoratori e i creditori (e congelare eventuali condotte distrattive).
  1. Checklist – Segnali di allarme e obblighi dell’imprenditore: Ecco una lista di controllo per l’imprenditore che sospetta di essere in insolvenza o prossimo ad essa:
    • Debiti scaduti significativi: Somma i debiti scaduti (fornitori non pagati, rate mutate insolute, tributi arretrati): se superano €30.000 e non hai mezzi per saldarli a breve, sei a rischio di istanza di fallimento.
    • Liquidità esaurita e fidi revocati: Le casse sono vuote e le banche non concedono nuovi fidi? Questo è un chiaro sintomo d’insolvenza. Valuta se hai asset liquidabili subito o se devi attivare procedure concorsuali.
    • Atti esecutivi dai creditori: Hai ricevuto pignoramenti, decreti ingiuntivi, precetti? Un creditore aggressivo potrebbe a breve presentare istanza di liquidazione giudiziale. Non ignorare questi segnali.
    • Mancato pagamento di stipendi o contributi: Se non riesci a pagare i dipendenti o i contributi previdenziali, l’insolvenza è grave. Inoltre, c’è rischio di segnalazione al PM: considera l’ipotesi di avviare tu stesso una procedura concorsuale (concordato o liquidazione).
    • Crisi irreversibile del modello di business: Se la tua impresa ha perso commesse chiave, o il prodotto è obsoleto, e non c’è piano di rilancio credibile, trascinare l’attività peggiorerà solo l’esposizione debitoria. Meglio fermarsi e attivare la procedura, anche per evitare responsabilità personali.
    • Consulenza professionale: Rivolgiti tempestivamente a un professionista (commercialista, avvocato esperto in crisi d’impresa) appena i segnali sopra emergono. Sarà in grado di consigliarti sul percorso: tentare un risanamento guidato (se c’è margine) o preparare l’istanza di liquidazione giudiziale nella maniera più ordinata possibile. Non aspettare l’ultimo minuto o, peggio, l’arrivo dell’ufficiale giudiziario.

In conclusione, la liquidazione giudiziale diventa obbligatoria di fatto quando l’insolvenza dell’imprenditore è conclamata e non sanabile. A quel punto, è preferibile agire proattivamente (richiedendo l’apertura o concordando con i creditori soluzioni controllate) piuttosto che attendere passivamente il fallimento su iniziativa altrui, con possibili aggravamenti e conseguenze peggiori.

5. Avvio della procedura: istanza e dichiarazione di liquidazione giudiziale

  1. Come si avvia la liquidazione giudiziale – La procedura inizia formalmente con la presentazione di un ricorso (istanza) per la dichiarazione di liquidazione giudiziale, rivolto al Tribunale competente. Come visto, il ricorso può essere presentato dal debitore, da un creditore o dal Pubblico Ministero. Da quel momento si apre la fase detta di “istruttoria pre-fallimentare” (anche se il termine “fallimentare” è desueto, si continua a usarlo per convenzione), in cui il tribunale verifica i presupposti (soggettivi e oggettivi) per l’apertura della procedura.
  2. Competenza territoriale – Il ricorso va presentato al Tribunale delle Imprese competente per territorio, di regola individuato nella sede principale dell’impresa (centro degli interessi principali, COMI). Per gli imprenditori iscritti al Registro Imprese, fa fede la sede legale, salvo prova di diverso centro effettivo degli affari. Il Codice conferma la competenza del tribunale in composizione collegiale (cioè un collegio di tre giudici) per pronunciare la sentenza di apertura. Le sezioni specializzate in materia di impresa trattano le procedure concorsuali di società medio-grandi; per imprese minori non soggette a liquidazione giudiziale, può essere competente il tribunale civile ordinario se attivano procedure di sovraindebitamento.
  3. Contenuto del ricorso – Nel ricorso (sia esso del creditore o dell’imprenditore stesso) vanno indicati gli elementi essenziali: le generalità del debitore, gli elementi che comprovano la sua qualità di imprenditore commerciale non minore (iscrizione registro imprese, dati di bilancio) e soprattutto i fatti specifici a supporto dell’insolvenza. Un creditore ad esempio allegherà le fatture non pagate, eventuali decreti ingiuntivi non onorati, protesti o verbali di pignoramento infruttuoso. Il debitore in un’istanza propria di solito descriverà la situazione di crisi, allegando bilanci recenti e un prospetto delle esposizioni, per far emergere l’insolvenza. Non è necessario dettagliare tutti i creditori, ma fornire un quadro sufficiente a persuadere il tribunale che esistono i presupposti.
  4. Fase istruttoria e convocazione – Una volta depositato il ricorso, il Tribunale emette un decreto di convocazione del debitore e degli eventuali ricorrenti, fissando l’udienza per la comparizione. Il Codice prevede che debba intercorrere un termine minimo di 15 giorni tra la notifica del ricorso e decreto e l’udienza, per garantire il diritto di difesa del debitore. In casi di particolare urgenza (ad es. rischio concreto di fuga o depauperamento beni) il tribunale può abbreviare i termini di convocazione. Alla notifica provvede la cancelleria o la parte ricorrente (a seconda delle prassi). Il debitore è avvisato che può depositare memorie e documenti e presenziare in udienza personalmente o tramite difensore.
  5. Comparizione del debitore – All’udienza fissata, il collegio (o più spesso il Giudice relatore delegato dal collegio a sentir le parti) sente il debitore e le parti ricorrenti. Il debitore può opporsi all’istanza, contestando i presupposti (ad esempio negando lo stato di insolvenza o l’assoggettabilità, sostenendo di essere impresa minore o agricola) e produrre documenti a difesa. È fondamentale che il debitore si presenti – con l’assistenza di un legale – per esporre la propria posizione. In questa sede:
  • Se il debitore riconosce l’insolvenza, magari perché egli stesso ha chiesto l’apertura, l’udienza sarà relativamente rapida e il tribunale potrà decidere subito.
  • Se il debitore contesta l’insolvenza, dovrà dimostrare di essere ancora in grado di pagare i debiti (ad esempio esibendo piani di rientro già in atto, pagamenti effettuati, risorse liquide disponibili). Può chiedere un termine per depositare un piano di concordato preventivo (“concordato in bianco”) se preferisce tentare quella via invece del fallimento.
  • Il debitore deve depositare alcuni documenti obbligatori: il Codice richiede i bilanci degli ultimi tre esercizi oppure, se non obbligato a bilancio (imprese individuali minori), le dichiarazioni fiscali degli ultimi tre anni. Questo per dare al tribunale un quadro contabile. In mancanza, rischia di aggravare la propria posizione, perché l’assenza di contabilità è tipicamente vista male (fa presumere irregolarità).
  1. Istruttoria probatoria – Se necessario, il giudice può assumere informazioni: ad esempio interrogare testimoni (fornitori, creditori) sulla situazione, o nominare un perito per una relazione contabile. Il nuovo Codice consente al tribunale di delegare tutte le attività istruttorie a un suo membro (il giudice relatore), proprio per condurle in modo più snello. In molti casi, tuttavia, l’insolvenza risulta evidente dai documenti: ad esempio se il debitore deposita un bilancio con perdite ingenti e i ricorrenti mostrano decreti non pagati, non serve molto altro. L’istruttoria deve concludersi in tempi rapidi (di solito poche settimane).
  2. Esito: accoglimento o rigetto – Terminata l’istruttoria, il Tribunale può avere due esiti:
  • Rigetto del ricorso: se ritiene insussistenti i presupposti (debiti sotto soglia, non insolvenza, eccezioni procedurali), emette un decreto motivato di rigetto. Ad esempio, rigetta se l’impresa dimostra di essere impresa minore (esibendo bilanci sotto soglia), oppure se l’insolvenza non è provata. Il decreto di rigetto è reclamabile in Corte d’Appello da chi ha interesse.
  • Dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale: se invece i presupposti risultano, il Tribunale pronuncia la sentenza (forma di sentenza) che dichiara aperta la liquidazione giudiziale. Questa è il provvedimento cardine che dà il via alla procedura concorsuale vera e propria. Approfondiamo subito il contenuto e gli effetti di tale sentenza.
  1. Sentenza dichiarativa di liquidazione giudiziale – La sentenza di apertura è un atto giudiziario formale che dichiara l’imprenditore insolvente e apre la procedura di liquidazione giudiziale. Essa contiene (art. 49 C.C.I.I.):
  • Dichiarazione dello stato di insolvenza del debitore (accertamento giuridico).
  • Nomina degli organi della procedura: il Tribunale nomina un Giudice Delegato (un giudice del tribunale incaricato di sovrintendere alla procedura) e il Curatore (professionista esterno che gestirà la procedura). Inoltre può nominare eventuali coadiutori o esperti per compiti specifici, se necessario.
  • Termini per le domande di credito: viene fissata la data limite entro cui i creditori devono presentare domanda di ammissione al passivo e la data dell’udienza di esame dello stato passivo. Di solito l’udienza è fissata qualche mese dopo (es. 90-120 giorni dopo la sentenza) e i creditori devono insinuarsi almeno 30 giorni prima di tale udienza.
  • Ordini al debitore: la sentenza ordina all’imprenditore fallito di consegnare al Curatore i beni, le scritture contabili e la corrispondenza (cosa che dovrà avvenire immediatamente, pena sanzioni).
  • Eventuale esercizio provvisorio: il Tribunale, se lo ritiene nell’interesse dei creditori, può disporre contestualmente che l’impresa prosegua provvisoriamente l’attività sotto la gestione del curatore (c.d. esercizio provvisorio). Ciò avviene quando la continuazione dell’attività può preservare valore (ad es. evadere ordini in corso per vendere magazzino) senza danneggiare i creditori.
  • Nomina del Comitato dei Creditori (eventuale): non sempre contestuale, spesso avviene successivamente da parte del Giudice Delegato, ma la sentenza può già indicare i membri se noti i principali creditori.

La sentenza è immediatamente esecutiva e costituisce titolo per iscrivere il fallimento nei pubblici registri (Registro Imprese, Conservatoria per la trascrizione sui beni immobili, ecc.).

  1. Notifica e pubblicazione – La sentenza di liquidazione giudiziale viene notificata al debitore (se non era presente), comunicata al Pubblico Ministero e deve essere pubblicata senza indugio nel Registro delle Imprese (per dare pubblicità ai terzi). Viene inoltre affissa per estratto presso la cancelleria. Tali formalità servono a rendere opponibile erga omnes lo stato di fallimento. Dal momento della pubblicazione, nessuno può dirsi ignaro della procedura: i creditori sono tenuti a insinuarsi entro i termini, i contratti in corso rientrano nelle norme concorsuali, ecc.
  2. Effetti immediati – La pronuncia della sentenza di apertura provoca immediatamente una serie di effetti giuridici sul debitore e sui creditori, che dettaglieremo nei capitoli successivi. In sintesi:
  • Il debitore perde la disponibilità e gestione dei suoi beni (“spossessamento”) a favore del curatore.
  • Si bloccano le azioni esecutive individuali dei creditori: questi non possono più iniziare o proseguire pignoramenti, sequestri, ecc., sul patrimonio del debitore (c.d. automatic stay concorsuale, art. 150 C.C.I.I.).
  • I crediti verso il debitore insolvente divengono esigibili immediatamente (anche quelli non ancora scaduti) e cessano di produrre interessi (salvo ipotecari nei limiti di capienza).
  • I contratti in corso non si sciolgono automaticamente (tranne alcuni casi particolari) ma restano sospesi in attesa delle decisioni del curatore.
  • Scattano le incapacità personali del debitore (perdita della capacità di stare in giudizio per i beni, interdizioni dai ruoli societari, ecc.).
  • Se il debitore è una società, gli amministratori perdono i poteri e decadono; se è un imprenditore individuale, egli personalmente non può più disporre del proprio patrimonio, se non per gli atti consentiti.
  • Il curatore subentra nella rappresentanza legale del debitore per tutti gli atti patrimoniali.

Questi effetti saranno analizzati in dettaglio nel Capitolo 8.

  1. Reclamo (Appello) – La sentenza dichiarativa è suscettibile di reclamo (appello) davanti alla Corte d’Appello da parte del debitore o di qualunque interessato che voglia contestarla (art. 51 C.C.I.I.). Il termine è breve (30 giorni dalla notifica o pubblicazione). Il reclamo non sospende automaticamente gli effetti della sentenza. Tuttavia, la Corte d’Appello, se ravvisa gravi motivi, può sospendere in via d’urgenza l’esecuzione della sentenza impugnata. In assenza di sospensione, la procedura va avanti regolarmente (il curatore compie atti, i creditori insinuano i crediti) anche se pende reclamo. Se la Corte d’Appello successivamente revoca la sentenza (ad es. perché riconosce che non c’era insolvenza), la procedura verrà annullata con effetti retroattivi: in tal caso, gli atti di amministrazione compiuti restano validi verso i terzi di buona fede, ma il debitore riacquista i beni residui. Dunque, il reclamo può correggere errori del tribunale (ad es. un fallimento dichiarato di soggetto non fallibile) ma nel frattempo il fallimento produce effetti.
  2. Decorrenza degli effetti – Importante: gli effetti sostanziali della liquidazione giudiziale retroagiscono alla data della pubblicazione della sentenza (o notifica, se precedente) e non a quella definitiva in caso di reclamo. Questo significa che, se un creditore tenta un pignoramento il giorno dopo la sentenza ma prima di saperlo, quell’atto è inefficace perché nel frattempo il fallimento esisteva già. Per questo si pubblica celermente l’apertura sul Registro Imprese e su portali: per informare il mercato. Inoltre, alcuni effetti (come le azioni revocatorie che vedremo) guardano a un periodo anteriore alla sentenza chiamato periodo sospetto, che decorre retroattivamente da essa (es. certi atti fatti nei sei mesi o anno precedenti possono essere revocati). Quindi la data di fallimento segna uno spartiacque temporale netto.
  3. Riepilogo procedurale: possiamo riassumere l’avvio con uno schema:
  4. Ricorso di creditore/debitore/PM al Tribunale competente, con allegati probatori.
  5. Decreto di fissazione udienza e notifica al debitore (≥15 gg prima).
  6. Udienza prefallimentare: comparizione del debitore e parti, eventualmente assunzione prove.
  7. Sentenza di liquidazione giudiziale (se accolta): nomina organi, ordine consegne, termini creditori.
  8. Comunicazioni: notifica, iscrizione al Registro Imprese, comunicazione ai creditori noti (a cura del curatore).
  9. Inizio effetti concorsuali: spossessamento, divieto azioni esecutive, ecc.
  10. (Eventuale) Reclamo in appello entro 30 gg da parte del debitore o altri, senza sospensione salvo provvedimento espresso.

Se invece al punto 4 vi è rigetto dell’istanza, la procedura si chiude lì (salvo reclamo del creditore insoddisfatto).

  1. Documenti e preparativi per l’imprenditore – Dal lato pratico, se sei un imprenditore che sta per presentare istanza di autofallimento, o che deve difendersi da un’istanza di terzi, prepara accuratamente:
    • Bilanci ultimi 3 esercizi (o dichiarazioni fiscali equivalenti).
    • Situazione patrimoniale aggiornata alla data più recente, con elenco dei debiti e creditori (quest’ultima non è obbligatoria per legge in questa fase, ma è utile presentarla).
    • Elenco eventuali procedure pendenti (cause attive o passive, esecuzioni in corso).
    • Relazione sulle cause dell’insolvenza (se chiedi tu il fallimento, spiega sinteticamente perché sei insolvente: es. calo mercato, perdita cause, ecc. Questo potrà tornare utile anche per la futura relazione del curatore).
    • Prova di avvenuti pagamenti rilevanti (se contesti l’insolvenza dimostrando che hai pagato alcuni debiti, porta ricevute, quietanze).
    • Eventuale proposta alternativa: se vuoi chiedere un termine per presentare concordato preventivo, prepara già un piano sommario o almeno un term sheet da presentare al giudice per convincerlo che c’è concretezza nella richiesta.

Far trovare queste informazioni pronte denota collaborazione e buona fede. Inoltre, facilitando il compito del tribunale, aumenti la possibilità di un trattamento più favorevole (ad esempio, di ottenere l’esercizio provvisorio se richiesto, o di evitare istanze di bancarotta fraudolenta in seguito, perché mostri trasparenza). Invece, l’imprenditore che si presenta impreparato o peggio latitante lascia un’impressione negativa e rischia misure più afflittive (come la nomina d’ufficio della forza pubblica per cercarlo e far eseguire lo spossessamento).

Nei capitoli seguenti passeremo alla fase successiva: supponendo ormai aperta la liquidazione giudiziale, vedremo come funziona la procedura, quali sono gli organi che intervengono e cosa succede ai beni, ai contratti, ai creditori e allo stesso imprenditore durante tale procedura.

6. Gli organi della procedura: Tribunale, Giudice Delegato, Curatore e Commissario Giudiziale

Una volta aperta la liquidazione giudiziale, entrano in gioco diversi organi con ruoli specifici. Comprendere chi fa cosa è fondamentale sia per l’imprenditore che per i creditori. In questo capitolo descriviamo il ruolo del Tribunale/Giudice Delegato, del Curatore e, per completezza di panorama concorsuale, del Commissario Giudiziale (figura rilevante nelle procedure di concordato preventivo, spesso nominato proprio per evitare la liquidazione giudiziale).

  1. Tribunale e Giudice Delegato – Il Tribunale (collegiale) è l’organo giudicante supremo nella procedura. Esso:
  • Dichiara l’apertura della liquidazione con sentenza (come visto).
  • Decide sui reclami contro gli atti del Giudice Delegato o del Curatore.
  • Omologa eventuali concordati nella liquidazione (accettazione di proposte concordatarie di chiusura anticipata).
  • Dichiara con decreto la chiusura/cessazione della procedura.

