È Possibile Chiudere La Partita Iva Se Si Hanno Debiti?

Chi ha una Partita IVA lo sa: la gestione fiscale e contributiva può diventare un peso molto difficile da sostenere, soprattutto nei momenti di difficoltà economica. In Italia, moltissimi lavoratori autonomi, professionisti e piccoli imprenditori si trovano prima o poi ad affrontare una fase di crisi, dove le entrate calano drasticamente ma le spese fisse, come tasse e contributi, restano comunque da pagare. È in questi momenti che ci si chiede se sia possibile chiudere la Partita IVA anche quando ci sono ancora dei debiti pendenti. La domanda è molto frequente e nasce spesso da una sensazione di oppressione e impotenza: quando le cose vanno male, ci si sente in trappola, e l’idea di chiudere tutto e ripartire da zero diventa un pensiero ricorrente.

Chiudere la Partita IVA, anche in presenza di debiti, è possibile, ma con delle importanti precisazioni da fare. Non si tratta infatti di un gesto che cancella automaticamente i debiti o che libera magicamente da tutte le responsabilità pregresse. Tuttavia, è un passo che può essere compiuto per interrompere l’aggravarsi della situazione e per evitare di accumulare ulteriori obblighi contributivi e fiscali, soprattutto se non si prevede di poter proseguire l’attività in modo sostenibile.

Nel nostro ordinamento, la Partita IVA è semplicemente un codice identificativo che permette a una persona fisica o giuridica di esercitare un’attività economica in modo autonomo. Aprirla è semplice, chiuderla anche. Ma quello che resta complicato è tutto ciò che ruota attorno: adempimenti, scadenze, versamenti, regole. Per questo, chi si trova in una situazione debitoria spesso ha paura a chiuderla, temendo che l’Agenzia delle Entrate o altri enti possano impedirglielo. In realtà, non è così.

Non esiste nessuna legge che impedisca di chiudere la Partita IVA per il solo fatto di avere dei debiti. L’Agenzia delle Entrate, al momento della richiesta di cessazione attività, non effettua una verifica immediata sulla situazione debitoria del contribuente. Quello che interessa, in quel momento, è la comunicazione formale del fatto che l’attività è cessata. È quindi possibile procedere alla chiusura anche se ci sono cartelle esattoriali aperte, debiti INPS non saldati, fatture non pagate o altri arretrati.

Tuttavia, è fondamentale chiarire che la chiusura della Partita IVA non cancella i debiti esistenti. Se si ha un debito con l’INPS, l’Agenzia delle Entrate o altri enti pubblici, quel debito continua ad esistere anche dopo la cessazione dell’attività. Il contribuente resta responsabile di quanto dovuto e potrà essere soggetto a solleciti, pignoramenti, fermi amministrativi e altre forme di recupero forzato.

In molti casi, però, chiudere la Partita IVA è una scelta saggia per evitare di peggiorare la propria posizione debitoria. Continuare a tenerla aperta, infatti, comporta obblighi fiscali e previdenziali anche se non si sta lavorando. Ad esempio, i contributi INPS fissi per gli artigiani e commercianti, oppure le scadenze IVA trimestrali, sono adempimenti che continuano ad accumularsi anche in assenza di fatturato. Questo significa che, se non si lavora ma si tiene aperta la Partita IVA, si rischia di aumentare ulteriormente i propri debiti ogni anno.

È quindi perfettamente comprensibile che una persona in difficoltà voglia sospendere l’attività e mettere un punto fermo a una situazione diventata ingestibile. La chiusura può rappresentare un modo per fermare l’emorragia e iniziare a valutare soluzioni concrete per sistemare la propria posizione, magari attraverso una rateizzazione, un saldo e stralcio, o – nei casi più gravi – l’accesso a una procedura di sovraindebitamento.

Va anche detto che chiudere la Partita IVA non compromette automaticamente la possibilità di riaprirla in futuro. Una volta sistemata la situazione, o una volta trovato un nuovo progetto sostenibile, sarà sempre possibile tornare a lavorare come autonomo. Non ci sono sanzioni specifiche per chi ha chiuso in passato una Partita IVA con debiti ancora in essere. L’unica vera criticità può sorgere se si richiedono nuovi regimi fiscali agevolati (come il forfettario), che in certi casi prevedono dei limiti se si è già stati titolari di Partita IVA nei tre anni precedenti.

Un’altra cosa da tenere presente è che, in certi casi, la chiusura della Partita IVA può influire positivamente anche su eventuali richieste di aiuto economico o su valutazioni patrimoniali legate a situazioni familiari. Se, ad esempio, si è in difficoltà con il pagamento del mantenimento per i figli, o se si sta affrontando una procedura di separazione o divorzio, cessare formalmente l’attività può aiutare a rappresentare in modo più fedele la propria reale capacità economica.

È importante però non confondere la chiusura formale con l’abbandono disordinato della propria attività. Anche se si decide di cessare, bisogna comunque procedere correttamente: presentare la comunicazione all’Agenzia delle Entrate, chiudere la posizione INPS e INAIL se necessario, emettere l’ultima fattura se ci sono incassi da registrare, e conservare tutta la documentazione contabile per almeno dieci anni, come previsto dalla normativa. Una chiusura fatta bene può aiutare a difendersi meglio anche in futuro, in caso di controlli o contestazioni.

Chi invece sceglie di non chiudere formalmente e semplicemente smette di lavorare, rischia di peggiorare la propria situazione. Per il Fisco, una Partita IVA aperta equivale a un’attività in corso, e se non si presentano dichiarazioni o non si versano i contributi, si può incorrere in sanzioni anche pesanti. In alcuni casi, si può persino essere considerati evasori, con tutte le conseguenze penali e civili del caso.

C’è anche chi teme che la chiusura della Partita IVA possa essere vista come una sorta di “fuga” o di ammissione di colpa. In realtà non è così. Chiudere l’attività non è un reato, né un gesto che comporta ammissioni implicite di responsabilità. È semplicemente un diritto del contribuente, che può decidere liberamente se e quando cessare l’attività. L’importante è farlo in modo ordinato, informandosi bene sui passaggi da seguire e valutando con attenzione la propria situazione debitoria.