Nella pratica quotidiana, però, molte funzioni sono svolte dal Giudice Delegato (G.D.), che è un giudice del tribunale nominato nella sentenza di apertura per sovrintendere alla procedura. Il G.D.:

  • Vigila sulla condotta del Curatore e sull’andamento della procedura, riferendo al collegio eventuali problematiche.
  • Autorizza gli atti di particolare gestione: ad esempio, la vendita di beni deve essere autorizzata se prevista dal programma di liquidazione, le transazioni o rinunce ad azioni richiedono decreto del G.D.
  • Amministra la verifica del passivo: è lui che presiede all’esame delle domande dei creditori, emettendo il decreto di stato passivo (anche se in alcuni casi il collegio può intervenire). Esamina i crediti con l’ausilio del Curatore.
  • Decide su controversie minori: ad esempio, se il Curatore chiede un sequestro di urgenza su beni del fallito, il G.D. può autorizzarlo; oppure se sorgono contestazioni su crediti tardivi spetta al G.D.
  • Convoca il comitato dei creditori e lo consulta ove necessario.
  • In alcuni casi il Codice recenti correttivi hanno ampliato i poteri del G.D.: ad esempio, può emettere lui il decreto di non luogo a procedere all’accertamento del passivo (cioè chiudere subito la procedura se non ci sono attivi né creditori) per snellire il tutto.

In sostanza il G.D. è il “regista” giudiziario della procedura, mentre il Curatore è l’esecutore materiale.

Nota: il G.D. non assume la gestione dei beni (che spetta al Curatore), ma ne controlla la regolarità. Se il Curatore non opera correttamente, il G.D. può segnalarlo al collegio per la rimozione.

  1. Curatore – Il Curatore è l’organo centrale della liquidazione giudiziale. Si tratta di un professionista indipendente (tipicamente un dottore commercialista o un avvocato specializzato in procedure concorsuali) scelto dal tribunale da un apposito Albo dei curatori. Il suo ruolo è paragonabile a quello di un “amministratore giudiziario” del patrimonio fallimentare. Le funzioni principali del Curatore includono):
  • Prendere possesso dell’attivo: esegue lo spossessamento del debitore. Ciò significa inventariare e prendere in custodia tutti i beni del fallito. Esempio: cambia i lucchetti del magazzino, porta in deposito beni mobili, assume il controllo dei conti correnti (il Curatore deve notificare alle banche la sentenza in modo da bloccare i conti e farli confluire in un conto della procedura).
  • Conservare e gestire i beni: se l’azienda continua l’attività in esercizio provvisorio, il Curatore la gestisce operativamente (con eventuale affiancamento di esperti). Deve inoltre assicurare la custodia dei beni (polizze assicurative, protezione da furti, ecc.).
  • Formare l’inventario: redige un inventario dettagliato di tutti i beni, crediti, documenti contabili dell’impresa, il più rapidamente possibile. Questo serve a fotografare la consistenza iniziale del patrimonio.
  • Rintracciare attivo occulto: il Curatore può accedere a banche dati pubbliche (Agenzia Entrate, catasto, PRA, registri bancari) per scovare beni o rapporti finanziari intestati al fallito. Ad esempio scopre eventuali conti non dichiarati, proprietà immobiliari, polizze.
  • Notificare ai creditori l’apertura: il Curatore deve comunicare individualmente a tutti i creditori noti l’avvenuta liquidazione giudiziale e i termini per insinuarsi, allegando la sentenza (art. 201 C.C.I.I.). Inoltre pubblica un avviso in Gazzetta Ufficiale.
  • Esaminare le domande di credito: i creditori spediscono a lui le domande d’insinuazione. Il Curatore le esamina e predispone un progetto di stato passivo, esprimendo per ciascuna domanda un parere (ammettere, respingere, ammettere in parte, quale rango). Questo progetto viene poi sottoposto al Giudice Delegato in sede di udienza di verifica.
  • Esercitare o resistere alle azioni legali: il Curatore rappresenta il fallito in giudizio. Se c’erano cause pendenti le prosegue (o vi subentra), se creditori facevano esecuzioni le converte in accertamento del credito. Può promuovere nuove cause revocatorie (per rendere inefficaci atti prefallimentari anomali) o cause di responsabilità (verso amministratori, soci, terzi che hanno causato danni alla società). Ad esempio cita in giudizio l’ex amministratore per mala gestio, oppure agisce contro un creditore che ha ricevuto un pagamento preferenziale poco prima del fallimento (azione revocatoria fallimentare, art. 166 ss. C.C.I.I.).
  • Redigere la relazione ex art. 130: entro 180 giorni dall’apertura, il Curatore presenta una relazione particolareggiata al giudice (e al PM) sull’origine della crisi, sulla gestione del debitore precedente, sulla eventuale presenza di fatti di reato, sull’attivo e passivo riscontrati. Questa relazione è cruciale: fotografa il “come si è arrivati al fallimento” e segnala eventuali condotte fraudolente (che potranno attivare indagini penali).
  • Predisporre il programma di liquidazione: entro un certo termine (spesso 60 giorni dall’esecutività dello stato passivo), il Curatore deve presentare un programma con cui pianifica come vendere i beni: se in blocco o singolarmente, con quali procedure (aste competitive via Portale delle Vendite, trattative private autorizzate, ecc.). Il programma viene sottoposto all’approvazione del Comitato dei Creditori e all’autorizzazione del Giudice Delegato.
  • Realizzare l’attivo: una volta approvato il programma, il Curatore passa a liquidare i beni: indice aste, affida incarichi per vendite (es. delega un commissionario per vendere macchinari, incarica notai per aste immobiliari, ecc.), incassa i crediti (anche tramite factor se opportuno), cede rami d’azienda se c’è un’offerta. Il tutto seguendo le regole competitive di cui all’art. 216 C.C.I.I. (vendite telematiche sul portale, salvo deroga motivata).
  • Ripartire le somme: man mano che incassa, il Curatore predispone piani di riparto dei fondi ai creditori, in ordine di priorità. Il Codice incoraggia fortemente riparti parziali periodici, anche ogni 4 mesi, per distribuire ciò che è stato incassato e non tenere fermi i soldi. Il Curatore deve quindi calcolare quanto assegnare ai creditori privileg ati, chirografari, ecc. con proporzionale riduzione secondo l’importo disponibile, e sottoporre i riparti al G.D. per approvazione. Esegue poi i pagamenti.
  • Rendiconto finale: al termine, quando tutto l’attivo è liquidato o non c’è più nulla da fare, il Curatore compila un rendiconto delle attività svolte e delle somme incassate/distribuite. Questo rendiconto è sottoposto al giudice e ai creditori per eventuali osservazioni. Dopodiché chiede la chiusura della procedura.
  • Gestione residui: se dopo la chiusura restano attività non liquidate (perché, ad esempio, nessuno le ha volute comprare), il Curatore deve occuparsi di versarle al debitore oppure come stabilito dal giudice. Idem per eventuali somme non riscosse dai creditori (perché irreperibili).

Il Curatore, in tutto ciò, agisce come un pubblico ufficiale (lo è ex lege) ed è soggetto al controllo del giudice e al parere del comitato dei creditori. Deve svolgere diligentemente l’incarico nell’interesse di tutti i creditori e non del debitore (di cui però tutela anche i diritti residui). È retribuito con un compenso finale stabilito dal tribunale secondo parametri di legge (generalmente in percentuale sull’attivo realizzato).

Novità 2024: Con il secondo correttivo, quando accetta l’incarico il Curatore deve dichiarare di avere “tempo e risorse adeguate” per gestire quella procedura. Ciò per evitare nomine a professionisti sovraccarichi. Inoltre non può essere nominato Curatore chi ha svolto negli ultimi 5 anni incarichi in favore del debitore (per garantire indipendenza).

  1. Comitato dei Creditori – È un organo collegiale composto da 3 creditori nominati (di solito tra i maggiori creditori o rappresentativi delle varie categorie). Il Comitato:
  • Approva o fornisce pareri sugli atti più importanti del Curatore: il programma di liquidazione deve essere approvato dal Comitato; vendite di particolare rilevanza richiedono parere favorevole; transazioni o rinunce di crediti anche.
  • Sorveglia l’operato del Curatore, potendo riferire al Giudice eventuali irregolarità.
  • Può autorizzare in via d’urgenza atti del Curatore quando il G.D. non può provvedere immediatamente (soprattutto se il Comitato è già costituito e c’è necessità di agire prontamente).
  • Rappresenta, in un certo senso, la voce dei creditori nella procedura, bilanciando il potere del Curatore e del Giudice.

Non sempre viene nominato un Comitato: se i creditori sono pochi o di scarsa entità, il tribunale può ometterlo e in tal caso le sue funzioni di controllo sono svolte dal G.D. In pratica, nelle procedure piccole spesso non c’è.

  1. Commissario Giudiziale (differenze dal Curatore) – Il Commissario Giudiziale è una figura diversa dal Curatore e non interviene nella liquidazione giudiziale standard. È invece l’organo nominato dal tribunale in altre procedure concorsuali, principalmente nel concordato preventivo e nell’accordo di ristrutturazione con omologazione. Poiché questa guida è rivolta a capire anche come evitare la liquidazione giudiziale, è utile chiarire la differenza:
  • Natura dell’incarico: Il Commissario Giudiziale non spossessa l’imprenditore dei beni. Egli non gestisce il patrimonio, ma ha un ruolo di vigilanza e monitoraggio in procedure in cui il debitore rimane in possesso (c.d. debtor in possession). Nel concordato preventivo, ad esempio, l’imprenditore continua ad amministrare la sua impresa, però sotto la supervisione del Commissario.
  • Funzioni: Il Commissario controlla che il debitore non compia atti pregiudizievoli durante la procedura, informa i creditori, redige una relazione sulla fattibilità del piano e sull’elenco dei creditori, riferisce al giudice sul comportamento del debitore. Non vende beni (salvo casi particolari) né paga creditori: queste attività avverranno solo se il concordato è omologato, diversamente si arriverà alla liquidazione.
  • Ruolo rispetto alla liquidazione: Il Commissario Giudiziale, di fatto, tenta di far evitare il fallimento: supervisiona un piano di concordato che, se approvato dai creditori e omologato dal tribunale, eviterà la dichiarazione di insolvenza e porterà a una soluzione concordata (pagamenti parziali, ristrutturazione dell’impresa). Se però il concordato fallisce (non ottiene le maggioranze o il debitore rinuncia), spesso lo stesso Commissario fa rapporto al tribunale e ciò può condurre all’apertura del fallimento. A volte il Commissario può essere nominato successivamente Curatore, per continuità di conoscenza del caso (ma non è automatico).
  • Figura analoga in altra procedura: Esiste anche il Commissario Giudiziale nella procedura di liquidazione controllata del sovraindebitato (ex legge 3/2012): là svolge più funzioni gestorie. Ma qui restiamo nell’ambito delle imprese fallibili.

Perché parlarne qui? Perché se un imprenditore vuole evitare la liquidazione giudiziale, probabilmente valuterà l’accesso a un concordato preventivo: in tal caso dovrà interfacciarsi con un Commissario Giudiziale invece che con un Curatore. Il clima è diverso: nel concordato l’imprenditore collabora attivamente con il Commissario, perché ambedue puntano a un piano di risanamento; nella liquidazione giudiziale, invece, il Curatore ha il compito di liquidare senza necessariamente salvare l’impresa, e l’imprenditore è messo da parte.

Inoltre, il Commissario Giudiziale è presente anche in un istituto nuovo introdotto dal Codice: il concordato nella liquidazione giudiziale (una sorta di concordato fallimentare). In quella sede, se proposto un concordato durante il fallimento, il tribunale nomina un Commissario Giudiziale ad hoc per valutare la proposta concorrente rispetto al Curatore. Ma è un caso specifico che vedremo brevemente più avanti.

  1. Rapporto con il Pubblico Ministero – Non un organo della procedura, ma un attore di contorno: il P.M. viene informato dell’apertura del fallimento (art. 38 C.C.I.I.) e riceve la relazione del Curatore. Se emergono fatti di reato (bancarotte, irregolarità gravi), il P.M. può promuovere azioni penali verso l’imprenditore o altri responsabili. Il P.M. può anche intervenire nelle udienze della procedura (soprattutto nelle omologazioni di concordati) per esprimere pareri. In alcuni casi, il P.M. può chiedere la revoca del Curatore se ravvisa condotte scorrette o conflitti. Dunque, il fallimento porta con sé una potenziale vigilanza penale che prima non c’era, tramite il PM.
  2. Insolvenza di gruppi: organi coordinati – Una menzione: se fallisce un gruppo di società, il tribunale può nominare un unico Curatore per più procedure (o Curatori diversi che collaborino) e un Giudice Delegato unico. Questo per facilitare la gestione unitaria. Ad esempio, se fallisce una holding e le sue controllate, spesso lo stesso curatore gestisce tutto per evitare duplicazioni e conflitti.

Riassumendo:

  • Il Tribunale (collegio) decide gli snodi fondamentali (apertura, chiusura, omologhe, revoca curatore se del caso).
  • Il Giudice Delegato gestisce il day-by-day giudiziario (autorizzazioni, verifica crediti, controlli).
  • Il Curatore amministra il patrimonio fallimentare e compie gli atti materiali (inventario, vendite, pagamenti).
  • Il Comitato dei Creditori assiste e controlla il Curatore rappresentando gli interessi dei creditori.
  • Il Commissario Giudiziale è invece l’organo di altre procedure concorsuali (non liquidatorie) e entra in ballo se si cerca di evitare o risolvere diversamente l’insolvenza (concordati).
  • Il Pubblico Ministero osserva e interviene per la parte pubblicistica (legalità e reati).

Per l’imprenditore sottoposto a liquidazione giudiziale, il riferimento quotidiano diventa il Curatore: sarà lui a interfacciarsi col fallito per raccogliere informazioni, prendere possesso dei beni e gestire il tutto. Nel prossimo capitolo vedremo proprio cosa succede nella fase successiva all’apertura, ossia come il Curatore procede a formare l’attivo e il passivo, e come si sviluppa in pratica la procedura sino alla chiusura.

7. Svolgimento della procedura: fasi e tempistiche

A seguito della dichiarazione di liquidazione giudiziale, la procedura concorsuale entra nel vivo. Possiamo suddividerla in diverse fasi operative, che analizzeremo in ordine cronologico: (1) la fase iniziale di insediamento del Curatore e custodia dei beni; (2) l’accertamento del passivo (raccolta e verifica delle domande di credito dei creditori); (3) la liquidazione dell’attivo (vendita dei beni e recupero dei crediti); (4) la ripartizione del ricavato ai creditori; (5) la chiusura della procedura, con eventuale esdebitazione finale dell’imprenditore persona fisica. Vediamo ciascuna di queste fasi.

7.1 Fase iniziale: inventario, spossessamento e gestione provvisoria

  1. Notifica della sentenza e intervento del Curatore – Appena nominato, il Curatore accetta formalmente l’incarico (generalmente entro pochi giorni dalla sentenza). Dopodiché procede a notificare al debitore la sentenza se costui non l’ha già avuta. Subito dopo inizia l’attività di spossessamento: il Curatore, munito della sentenza, si reca presso le sedi dell’impresa fallita (uffici, stabilimenti, negozi) per prendere in consegna i beni. Ad esempio, cambierà serrature, metterà sigilli se necessario, farà redigere verbali di consegna con eventuale presenza di testimoni o di un notaio in caso di beni di valore.
  2. Consegna dei beni e libri contabili – Il debitore ha l’obbligo di collaborare consegnando spontaneamente al Curatore tutti i suoi beni, i documenti e le scritture contabili. In pratica l’imprenditore (o gli amministratori della società fallita) devono mettere a disposizione: registri contabili (libro giornale, registri IVA, bilanci, etc.), elenco beni mobili e immobili, chiavi di immobili, veicoli, carte di credito aziendali, credenziali di accesso a conti correnti e home banking, contratti in corso, documentazione fiscale, elenco clienti-fornitori e tutto quanto attiene all’azienda. Devono inoltre consegnare al Curatore la corrispondenza relativa a rapporti patrimoniali (es: le lettere commerciali ricevute). Da questo momento, infatti, tutta la nuova corrispondenza indirizzata al fallito passa per il Curatore. Il debitore persona fisica può trattenere solo la corrispondenza di carattere personale non attinente ai rapporti d’impresa.
  3. Inerzia o irreperibilità del debitore – Se il debitore non collabora o risulta irreperibile, il Curatore può chiedere l’ausilio della forza pubblica o perquisizioni su ordine del G.D. per rintracciare beni e documenti. L’inerzia del fallito ha per lui gravi conseguenze: sul piano penale costituisce reato di bancarotta semplice o fraudolenta (a seconda che vi sia dolo) il mancato adempimento di questi obblighi di consegna e cooperazione. Il debitore inoltre verrebbe quasi certamente dichiarato ineleggibile all’esdebitazione (per comportamento non cooperativo). Dunque, è interesse dello stesso imprenditore facilitare il compito al Curatore.
  4. Inventario dei beni – Il Curatore procede poi a redigere un inventario dettagliato dei beni facenti parte dell’attivo. Tipicamente con l’ausilio di un cancelliere o notaio, elenca e descrive tutti i beni trovati: immobili (con estremi catastali), macchinari, merci in magazzino (quantità e valore stimato), mobilio e attrezzature, automezzi, partecipazioni societarie, proprietà intellettuali (marchi, brevetti), eventuali depositi cauzionali, crediti verso clienti, cause attive con il loro valore presunto, ecc. L’inventario va completato nel più breve tempo possibile, in modo da dare un quadro chiaro dell’attivo.
    • Per i beni immobili e mobili registrati (auto, moto, imbarcazioni), il Curatore provvede subito a trascrivere la sentenza di fallimento nei pubblici registri, così da renderla opponibile (nessuno potrà acquistare o ipotecare quei beni ignorando il fallimento).
    • Se alcuni beni sono presso terzi (es: merce in conto vendita presso un concessionario, o denaro su conti correnti bancari), il Curatore li rivendica e ne chiede la restituzione o il trasferimento alla procedura. Le banche, ad esempio, bloccano il conto del fallito e trasferiscono i fondi sul conto intestato alla curatela.
  5. Esercizio provvisorio dell’impresa – Come accennato, il tribunale può aver autorizzato l’esercizio provvisorio dell’impresa. In tal caso, il Curatore non si limita a custodire i beni ma continua la gestione aziendale per un periodo transitorio. Ciò può comportare:
  • Mantenere in attività l’azienda per completare lavorazioni in corso, vendere prodotti finiti, preservare rapporti con clienti che potrebbero acquisire l’azienda in blocco.
  • Pagare le spese correnti indispensabili (le cosiddette spese di esercizio provvisorio sono in prededuzione, ossia saranno soddisfatte con priorità assoluta).
  • Mantenere i dipendenti in servizio per il tempo necessario (anziché licenziarli subito), in modo da tenere operativa la struttura.
  • Ottenere se possibile nuova finanza interinale (difficile, ma talvolta fornitori o committenti anticipano pagamenti per far proseguire l’attività, fidandosi della gestione del Curatore).
  • Tipicamente l’esercizio provvisorio è concesso quando c’è la prospettiva di vendere l’azienda come going concern, cioè trovando un acquirente per l’intera azienda o un ramo, così da salvaguardarne il valore intrinseco e i posti di lavoro. Oppure quando completare le commesse in corso porterebbe introiti maggiori della liquidazione immediata dei beni.

L’esercizio provvisorio viene condotto sotto la supervisione del G.D. e del Comitato creditori. Può durare al massimo il tempo strettamente necessario, e può essere revocato se si rileva che sta generando perdite o pregiudizio ai creditori.

Esempio: un’impresa edile fallita a metà costruzione di un immobile: il Curatore potrebbe chiedere di completare l’opera (con esercizio provvisorio) per poi venderla finita ad un prezzo migliore, piuttosto che liquidare un cantiere incompleto a valori stracciati. In tal caso, se ha cassa sufficiente o accordi con un finanziatore, continua i lavori appaltando a terzi, e i proventi della futura vendita entrano nell’attivo.

  1. Decadenza degli amministratori e organi sociali – Nelle società fallite, appena nominato il Curatore, gli amministratori cessano dalle funzioni. Non hanno più potere di rappresentanza né di gestione. Analogamente, l’assemblea dei soci non può più adottare deliberazioni (l’impresa è come commissariata). Gli organi di controllo (collegio sindacale, revisore) decadono, salvo dover eventualmente fornire collaborazione al Curatore mettendo a disposizione le carte in loro possesso. Quindi l’interlocutore unico per i creditori diviene il Curatore.
  2. Rapporto iniziale ai creditori e primo esame dell’attivo – Il Curatore, fatta la ricognizione dei beni e dei debiti noti, prepara una comunicazione ai creditori (ex art. 201 C.C.I.I.) contenente un riassunto della situazione: entità presunta dell’attivo e passivo, cause della crisi secondo le informazioni disponibili, e il promemoria delle scadenze per le domande di credito. Ciò orienta le aspettative dei creditori. Ad esempio, il Curatore potrà dire “dai primi accertamenti, l’attivo ammonta a circa € 500.000 (immobili 300k, crediti 200k) a fronte di debiti risultanti a bilancio per € 1.200.000; si prevedono possibili azioni di responsabilità per arricchire l’attivo… etc.”.
  3. Prime misure cautelari – Se il Curatore rileva fin da subito anomalie o atti sospetti compiuti dal debitore prima del fallimento (es: bonifici a parenti, vendita sottocosto di un immobile poco prima della sentenza), può proporre azione revocatoria o chiedere al giudice misure urgenti (come il sequestro conservativo sui beni di chi ha beneficiato di quegli atti). Il Giudice Delegato in questi casi può emettere decreti immediati per congelare situazioni e impedire che prosegua il danno. Anche la protezione dei beni all’estero (se ce ne sono) va attivata con omologhe internazionali della sentenza.
  4. Situazione di patrimonio insufficiente – Può capitare che il Curatore accerti che non esiste attivo sufficiente neppure a pagare le spese minime della procedura (es: fallimento di nullatenente, senza beni né conti). In tal caso, se nessun creditore anticipa fondi e nemmeno l’erario ha depositi a disposizione, il Codice consente di chiudere anticipatamente il fallimento per mancanza di attivo. Il Giudice Delegato, su richiesta del Curatore, emette un decreto di “non farsi luogo alla formazione dello stato passivo” e dichiara chiusa la procedura per insufficienza dell’attivo. Questo è un meccanismo di economia processuale: evitare di portare avanti procedure destinate a non dare alcun soddisfo ai creditori. Ad esempio, se Tizio fallisce con zero beni e zero conti, dopo aver verificato che non c’è modo di reperire asset né azioni utili, il curatore chiederà di chiudere. Una volta chiusa, i creditori tornano liberi di tentare eventuali azioni esecutive (che comunque sarebbero inutili se davvero non ha nulla).

Nel caso invece ci sia appena il necessario per le spese (ad es. un solo bene piccolo), il Curatore può comunque procedere a liquidare quello e poi proporre la chiusura.

Completata la fase iniziale e messo in sicurezza il patrimonio, la procedura passa alla successiva fondamentale fase: l’accertamento del passivo, ovvero la raccolta e decisione sulle richieste dei creditori.

7.2 Accertamento del passivo: insinuazione dei crediti e formazione dello stato passivo

  1. Presentazione delle domande dei creditori – A partire dalla pubblicazione della sentenza di fallimento (e dalla comunicazione inviata dal Curatore ai creditori noti), decorrono i termini per i creditori (e altri aventi diritto, come i titolari di diritti reali o separati) di presentare la domanda di insinuazione al passivo. Il tribunale, nella sentenza, ha fissato una data di udienza per l’esame dello stato passivo. Generalmente i creditori devono inviare la domanda almeno 30 giorni prima di tale udienza (se arriva dopo è “tardiva” e verrà esaminata in coda, a specifiche condizioni). La domanda consiste in un’istanza indirizzata al Curatore e al G.D., in cui il creditore dichiara l’importo e la natura del proprio credito, con eventuali cause di prelazione (privilegi, pegni, ipoteche) e allega i documenti giustificativi (fatture, contratto, estratto notarile di ipoteca, ecc.).
  2. Tipi di creditori – Possono insinuarsi non solo i creditori chirografari, ma anche quelli con garanzie (per farle valere nel concorso) e i titolari di diritti particolari, come i proprietari di beni in possesso del fallito (es: beni in leasing, in comodato) per chiedere la restituzione. Perfino il debitore fallito può insinuarsi se avesse crediti verso sé stesso? In senso tecnico no, ma se ad esempio un socio ha un credito verso la società fallita, deve insinuarsi come gli altri.
  3. Ruolo del Curatore – Le domande di credito vengono ricevute dal Curatore (in via telematica). Egli le esamina singolarmente verificando:
  • Se il credito risulta dalle scritture contabili del fallito e per quale importo.
  • Se la documentazione fornita dal creditore è valida (decreto ingiuntivo, contratto firmato, estratti conto, ecc.).
  • Se la classificazione di prelazione richiesta è corretta (es: un creditore insinua privilegio per forniture, il curatore controlla l’esistenza del privilegio ex art. 2751 bis c.c. e la pertinenza).
  • Eventuali eccezioni o contestazioni che il fallito aveva sollevato (es: il fallito in sede di verifica potrebbe dire “questo creditore chiedeva 100 ma io gli avevo contestato un inadempimento, quindi non riconoscevo più di 50”).

Per ciascuna domanda, il Curatore redige un progetto di stato passivo, proponendo al G.D. di:

  • Ammettere il credito (in tutto o in parte) e, se del caso, con il grado di privilegio indicato.
  • Rigettare il credito (ad esempio perché infondato o non sufficientemente provato).
  • Riservare la decisione su un credito se necessita di approfondimenti (ciò accade raramente nella prima udienza, più spesso i dubbi si traducono in rigetti da impugnare eventualmente dal creditore).
  1. Udienza di verifica – All’udienza fissata (presieduta dal Giudice Delegato), il Curatore presenta il progetto di stato passivo e i creditori possono comparire (spesso tramite avvocati) per discutere eventuali contestazioni. Nella prassi, molte udienze di verifica sono poco partecipate se i creditori concordano col progetto. Il G.D. esamina ciascuna domanda, tiene conto del parere del Curatore e delle repliche del creditore (se presente), quindi decide: ammette, esclude, ammette parzialmente, come ritiene giusto. Se un creditore è assente e il Curatore ha proposto di rigettare, spesso il G.D. rigetta in contumacia.
  2. Stato passivo – L’esito dell’udienza è formalizzato nel decreto di accertamento dello stato passivo (una volta si chiamava “stato passivo reso esecutivo”). In questo decreto, per ciascun creditore istante viene indicato l’importo ammesso al passivo e l’eventuale causa di prelazione riconosciuta, oppure viene dichiarato escluso. Ad esempio: “Alfa Srl: ammesso €50.000 chirografo; Beta Spa: ammesso €100.000 di cui €80.000 privilegiati ex art.2751-bis n.5 c.c. e €20.000 chirografari; Gamma Srl: escluso”. Lo stato passivo costituisce la “fotografia” dei debiti ammessi al concorso.
  3. Opposizioni – Un creditore che vede la propria domanda respinta o non pienamente accolta può presentare opposizione allo stato passivo (entro 30 giorni dalla comunicazione del decreto). L’opposizione si propone con ricorso al Tribunale (collegio). Si instaura così un giudizio in contraddittorio tra il creditore opponente e il Curatore, davanti al tribunale, che deciderà se modificare lo stato passivo ammettendo quel credito (o aumentandolo). Ad esempio, se Tizio chiese €100.000 e fu ammesso per €50.000, può opporsi per gli altri €50.000 mancanti. L’opposizione è sostanzialmente un mini-processo di cognizione all’interno del fallimento. Le decisioni sulle opposizioni formano eventuali stati passivi supplementari (se avvengono dopo). Il Codice tende a voler definire rapidamente queste controversie, con udienze concentrate. Il creditore insoddisfatto anche dell’esito dell’opposizione può fare reclamo in Corte d’Appello e poi ricorso in Cassazione, ma generalmente questi gradi non sospendono la procedura (il Curatore intanto va avanti, salvo dover accantonare somme se c’è un credito contestato in attesa di giudizio).
  4. Domande tardive – I creditori che non hanno presentato domanda in tempo utile possono comunque insinuarsi tardivamente, fino a che la procedura non è chiusa, ma con alcune penalizzazioni:
  • Se la domanda arriva entro 12 mesi dall’apertura, è “tardiva semplice” e il creditore partecipa ai riparti successivi da quel momento, perdendo quelli già fatti.
  • Se oltre 12 mesi, è “ultratardiva” e il creditore partecipa solo se c’è capienza residua (non può far valere diritti su somme già distribuite).
  • Tutte le tardive pagano un contributo per spese (fisso il 5% del credito richiesto per le ultra-tardive, ad esempio).
  • Le domande tardive vengono esaminate in udienze periodiche fissate dal G.D. (es. ogni 4-6 mesi). Il Curatore intanto deve integrare lo stato passivo includendo questi crediti se ammessi.
  1. Situazioni particolari – Alcune categorie di crediti seguono regole specifiche:
  • Crediti condizionali: ammessi con riserva fino all’avverarsi della condizione (es. un fideiussore chiede ammissione “subordinata al pagamento da parte sua”; se poi paga, scioglie la riserva).
  • Crediti in valuta estera: convertiti in euro al corso alla data di apertura (fissata la parità concorsuale). -### 7.3 Liquidazione dell’attivo (vendita dei beni)
  1. Predisposizione del programma di liquidazione – Dopo la verifica dei crediti, il Curatore si concentra sulla vendita dei beni del fallimento. Entro un termine stabilito (in genere 60 giorni dall’esecutività dello stato passivo), egli deve proporre un programma di liquidazione (art. 213 C.C.I.I.). Questo documento delinea la strategia di realizzo dell’attivo: quali beni vendere e con quali modalità, l’eventuale cessione unitaria dell’azienda o di rami di essa, le tempistiche previste, l’opportunità di proseguire temporaneamente l’attività per aumentare il valore di realizzo, etc. Il programma viene sottoposto al Comitato dei Creditori per approvazione e poi al Giudice Delegato per l’autorizzazione definitiva. Solo dopo l’approvazione il Curatore può dare esecuzione alle vendite (salvo atti urgenti già autorizzati singolarmente).
  2. Modalità di vendita: aste competitive e portale telematico – Il Codice della Crisi ha modernizzato le vendite fallimentari prevedendo, all’art. 216, che esse debbano avvenire tramite procedure competitive e preferibilmente con strumenti telematici, utilizzando il Portale delle Vendite Pubbliche. In pratica, i beni immobili e mobili di maggior valore vengono messi all’asta su piattaforme autorizzate, assicurando pubblicità e trasparenza. Le regole d’asta (prezzo base, rilanci minimi, cauzioni) sono determinate dal G.D.. È possibile derogare alle vendite telematiche solo se esse risultano pregiudizievoli per gli interessi dei creditori (casi rari, da motivare). Per beni di modesto valore, il Curatore può procedere a trattativa privata previa stima, purché comunque raccolga più offerte concorrenti se disponibili.
    • Esempio: il Curatore deve vendere un macchinario industriale: pubblicherà un avviso sul portale vendite e su siti specializzati, raccogliendo offerte in busta chiusa o con gara telematica; il bene sarà aggiudicato al miglior offerente assicurando massima trasparenza.
    • Tutti i ricavi delle vendite confluiscono su un conto bancario intestato alla procedura (conto della Curatela). Il Curatore gestisce questi fondi, che sono vigilati dal Giudice Delegato e su cui solitamente possono operare solo congiuntamente Curatore e G.D. (doppia firma per prelievi significativi).
  3. Cessione dell’azienda o rami d’azienda – Se l’impresa fallita ha ancora un valore come complesso funzionante (avviamento, marchio, know-how, dipendenti qualificati), il Curatore può proporre la vendita in blocco dell’azienda o di suoi rami, in esercizio provvisorio o anche a attività ferma. Questo talora consente di preservare la continuità aziendale fuori dal fallimento, tramite un nuovo acquirente, e di realizzare un importo superiore rispetto alla liquidazione spezzettata dei singoli beni. Ad esempio, nel fallimento di un ristorante, il Curatore potrebbe vendere l’intera azienda (licenze, attrezzature, marchio) ad un soggetto interessato a rilevarla, così da ottenere più valore e salvare i posti di lavoro. Il Codice agevola tali cessioni: l’art. 214 consente la cessione d’azienda anche libera da debiti (i debiti restano nella procedura e l’acquirente prende l’azienda pulita), il che è un incentivo all’acquisto. Queste vendite richiedono comunque il parere del Comitato dei creditori e l’autorizzazione del Giudice Delegato, specie se comportano elementi di continuità (es. accollo di contratti, affitto d’azienda in preludio alla vendita, ecc.).
  4. Altri atti di liquidazione – Oltre alle vendite, il Curatore può compiere altri atti per monetizzare l’attivo:
    • Incasso crediti verso terzi: sollecita i debitori della fallita a pagare (notificando loro il fallimento). Se necessario, promuove azioni legali per riscuotere crediti (ingiunzioni, pignoramenti) o cede i crediti a società di factoring.
    • Transazioni: può accordarsi transattivamente con debitori della massa o su cause pendenti, se ciò conviene (ad esempio, chiudere una causa incassando una somma immediata invece di rischiare l’esito incerto).
    • Azioni giudiziarie recuperatorie: come accennato, esercita azioni revocatorie per recuperare beni o denaro usciti indebitamente prima del fallimento. Ad esempio, l’art. 166 C.C.I.I. permette di revocare pagamenti ai creditori fatti nei 6 mesi precedenti l’apertura se pregiudizievoli alla par condicio (con eccezioni). Se la revocatoria riesce, il beneficiario restituisce le somme alla massa attiva.
    • Azioni di responsabilità: se emerse irregolarità, il Curatore può citare in giudizio gli amministratori o i sindaci della società fallita per danni causati (azione ex art. 255 C.C.I.I., simile all’art. 146 L.F.). Eventuali risarcimenti riconosciuti diventano attivo per i creditori.
    • Recupero beni del fallito presso terzi: se vi sono beni di proprietà del fallito in possesso di altri (es. beni concessi in leasing, o beni di proprietà del fallito detenuti da parenti), il Curatore li rivendica con azione di rivendica (art. 189 C.C.I.I.) o ne chiede la consegna.
  5. Tempistiche della liquidazione dell’attivo – Il Codice della Crisi ha introdotto un termine-guida: due anni dall’apertura per completare la liquidazione dell’attivo. Non è un termine perentorio ma un target per spronare celerità. In molte procedure complesse due anni non bastano (si pensi a fallimenti con molti immobili o contenziosi). Infatti la legge prevede espressamente la possibilità di proroga su richiesta motivata del Curatore. Ad ogni modo, la procedura oggi tende a evitare inerzie: il Curatore deve riferire periodicamente al Giudice Delegato sullo stato delle vendite e se rimane inerte può essere sostituito. Soprattutto, come vedremo, non bisogna attendere la liquidazione totale di ogni asset per iniziare a pagare i creditori: sono possibili riparti parziali nel mentre.
  6. Esempio pratico di liquidazione attivo – Immaginiamo il fallimento di una società di trasporto con questo attivo: 5 autocarri, un capannone, crediti per fatture verso clienti e attrezzature d’ufficio. Il Curatore, nel programma, potrà prevedere:
    1. Vendita dei 5 autocarri tramite asta online sul Portale Vendite Pubbliche, lotto singolo o separati, con base d’asta da perizia.
    2. Vendita del capannone industriale con procedura competitiva delegata a un notaio banditore, sul portale e con pubblicità locale.
    3. Cessione in blocco dei crediti verso clienti a una società di factoring o, in alternativa, loro recupero giudiziale caso per caso (scelta da valutare in base a importi e solvibilità debitori).
    4. Vendita di computer e arredi tramite piattaforma di e-commerce specializzata in beni usati aziendali, oppure tramite trattativa diretta se valori modesti.
    5. Termine per completare tutto: 18 mesi, con ipotesi di incasso totale di circa € 500.000.
    6. Previsione di fare due riparti parziali: uno dopo 9 mesi (con il ricavato già ottenuto dalle vendite dei camion e di metà crediti) e uno dopo 18 mesi (dopo aver venduto anche l’immobile).
    Questo programma va al Comitato dei creditori, che può proporre modifiche (es: “meglio vendere i camion singolarmente”), poi il G.D. lo omologa con eventuali correzioni. Da lì il Curatore esegue: contatta un perito stimatore, prepara gli avvisi di vendita, etc. Se un’asta va deserta, può ribassare il prezzo base e indire un nuovo tentativo, e così via.
  7. Controllo giudiziario sugli atti di liquidazione – Ogni atto di vendita rilevante richiede un provvedimento del Giudice Delegato che ne accerti la regolarità e la conformità al programma. Ad esempio, a seguito di un’asta, il G.D. emette decreto di trasferimento di un immobile all’aggiudicatario (libero da ipoteche e pignoramenti, che vengono cancellati). Oppure, se il Curatore intende accettare un’offerta privata, chiederà al G.D. l’autorizzazione. Questo filtro evita alienazioni poco trasparenti o sottocosto: il giudice verifica che si sia ottenuto il miglior prezzo possibile date le circostanze. Va detto però che il G.D. non interferisce nelle scelte discrezionali del Curatore (che attengono al merito opportunistico): ad esempio, se il Curatore reputa più conveniente un lotto unico o separato, il G.D. di regola ne prende atto salvo manifesta irragionevolezza. In caso di atti anomali, i creditori possono segnalare al giudice (o al comitato) la questione.
  8. Custodia somme in attesa di riparto – Durante la fase di liquidazione, il Curatore accumula in cassa (sul conto della procedura) le somme incassate dalle vendite e dai crediti. Queste somme sono patrimonio della massa fallimentare. Il Curatore può investire la liquidità in strumenti sicuri (di solito conto fruttifero postale o titoli di Stato a breve) per non lasciarle infruttuose, previa autorizzazione. Egli deve tenere un’accurata contabilità di entrate e uscite (registro della gestione).