Infine, è utile sapere che esistono strumenti e percorsi legali per chiudere una Partita IVA con debiti e affrontare le pendenze in modo più sereno. Ad esempio, la Legge sul Sovraindebitamento consente, a certe condizioni, di accedere a procedure che permettono di ottenere una riduzione del debito o addirittura la cancellazione di parte di esso. È una via percorribile anche da chi ha una Partita IVA, seppur già chiusa, a patto che si dimostri l’impossibilità di far fronte ai debiti con il proprio reddito e patrimonio.

In conclusione, chiudere la Partita IVA quando si hanno dei debiti è possibile, ed è spesso una scelta sensata, soprattutto per evitare l’accumulo di nuove passività e per iniziare un percorso di risanamento. Naturalmente, ogni caso è diverso e merita una valutazione personalizzata, magari con il supporto di un professionista che possa analizzare la situazione e indicare la strada migliore. Ma il messaggio più importante è che non bisogna aver paura di chiudere: non è un fallimento, ma un passo necessario per riprendere il controllo della propria vita economica.

Ma andiamo ad approfondire con Studio Monardo, i legali specializzati in cancellazione debiti.

È Possibile Chiudere La Partita Iva Se Si Hanno Debiti Tutto Dettagliato

È possibile chiudere la Partita IVA se si hanno debiti? Sì, la chiusura della Partita IVA è tecnicamente possibile anche se si è pieni di debiti, ma attenzione: chiudere l’attività non cancella i debiti esistenti, né blocca le eventuali azioni di recupero crediti. Anzi, in alcuni casi, la chiusura può anticipare le iniziative dei creditori. Per questo motivo, prima di fare qualsiasi passo, è fondamentale capire cosa comporta la chiusura della Partita IVA in presenza di debiti verso banche, fornitori, INPS, Agenzia delle Entrate o altri enti pubblici.

Vediamo in modo dettagliato quando e come si può chiudere la Partita IVA, cosa succede ai debiti, e quali sono le possibili soluzioni se la situazione è fuori controllo.

✅ Si può chiudere la Partita IVA anche con debiti in corso

La legge non impone l’obbligo di essere in regola con i pagamenti per cessare un’attività. Se hai una ditta individuale o sei un lavoratore autonomo, puoi:

  • Presentare dichiarazione di cessazione attività all’Agenzia delle Entrate (online o tramite un intermediario)
  • Comunicazione alla Camera di Commercio e INPS (se iscritto)
  • Annullare la posizione IVA ai fini fiscali

👉 Non è necessario aver pagato tutti i debiti o le cartelle per procedere. La chiusura è una formalità fiscale, non una dichiarazione di saldo.

❌ Ma la chiusura NON estingue i debiti

Una volta cessata l’attività, i debiti pregressi restano interamente dovuti. In particolare:

  • L’Agenzia delle Entrate-Riscossione continuerà a notificare cartelle, solleciti e potrà procedere al pignoramento di conti, stipendio, pensione, auto o futuri immobili
  • L’INPS manterrà attivi i contributi dovuti fino alla data di cessazione, e se ci sono omissioni, può avviare il recupero forzato
  • Le banche e i fornitori potranno comunque agire per il recupero del credito, anche dopo anni
  • La Centrale Rischi e il CRIF continueranno a segnalare la situazione debitoria, rendendo difficile l’accesso a nuovi finanziamenti

👉 In sostanza, la chiusura mette fine all’attività, ma non alla responsabilità personale del titolare (in particolare nelle ditte individuali).

🏠 I creditori possono aggredire i beni personali anche dopo la chiusura?

Sì. Nella ditta individuale o per il professionista con Partita IVA, non esiste distinzione tra patrimonio aziendale e personale. Questo significa che:

  • I debiti contratti per l’attività possono essere recuperati sui beni personali (immobili, conti correnti, auto)
  • I creditori possono continuare a procedere anche anni dopo la chiusura
  • La responsabilità resta personale e illimitata

⚠️ Si può bloccare il recupero crediti dopo la chiusura?

Sì, ma non con la semplice cessazione della Partita IVA. Le vere strade per bloccare pignoramenti e procedimenti esecutivi sono:

  • Richiedere una rateizzazione dei debiti, se ci sono le condizioni
  • Opporsi agli atti irregolari o prescritti, se ci sono vizi di forma o decadenze
  • Attivare la procedura di sovraindebitamento, che consente di:
    • Sospendere le azioni esecutive
    • Ridurre i debiti in base al reddito
    • Liquidare i beni in modo controllato
    • Ottenere la cancellazione totale dei debiti (esdebitazione), anche senza pagare nulla se si è incapienti

🧾 È necessario chiudere la Partita IVA prima di accedere al sovraindebitamento?

Nella maggior parte dei casi no, non è obbligatorio. La legge consente anche:

  • Di presentare domanda di sovraindebitamento mentre si è ancora titolari della Partita IVA
  • Di proseguire temporaneamente l’attività per produrre un reddito da offrire ai creditori nel piano
  • Di includere nella procedura sia debiti professionali che personali

👉 La cessazione dell’attività può essere decisa successivamente, anche come parte del piano di risanamento.

📋 Tabella riepilogativa – Chiudere la Partita IVA con debiti

AspettoCosa succede
Si può chiudere con debiti?✅ Sì, la legge lo consente
I debiti si cancellano con la chiusura?❌ No, restano dovuti
Si blocca il recupero crediti?❌ No, anzi spesso si accelera
Si può essere pignorati anche dopo?✅ Sì, su beni presenti e futuri
Si può accedere al sovraindebitamento?✅ Sì, anche con Partita IVA attiva
È utile chiudere in certi casi?✅ Sì, se l’attività è ormai insostenibile o per avviare una nuova procedura

🎯 In conclusione

Sì, puoi chiudere la Partita IVA anche se hai debiti, ma devi sapere che i debiti non spariscono. Continuerai a risponderne con il tuo patrimonio personale, anche dopo anni, e potrai subire pignoramenti, iscrizioni a ruolo, ipoteche o fermi amministrativi. La chiusura è solo un atto burocratico: se vuoi proteggerti davvero, devi agire sul fronte legale e finanziario.