7.4 Ripartizione dell’attivo ai creditori

  1. Pagamenti parziali ai creditori (riparti) – Una caratteristica importante del nuovo Codice è la promozione di riparti parziali periodici a favore dei creditori durante la procedura. In passato spesso i creditori aspettavano la fine del fallimento per ricevere qualcosa; ora l’art. 220 C.C.I.I. sollecita il Curatore a distribuire le somme mano a mano che si formano, almeno ogni 4 mesi a partire dal deposito dello stato passivo (o in diverso termine indicato dal G.D.). Ciò vuol dire che, ad esempio, a pochi mesi dall’inizio, se il Curatore ha già venduto dei beni o incassato crediti, può (e dovrebbe) proporre un piano di riparto parziale: tiene conto delle somme disponibili e le distribuisce pro quota ai creditori, riservandone una parte per spese future e creditori privilegiati da soddisfare integralmente. In pratica, la soddisfazione dei creditori avviene a più riprese: magari il 20% di acconto dopo un anno, un altro 15% dopo due anni, ecc., fino al riparto finale.
  2. Ordine di distribuzione – La legge fissa l’ordine rigoroso con cui le somme vanno attribuite, secondo le categorie di creditori (art. 221 C.C.I.I.): a. Crediti prededucibili – Vanno pagati per primi e integralmente (se possibile). Sono i crediti sorti durante la procedura o in funzione di essa, che per legge hanno privilegio assoluto (ad es.: compenso del Curatore, spese di giustizia, fornitori dell’esercizio provvisorio, consulenti legali del Curatore, Fondo INPS per TFR anticipato – che surroga i lavoratori – ecc.). Nessun pagamento ai creditori concorsuali può avvenire se prima non si pagano tutte le spese prededucibili. b. Crediti con prelazione – Vengono i crediti ammessi con privilegio speciale o generale, pegno o ipoteca, nei limiti del valore di realizzo dei beni vincolati. Ad esempio, se c’è un creditore ipotecario su un immobile, egli prenderà il suo credito (interessi esclusi dopo la data di apertura) sul ricavato di quell’immobile, fino a soddisfazione o capienza del prezzo; se avanza residuo del prezzo, va ai creditori successivi; se il creditore non è soddisfatto integralmente, la parte eccedente diventa credito chirografario. I privilegi generali mobiliari (es. privilegi dei lavoratori per stipendi, INPS per contributi, Fisco per IVA, etc.) concorrono sui beni mobili (e sui mobili registrati se li agganciano) in ordine di grado stabilito dal Codice Civile. I privilegi speciali su specifici beni vanno sul ricavato di quei beni. c. Crediti chirografari – Quelli senza garanzia né privilegio (o la parte residua dei privilegi se non soddisfatti per incapienza) ricevono in proporzione l’eventuale attivo residuo dopo aver pagato i prededucibili e soddisfatto integralmente i privilegiati. Di norma, nei fallimenti con attivo scarso, i chirografari ricevono solo una percentuale del loro credito (spesso piccola). d. Crediti postergati – In fondo alla gerarchia vi sono eventuali crediti postergati per legge o contratto (es.: finanziamenti soci in s.r.l. postergati ex art. 2467 c.c., o crediti di societati sottoposte a subordinazione contrattuale). Questi vengono pagati solo se avanza qualcosa dopo aver soddisfatto tutti gli altri, il che è raro. Il Curatore, nel piano di riparto, rispetta queste priorità. Il piano di riparto è depositato in Tribunale e comunicato ai creditori; se nessuno lo contesta entro termini, il G.D. lo rende esecutivo e il Curatore procede ai pagamenti (di solito tramite bonifici, assegni circolari, o in alcuni casi depositi giudiziari se il creditore è irreperibile).
  3. Acconti percentuali e riparto finale – Come detto, possono esservi più riparti parziali. L’ultimo riparto (riparto finale) avviene quando l’attivo è esaurito o quasi. Il legislatore incoraggia di anticipare almeno l’80% delle somme disponibili nei riparti parziali, in modo che al riparto finale resti al più il 20% da distribuire, riducendo l’attesa per i creditori. Prima del riparto finale, il Curatore deve aver chiuso tutte le pendenze: venduto i beni (o constatato l’invendibilità di quelli residui e assegnandoli eventualmente al debitore se di valore trascurabile), definito le cause ancora pendenti (se lunghe, può cederle a terzi o transarle). Dopodiché:
    • Redige il conto finale della gestione (rendiconto) con entrate e uscite.Il rendiconto viene comunicato ai creditori; il G.D. fissa un’udienza per eventuali contestazioni e poi lo approva.Il Tribunale (collegio) liquida il compenso del Curatore e degli eventuali altri ausiliari, prelevandolo dall’attivo prima di pagare i creditori.Quindi il Curatore predispone il piano di riparto finale, che attribuisce tutto ciò che resta ai creditori secondo l’ordine (includendo eventuali sopravvenienze attive dell’ultimo momento, e tenendo conto di riserve per crediti in contestazione se ce ne sono ancora pendenti giudizi).Il G.D. approva e il Curatore esegue i pagamenti finali ai creditori.
    A questo punto la missione del Curatore è sostanzialmente compiuta. Rimane solo da chiudere formalmente la procedura.

7.5 Cessazione e chiusura della procedura

  1. Chiusura ordinaria per completamento della liquidazione – Una volta effettuato il riparto finale, il Tribunale dichiara chiusa la liquidazione giudiziale con decreto motivato. La chiusura ordinaria avviene quando l’attivo è stato interamente liquidato e distribuito, oppure non vi è più nulla da fare. La procedura è quindi cessata e il Curatore viene scaricato dal suo ufficio (ferma restando la necessità di conservare le carte per alcuni anni). Da questo momento, il fallimento non esiste più: tornano in bonis eventuali rapporti rimasti in capo al debitore (ad esempio, residui di crediti non riscossi o beni non liquidati perché di nessun valore). I creditori non possono più insinuarsi né il Curatore compiere atti.
  2. Cause particolari di chiusura anticipata – Oltre al caso ordinario sopra, il Codice prevede che la chiusura possa essere dichiarata anche in alcuni casi specifici prima di aver liquidato tutto:
    1. Assenza di creditori insinuati: se nessun creditore ha presentato domanda di ammissione al passivo entro i termini, il tribunale può chiudere anticipatamente la procedura. In mancanza di creditori da soddisfare, non ha senso proseguire la liquidazione (salvo eventualmente convertire in una liquidazione controllata se fosse sovraindebitamento, ma qui parliamo di fallibili). Questo caso è raro ma può capitare in piccoli fallimenti in cui i creditori rinunciano o sono tutti irreperibili.
    2. Soddisfazione integrale dei crediti prima del termine: se nel corso della procedura il Curatore riesce a pagare tutti i creditori ammessi integralmente (magari grazie a un attivo insperato molto capiente), il tribunale può dichiarare chiuso il fallimento perché lo scopo è raggiunto. Ad esempio, se un unico immobile valeva più di tutti i debiti e viene venduto, con conseguente pagamento al 100% dei crediti, non si continuerà oltre (sebbene residuerebbe un attivo che va al debitore).
    3. Insufficienza dell’attivo a coprire neanche le spese: se in qualunque momento emerge che l’attivo non basterà nemmeno per pagare le spese della procedura, e non ci sono fondi ulteriori, il tribunale può chiudere anticipatamente. Questo è il caso di fallimento deserto o incapiente. Formalmente, il G.D. dichiara che non si fa luogo all’accertamento del passivo (se ancora in fase iniziale) o propone la chiusura per insufficienza. I creditori rimangono insoddisfatti ma la procedura non avrebbe senso continuare (non potendo il Curatore operare gratis né generare attivo dal nulla). I creditori riacquistano la libertà di perseguire il debitore (che però difficilmente potrà pagare loro, visto che l’attivo era zero).
    In tutti questi casi, il decreto di chiusura dichiara la cessazione degli effetti della liquidazione giudiziale.
  3. Effetti della chiusura – Con la chiusura, l’imprenditore riacquista la disponibilità dei beni eventualmente rimasti (se ce ne sono) e torna pienamente capace di agire sul proprio patrimonio. Ad esempio, se c’erano cause di cui il Curatore non ha definito l’esito, ora tornano nella disponibilità del debitore; se restava un immobile invenduto (magari perché gravato da vincoli), rientra al fallito. Importante: la chiusura non estingue i debiti residui verso i creditori che non sono stati integralmente soddisfatti, salvo che intervenga l’esdebitazione (vedi oltre). In assenza di esdebitazione, i creditori chirografari possono teoricamente tornare a farsi avanti per la parte non pagata. Tuttavia, costoro non potranno aggredire i beni che erano già stati liquidati e distribuiti; potrebbero aggredire eventuali nuovi beni acquisiti dal debitore dopo la chiusura (ma spesso il fallito esce ancora indigente dalla procedura). La chiusura inoltre fa cessare tutte le incapacità personali civili derivanti dal fallimento, restituendo all’imprenditore la piena facoltà, ad esempio, di ricoprire cariche societarie (salvo eventuali interdizioni penali separate).
  4. Cancellazione della società dal Registro Imprese – Se l’impresa fallita era una società, con la chiusura della procedura il Curatore o gli amministratori (riabilitati) provvedono a far cancellare la società dal Registro delle Imprese, completando così la sua estinzione. Infatti, nella maggior parte dei casi la società fallita non ha più patrimonio né attività e quindi viene sciolta. Si deposita in Camera di Commercio il decreto di chiusura e l’indicazione che la società è estinta per effetto della chiusura della liquidazione giudiziale. Se per ipotesi ci fosse un attivo residuo dopo aver pagato tutti i creditori (evento rarissimo), tale surplus verrebbe distribuito ai soci prima della cancellazione, secondo le quote di capitale. Al contrario, per l’imprenditore individuale, la persona fisica ovviamente non viene “cancellata” da alcun registro: egli semplicemente esce dalla condizione di fallito e prosegue la propria vita, con i suoi beni eventualmente rimasti.
  5. Esdebitazione del fallito persona fisica – Un istituto di grande importanza per l’imprenditore individuale (o socio illimitatamente responsabile) è l’esdebitazione. Introdotta già con la legge fallimentare e confermata e potenziata dal Codice della Crisi, l’esdebitazione consiste nella liberazione del debitore persona fisica dai debiti concorsuali non soddisfatti, al termine della procedura. In altre parole, il fallito onesto può ottenere che i debiti che sono rimasti insoluti dopo la chiusura del fallimento divengano inesigibili nei suoi confronti: ciò gli permette di ripartire da zero, senza rimanere schiacciato a vita dai debiti pregressi. Le condizioni per l’esdebitazione, disciplinate dagli artt. 278-279 C.C.I.I., in sintesi sono:
    • La procedura liquidatoria si è chiusa (per riparto finale o insufficienza attivo).Il debitore ha collaborato con gli organi della procedura, fornendo documenti e informazioni, senza ostacolare le operazioni né aver commesso atti di frode (distrazioni di beni, scritture false, ecc.).Non ha beneficiato di altra esdebitazione nei 5 anni precedenti.Non sono emersi comportamenti gravemente scorretti o commessi reati fallimentari (in caso di condanna per bancarotta fraudolenta, ad esempio, l’esdebitazione è preclusa).Ha soddisfatto almeno in parte i creditori? – Non è richiesto un pagamento minimo (anche il fallito che non ha pagato nulla ai chirografari può essere esdebitato, purché incolpevole). L’unica eccezione è per alcuni debiti non esdebitabili per legge, come obblighi di mantenimento, risarcimenti da illecito extracontrattuale e sanzioni penali/amministrative: questi restano comunque dovuti (art. 280 C.C.I.I.).
    La novità del Codice (specie dopo il correttivo 2021) è che l’esdebitazione può essere concessa anche d’ufficio entro 3 anni dall’apertura. In pratica, se a tre anni dall’apertura il fallimento è chiuso (o comunque i creditori non hanno avuto integrale soddisfo), il tribunale può dichiarare inesigibili i crediti residui del fallito meritevole anche senza bisogno di apposita istanza, attuando così la direttiva europea sull’insolvency che prevede un fresh start entro 3 anni. In ogni caso, il debitore persona fisica può presentare istanza di esdebitazione subito dopo la chiusura, e il tribunale decide con decreto (sentiti il Curatore e i creditori, che possono fare opposizione se ravvisano condotte disoneste). Se concessa, l’esdebitazione dà piena liberazione dai debiti pregressi: i creditori non soddisfatti non possono più pretendere nulla (essi subiscono la perdita). L’effetto benefico è di riabilitare economicamente l’ex fallito, permettendogli di tornare a fare impresa o altre attività senza la zavorra dei vecchi insoluti.
  6. Chiusura senza esdebitazione – Se invece l’imprenditore non ha i requisiti (ad esempio perché si è sottratto alla collaborazione, o è stato condannato per bancarotta), il tribunale rigetta l’istanza di esdebitazione. In tal caso i debiti residui rivivono: i creditori possono riprendere le azioni esecutive individuali per la parte non pagata. Tuttavia, resta il fatto che il debitore esce dalla procedura con patrimonio nullo o modesto, quindi molti creditori potrebbero rinunciare a ulteriori iniziative perché anti-economiche. Solo se il debitore dovesse ricostituire un patrimonio significativo, gli ex creditori potrebbero tornare alla carica (ad esempio iscrivendo ipoteca su un immobile che il debitore acquista dopo qualche anno). Dal punto di vista legale, la mancata esdebitazione mantiene vivo lo status di “cattivo pagatore”: i debiti non si estinguono, e questo può limitare l’accesso al credito futuro o ad attività commerciali (anche se legalmente l’incapacità ad esercitare impresa viene meno, le banche e i partner commerciali privati terranno conto del precedente default).
  7. Esempio finale – Mario Bianchi, imprenditore individuale, vede chiusa la sua liquidazione giudiziale nel 2025 dopo che i creditori chirografari hanno ottenuto il 20% di soddisfacimento. Mario ha collaborato bene con il Curatore e non ha nascosto nulla. Subito presenta istanza di esdebitazione. Il tribunale verifica che non ha pendenze penali e accoglie l’istanza: con decreto, dichiara Mario esdebitato, liberandolo dai € 80.000 rimasti scoperti. I creditori insoddisfatti non potranno più disturbarlo per quei debiti. Mario potrà quindi, con cautela, riprendere una piccola attività con una posizione “pulita” (salvo la permanenza per qualche anno dei dati negativi nei registri creditizi privati, ma senza vincoli legali). Se invece Mario avesse commesso irregolarità, il tribunale gli negherebbe l’esdebitazione: i creditori potrebbero a quel punto tentare di aggredire, ad esempio, il suo stipendio se egli trovasse lavoro dipendente, pignorandogliene una quota, oppure attendere che erediti qualche bene in futuro per rifarsi. Ciò costituisce un forte stimolo per il fallito a comportarsi onestamente durante la procedura, in vista del “premio” finale della liberazione dai debiti.

Con la chiusura (ed eventualmente l’esdebitazione), la procedura di liquidazione giudiziale è definitivamente terminata. L’imprenditore torna in bonis e i creditori hanno ricevuto quanto possibile. Passiamo ora ad analizzare in dettaglio gli effetti che la liquidazione giudiziale produce, sin dall’apertura, sui vari aspetti: posizione dell’imprenditore, contratti pendenti, rapporti di lavoro, gestione dei beni e così via.

8. Effetti della Liquidazione Giudiziale: patrimonio, persona, contratti e rapporti giuridici

La liquidazione giudiziale comporta una serie di effetti legali sia sul piano patrimoniale (per l’imprenditore e i creditori) sia sul piano personale dell’imprenditore, nonché sull’intreccio di rapporti contrattuali e di lavoro in cui l’impresa è coinvolta. In questo capitolo esamineremo:

  • Gli effetti sul patrimonio del debitore (spossessamento e vincoli sui beni).
  • Le incapacità personali e altre conseguenze civilistiche per l’imprenditore dichiarato insolvente.
  • Gli effetti sulle azioni legali e sui creditori (sospensione delle azioni individuali).
  • La sorte dei contratti pendenti (non ancora eseguiti completamente al momento del fallimento).
  • Il destino dei rapporti di lavoro dipendente.
  • Gli effetti su particolari beni e situazioni (beni impignorabili, beni in comproprietà, ecc.).

8.1 Spossessamento del patrimonio e vincoli sui beni

  1. Perdita della disponibilità dei beni (spossessamento) – Dal momento in cui è dichiarata la liquidazione giudiziale, l’imprenditore perde la disponibilità e l’amministrazione di tutti i suoi beni presenti e futuri (art. 142 C.C.I.I.). Questo principio, chiamato classicamente spossessamento, significa che il fallito non può più autonomamente disporre (vendere, donare, dare in pegno, affittare, ecc.) dei beni che possedeva alla data della sentenza, né di quelli che potrà acquisire durante la procedura. Tali beni formano il patrimonio fallimentare sotto il controllo del Curatore. Anche i beni che dovessero pervenirgli dopo (es. un’eredità o una vincita in lotteria durante il fallimento) entrano nella massa e spettano al Curatore.
    • Gli atti compiuti dal debitore dopo l’apertura in violazione di questo divieto sono giuridicamente inefficaci rispetto ai creditori. Ad esempio, se il giorno dopo il fallimento l’imprenditore vende a un amico la propria auto, quell’atto è inopponibile alla procedura: il Curatore potrà recuperare l’auto come se la vendita non fosse mai avvenuta. (Nota: l’atto rimane valido tra le parti, ma non produce effetti verso i creditori e il Curatore).
    • Lo spossessamento non implica una proprietà trasferita: la titolarità formale dei beni resta al fallito, ma è come congelata e sottoposta a gestione altrui. Infatti, al termine della procedura, eventuali beni non liquidati tornano al debitore. Tuttavia, per gli immobili, viene trascritta la sentenza nei registri, segnalando lo stato di liquidazione; per i mobili registrati, analogamente, così che i terzi sappiano che su quei beni c’è un vincolo concorsuale.
  2. Beni esclusi dalla massa – Non tutti i beni del debitore cadono nel fallimento. L’art. 146 C.C.I.I. ricalca l’elenco di esclusioni già presente nella legge fallimentare. Restano nella disponibilità del debitore, quindi fuori dalla liquidazione:
    • I beni di natura strettamente personale del debitore, cioè quelli senza rilevanza economica e legati alla persona (ad esempio: abiti, effetti personali, decorazioni al valore, foto di famiglia, ecc.).
    • I proventi di carattere alimentare e i redditi da lavoro che il debitore guadagna durante la procedura necessari al mantenimento suo e della famiglia. In pratica, se il fallito trova un impiego, una parte del suo stipendio, ritenuta necessaria per vivere dignitosamente, gli viene lasciata (similmente a quanto avviene nell’esecuzione forzata, dove è impignorabile il minimo vitale e comunque stipendio e pensione sono pignorabili solo in parte).
    • I frutti dell’usufrutto legale sui beni dei figli minori.
    • I beni costituiti in fondo patrimoniale (e i loro frutti), ma solo entro i limiti in cui, anche al di fuori del fallimento, sarebbero impignorabili ex art. 170 c.c. (cioè se i debiti non sono stati contratti per bisogni familiari). Questo è un caso delicato: se un imprenditore aveva un fondo patrimoniale con beni immobili, il Curatore potrebbe tentarne l’esecuzione se dimostra che i debiti d’impresa erano per esigenze familiari o se il fondo è stato usato in frode.
    • Beni impignorabili per legge (art. 545 c.p.c.), come ad esempio arredi di casa di modesto valore, animali di affezione, strumenti di lavoro indispensabili entro certi limiti di valore, etc. Ciò che non si poteva pignorare non si prende neanche nel fallimento.
    Oltre a questi, restano fuori dalla massa i beni di terzi eventualmente in possesso del debitore (es: se l’impresa aveva un macchinario in leasing, la proprietà è della società di leasing, dunque quel macchinario non è del fallito, anche se il Curatore deve custodirlo fino a restituzione). All’opposto, rientrano nella massa beni formalmente intestati a terzi ma di proprietà sostanziale del fallito (es: interposizione fittizia): il Curatore può agire per farli includere (azione di revocazione o simulazione).
  3. Sospensione delle azioni esecutive individuali – Un effetto fondamentale dell’apertura della liquidazione giudiziale è il blocco di tutte le azioni esecutive e cautelari individualmente intraprese dai creditori sul patrimonio del debitore (art. 150 C.C.I.I., ex art. 51 l.fall.). Ciò realizza la par condicio: i creditori devono concorrere nella procedura collettiva e non possono più agire separatamente:
    • Se erano in corso pignoramenti o sequestri nei confronti dell’imprenditore, vengono automaticamente sospesi. Ad esempio, se la casa del debitore era stata pignorata da una banca, quella procedura esecutiva si arresta e subentrerà il Curatore che venderà l’immobile nella massa, ripartendo poi il ricavato secondo le regole concorsuali (dando alla banca ipotecaria la sua quota).
    • Non si possono iniziare nuove cause esecutive o cautelari: i creditori devono presentare la domanda di ammissione al passivo nel fallimento anziché fare decreti ingiuntivi o pignoramenti. Eventuali ingiunzioni non ancora esecutive si convertirebbero in mere domande da insinuare.
    • Eccezione: i procedimenti per crediti estranei al concorso (es. obbligazioni alimentari verso familiari, azioni di separazione dei beni da parte di terzi proprietari, cause penali con confisca) possono proseguire, ma con coordinamento. Inoltre, i creditori muniti di pegno o ipoteca (creditori privilegiati su beni specifici) in teoria conservano il diritto di separazione sul ricavato di quei beni, ma non possono procedere da soli alla vendita: devono anch’essi passare per la liquidazione concorsuale (con un meccanismo analogo all’esecuzione, però sotto il Curatore). Solo nel caso di amministrazione straordinaria di grandi imprese qualche azione potrebbe essere sospesa diversamente, ma non è il nostro focus.
    L’automatic stay non impedisce tuttavia ai creditori di agire in sede di accertamento del credito (causa civile per stabilire l’esistenza del credito, se contestata, art. 153 C.C.I.I.), sebbene ciò avvenga poi nell’ambito del fallimento (opposizioni allo stato passivo, ecc.). In sintesi: il fallimento accentra tutte le controversie sul passivo davanti al proprio tribunale, e sospende la frantumazione delle esecuzioni.
  4. Interruzione dei giudizi in corso – Tutte le cause civili pendenti aventi ad oggetto diritti di cui il fallito è spossessato subiscono l’interruzione automatica ex art. 43 l.fall. (principio mantenuto nel Codice). Ciò significa che, ad esempio, se l’imprenditore aveva in corso una causa per un credito verso un cliente, quella causa è interrotta e dovrà essere riassunta dal Curatore che prende il posto del fallito come parte in giudizio. Analogamente, se c’era una causa contro il fallito (es: un fornitore lo aveva citato per inadempimento), anch’essa s’interrompe e il creditore dovrà insinuarsi nel passivo invece di proseguirla per ottenere condanna. L’unica eccezione sono i processi di natura personale (es: separazioni matrimoniali, cause per danni non patrimoniali contro il fallito in persona): lì il fallimento non incide e il fallito può proseguire come persona fisica, perché non attengono al patrimonio concorsuale.
    • In tema di giudizi tributari: l’apertura del fallimento sposta la legittimazione dal contribuente al Curatore per le liti relative a imposte per periodo ante-fallimento. Se il fallito aveva ricorsi tributari pendenti, il Curatore può subentrarvi oppure decidere di non coltivarli se non utili alla massa (attenzione: se non li coltiva, eventuali cartelle esattoriali diverranno crediti erariali da insinuare).
  5. Atti a titolo gratuito e pagamenti preferenziali pre-fallimento – Con l’apertura possono emergere effetti retroattivi su atti compiuti prima della procedura:
    • Gli atti dispositivi a titolo gratuito compiuti dal debitore nei due anni precedenti sono inefficaci di diritto (art. 166, co.1 C.C.I.I.): il Curatore può recuperarne gli effetti senza dover fare causa (es: donazioni di beni fatte nell’ultimo biennio vengono automaticamente revocate).
    • I pagamenti o garanzie concessi nell’imminenza del fallimento a vantaggio di taluni creditori possono essere revocati (inefficacia relativa) su azione del Curatore, come già accennato. La ratio è evitare che, prevedendo il fallimento, il debitore abbia favorito alcuni a scapito di altri. La legge individua precisi periodi sospetti: pagamenti di debiti scaduti entro 6 mesi prima; atti anormali entro 6 mesi/1 anno prima (a seconda del tipo); atti fraudolenti fino a 2 anni prima. Se il Curatore prova le condizioni, il giudice dichiara l’inefficacia e chi ha ricevuto deve restituire alla massa. Ci sono comunque esenzioni (pagamenti di utility correnti, vendite a giusto prezzo, etc., non sono revocabili).
    • Questi meccanismi tutelano la massa creditoria e possono ampliare l’attivo recuperando quanto il debitore aveva disperso poco prima del dissesto.

In breve, l’apertura della liquidazione giudiziale “congela” il patrimonio al momento dell’insolvenza e ne evita il depauperamento ulteriore sia per mano del debitore (spossessamento) sia per mano di singoli creditori (blocco delle esecuzioni individuali). Il patrimonio diventa un fondo comune gestito nell’interesse collettivo.

8.2 Conseguenze personali per l’imprenditore fallito

  1. Incapacità processuale e rappresentativa – Uno dei primi effetti sul piano personale è che l’imprenditore perde la capacità processuale riguardo ai rapporti inclusi nel fallimento. Egli non può stare in giudizio autonomamente per questioni attinenti al patrimonio fallimentare: viene sostituito dal Curatore in tutte le liti relative ai beni o ai debiti coinvolti. Se per esempio il fallito viene citato in una causa di risarcimento per un fatto aziendale accaduto prima, sarà il Curatore a rappresentarlo in giudizio (sempre limitatamente agli aspetti patrimoniali). Il fallito può invece agire e resistere in giudizio per le questioni extra-fallimentari (diritti personali, penali, status familiare, etc.) e per eventuali diritti o beni rimasti a lui (non soggetti a spossessamento). Inoltre, tutta la corrispondenza relativa a rapporti patrimoniali va consegnata al Curatore: in pratica il fallito non può neanche più ricevere liberamente lettere inerenti i suoi affari economici, che saranno deviate al Curatore per controllo.
  2. Incapacità ad esercitare cariche e attività – La legge prevede alcune incapacità personali a carico del fallito (imprenditore persona fisica) per tutta la durata della procedura. Anche queste ricalcano la vecchia disciplina e mirano a evitare che il fallito possa assumere ruoli di gestione di patrimoni altrui durante la procedura, stante la sua insolvenza pendente:
    • Non può fare da tutore o curatore di incapaci (salvo dei propri figli).
    • Non può assumere cariche di amministratore di società di capitali (divieto ex art. 2382 c.c.).
    • Non può essere sindaco o revisore di società (art. 2399 c.c.).
    • Non può essere representante comune di portatori di obbligazioni (art. 2417 c.c.).
    • Non può assumere la qualifica di imprenditore in nome collettivo o accomandatario in altre società di persone (articoli 2288, 2293, 2315 c.c. precludono al fallito di entrare come socio illimitatamente responsabile in società, pena lo scioglimento del rapporto).
    • Non può accedere a professioni o attività che richiedano determinati requisiti di onorabilità economica (ad es. sarebbe radiato dagli Albi dei mediatori creditizi, agenti finanziari, ecc., se ne faceva parte).
    Tali incapacità cessano con la chiusura della procedura o con l’emissione del decreto di omologazione dell’esdebitazione (che di fatto segna il reintegro del fallito). Quindi il fallito non è interdetto civile in senso generale, ma subisce limitazioni ad hoc stabilite dalla legge speciale.
  3. Stigma sociale e pubblicità – Pur avendo mitigato i termini, la procedura di liquidazione giudiziale comporta ancora un discredito per l’imprenditore insolvente. La sentenza è pubblicata sul Registro Imprese e i suoi dati inseriti nei registri dei protesti e delle procedure concorsuali. I contratti di fornitura, di credito e commerciali spesso prevedono la risoluzione automatica in caso di fallimento. Dunque, il fallito perde buona parte della fiducia commerciale:
    • I suoi conti correnti vengono chiusi e difficilmente potrà aprirne di nuovi durante la procedura.
    • L’accesso al credito gli è precluso (nessuna banca finanzia un soggetto fallito).
    • Anche dopo la chiusura, per alcuni anni le centrali rischi e banche dati evidenzieranno il passato fallimento, rendendo complicato ottenere finanziamenti o intraprendere nuove iniziative economiche.
    • La reputazione ne risente: fornitori ed ex clienti sapranno della procedura. Da qui l’importanza dell’esdebitazione e di un ordinato svolgimento per poter ricostruire una reputazione post-fallimentare.
  4. Obbligo di collaborazione e residenza – Il fallito ha il dovere di collaborare lealmente col Curatore e gli organi della procedura. Deve presentarsi alle convocazioni (in primis all’interrogatorio formale che il G.D. può disporre ex art. 130, per raccogliere informazioni sulle cause dell’insolvenza), fornire ogni chiarimento su conti e operazioni, segnalare beni, consegnare documenti. Ha anche l’obbligo di comunicare ogni cambiamento di residenza o domicilio per permettere le notifiche (spesso il tribunale fissa la residenza “per la procedura” presso il comune della sede dell’impresa). La violazione di questi doveri può comportare sanzioni: il G.D. può ordinare accompagnamento coattivo, e soprattutto in sede penale l’omessa collaborazione rileva come bancarotta semplice (omissione di informazione) o come aggravamento del dissesto. In casi estremi, il tribunale può disporre misure restrittive (in passato arresto del fallito, ora di fatto non usato se non per reati).
  5. Conseguenze penali – L’apertura della liquidazione giudiziale attiva la vigilanza del Pubblico Ministero, cui è comunicata la sentenza e la relazione del Curatore. Se emergono indizi di reato, possono partire inchieste e procedimenti penali a carico dell’imprenditore (e di eventuali complici, come amministratori, soci, consulenti):
    • Bancarotta fraudolenta (art. 322 C.C.I.I.): è il reato più grave. Si ha quando l’imprenditore, prima o durante il fallimento, sottrae, distrae, occulta o dissipa beni dal patrimonio per danneggiare i creditori, oppure simula passività inesistenti o ancora falsifica le scritture contabili per ostacolare la ricostruzione del patrimonio. È punita con la reclusione da 3 a 10 anni. Esempi: cassa sparita, magazzino svuotato e merce portata all’estero, scritture contabili sparite o alterate.
    • Bancarotta semplice (art. 323-324 C.C.I.I.): fattispecie meno dolosa, punita con reclusione da 6 mesi a 2 anni, che ricorre se l’imprenditore ha aggravato il dissesto per grave imprudenza o violazione di obblighi. Le lettere dell’art. 324 elencano vari comportamenti colposi: spese personali eccessive, atti di imprudenza per ritardare il fallimento, ritardo nell’istanza di fallimento aggravando il buco, mancato pagamento di debiti di un precedente concordato. Pur meno infamante della fraudolenta, anche la bancarotta semplice comporta condanna penale.
    • Ricorso abusivo al credito (art. 325 C.C.I.I.): punisce con reclusione 6 mesi-3 anni l’imprenditore che, prossimo all’insolvenza, continua a indebitarsi occultando il proprio dissesto. Ad esempio, chiede nuovi prestiti bancari senza informare della reale situazione, confidando di scaricarli sul fallimento.
    • Altri reati: ce ne sono vari (falsa attestazione o occultamento di stato di crisi, pagamenti preferenziali dolosi, mancata consegna di beni ai creditori, ecc.). Inoltre, se l’imprenditore ha commesso reati tributari (false dichiarazioni, omessi versamenti rilevanti) o societari, il fallimento li porta a galla e può aggravare la sua posizione.
    Essere dichiarati falliti non implica automaticamente reati: se l’insolvenza è dovuta a cause sfortunate e l’imprenditore ha agito diligentemente, non sarà penalmente punito per il solo fatto di fallire. Tuttavia, l’esperienza insegna che nelle procedure concorsuali quasi sempre emergono almeno lievi irregolarità contabili o gestionali (ad es. libri non aggiornati, pagamenti di favore ai parenti) che configurano la bancarotta semplice. In caso di bancarotta fraudolenta l’imprenditore va incontro a pene severe e all’onta del processo penale con possibili misure cautelari (arresti, sequestri). Inoltre, una condanna per bancarotta comporta l’interdizione dai pubblici uffici e dalle professioni per 10 anni e l’incapacità di esercitare imprese commerciali per lo stesso periodo, prolungando di fatto lo stigma ben oltre la chiusura della procedura concorsuale.
  6. Durata degli effetti personali – Come detto, le incapacità civili cessano con la chiusura della liquidazione giudiziale. Sul piano penale, eventuali condanne permangono con i loro effetti interdittivi per la durata stabilita dal giudice. Economicamente, l’esdebitazione (se ottenuta) libera dai debiti e consente un nuovo inizio. Quindi, l’imprenditore “fallito” cessa di essere tale al momento della chiusura: può tornare ad amministrare beni, aprire conti, costituire società (nessuna norma vieta a un ex-fallito di avviare una nuova impresa, a parte le difficoltà pratiche di credito). In caso di mancata esdebitazione, però, sarà sorvegliato dai vecchi creditori.