L’Avvocato Giuseppe Monardo, fiduciario di un OCC e massimo esperto in crisi da sovraindebitamento di ditte individuali e professionisti, ti guida nel valutare se e quando conviene chiudere la Partita IVA, analizza i tuoi debiti, blocca i creditori e attiva – se ci sono i requisiti – la procedura per la cancellazione legale dei debiti. Se sei arrivato al limite, non serve solo chiudere: serve risolvere. E puoi farlo, se lo fai bene.

Quali conseguenze comporta la chiusura della Partita IVA se ho ancora debiti con l’INPS o l’Agenzia delle Entrate?

Chiudere la Partita IVA può sembrare una scelta drastica, ma in molti casi è un passo necessario per chi si trova in difficoltà economica e non riesce più a sostenere il peso di tasse, contributi e obblighi burocratici. In Italia, migliaia di lavoratori autonomi e piccoli imprenditori decidono ogni anno di cessare la propria attività, spesso proprio a causa di debiti accumulati con l’INPS o con l’Agenzia delle Entrate. È importante chiarire fin da subito che la chiusura della Partita IVA non equivale alla cancellazione dei debiti. Anche dopo aver cessato formalmente l’attività, il contribuente continua a essere responsabile delle somme dovute. I debiti non spariscono con la chiusura, ma seguono la persona fisica anche dopo l’interruzione dell’attività.

La chiusura della Partita IVA è un atto amministrativo e non un condono fiscale. Quando si decide di cessare l’attività, si comunica semplicemente all’Agenzia delle Entrate che non si esercita più una professione o un’attività economica autonoma. Questo significa che non si emetteranno più fatture, non si sarà più tenuti a presentare dichiarazioni IVA, e si interromperanno gli obblighi previdenziali periodici. Tuttavia, le somme non pagate nei periodi precedenti restano tutte dovute.

Il primo effetto positivo della chiusura della Partita IVA è che si blocca l’accumulo di nuovi debiti. Tenere aperta una posizione IVA comporta costi fissi, anche in assenza di fatturato. Ad esempio, i contributi INPS per artigiani e commercianti sono dovuti in misura fissa, indipendentemente dai guadagni effettivi. Questo significa che anche se non si lavora e non si incassa nulla, si continua a maturare un debito con l’INPS. Lo stesso vale per le scadenze fiscali: anche una dichiarazione IVA omessa può comportare sanzioni, anche se non si è incassato nulla. Chiudendo la Partita IVA si interrompe questo circolo vizioso e si evitano nuove passività.

Ciò nonostante, è essenziale essere consapevoli delle conseguenze successive. L’INPS e l’Agenzia delle Entrate continueranno ad agire per il recupero dei crediti pregressi. Questo significa che, anche dopo la chiusura, si possono ricevere cartelle esattoriali, avvisi bonari, solleciti di pagamento, e in alcuni casi si può arrivare a forme più invasive come il pignoramento del conto corrente, il fermo amministrativo dell’auto o il pignoramento dello stipendio, se si trova un nuovo lavoro subordinato.

La chiusura non impedisce l’avvio di procedure di riscossione forzata. L’Agenzia delle Entrate-Riscossione (ex Equitalia) ha a disposizione una vasta gamma di strumenti per recuperare quanto dovuto. Tuttavia, il fatto di non avere più redditi da Partita IVA e di non essere più titolari di un’attività può influenzare le modalità e i tempi con cui l’amministrazione agisce. Se il contribuente dimostra di non avere più un reddito sufficiente o di non possedere beni aggredibili, è possibile che l’ente riscossore temporeggi o proponga soluzioni più favorevoli, come piani di rateizzazione o persino il saldo e stralcio del debito.

Un altro aspetto da considerare è l’accesso alle misure di tutela previste dalla Legge sul Sovraindebitamento. Questa normativa consente anche ai soggetti non fallibili, come i lavoratori autonomi e i professionisti, di accedere a procedure legali che possono portare alla ristrutturazione o all’azzeramento parziale dei debiti. La chiusura della Partita IVA, in questo contesto, può essere un passaggio preliminare importante, poiché consente di dimostrare che l’attività non è più in grado di produrre reddito sufficiente a soddisfare i creditori.

Un errore frequente è quello di lasciare la Partita IVA aperta senza utilizzarla, nella speranza che la situazione si sistemi. Questo comportamento, pur comprensibile, è controproducente. In assenza di fatturato, si rischia di maturare ulteriori sanzioni per omessa dichiarazione, di aumentare il debito previdenziale e fiscale, e di ritrovarsi in una posizione ancora più difficile da gestire. Meglio chiudere subito, se non si hanno prospettive di ripresa a breve termine, e iniziare a lavorare su un piano di risanamento.

Va anche detto che chiudere la Partita IVA non comporta la perdita definitiva del diritto a esercitare una professione autonoma. In futuro, una volta sistemata la propria situazione economica o trovata una nuova idea imprenditoriale, sarà sempre possibile riaprirla. Le uniche limitazioni possono riguardare l’accesso a regimi fiscali agevolati, che spesso richiedono di non aver esercitato attività nei tre anni precedenti. Ma sul piano generale, non c’è nessuna preclusione.

Un’altra conseguenza indiretta, ma importante, riguarda la rappresentazione della propria situazione economica nei confronti di terzi. Ad esempio, nel caso di separazioni, divorzi, richiesta di contributi o sussidi, cessare formalmente l’attività consente di dimostrare che non si hanno più entrate derivanti da lavoro autonomo. Questo può essere utile per chiedere agevolazioni, esenzioni, o per rimodulare obblighi economici nei confronti di familiari.

Naturalmente, è sempre consigliabile affidarsi a un professionista per valutare attentamente la propria situazione. Ogni caso è diverso, e solo un’analisi completa del quadro debitorio, delle eventuali cartelle già ricevute e delle risorse disponibili può suggerire la strategia migliore. Ma in linea generale, la chiusura della Partita IVA non rappresenta una fuga dalle proprie responsabilità, bensì un atto di consapevolezza e un passo necessario per interrompere l’aggravarsi della crisi.