In sintesi, la liquidazione giudiziale ha un forte impatto sulla sfera personale dell’imprenditore, limitandone temporaneamente l’autonomia e segnandone la reputazione. Tuttavia, tali effetti non sono più “permanenti” come un tempo: con la chiusura e l’esdebitazione, l’imprenditore onesto può ottenere una sorta di riabilitazione economica e sociale, lasciandosi il fallimento alle spalle.

8.3 Effetti sui contratti pendenti

  1. Contratti in corso di esecuzione alla data del fallimento – Alla data di apertura della liquidazione giudiziale, è frequente che l’imprenditore avesse contratti in essere non ancora completamente eseguiti da entrambe le parti (contratti pendenti). Esempi: forniture da ricevere o da consegnare, contratti di locazione in corso, leasing, appalti non ultimati, contratti di licenza, abbonamenti, etc. Il Codice della Crisi disciplina questi casi all’art. 172 e seguenti, ricalcando la regola generale già nota (ex art. 72 l.fall.): il Curatore subentra o recede dal contratto pendente. In pratica:
    • Il contratto resta sospeso in attesa che il Curatore decida. Fino a decisione, l’altra parte non può esigere immediatamente l’adempimento né risolvere per inadempimento, ma può sollecitare (costituzione in mora).
    • Il Curatore, previa autorizzazione del Comitato dei creditori (o del G.D. in mancanza di comitato o in caso di urgenza), può dichiarare di subentrare nel contratto in luogo del fallito oppure di sciogliersi dal contratto. La scelta dipende dall’utilità per la massa:
      • Se il contratto è vantaggioso (ad es. un appalto in corso con margine positivo, o un leasing di un macchinario essenziale), il Curatore opterà per subentrare, ossia proseguirlo in vece del debitore, adempiendo alle obbligazioni residue come spese di massa prededucibili.
      • Se il contratto è oneroso o inutile (ad es. un ordine di forniture non più rivendibili, o un noleggio costoso), il Curatore preferirà sciogliersi, cioè non dare ulteriore esecuzione.
    • Effetti del subentro: il Curatore assume tutti i diritti e obblighi dal momento della dichiarazione di subentro. Le prestazioni già rese dall’altro contraente prima del fallimento restano concorsuali per quel che riguarda i crediti (l’altra parte insinuerà il suo credito se non pagato); le prestazioni future saranno pagate dalla massa come costi prededucibili. La controparte dovrà eseguire la sua parte verso il Curatore.
    • Effetti dello scioglimento: il contratto si intende risolto ex nunc. L’altra parte ha diritto a far valere in via di credito concorsuale l’eventuale danno emergente dallo scioglimento (tipicamente: se aveva già fornito qualcosa e non riceverà il corrispettivo per scioglimento, sarà un creditore; se confidava in un guadagno, può insinuare il danno da lucro cessante, anche se questo è spesso contestato e ridotto). Importante: lo scioglimento deciso dal Curatore non dà luogo a risarcimenti prededucibili, ma solo crediti concorsuali. Così si evita che la massa debba pagare penali o danni in via prioritaria.
    Non è richiesta autorizzazione del G.D. per dichiarare lo scioglimento (che di solito è atto dovuto se il contratto è infruttuoso), mentre per subentrare serve il parere del Comitato o G.D. (perché comporta oneri). Se il Curatore non comunica nulla entro un termine ragionevole e la controparte lo mette in mora chiedendo di pronunciarsi, trascorsi 60 giorni senza risposta il contratto si intende risolto (mora ex art. 172 c.2). Inoltre, alcuni contratti ad efficacia reale (traslativi immediati) non danno questa opzione: se al momento del fallimento una compravendita era già perfezionata ma non eseguita, si applicano regole particolari (ad es. l’art. 177 C.C.I.I. per la vendita con riserva di proprietà, e disposizioni per immobili da costruire).
  2. Contratti intuitu personae e rapporti societari – Il Codice prevede che i contratti stipulati intuitu personae (cioè basati sulle qualità personali del debitore) siano sciolti automaticamente dal fallimento. Esempio: un mandato professionale conferito all’imprenditore, o un contratto di prestazione artistica. In tali casi, essendo venuta meno la fiducia nella persona fallita, non ha senso proseguirli con il Curatore (che non può certo sostituirsi in qualità personali). L’art. 175 C.C.I.I. elenca alcune fattispecie (i contratti di società in nome collettivo col socio fallito si sciolgono, la commissione, l’associazione in partecipazione etc.). Anche la società di persone cui partecipa un socio fallito si scioglie limitatamente a quel socio (che esce) e prosegue con gli altri, convertendo la quota del socio fallito in debito verso la massa. Inoltre, la dichiarazione di liquidazione giudiziale di una società provoca di regola la risoluzione dei rapporti societari con i dipendenti che fossero anche amministratori o simili (perdita cariche) e l’impossibilità del fallito di continuare ad essere socio illimitatamente responsabile in altre società (vedi incapacità). I contratti connessi allo status del debitore (es: un contratto di conto corrente bancario intestato all’azienda) si risolvono: il conto viene bloccato e poi chiuso, gli affidamenti revocati.
  3. Locazioni di immobili – Un contratto tipico è la locazione di beni immobili, in cui l’imprenditore insolvente può essere locatore (proprietario che affitta a terzi) o conduttore (inquilino).
    • Se il fallito è locatore: il contratto prosegue di norma, ma il Curatore può recedere (con preavviso di 6 mesi) se la prosecuzione non conviene alla procedura. Esempio: se l’affitto è di un immobile il cui valore di vendita libero sarebbe maggiore, il Curatore può voler liberare l’immobile per venderlo meglio. Il recesso del Curatore attribuisce al conduttore un indennizzo pari a massimo un anno di canone, che però è credito concorsuale.
    • Se il fallito è conduttore (ha in locazione uno stabilimento): qui spesso il Curatore cesserà l’attività e recederà dalla locazione, restituendo i locali al locatore. I canoni maturati pre-fallimento vanno insinuati dal locatore; quelli per il periodo di occupazione post-fallimento sono prededucibili fino alla restituzione. Attenzione: se l’immobile era aziendale e serve per esercizio provvisorio o per vendere l’azienda, il Curatore può pagare i canoni in prededuzione e mantenere la locazione fino a cessione dell’attività.
  4. Contratti bancari – I rapporti di conto corrente bancario, fidi, anticipi, leasing finanziari subiscono anch’essi l’impatto:
    • Il conto corrente viene “congelato”. Il saldo attivo entra nell’attivo del fallimento; se passivo, la banca insinua il suo credito. Il Curatore di solito apre un nuovo conto dedicato.
    • I mutui e finanziamenti a medio-lungo termine: il fallimento costituisce inadempimento e consente alla banca di sciogliere il contratto. La banca insinua allora tutto il credito residuo (debito capitale + interessi sino alla data di fallimento; gli interessi successivi non maturano oltre la data di apertura, salvo ipotecari).
    • I leasing: se l’impresa fallisce, i leasing (di beni mobili o immobili) si sciolgono ex lege entro 60 giorni dall’apertura salvo che il Curatore dichiari di subentrarvi pagando i canoni (cosa rara, a meno che il leasing abbia valore positivo). Il concedente recupera il bene e insinua un credito pari ai canoni scaduti e a parte di quelli a scadere, dedotto il valore del bene restituito (c.d. legge 124/2017).
    • Gli affidamenti su conto o castelletto: la banca chiude le linee di credito; i pagamenti emessi ma non ancora addebitati al fallimento non verranno eseguiti. Le garanzie connesse (fideiussioni, pegni su titoli) potranno essere escusse separatamente.
  5. Esercizio provvisorio e contratti – Se è disposto l’esercizio provvisorio, i contratti essenziali all’esercizio (es: forniture di energia, contratti con clienti) proseguono temporaneamente. Il Curatore in pratica subentra almeno pro tempore in essi per assicurare la continuità aziendale. Eventuali fornitori critici possono richiedere al Curatore conferma degli ordini. I contratti nuovi stipulati dal Curatore durante l’esercizio provvisorio (ad esempio un nuovo ordine di materie prime) sono obblighi di massa: se poi l’esercizio termina e l’azienda è liquidata, quei fornitori verranno pagati in prededuzione.
  6. Garanzie personali prestate dall’imprenditore – Un aspetto peculiare: se l’imprenditore fallito aveva prestato fideiussioni o avalli in favore di terzi, la sua sopravvenuta insolvenza non scioglie automaticamente quelle garanzie. Ad esempio, se Tizio fallisce ma aveva garantito il debito di Caio verso una banca, la banca potrà insinuare il proprio credito nel fallimento di Tizio come creditore chirografario garantito (subordinatamente al pagamento o meno da parte di Caio). Viceversa, se terzi avevano garantito i debiti di Tizio, il loro obbligo rimane e la banca potrebbe escutere loro per la parte non soddisfatta dal fallimento.

In sintesi, sui contratti pendenti il fallimento introduce una sorta di freeze e rimodulazione: il Curatore valuta caso per caso e decide se portare avanti il rapporto (perché utile economicamente) o troncarlo, minimizzando i costi per la massa. Questo sistema cerca di bilanciare l’interesse della massa dei creditori con quello dei contraenti in bonis, evitando sia che i contratti vantaggiosi vadano perduti, sia che quelli svantaggiosi aggravino la situazione.

8.4 Effetti sui rapporti di lavoro dipendente

  1. Sospensione e scioglimento dei rapporti di lavoro – La dichiarazione di liquidazione giudiziale di per sénon risolve automaticamente i rapporti di lavoro dipendente in essere. Tuttavia, nella pratica, se non è disposto l’esercizio provvisorio o non vi è prospettiva di cessione dell’azienda in continuità, il Curatore interromperà l’attività e quindi avvierà le procedure per il licenziamento dei dipendenti. In caso di cessazione totale dell’attività, si applicano le norme dei licenziamenti collettivi (L. 223/1991): il Curatore comunica a sindacati e lavoratori l’intenzione di licenziare per cessazione azienda e osserva i termini di legge (ridotti nella procedura concorsuale). Il licenziamento per fallimento è generalmente per giustificato motivo oggettivo (chiusura impresa) e dà diritto al normale preavviso o indennità sostitutiva, che il lavoratore insinuerà al passivo se non goduta.
    • Se invece vi è esercizio provvisorio, i dipendenti necessari all’attività restano in carico e continui a pagarli il Curatore come spese di massa. Al termine dell’esercizio provvisorio (o alla cessione dell’azienda ad un acquirente), i rapporti possono proseguire con il cessionario (in caso di affitto/vendita di azienda con passaggio di dipendenti ex art. 2112 c.c.) oppure terminare se l’attività cessa.
  2. Crediti dei lavoratori – I lavoratori dipendenti del fallito diventano creditori concorsuali per tutte le retribuzioni maturate fino alla data del fallimento e non pagate, nonché per le indennità di fine rapporto (TFR), ferie non godute, etc. Tali crediti godono di privilegio generale sui mobili (art. 2751-bis n.1 c.c.) fino a un certo importo (le ultime 12 mensilità di retribuzione e trattamento di fine rapporto per l’intero, secondo la legge) e anche di privilegio sul TFR accantonato presso fondi. Inoltre le retribuzioni degli ultimi 3 mesi godono di privilegio super-preferenziale (antecedenza su crediti anche ipotecari, entro il limite di 3 mesi, art. 209 C.C.I.I.). Di conseguenza i dipendenti sono normalmente tra i primi ad essere pagati nella ripartizione (dopo le spese di giustizia).
    • Oltre all’insinuazione al passivo, i lavoratori possono accedere al Fondo di Garanzia INPS: questo ente pubblico anticipa loro il TFR e le ultime mensilità non percepite (fino a un massimo di 3) in caso di insolvenza del datore. Dopo l’ammissione al passivo, il Curatore rilascia ai lavoratori i documenti necessari, e l’INPS paga (tipicamente in pochi mesi) le somme dovute. L’INPS poi subentra come creditore surrogandosi (ma il suo credito è anch’esso privilegiato).
    • Se in azienda c’era un fondo di previdenza complementare, il Curatore gli versa l’eventuale TFR maturato fino alla data di fallimento (in prededuzione se trattasi di quote maturate durante esercizio provvisorio).
  3. Trattamento di disoccupazione – I dipendenti licenziati a causa del fallimento possono accedere all’indennità di disoccupazione NASpI (se ne hanno i requisiti contributivi), come per qualsiasi altro licenziamento. Inoltre, se l’azienda era di dimensioni tali da rientrare nella Cassa Integrazione Guadagni Straordinaria, il Curatore può richiedere al Ministero del Lavoro un periodo di CIGS per fallimento per i dipendenti non immediatamente licenziati (in attesa di vendita azienda, o per attenuare gli effetti sociali). In tal caso i dipendenti sospesi percepiscono la CIGS dall’INPS per un massimo di 12 mesi.
  4. Rapporti con i sindacati e diritti collettivi – La procedura concorsuale non annulla i diritti dei lavoratori di essere informati e consultati. Il Curatore in caso di licenziamento collettivo deve seguire una procedura di consultazione sindacale (anche se abbreviata, 30 giorni) coinvolgendo le RSA/RSU o i sindacati di categoria maggiormente rappresentativi. Se la forza lavoro è numerosa, il Curatore spesso incontrerà i sindacati per illustrare la situazione e valutare se vi sono chance di reindustrializzazione (nuovi investitori) e come gestire le eccedenze di personale. Il mancato rispetto di queste regole potrebbe portare a impugnazioni per licenziamento illegittimo, con possibili risarcimenti.
  5. Trasferimento d’azienda e tutela dei lavoratori – Se il Curatore riesce a trovare un acquirente per l’azienda o un suo ramo, il trasferimento avviene secondo l’art. 368 C.C.I.I. (recepisce l’art. 2112 c.c. con adattamenti). In genere, in caso di fallimento, il trasferimento d’azienda non comporta automaticamente il passaggio di tutti i lavoratori, ma è possibile concordare soluzioni: – L’acquirente può scegliere quanti/l quali lavoratori assumere (in accordo con sindacati e autorizzazione del Ministero del Lavoro per la deroga, come da art. 47 co. 5 L.428/1990). I lavoratori non trasferiti restano in capo al fallimento e vengono licenziati. – I lavoratori trasferiti mantengono i diritti maturati (anzianità, livello retributivo) ma i crediti pregressi restano a carico della massa (il nuovo datore non risponde dei debiti del vecchio). – Questo consente vendite di aziende fallite “alleggerite” dal costo dei debiti lavorativi, con l’intervento del Fondo di Garanzia per tutelare i dipendenti sul pregresso.

In sintesi, per i dipendenti il fallimento del datore di lavoro significa quasi sempre l’interruzione del rapporto (salvo subentro di un nuovo acquirente) ma il sistema prevede varie garanzie: privilegio sui crediti nel fallimento, intervento dell’INPS a tutela di TFR e stipendi, accesso agli ammortizzatori sociali. Certo, per i lavoratori è un evento traumatico, ma giuridicamente la loro posizione è considerata “debole” e quindi protetta con priorità di pagamento.

8.5 Effetti su beni particolari e altre situazioni giuridiche

  1. Beni cointestati o in comunione – Se alcuni beni appartengono in comunione al fallito e ad altri soggetti (es: un immobile in comproprietà col coniuge), la liquidazione giudiziale coinvolge solo la quota di spettanza del fallito. Il Curatore può vendere la quota ideale (ma ciò è poco appetibile) oppure chiedere lo scioglimento della comunione: a tal fine può promuovere la divisione giudiziale dell’immobile, con conseguente vendita all’asta dell’intero e ripartizione del ricavato tra il fallimento e gli altri comproprietari pro quota. L’altro contitolare può anche accordarsi col Curatore per acquistare la quota del fallito privatamente, evitando l’asta (ciò avviene spesso tra coniugi per la casa comune).
  2. Azienda in società di persone – Se fallisce un socio illimitatamente responsabile, la sua quota nella società diventa parte dell’attivo fallimentare. Il Curatore non può però intromettersi nella gestione della società (che non è fallita se la società in sé non è dichiarata insolvente). Egli ha diritto a ottenere dalla società quanto spettante al socio uscente: ovvero la liquidazione della quota (calcolata come valore patrimoniale al giorno del fallimento). Questo importo viene determinato e versato dalla società al Curatore, che lo utilizza per i creditori personali del socio. Intanto, la società di persone, se continua con i soci superstiti, subisce una trasformazione (il socio fallito è escluso di diritto ex art. 2303 c.c.). In caso di non accordo sul valore, il Curatore può fare causa alla società per ottenere la liquidazione della quota.
  3. Trust, vincoli di destinazione – Se l’imprenditore aveva costituito un trust o un vincolo di destinazione su alcuni beni a favore di terzi (ad esempio un trust familiare), la situazione è complessa: dipende se il trust è opponibile o se il Curatore può revocarlo. Spesso, i trust auto-dichiarati a scopo di sottrarre beni ai creditori vengono dichiarati inefficaci se costituiti in periodo sospetto, trattandosi di atti a titolo gratuito o con intenti fraudolenti. Se il trust è anteriore e genuino, il Curatore potrebbe non poter toccare quei beni (perché formalmente il disponente non ne è più proprietario). Ogni caso fa storia a sé e ha dato luogo a contenziosi: la giurisprudenza tende a colpire i trust abusivi riconducendoli al patrimonio del fallito quando possibile (ex art. 64 l.fall, oggi art. 166 C.C.I.I., come atto a titolo gratuito revocabile).
  4. Beni sottoposti a pegno o ipoteca – I beni gravati da garanzie reali a favore di creditori particolari (es: ipoteca su immobile per la banca) vengono liquidati dal Curatore comunque, ma la distribuzione del ricavato tiene conto dei diritti del garantito: come spiegato, il creditore garantito verrà soddisfatto con preferenza su quella somma. La presenza di ipoteca non impedisce la vendita, anzi spesso il Curatore vende l’immobile libero da ipoteche (che vengono cancellate con decreto di trasferimento) e poi riserva alla banca ipotecaria la quota spettante. Se un bene è gravato da pegno (es: merce data in pegno a un creditore), il Curatore può riscattarlo pagando il creditore oppure lasciargli realizare il pegno (che però deve sempre avvenire con procedure competitive, non può il creditore tenersi il bene per sé se non nei limiti dell’art. 208 C.C.I.I. che consente assegnazione su stima).
  5. Fallimento e immobili prima casa – Una nota sul fallimento dell’imprenditore persona fisica e la sua abitazione principale: diversamente da altre giurisdizioni, in Italia non esiste un esonero generalizzato della “prima casa” dalla liquidazione. Se l’abitazione è di proprietà del fallito, fa parte della massa attiva e può essere venduta per soddisfare i creditori. Esiste però nel Codice una sensibilità: l’art. 216 co. 3 prevede che, nell’ambito delle operazioni di vendita, il Giudice Delegato possa evitare di mettere subito in vendita la casa di abitazione del debitore, se la sua liquidazione immediata non è necessaria, così da consentire al debitore di avervi temporaneamente dimora. In pratica è una facoltà di differimento: la casa potrà comunque essere liquidata, ma magari verso la fine della procedura, tentando prima altre vendite, o valutando se la famiglia del fallito può riscattarla (spesso i congiunti cercano di ricomprarla). Se l’immobile è ipotecato, però, i creditori ipotecari hanno ovviamente interesse alla vendita. Dunque la protezione è limitata: nessuna immunità, solo un possibile rinvio nell’azione di sgombero e vendita se non urgente.
  6. Debiti fiscali e contributivi – L’apertura del fallimento cristallizza anche la posizione fiscale del debitore: – I debiti tributari pregressi (IVA, imposte dirette, tasse) e i debiti previdenziali (INPS, INAIL) restano concorrenti nel passivo, spesso privilegiati (IVA e ritenute hanno privilegio generale, altre imposte privilegio sui beni ai quali afferiscono come ipoteche). L’Erario e gli enti dovranno insinuarsi al passivo. Non possono iniziare o proseguire azioni esattoriali separate (cartelle, fermi) durante la procedura. – Il periodo successivo all’apertura genera obblighi dichiarativi specifici: il Curatore presenterà la dichiarazione dei redditi per la frazione d’anno fino alla data di fallimento e poi dichiarazioni periodiche IVA a partire dalla sentenza (se svolge operazioni imponibili nella liquidazione, es. vendita beni soggetti a IVA). – I debiti fiscali restanti dopo la chiusura sono anch’essi esdebitabili se il fallito ottiene l’esdebitazione (tranne le sanzioni pecuniarie, che rientrano tra i debiti non cancellabili ex lege). Quindi l’incubo di cartelle esattoriali infinite può svanire con l’esdebitazione. – Da notare: se l’impresa fallita aveva compiuto reati tributari, l’azione penale segue il suo corso contro gli amministratori, ma la sanzione amministrativa tributaria a carico della società è di regola non più irrogabile in mancanza di capienza (secondo orientamenti di prassi). Diverso per le sanzioni personali (es. sanzione per omesso versamento contributi, imputata all’amministratore): quelle restano personali e non concorsuali.

In conclusione su questo capitolo, la liquidazione giudiziale incide su ogni aspetto giuridico dell’impresa insolvente: i suoi beni vengono vincolati e destinati ai creditori, i rapporti giuridici vengono filtrati dall’interesse concorsuale (contratti utili proseguiti, altri sciolti), i dipendenti subiscono i contraccolpi ma con tutele specifiche, e l’imprenditore vede fortemente compressa la propria capacità di agire e i propri diritti patrimoniali, sebbene con salvaguardie per la sussistenza minima e la dignità personale.

Questa panoramica degli effetti consente di capire perché la liquidazione giudiziale venga definita un evento dirompente per l’impresa e l’imprenditore: in pratica si azzera la gestione precedente e subentra un regime straordinario e collettivo. È dunque sempre preferibile, quando possibile, cercare di evitare di arrivare a questo punto, utilizzando per tempo gli strumenti di composizione della crisi. Proprio di questo parleremo nell’ultimo capitolo: come evitare la liquidazione giudiziale – sia prima che scoppi l’insolvenza conclamata, sia durante la procedura stessa se vi fossero spiragli per soluzioni alternative.

9. Come evitare la liquidazione giudiziale: strumenti e soluzioni alternative

Affrontare una liquidazione giudiziale è un percorso complesso e spesso doloroso per l’imprenditore. Pertanto, è di fondamentale importanza sapere che esistono strumenti per evitarla o interromperla, privilegiando soluzioni che consentano il risanamento dell’impresa o almeno una gestione concordata della crisi. In questo capitolo esamineremo:

  • Le misure preventive da adottare quando l’impresa è in difficoltà (prima di essere insolvente), introdotte dal Codice della Crisi per anticipare e gestire la crisi.
  • Le procedure concorsuali alternative (concordato preventivo, accordi di ristrutturazione, ecc.) che l’imprenditore può attivare per evitare la dichiarazione di liquidazione giudiziale.
  • Le possibilità di interrompere la procedura di liquidazione giudiziale una volta avviata, tramite accordi con i creditori all’interno del fallimento (concordato nella liquidazione).
  • Best practices e checklist operative per l’imprenditore che vuole scongiurare il fallimento o minimizzarne gli effetti.

9.1 Strumenti di allerta e composizione stragiudiziale della crisi

  1. Adeguati assetti e rilevazione tempestiva – Il D.Lgs. 14/2019 ha posto grande enfasi sulla prevenzione dell’insolvenza. L’art. 3 C.C.I.I. obbliga l’imprenditore collettivo (società) ad adottare assetti organizzativi adeguati a rilevare segnali di crisi e a prendere misure tempestive. Ciò significa dotarsi di sistemi di controllo di gestione, pianificazione finanziaria, monitoraggio indici di bilancio che possano far scattare un allarme prima che la situazione degeneri. Gli amministratori che non attivano gli strumenti idonei e lasciano aggravare la crisi rischiano responsabilità per mala gestione. In concreto: – Tenere d’occhio indicatori come: flussi di cassa negativi ricorrenti, indebitamento crescente, margini ridotti, continui ritardi nei pagamenti. Il CNDCEC (Consiglio dei commercialisti) aveva proposto indici di allerta su 5 parametri (patrimonio netto negativo, DSCR, ecc.), poi resi facoltativi. – Se emergono segnali di crisi (non ancora insolvenza, ma difficoltà prospettica), l’imprenditore dovrebbe consultarsi con professionisti ed eventualmente rivolgersi agli strumenti di composizione assistita (vedi composizione negoziata infra).
*Consiglio pratico:* Redigi ogni trimestre un breve report con: liquidità disponibile vs fabbisogno a 6 mesi, situazione fornitori e banche, prospetto di conto economico. Se noti squilibri (ad esempio, prevedi di non avere cassa per pagare IVA e stipendi fra due mesi), sei in stato di crisi. Questo è il momento per correre ai ripari, non aspettare il default!
  1. Composizione negoziata per la soluzione della crisi – Introdotta col D.L. 118/2021 (convertito in L. 147/2021) e ora integrata nel Codice, la composizione negoziata è uno strumento volontario e stragiudiziale a disposizione dell’imprenditore in crisi (anche insolvente reversibile) per tentare un risanamento con l’aiuto di un esperto indipendente. Funziona così: – L’imprenditore richiede la nomina di un Esperto della crisi tramite una piattaforma telematica nazionale. – Viene nominato un professionista (commercialista, avvocato o consulente) con specifiche competenze, che analizza la situazione e guida le trattative con i creditori. – Durante la negoziazione (volontaria, segreta e riservata), l’imprenditore può chiedere al tribunale delle misure protettive (sospensione delle azioni esecutive fino a 4 mesi) per avere respiro. – L’obiettivo è raggiungere accordi con i creditori: rinegoziazione dei debiti, proroghe, accordi stragiudiziali, o individuare una soluzione come un nuovo socio, una vendita di azienda concordata, ecc. – Se si trova un accordo, può prendere forma di accordo stragiudiziale (che però vincola solo aderenti) oppure evolvere in un accordo di ristrutturazione ex art. 57 C.C.I.I. (che, omologato dal tribunale, vincola anche dissenzienti nelle % di legge) o in un concordato semplificato (un tipo di concordato liquidatorio senza voto per i creditori introdotto nel 2021).
La composizione negoziata, quindi, è uno strumento “di allerta” *alternativo* all’OCRI che era previsto ma poi abolito. È confidenziale e mirato a evitare il fallimento trovando una soluzione di mercato. Ad esempio, un imprenditore notevolmente indebitato potrebbe, con l’aiuto dell’Esperto, convincere i creditori a stralciare parte dei crediti o convertirli in capitale, evitando la procedura concorsuale. Se la composizione negoziata fallisce, l’Esperto lo dichiara; a quel punto l’imprenditore può ripiegare su altre procedure concorsuali (concordato preventivo, liquidazione controllata se non fallibile, ecc.).
  1. Piani attestati di risanamento – Un altro strumento preventivo, previsto dall’art. 56 C.C.I.I. (già art. 67 l.fall.), è il piano attestato di risanamento. Si tratta di un accordo privato tra l’impresa e i suoi principali creditori incorporato in un piano di rilancio predisposto dall’azienda e attestato da un professionista indipendente circa la fattibilità e capacità di risanare l’esposizione debitoria. È uno strumento non soggetto ad omologazione giudiziale, ma ha l’effetto di proteggere da azioni revocatorie i pagamenti e le garanzie concesse in esecuzione del piano (se poi fallisce successivamente, ciò che è stato fatto secondo il piano non è revocabile). Un piano attestato ben riuscito consente di evitare procedure concorsuali: ad esempio, la società concorda privatamente con banche e fornitori una ristrutturazione (allungamento dei debiti, remissione parziale, nuova finanza) e presenta un’attestazione che la manovra è sufficiente a risanare. Se tutto va secondo i piani, il fallimento è scongiurato. Va detto però che questa soluzione è efficace solo con pochi creditori e consensienti: se troppi attori o troppo conflitto, serve una procedura formale.
  2. Accordi di ristrutturazione dei debiti – Disciplina ex artt. 57-64 C.C.I.I. (già art. 182-bis l.fall.). Qui siamo in una via di mezzo tra accordo privato e procedura concorsuale: – L’impresa propone ai creditori un accordo (tipicamente con banche e grandi fornitori) che raggiunga almeno il 60% dei crediti. Se ottiene l’adesione di tali creditori qualificati, può chiedere al tribunale l’omologazione dell’accordo, che lo rende vincolante anche per eventuali creditori dissenzienti della medesima categoria. – Durante la trattativa può chiedere misure protettive (stay). – L’accordo omologato viene eseguito sotto monitoraggio e, come nel concordato, i pagamenti effettuati sono protetti da revocatorie. – Esiste anche l’accordo di ristrutturazione agevolato (percentuale adesione 30%) e l’accordo ad efficacia estesa per finanziamenti bancari (se 75% banche aderisce, il resto viene trascinato).
Questi accordi formalizzati servono ad evitare il fallimento imponendo una ristrutturazione concordata senza arrivare a cedere il controllo all’autorità giudiziaria come nel concordato. Sono preferibili quando c’è coesione tra i principali creditori e volontà di sostenere il risanamento.
  1. Concordato preventivo – È la procedura concorsuale alternativa per eccellenza per evitare la liquidazione giudiziale. Il concordato preventivo (disciplinato dagli artt. 84-120 C.C.I.I.) è una procedura giudiziale, ma su iniziativa volontaria del debitore, finalizzata a proporre ai creditori un piano di regolazione della crisi, che può consistere nel risanamento tramite continuità aziendale oppure nella liquidazione del patrimonio con pagamento parziale dei crediti, ma in forma concordata. Caratteristiche: – Può essere chiesto dal debitore prima che sia dichiarato il fallimento (anche in stato di insolvenza già conclamata, basta non sia ancora intervenuta la sentenza dichiarativa). La domanda può essere in bianco (con solo riserva di presentare il piano entro max 60-120 gg) o con piano e proposta fin da subito. – La presentazione della domanda di concordato impedisce la dichiarazione di liquidazione giudiziale: il tribunale sospende la decisione sull’istanza di fallimento pendente e attende l’esito della procedura concordataria. Questa è una mossa tattica cruciale: se un imprenditore è convocato in pre-fallimentare, può depositare un concordato preventivo per bloccare il fallimento e cercare di salvarsi attraverso il piano concordatario. – Nel concordato, l’imprenditore mantiene l’amministrazione (salvo eventuale commissario giudiziale nella continuità indiretta) dei beni ma sotto vigilanza di un Commissario Giudiziale nominato dal tribunale. I creditori vengono chiamati a votare sulla proposta (serve la maggioranza del valore dei crediti). – Se i creditori approvano e il tribunale omologa, il concordato si sostituisce al fallimento: i debiti vengono regolati secondo quanto previsto (ad es: pagamento 40% ai chirografari in 2 anni) e il debitore evita la liquidazione giudiziale. – Il concordato può essere in continuità aziendale (l’impresa prosegue, eventualmente ristrutturata) oppure liquidatorio (patrimonio liquidato ma con più efficienza e vantaggi rispetto al fallimento, ad esempio perché il debitore individua un acquirente, o perché i costi sono minori, e spesso perché il debitore stesso può gestire la liquidazione). – Ci sono forme particolari come il “concordato in bianco” (che dà tempo per predisporre il piano mantenendo la protezione dai creditori) e il “concordato semplificato” post-composizione negoziata (una forma senza voto per quando la composizione negoziata fallisce, introdotta nel 2021).
Il concordato preventivo è quindi uno strumento potente per evitare il fallimento: l’imprenditore ammette la crisi ma chiede di poterla gestire concordemente con i creditori, proponendo loro una soluzione (che può implicare sacrifici, come stralci di parte dei crediti, ma coordinati). Naturalmente, il successo dipende dalla credibilità del piano e dalla fiducia dei creditori: se questi, ad esempio, ritengono che la proposta del 20% sia peggiore di quanto ricaverebbero dal fallimento, potrebbero non approvare.
*Esempio pratico:* una società in crisi propone concordato offrendo ai creditori chirografari il 30% dei loro cred*(Continua dal paragrafo precedente)* … ad esempio offre ai chirografari il 30% dei loro crediti pagato in 2 anni, mentre ai privilegiati garantisce il pagamento integrale. I creditori votano: se la maggioranza accetta (supponiamo di sì), il tribunale omologa il concordato. La società evita la liquidazione giudiziale: eseguirà il piano concordatario e, se lo rispetterà, uscirà dalla crisi senza essere stata “fallita”. Se invece la proposta non ottiene i voti necessari, il concordato viene dichiarato inammissibile o non omologato e a quel punto di norma si apre la liquidazione giudiziale (*“fallimento omisso medio”*, ormai possibile anche senza attendere la formale risoluzione del concordato).

In ogni caso, il concordato preventivo è spesso definito come l’ultima spiaggia prima del fallimento, e la legge tende a incoraggiarlo: ad esempio consente anche proposte concorrenti da parte dei creditori, prevede la cram-down fiscale (omologazione nonostante diniego del Fisco in alcuni casi), e ha introdotto forme semplificate dopo la composizione negoziata. L’imprenditore in crisi dovrebbe valutarlo seriamente con il supporto di consulenti, poiché offre più controllo sull’esito rispetto alla liquidazione giudiziale.