In sintesi, la chiusura della Partita IVA comporta conseguenze concrete ma non comporta danni irreparabili. I debiti restano, ma non si accumulano più quelli nuovi. Si interrompe l’obbligo di versare contributi fissi e si può iniziare a lavorare su soluzioni legali e sostenibili per uscire dalla situazione debitoria. Si tratta quindi di una decisione che, se presa nel momento giusto, può diventare l’inizio di un percorso di recupero e non la fine di un’esperienza fallimentare. Fermarsi non vuol dire arrendersi, ma scegliere di ripartire in modo più consapevole e responsabile.

Dopo aver chiuso la Partita IVA, posso ancora ricevere solleciti o pignoramenti per i debiti pregressi?

Quando una persona decide di chiudere la propria Partita IVA, spesso lo fa nella speranza di lasciarsi alle spalle una situazione economica difficile, fatta di debiti accumulati, ritardi nei pagamenti, difficoltà a far fronte alle scadenze fiscali e contributive. Tuttavia, è fondamentale comprendere che la chiusura della Partita IVA non annulla i debiti già maturati. Le somme dovute all’INPS, all’Agenzia delle Entrate o ad altri enti non vengono cancellate, ma restano in carico al contribuente, anche se l’attività è stata cessata ufficialmente.

Ricevere solleciti, notifiche e persino atti di pignoramento dopo la chiusura della Partita IVA è perfettamente possibile. Questo perché i debiti fiscali e previdenziali fanno riferimento alla persona fisica, e non solo alla sua attività professionale. Anche se la Partita IVA rappresenta un codice identificativo dell’attività, è comunque collegata a un soggetto che, come persona, mantiene la responsabilità su tutto ciò che ha generato nel periodo di attività.

L’Agenzia delle Entrate e l’INPS conservano i loro crediti e hanno il diritto di recuperarli anche anni dopo la cessazione dell’attività. Le tempistiche della riscossione possono variare, ma in generale le cartelle esattoriali notificate rimangono valide e attive per diversi anni, a meno che non siano pagate, prescritte o oggetto di una specifica procedura di definizione agevolata o rateizzazione. Questo significa che è del tutto normale continuare a ricevere comunicazioni, avvisi bonari, richieste di pagamento e, nei casi più gravi, atti esecutivi come i pignoramenti.

I pignoramenti possono colpire diverse forme di patrimonio: dal conto corrente agli stipendi, dai beni mobili a quelli immobili, qualora il debitore possieda proprietà registrate. Anche se la Partita IVA è stata chiusa, il debitore continua ad avere una responsabilità piena verso i creditori pubblici. Se, ad esempio, dopo la chiusura si trova un nuovo impiego come dipendente o si acquisisce un nuovo immobile, questi possono essere oggetto di azione esecutiva da parte dell’Agenzia delle Entrate-Riscossione.

La chiusura della Partita IVA ha però un effetto importante: impedisce l’accumulo di nuovi debiti. Una volta cessata l’attività, non ci sono più obblighi periodici legati al regime fiscale o previdenziale. Non si devono più versare contributi fissi, non si devono presentare dichiarazioni IVA, non si incorre in nuove sanzioni per omessa fatturazione. Questo è un sollievo per chi si trovava in una spirale di debiti e adempimenti non sostenibili. Tuttavia, il passato resta, e il Fisco non dimentica ciò che gli è dovuto.

Va considerato anche il fatto che gli enti della riscossione sono molto organizzati e dispongono di strumenti informatici avanzati per il recupero dei crediti. Anche senza la Partita IVA attiva, il contribuente è schedato nei database fiscali e può essere facilmente rintracciato. Questo significa che eventuali somme che entrano sui conti correnti personali possono essere bloccate in tutto o in parte, anche senza preavviso, se il debito è già stato iscritto a ruolo. Allo stesso modo, è possibile ricevere un fermo amministrativo su un veicolo intestato o un’ipoteca legale su un immobile.

È importante quindi non trascurare le notifiche ricevute dopo la chiusura della Partita IVA. Anche se si pensa che tutto sia finito, gli atti del Fisco hanno una validità effettiva e possono produrre conseguenze concrete. Ignorarli può portare a una situazione ancora più grave, con maggiorazioni, interessi, costi di notifica e difficoltà crescenti nel trovare una soluzione. Invece, è consigliabile affrontare la questione, valutando tutte le opzioni disponibili: dalla richiesta di rateizzazione alla definizione agevolata, fino alla valutazione della Legge sul Sovraindebitamento nei casi più complessi.

Il contribuente ha sempre la possibilità di regolarizzare la propria posizione anche dopo la chiusura dell’attività. Le normative italiane prevedono strumenti flessibili per il rientro dai debiti fiscali e previdenziali. Le rateizzazioni possono essere richieste direttamente sul sito dell’Agenzia delle Entrate-Riscossione per importi fino a 120.000 euro, e in alcuni casi è possibile accedere a condizioni agevolate, soprattutto se si dimostra una situazione economica fragile. L’importante è agire per tempo, prima che si arrivi a provvedimenti esecutivi più gravi.

Un’altra strada percorribile è rappresentata dalle procedure previste dalla Legge 3/2012 sul Sovraindebitamento, oggi riformata dal Codice della Crisi. Questa legge permette a persone fisiche, piccoli imprenditori, professionisti e lavoratori autonomi di accedere a soluzioni giudiziarie per la ristrutturazione dei debiti. Le procedure possono portare, in alcuni casi, a una riduzione del debito complessivo, alla sospensione delle azioni esecutive, e persino alla cancellazione di parte delle somme dovute. Per accedere a queste misure, è necessario presentare una relazione particolareggiata della propria situazione patrimoniale e affidarsi a un Organismo di Composizione della Crisi (OCC), che assisterà il debitore nel percorso.

La chiusura della Partita IVA può essere vista anche come un elemento positivo in questo contesto. Dimostrare che non si hanno più entrate regolari, che non si possiedono beni rilevanti e che si è cessata l’attività in modo definitivo può rafforzare la richiesta di accesso a una procedura di esdebitazione. In altre parole, si dimostra che non si è in grado di ripagare i debiti con i mezzi attuali, aprendo la strada a una possibile soluzione giudiziaria.

In conclusione, ricevere solleciti o atti di pignoramento dopo la chiusura della Partita IVA è assolutamente possibile e previsto dalla legge. Non bisogna farsi illusioni: la cessazione dell’attività interrompe l’accumulo di nuove passività, ma non protegge dai crediti già maturati. Le autorità fiscali e previdenziali continueranno a esercitare i propri diritti, salvo che il debitore non agisca in modo tempestivo e consapevole per cercare soluzioni. Essere informati, agire con responsabilità e non lasciarsi travolgere dalla paura sono i primi passi per affrontare con serietà e concretezza una situazione di difficoltà economica. Chiudere la Partita IVA può essere l’inizio di un nuovo percorso, ma è solo il primo passo: per superare davvero i debiti, serve volontà, consapevolezza e l’aiuto di professionisti competenti.

È possibile chiudere la Partita IVA anche se non ho pagato tutti i contributi o le tasse?

In un contesto economico sempre più incerto e gravato da carichi fiscali elevati, non sono pochi i professionisti, i piccoli imprenditori e i lavoratori autonomi che si trovano nella difficoltà di mantenere in attività la propria Partita IVA. Molti di loro, nel momento in cui si accorgono di non riuscire più a far fronte al pagamento delle imposte e dei contributi, iniziano a domandarsi se sia comunque possibile cessare la propria attività anche senza aver saldato tutti i debiti accumulati. La risposta, dal punto di vista normativo, è chiara: sì, è possibile chiudere la Partita IVA anche in presenza di debiti verso l’Agenzia delle Entrate, l’INPS o altri enti.

La chiusura della Partita IVA è un atto amministrativo che non è subordinato alla situazione debitoria del contribuente. Questo significa che, per procedere alla cessazione dell’attività, non è necessario aver prima saldato tutte le imposte arretrate, i contributi non versati o le eventuali sanzioni accumulate nel tempo. La legge non impone il requisito della “regolarità fiscale” come condizione necessaria per cessare l’attività. La comunicazione di chiusura può essere effettuata in qualsiasi momento, tramite gli appositi canali telematici messi a disposizione dall’Agenzia delle Entrate, e non prevede alcuna autorizzazione preventiva.

Questa possibilità rappresenta un elemento di tutela per chi, pur essendo in difficoltà, intende porre fine a un’attività ormai insostenibile, senza aggravare ulteriormente la propria posizione. Infatti, mantenere una Partita IVA aperta comporta obblighi fiscali e previdenziali che non vengono sospesi nemmeno in assenza di fatturato. I contributi INPS fissi, ad esempio, continuano a maturare ogni anno, così come le scadenze fiscali legate all’IVA o alla dichiarazione dei redditi. Tenere aperta la Partita IVA senza lavorare equivale, nella maggior parte dei casi, ad accumulare nuovi debiti.

Chiudere la Partita IVA può quindi essere una decisione saggia per bloccare l’aggravarsi della situazione e per iniziare a ragionare su possibili soluzioni per sanare il pregresso. Non bisogna però cadere nell’errore di pensare che la chiusura comporti l’automatica cancellazione dei debiti. I debiti fiscali e previdenziali restano in capo alla persona fisica che ha esercitato l’attività, anche dopo la cessazione formale della Partita IVA. Questo significa che, seppure non si producano più nuove obbligazioni, l’Agenzia delle Entrate e l’INPS continueranno a esigere quanto già dovuto.

Il contribuente può quindi chiudere l’attività, ma resta comunque responsabile delle somme già maturate. Questo può tradursi in solleciti di pagamento, notifiche di cartelle esattoriali, piani di rateizzazione oppure, nei casi più complessi, in procedure di riscossione forzata come pignoramenti e fermi amministrativi. Tuttavia, il fatto di aver interrotto l’attività può aiutare ad accedere più facilmente a forme di definizione agevolata del debito o a percorsi di ristrutturazione della propria posizione economica.

Un ulteriore aspetto da considerare è che la chiusura della Partita IVA non preclude la possibilità di riaprirla in futuro. Una volta sistemata la propria situazione economica o individuato un nuovo progetto lavorativo, il contribuente potrà richiedere una nuova apertura, anche se restano in essere debiti precedenti. L’unico limite potrebbe riguardare l’accesso a determinati regimi fiscali agevolati, come il forfettario, che prevedono requisiti stringenti legati anche alla presenza di precedenti posizioni IVA.

In ogni caso, è fondamentale affrontare con serietà e consapevolezza la propria situazione debitoria. La chiusura della Partita IVA può essere il primo passo verso una riorganizzazione, ma non deve essere considerata una via di fuga o un modo per sottrarsi ai propri obblighi. Al contrario, è consigliabile valutare attentamente le proprie pendenze, magari con l’aiuto di un professionista, e individuare le misure più adatte per il rientro progressivo dal debito.

Esistono oggi diverse possibilità per sanare la propria posizione anche dopo la chiusura della Partita IVA. Tra queste, le rateizzazioni ordinarie offerte dall’Agenzia delle Entrate-Riscossione, che permettono di dilazionare il pagamento dei debiti fino a un massimo di 72 rate mensili, o le definizioni agevolate periodicamente introdotte dal legislatore, che consentono di estinguere i debiti con abbattimento di sanzioni e interessi. Inoltre, per i soggetti non fallibili è disponibile la procedura di sovraindebitamento prevista dalla Legge 3/2012 (oggi confluita nel Codice della Crisi), che consente, in presenza di determinati requisiti, di ottenere una riduzione o persino la cancellazione dei debiti non sostenibili.

Anche i lavoratori autonomi che hanno cessato la loro attività possono accedere a queste procedure, a condizione che dimostrino l’impossibilità oggettiva di far fronte alle obbligazioni con il proprio patrimonio o reddito residuo. In questo senso, la chiusura della Partita IVA può rappresentare un elemento a favore, poiché dimostra la fine dell’attività produttiva e l’assenza di prospettive di incasso future legate al lavoro autonomo.