9.3 Soluzioni durante la procedura: concordato nella liquidazione giudiziale e accordi con i creditori

  1. Concordato nella liquidazione giudiziale (concordato “fallimentare”) – Anche dopo che il fallimento è stato aperto, esiste una possibilità di evitarne il prosieguo attraverso un accordo con i creditori: è il cosiddetto concordato nella liquidazione giudiziale (figura analoga al vecchio concordato fallimentare). Gli artt. 240-252 C.C.I.I. disciplinano la proposta di concordato che può essere presentata dopo la dichiarazione di liquidazione giudiziale, allo scopo di chiudere anticipatamente la procedura con un accordo. Caratteristiche: – La proposta può provenire dal debitore, oppure da un terzo (anche un assuntore che si impegna a versare somme per pagare i creditori) o dai creditori che rappresentino almeno il 10% del passivo. – Deve offrire ai creditori un qualche vantaggio rispetto alla prosecuzione del fallimento. Tipicamente consiste nel promettere una certa percentuale di pagamento ai chirografari (maggiore di quella attesa dalla liquidazione) o nel mettere a disposizione risorse aggiuntive (es. l’assuntore apporta denaro fresco). – Se la proposta appare ammissibile, il tribunale la sottopone al voto dei creditori (con maggioranze simili al concordato preventivo). Durante questo sub-procedimento, viene nominato un Commissario Giudiziale apposito diverso dal Curatore, per valutare imparzialmente l’offerta. – Se i creditori approvano e il tribunale omologa, la procedura di liquidazione giudiziale viene chiusa e sostituita dagli obblighi previsti nel concordato omologato. Il soddisfacimento dei creditori avverrà secondo l’accordo (ad es. pagamento 40% entro tot mesi). In caso di inadempimento del concordato, si potrà riaprire il fallimento. – Se la proposta non passa, il fallimento prosegue normalmente.
In sostanza, questo concordato “post-fallimentare” è un’ultima chance: immaginando che durante il fallimento emerga un potenziale acquirente per l’azienda che offre più di quanto verrebbe fuori dalla liquidazione, oppure che il fallito trovi finanziamenti, si può imbastire un accordo con i creditori. Non è frequente, ma è previsto. Ad esempio, un socio di famiglia del fallito potrebbe proporre: “invece di liquidare tutto, pago subito 200.000 € cash che danno il 30% a tutti i creditori, chiudiamo il fallimento e l’azienda torna a me libera dai debiti”. I creditori valuteranno se conviene accettare. Questo strumento può evitare la prosecuzione lunga e costosa della procedura, risolvendo in via concordata.
  1. Rinuncia o archiviazione dell’istanza – Prima ancora di arrivare alla sentenza dichiarativa, l’imprenditore può evitare la liquidazione giudiziale se estingue la causa di fallimento: – Se la crisi è temporanea, può pagare i debiti scaduti o ridurli sotto soglia prima dell’udienza prefallimentare; in tal caso il creditore istante potrebbe rinunciare alla sua istanza (per sopravvenuta soddisfazione) e il tribunale non avrebbe motivo di dichiarare il fallimento. – Può anche cercare di convincere i creditori istanti a desistere promettendo e attuando un accordo stragiudiziale all’ultimo minuto. Tuttavia occorre cautela: se l’accordo non copre tutti i debiti, altri creditori potrebbero subentrare. A volte si assiste a “corse” per pagare i creditori più aggressivi e prendere tempo: è una strategia rischiosa (oltre a poter configurare pagamenti preferenziali revocabili). – Se la situazione migliora all’improvviso (ad es. incasso imprevisto che sana l’insolvenza), il debitore può difendersi sostenendo l’assenza attuale di insolvenza e il tribunale potrebbe rigettare l’istanza.
  2. Ristrutturazione del debito bancario o finanziario – Evitare il fallimento passa spesso per accordi con le banche, dato che le banche/leasing sono spesso i creditori determinanti. Alcuni strumenti: – Moratorie e standstill: chiedere alle banche una moratoria dei pagamenti e blocco delle azioni, magari coinvolgendo tutte in un accordo di standstill (tempo per trovare soluzioni). – Refinancing: trovare un nuovo finanziatore o investitore (private equity, fondo turnaround) disposto a immettere liquidità per pagare i creditori in cambio di equity o garanzie. Ciò può essere fatto anche nel contesto di composizione negoziata. – Conversione debiti in capitale: se società di capitali, proporre ai creditori (spesso le banche non lo accettano, ma fornitori a volte sì) di convertire parte dei loro crediti in quote/azioni della società, riducendo l’indebitamento (debt-equity swap). – Vendita di asset non strategici: cedere beni prima del fallimento per fare cassa e ridurre l’esposizione (attenzione a farlo entro il lecito, evitando atti poi revocabili: è meglio se inseriti in un piano attestato per proteggerli). – Piano di risanamento: presentare alle banche un piano industriale credibile con taglio costi, dismissioni, iniezione mezzi propri dei soci, chiedendo la ristrutturazione dei finanziamenti (allungamento scadenze, riduzione tassi, remissione interessi di mora). Spesso le banche preferiscono rinegoziare piuttosto che affrontare un fallimento che le vede recuperare poco.
  3. Sovraindebitamento e liquidazione controllata – Se l’imprenditore non è fallibile (imprenditore minore, start-up sotto soglie, professionista), può evitare la liquidazione giudiziale semplicemente perché non applicabile, ma potrebbe comunque trovarsi in insolvenza. In tal caso esistono le procedure di sovraindebitamento: concordato minore, piano del consumatore (se persona fisica non imprenditore) o liquidazione controllata (simile al fallimento ma destinata ai non fallibili). L’imprenditore non fallibile insolvente potrà optare per un concordato minore con i creditori o, se proprio, attivare la liquidazione controllata (che però ha anch’essa l’effetto liquidatorio). Tuttavia, queste procedure esulano dall’ambito di “liquidazione giudiziale” propriamente detta e sono trattate a parte dalla legge.
  4. Checklist Operativa – Prevenire ed evitare il fallimento:
  • Monitoraggio costante della tesoreria e degli indici di crisi: implementa dashboard finanziarie mensili. Intervieni ai primi segnali (calo fatturato, tensione cassa).
  • Consulenza esperta precoce: se vedi crisi all’orizzonte, coinvolgi tempestivamente un advisor finanziario o un professionista della crisi. Non aspettare che arrivi l’atto di citazione dei creditori.
  • Negozia informalmente con i creditori chiave: parla apertamente con banche e fornitori strategici, prospetta piani di rientro realistici. La trasparenza può guadagnare tempo e fiducia.
  • Valuta la Composizione Negoziata: attraverso la piattaforma telematica, puoi ottenere un esperto terzo che ti affianca e un manto protettivo legale mentre cerchi accordi. Ciò può evitare solleciti di fallimento.
  • Prepara un Piano di Risanamento: anche se non lo formalizzi come accordo di ristrutturazione, avere un documento chiaro su come pensi di uscire dalla crisi (taglio costi, nuovi ricavi, vendite asset) ti aiuta a convincere creditori e, se servirà, farà base per un concordato preventivo.
  • Concordato preventivo in bianco: se sei a un passo dall’insolvenza irreversibile ma hai ancora margini per una proposta, deposita un “concordato con riserva”. Otterrai subito protezione dai creditori per qualche mese e intanto definisci l’offerta da fare. È un paracadute prima del baratro.
  • Non abusare del credito: se sai che non potrai pagare, non allargare irresponsabilmente l’esposizione (potresti incorrere in ricorso abusivo al credito). Meglio fermarsi, negoziare e ristrutturare il debito esistente.
  • Taglia i rami secchi: vendi o chiudi le linee di business in perdita per concentrare risorse su quelle profittevoli. Mostrare ai creditori che hai ridotto il problema aiuta a convincerli a supportarti.
  • Fondo di garanzia e reti di sicurezza: informa i dipendenti (e i sindacati se presenti) tempestivamente e fai uso degli ammortizzatori (CIGS per crisi, accordi sindacali) per evitare conflitti che peggiorano la situazione (es. scioperi di dipendenti non pagati che bloccano la produzione).
  • Pagamenti critici: se devi scegliere chi pagare (cash is scarce), privilegia le forniture indispensabili per tenere viva l’impresa e i dipendenti. Per gli altri, spiega la situazione e proponi piani di pagamento. Evita pagamenti preferenziali “di pancia” (amico, parente) che poi sarebbero revocati e intanto hai scontentato chi è rimasto a secco.
  • Documenta tutto: tieni traccia scritta delle decisioni e delle ragioni in questo periodo. In caso di eventuale successivo fallimento, poter dimostrare che hai agito in buona fede e con l’obiettivo di salvare l’impresa può esserti utile per evitare accuse di mala gestio o dolo.

Conclusione

La liquidazione giudiziale rappresenta nell’ordinamento italiano il percorso formale e giuridico per affrontare il fallimento di un’impresa, con strumenti e garanzie volti a massimizzare la soddisfazione dei creditori secondo giustizia e a concedere, al contempo, all’imprenditore meritevole l’opportunità di ripartire. In questa guida abbiamo esaminato in modo approfondito cosa comporta essere soggetti a liquidazione giudiziale, quando e perché scatta, come si svolge l’intero procedimento e quali sono gli effetti su persone e rapporti giuridici.

Abbiamo anche enfatizzato come il nuovo Codice della Crisi tenda a considerare la liquidazione giudiziale come l’ultima ratio, da evitare quando possibile tramite meccanismi di allerta precoce e soluzioni negoziali. Dall’entrata in vigore del Codice (15 luglio 2022) e con i successivi correttivi del 2022 e 2024, il sistema concorsuale italiano appare orientato su due binari:

  • Da un lato garantire comunque uno strumento efficiente di liquidazione (laddove inevitabile), mantenendo l’impianto collaudato del vecchio fallimento ma snellendolo.
  • Dall’altro incentivare l’emersione anticipata delle difficoltà e le soluzioni alternative (piani di risanamento, accordi, concordati, composizione negoziata) che possano evitare la dichiarazione giudiziale di insolvenza.

Per gli imprenditori individuali e i piccoli imprenditori, è essenziale conoscere i propri diritti e doveri in caso di crisi: sapere che sotto certe soglie non si è fallibili, ma esistono comunque procedure come il concordato minore o la liquidazione controllata; sapere che collaborare e non nascondere la testa sotto la sabbia è la strategia migliore, perché spesso il fallimento non è una fulmine a ciel sereno, ma l’esito di un periodo di crisi ignorata.

Per le società, gli amministratori oggi hanno l’onere di attivarsi per tempo e possono essere chiamati a rispondere se dissipano il patrimonio procrastinando il default (si pensi alla bancarotta da ritardata richiesta di fallimento). Ma hanno anche a disposizione un ventaglio di opzioni che un tempo mancavano: la composizione negoziata ad esempio offre un intervento “soft” e confidenziale prima di doversi esporre a un tribunale.

Infine, abbiamo visto come l’uscita dal fallimento sia stata umanizzata: l’istituto dell’esdebitazione, perfezionato dagli ultimi correttivi, permette all’imprenditore onesto di tornare libero dai debiti residui anche se non è riuscito a pagarli tutti. Ciò incarna il principio che il fallimento non è (o non dovrebbe più essere) una “morte civile” perpetua, ma un evento economico da cui ci si può risollevare con dignità, apprese le dovute lezioni.

In conclusione, la miglior cura contro il fallimento è la prevenzione: gestione oculata, diagnosi precoce e intervento tempestivo. Ma qualora la liquidazione giudiziale diventi inevitabile, conoscere il da farsi – cosa succede, quali sono i propri obblighi e diritti – aiuta ad affrontarla nel modo meno traumatico possibile e magari a cogliere le opportunità che pure una procedura concorsuale può offrire (ad esempio liberarsi di debiti insostenibili e ripartire puliti, o chiudere un capitolo aziendale aprendone un altro su basi diverse).

Questa guida ha fornito il quadro tecnico-legale e operativo completo su “Cosa fare, quando è obbligatoria e come evitare” la liquidazione giudiziale. Ci auguriamo che le informazioni e le checklist fornite possano supportare imprenditori e professionisti a navigare in acque tempestose, ricordando sempre che – come recita un principio caro al nuovo Codice – la crisi d’impresa non è una colpa, ma un evento fisiologico nel ciclo economico, da affrontare con strumenti idonei, trasparenza e competenza per tutelare sia l’iniziativa imprenditoriale sia i terzi che ad essa affidano le proprie risorse.

Perché Affidarsi a Studio Monardo per la Liquidazione Giudiziale dell’Imprenditore

Quando un imprenditore non riesce più a far fronte ai debiti e viene avviata una liquidazione giudiziale (la nuova forma di fallimento prevista dal Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza), difendersi correttamente è fondamentale per limitare i danni e proteggere il proprio futuro.
Affidarsi all’Avvocato Giuseppe Monardo significa avere al proprio fianco un esperto autentico della crisi d’impresa, capace di gestire ogni fase con competenza, strategia e tutela effettiva dei tuoi interessi.

Un Esperto in Diritto Fallimentare e Crisi d’Impresa

L’Avvocato Monardo, coordinatore di avvocati e commercialisti esperti a livello nazionale, ha una profonda esperienza nella gestione delle procedure di liquidazione giudiziale e nella difesa degli imprenditori coinvolti.
Conosce in modo approfondito:

  • I meccanismi del Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (D.Lgs. 14/2019)
  • Le modalità per proteggere il patrimonio personale dell’imprenditore
  • Le strategie difensive contro richieste aggressive di curatori e creditori
  • Le opportunità per accedere all’esdebitazione dopo la chiusura della procedura

Monardo ti aiuta a ridurre le conseguenze e a preparare il tuo futuro post-liquidazione.

Come Ti Aiuta Durante la Liquidazione Giudiziale

Con l’Avvocato Monardo potrai:

  • Analizzare tempestivamente la tua posizione debitoria e patrimoniale
  • Gestire la difesa nel procedimento di liquidazione giudiziale
  • TutelarTi nei confronti del curatore fallimentare
  • Opporsi a eventuali insinuazioni infondate al passivo
  • Evitare responsabilità aggravate per bancarotta semplice o fraudolenta
  • Avviare per tempo la procedura di esdebitazione per ottenere la liberazione definitiva dai debiti

Monardo ti segue personalmente in ogni fase: dalla dichiarazione di liquidazione giudiziale fino alla chiusura definitiva e alla possibilità di ripartenza.

Gestore della Crisi da Sovraindebitamento e OCC

Se non sei un imprenditore fallibile (ad esempio, ditta individuale sotto i limiti o piccolo imprenditore), Monardo può attivare procedure alternative di sovraindebitamento:

  • Liquidazione controllata
  • Piano di ristrutturazione
  • Accordi di composizione della crisi

Essendo Gestore della Crisi da Sovraindebitamento iscritto presso il Ministero della Giustizia e fiduciario di un Organismo di Composizione della Crisi (OCC), Monardo ti garantisce la migliore gestione anche in questi casi.

Esperto Negoziatore della Crisi d’Impresa

Inoltre, Monardo è abilitato come Esperto Negoziatore della Crisi d’Impresa (D.L. 118/2021), e può:

  • Tentare soluzioni negoziali anche dopo l’apertura della procedura
  • Concordare con i creditori piani stragiudiziali di definizione del debito residuo
  • Accelerare la conclusione della liquidazione per ridurre l’impatto negativo sulla tua vita personale e professionale

In conclusione

La liquidazione giudiziale non deve distruggere il tuo futuro imprenditoriale o personale.
Affidarsi all’Avvocato Giuseppe Monardo significa scegliere un professionista serio e preparato, capace di proteggerti, ridurre i danni e costruirti una nuova possibilità di ripartenza.
Con Monardo, affronti la crisi con consapevolezza, strategia e una reale opportunità di rinascita.

Qui di seguito tutti i contatti del nostro Studio Legale specializzato in liquidazioni giudiziali e cancellazione debiti:

Leggi con attenzione: Se stai affrontando difficoltà con il Fisco e hai bisogno di una rapida valutazione delle tue cartelle esattoriali e dei debiti, non esitare a contattarci. Siamo pronti ad aiutarti immediatamente! Scrivici su WhatsApp al numero 351.3169721 oppure inviaci un’e-mail all’indirizzo info@fattirimborsare.com. Ti ricontatteremo entro un’ora per offrirti supporto immediato.

Informazioni importanti: Studio Monardo e avvocaticartellesattoriali.com operano su tutto il territorio italiano attraverso due modalità.

  1. Consulenza digitale: si svolge esclusivamente tramite contatti telefonici e successiva comunicazione digitale via e-mail o posta elettronica certificata. La prima valutazione, interamente digitale (telefonica), è gratuita, ha una durata di circa 15 minuti e viene effettuata entro un massimo di 72 ore. Consulenze di durata superiore sono a pagamento, calcolate in base alla tariffa oraria di categoria.
  2. Consulenza fisica: è sempre a pagamento, incluso il primo consulto, il cui costo parte da 500€ + IVA, da saldare anticipatamente. Questo tipo di consulenza si svolge tramite appuntamento presso sedi fisiche specifiche in Italia dedicate alla consulenza iniziale o successiva (quali azienda del cliente, ufficio del cliente, domicilio del cliente, studi locali in partnership, uffici temporanei). Anche in questo caso, sono previste comunicazioni successive tramite e-mail o posta elettronica certificata.

La consulenza fisica, a differenza di quella digitale, viene organizzata a partire da due settimane dal primo contatto.

Disclaimer: Le opinioni espresse in questo articolo rappresentano il punto di vista personale degli Autori, basato sulla loro esperienza professionale. Non devono essere intese come consulenza tecnica o legale. Per approfondimenti specifici o ulteriori dettagli, si consiglia di contattare direttamente il nostro studio. Si ricorda che l’articolo fa riferimento al quadro normativo vigente al momento della sua redazione, poiché leggi e interpretazioni giuridiche possono subire modifiche nel tempo. Decliniamo ogni responsabilità per un uso improprio delle informazioni contenute in queste pagine.
Si invita a leggere attentamente il disclaimer del sito.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

My Agile Privacy
Privacy and Consent by My Agile Privacy

Questo sito utilizza cookie tecnici e di profilazione. 

Puoi accettare, rifiutare o personalizzare i cookie premendo i pulsanti desiderati. 

Chiudendo questa informativa continuerai senza accettare.