Il passo più importante, per chi si trova in queste condizioni, è non restare immobile. L’inattività è la strategia più rischiosa, perché permette al debito di crescere ulteriormente e alle sanzioni di moltiplicarsi. Chiudere la Partita IVA è una scelta che, se fatta per tempo e con lucidità, può segnare l’inizio di una nuova fase di responsabilità e recupero. Non si tratta di un fallimento, ma di un atto di consapevolezza e di rispetto verso sé stessi e verso le istituzioni.

In sintesi, è perfettamente legittimo chiudere la Partita IVA anche se si hanno ancora contributi e tasse da pagare. Questo diritto non viene limitato dallo stato dei debiti e può rappresentare una via di uscita per chi non riesce più a sostenere il peso dell’attività. I debiti restano, certo, ma non si aggravano ulteriormente. E questo, per molti, è già un punto di partenza prezioso per iniziare a risalire la china. Con l’aiuto giusto, la determinazione e un piano ben strutturato, anche le situazioni più complesse possono trovare una via d’uscita legale, sostenibile e umanamente possibile.

Continuano ad accumularsi obblighi fiscali se tengo aperta la Partita IVA ma non fatturo?

Molti lavoratori autonomi e piccoli imprenditori si trovano, prima o poi, in una situazione di stallo, in cui non riescono più a portare avanti la propria attività in modo regolare. Può trattarsi di una fase temporanea di difficoltà economica, di un blocco improvviso della clientela o semplicemente di un momento di pausa per valutare nuove scelte professionali. In questi casi, spesso si tende a lasciare la Partita IVA aperta, anche se non si emettono più fatture, nella speranza di riprendere l’attività nel prossimo futuro. Tuttavia, questa decisione comporta rischi e conseguenze che è importante conoscere. Anche se non si fattura nulla, una Partita IVA aperta continua a generare obblighi fiscali e contributivi.

Tenere aperta la Partita IVA senza svolgere alcuna attività concreta è una situazione che può sembrare innocua, ma che in realtà può diventare pericolosa sotto il profilo economico. Questo perché, secondo l’ordinamento tributario italiano, l’apertura della Partita IVA implica la sussistenza di un’attività economica, anche se di fatto non viene esercitata. Di conseguenza, il soggetto titolare della Partita IVA continua ad avere obblighi di comunicazione, dichiarazione e versamento, anche in assenza di ricavi.

Uno dei principali obblighi che continuano ad accumularsi riguarda l’INPS. Per determinate categorie, come artigiani e commercianti, l’iscrizione alla gestione previdenziale comporta il pagamento di contributi fissi annuali, che prescindono totalmente dal volume d’affari o dall’assenza di fatturato. Anche chi non lavora e non incassa, ma ha una Partita IVA attiva in queste categorie, è tenuto a versare le quote minime, che ammontano a diverse migliaia di euro all’anno. Non pagare questi contributi porta all’accumulo di debiti previdenziali, che possono trasformarsi in cartelle esattoriali e aggravare la situazione finanziaria.

Anche sul fronte fiscale, la Partita IVA aperta comporta obblighi che non si fermano solo perché l’attività è inattiva. Chi ha una Partita IVA, infatti, è tenuto a presentare la dichiarazione IVA e, se previsto, anche la dichiarazione dei redditi, specificando la mancanza di attività. Non presentare queste dichiarazioni comporta sanzioni per omessa o tardiva comunicazione, che possono essere anche molto elevate. E in certi casi, se l’inattività è protratta nel tempo senza alcuna comunicazione, si può persino incorrere in controlli o accertamenti per presunta evasione.

Un altro aspetto da non sottovalutare è l’iscrizione alla Camera di Commercio, obbligatoria per alcune categorie. Anche qui, la sola esistenza della Partita IVA comporta il pagamento del diritto camerale annuale, anche se non si esercita più l’attività. Anche questo è un costo che, sommato agli altri, contribuisce a peggiorare la situazione di chi, in realtà, non sta più producendo alcun reddito. A tutto ciò si aggiungono le spese per il commercialista, eventuali adempimenti obbligatori come la conservazione digitale delle fatture e dei registri, e altri costi minori ma non trascurabili.

Mantenere una Partita IVA aperta senza utilizzarla non è quindi una scelta priva di conseguenze. Spesso, per paura di “chiudere troppo presto” o per l’illusione di un’imminente ripresa, si rischia di ritardare una decisione che andrebbe invece presa con maggiore lucidità. Chiudere la Partita IVA non significa rinunciare per sempre alla propria professione, ma semplicemente sospendere formalmente un’attività che, in quel momento, non sta più generando reddito. E in molti casi, è l’unico modo per evitare che una situazione transitoria si trasformi in un problema strutturale.

La normativa italiana non prevede un regime di “congelamento” della Partita IVA. Non esiste cioè una possibilità ufficiale di sospendere temporaneamente l’attività senza incorrere in obblighi. Esistono alcune semplificazioni contabili per chi non supera certi limiti di fatturato (come il regime forfettario), ma anche in questi casi restano comunque obblighi minimi da rispettare. L’unico modo per non avere più scadenze fiscali e contributive è la cessazione formale dell’attività tramite comunicazione all’Agenzia delle Entrate.

Una volta chiusa la Partita IVA, non si è più tenuti a versare contributi, a presentare dichiarazioni IVA, né a rispettare le altre scadenze periodiche. Questo consente di azzerare la produzione di nuovi debiti e di concentrarsi sulla gestione di quelli eventualmente già esistenti. Inoltre, la chiusura non impedisce in alcun modo di riaprire l’attività in futuro, qualora le condizioni migliorino o si presenti una nuova opportunità lavorativa. È sempre possibile riaprire una nuova Partita IVA, anche con lo stesso codice ATECO di prima, e in molti casi si può persino accedere nuovamente al regime forfettario, se si rispettano i requisiti richiesti.

Continuare a mantenere una Partita IVA solo per inerzia è un comportamento rischioso e controproducente. Invece di facilitare la ripartenza, può trasformarsi in un ostacolo economico, perché genera costi senza alcun beneficio effettivo. È quindi importante valutare attentamente la propria situazione, confrontarsi con un consulente di fiducia e prendere una decisione basata su elementi concreti. Se non si prevede di riprendere l’attività nel breve periodo, la soluzione più razionale è quasi sempre la chiusura.

In conclusione, sì, gli obblighi fiscali e contributivi continuano ad accumularsi anche se non si fattura. La Partita IVA aperta rappresenta per il Fisco un’attività operativa, fino a prova contraria. Questo comporta costi, dichiarazioni, contributi e rischi di sanzioni. Solo la chiusura formale permette di interrompere questa catena e di evitare che la situazione sfugga di mano. Prendere questa decisione non è un fallimento, ma un atto di responsabilità verso se stessi e verso il proprio futuro economico. Fermarsi, in certi casi, è il primo passo per ripartire davvero.

Posso riaprire la Partita IVA in futuro anche se l’ho chiusa con dei debiti ancora aperti?

Molte persone che hanno dovuto chiudere la propria Partita IVA per difficoltà economiche si pongono, con il tempo, la questione di un possibile ritorno all’attività autonoma. Dopo un periodo di crisi, infatti, possono presentarsi nuove opportunità lavorative, collaborazioni professionali o semplicemente una maggiore serenità economica che consente di rimettersi in gioco. Ma il dubbio è legittimo: si può riaprire la Partita IVA anche se, al momento della chiusura, erano ancora presenti debiti non saldati? La risposta è sì, ed è importante chiarire bene cosa prevede la normativa e quali sono le implicazioni pratiche di questa possibilità.

La presenza di debiti fiscali o contributivi non impedisce, di per sé, la riapertura di una Partita IVA. Questo perché, nel nostro ordinamento, l’apertura della Partita IVA è un diritto riconosciuto a ogni cittadino che intenda esercitare un’attività economica in modo abituale, professionale e autonomo. Non è richiesto, al momento della nuova apertura, che il contribuente sia in regola con i pagamenti pregressi, salvo rare eccezioni legate all’accesso a regimi fiscali agevolati o a specifiche misure di sostegno economico.

Ciò che conta, quindi, è la volontà di riprendere un’attività autonoma e la capacità di adempiere ai nuovi obblighi che deriveranno dalla nuova Partita IVA. In altre parole, anche se il contribuente ha chiuso la precedente attività lasciando debiti con l’INPS o con l’Agenzia delle Entrate, può comunque avviare una nuova attività e ottenere un nuovo numero di Partita IVA. L’importante è che non sussistano cause ostative di altro tipo, come ad esempio sentenze interdittive o provvedimenti giudiziari specifici che limitino l’esercizio di attività economiche.

È bene ricordare che i debiti pregressi restano comunque esigibili. Questo significa che, anche dopo la riapertura della Partita IVA, il contribuente può continuare a ricevere cartelle esattoriali, solleciti e richieste di pagamento da parte dell’Agenzia delle Entrate-Riscossione o di altri enti creditori. La nuova attività non annulla le pendenze precedenti, né le blocca in alcun modo. Tuttavia, tornare a produrre reddito può essere un vantaggio anche in chiave strategica, perché consente al contribuente di affrontare più serenamente i debiti passati, magari accedendo a una rateizzazione o ad altre forme di definizione agevolata.

È importante sottolineare che non è necessario riaprire la Partita IVA con lo stesso codice ATECO utilizzato in precedenza. Se l’attività che si intende avviare è diversa, sarà sufficiente indicare il nuovo codice corrispondente alla categoria merceologica di riferimento. In ogni caso, l’Agenzia delle Entrate assegnerà un nuovo numero di Partita IVA, distinto da quello precedente. La riapertura non è una riattivazione della vecchia posizione, ma una nuova iscrizione a tutti gli effetti.

Un aspetto da valutare con attenzione riguarda l’accesso al regime forfettario. Questo regime fiscale agevolato, molto utilizzato dai professionisti e dai piccoli imprenditori, prevede alcune condizioni specifiche per l’accesso. Tra queste, c’è anche il requisito di non aver esercitato attività d’impresa, arte o professione nei tre anni precedenti, per chi apre una nuova attività con l’intento di beneficiare della tassazione al 15% (o al 5% nei primi cinque anni, se si rispettano tutti i requisiti). Chi ha chiuso la Partita IVA recentemente e intende riaprirla nello stesso ambito, potrebbe quindi dover attendere tre anni prima di poter accedere nuovamente al regime forfettario. Questo è un limite importante da considerare nella pianificazione dell’attività.

Un altro elemento da considerare è il rapporto con l’INPS. In caso di debiti pregressi con l’ente previdenziale, la riapertura della Partita IVA può comportare la ripresa dell’iscrizione alla gestione di riferimento (artigiani, commercianti o gestione separata, a seconda del tipo di attività). Questo significa che potrebbero sommarsi i nuovi contributi da versare ai vecchi debiti già iscritti a ruolo. Anche in questo caso, è possibile presentare una richiesta di rateizzazione del pregresso, purché si dimostri la volontà di adempiere agli obblighi.

La riapertura di una Partita IVA, in presenza di debiti, richiede quindi un approccio responsabile e ben pianificato. Non si tratta semplicemente di compilare un modulo e riprendere l’attività, ma di valutare attentamente l’impatto economico e fiscale della nuova situazione. Avere un nuovo flusso di reddito può essere una grande risorsa, ma bisogna anche mettere in conto gli obblighi fiscali e contributivi che si riattivano. È quindi consigliabile affidarsi a un commercialista o a un consulente fiscale per strutturare un piano sostenibile, che consenta di lavorare regolarmente e al tempo stesso affrontare le vecchie pendenze.

Un’eventuale difficoltà a sostenere i nuovi e i vecchi debiti contemporaneamente potrebbe anche aprire la strada alla valutazione di procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento, oggi regolate dal Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza. In tali procedure, il giudice può autorizzare un piano che consenta di continuare a lavorare e generare reddito, destinando una parte alle esigenze personali e una parte al rimborso graduale dei creditori. Si tratta di una soluzione complessa, ma utile per chi non vuole rinunciare all’attività economica pur trovandosi in una condizione di debito elevato.

Non ci sono quindi impedimenti legali automatici alla riapertura della Partita IVA in presenza di debiti. Ma è necessario affrontare la situazione con consapevolezza, valutando tutte le implicazioni. Le istituzioni, da parte loro, non vietano di riprendere un’attività, anzi: l’autonomia economica e la capacità di generare reddito sono viste come condizioni favorevoli anche per il rientro dei debiti pubblici. Tuttavia, è bene ricordare che ogni nuova attività comporta nuovi obblighi, e trascurarli può solo aggravare la situazione esistente.

In sintesi, sì, si può riaprire la Partita IVA anche se si hanno debiti ancora aperti. La legge non lo vieta e anzi, in certi casi, riprendere a lavorare come autonomo può essere la chiave per risolvere gradualmente i problemi economici. L’importante è non agire in modo impulsivo, ma con una strategia chiara, tenendo conto delle pendenze pregresse e delle nuove responsabilità. Con il giusto supporto professionale, determinazione e trasparenza, anche una situazione difficile può trasformarsi in una nuova occasione di riscatto e ripartenza.

La chiusura della Partita IVA mi aiuta se voglio accedere a una procedura di sovraindebitamento?

Quando una persona si trova in una situazione di grave difficoltà economica, con debiti che superano le sue reali possibilità di rimborso, la Legge sul Sovraindebitamento rappresenta una delle poche vie legali per ottenere un po’ di respiro. Questa normativa è stata pensata proprio per coloro che, pur non potendo fallire secondo le regole tradizionali delle imprese (per esempio perché lavoratori autonomi, professionisti o ex imprenditori individuali), si trovano in una condizione di crisi personale e patrimoniale. In questo contesto, la chiusura della Partita IVA può giocare un ruolo determinante nell’accesso a queste procedure.

Chiudere la Partita IVA non estingue i debiti, ma è un segnale importante di cessazione dell’attività economica. Questo è particolarmente rilevante quando si intende dimostrare al giudice o all’Organismo di Composizione della Crisi (OCC) che il soggetto non è più in grado di produrre reddito sufficiente per adempiere ai propri obblighi. Se l’attività è formalmente cessata, non ci sono entrate future certe da lavoro autonomo, e questo può rafforzare la tesi dell’incapacità oggettiva a far fronte ai debiti.

La chiusura della Partita IVA serve quindi a cristallizzare una situazione di fatto: quella dell’impossibilità di proseguire l’attività in modo economicamente sostenibile. In molte situazioni, mantenere una Partita IVA aperta significa soltanto generare nuovi debiti, aggravando una condizione già precaria. Continuare a essere iscritti all’INPS come artigiano o commerciante, anche in assenza di fatturato, comporta infatti il pagamento di contributi fissi e l’obbligo di presentare dichiarazioni fiscali. Chiudere formalmente l’attività consente di bloccare questi automatismi e iniziare a ragionare su una soluzione di lungo periodo.

Nell’ambito del sovraindebitamento, è fondamentale dimostrare che si è in una situazione di crisi irreversibile e non colpevole. Questo significa, da un lato, provare che i debiti non sono stati contratti in modo fraudolento o irresponsabile, e dall’altro che non ci sono più mezzi concreti per rientrare della somma dovuta. La chiusura della Partita IVA può essere uno degli elementi utili a dimostrare questo quadro. Dimostra che il debitore ha preso atto della propria difficoltà e ha scelto di interrompere un’attività non più sostenibile, assumendo un comportamento responsabile.

Chi desidera accedere a una procedura di sovraindebitamento deve presentare una relazione dettagliata della propria situazione economica, patrimoniale e familiare. In questa relazione, redatta con l’aiuto dell’OCC, si evidenziano entrate, uscite, beni mobili e immobili, e l’elenco completo dei creditori. Se tra le fonti di reddito è presente un’attività autonoma ancora formalmente attiva, è possibile che il giudice chieda chiarimenti, oppure che si valuti la capacità teorica del debitore di continuare a lavorare per produrre reddito utile a pagare almeno parte dei debiti. Al contrario, se l’attività è stata cessata e la Partita IVA chiusa, è più facile rappresentare una condizione di effettiva impossibilità reddituale.

Un altro elemento da non sottovalutare riguarda i tempi. Chiudere la Partita IVA prima di accedere alla procedura permette di evitare il rischio che, durante il procedimento, vengano imputate nuove entrate o obblighi derivanti dall’attività ancora formalmente in vita. Questo aspetto è molto rilevante, soprattutto nella fase in cui l’OCC deve certificare lo stato di insolvenza o la non colpevolezza del debitore. Ogni elemento che rende più chiara e netta la cessazione dell’attività aiuta ad accelerare l’istruttoria e a rafforzare la posizione del debitore.

Va precisato che non esiste un obbligo legale di chiudere la Partita IVA per accedere alla procedura di sovraindebitamento, ma nella pratica è quasi sempre consigliato, soprattutto se l’attività non produce reddito o genera solo ulteriori obbligazioni. In alcuni casi, però, l’attività autonoma può essere mantenuta, se si dimostra che rappresenta l’unica fonte di sostentamento e che parte degli incassi può essere destinata al soddisfacimento dei creditori. Tuttavia, in questi casi, il piano proposto deve essere ancora più rigoroso e dettagliato, e spesso più difficile da far approvare.

Chiudere la Partita IVA è dunque, nella maggior parte dei casi, un passaggio fondamentale per accedere con successo alla procedura di sovraindebitamento. Significa interrompere la produzione di nuovi debiti, dimostrare la reale condizione di crisi e rendere più credibile la richiesta di aiuto al sistema giudiziario. Inoltre, contribuisce a rendere più trasparente e ordinata la posizione fiscale del debitore, che è un altro requisito importante per l’accesso alla procedura.

La chiusura dell’attività deve essere comunicata all’Agenzia delle Entrate, all’INPS e, se previsto, anche alla Camera di Commercio. Questo atto è relativamente semplice da eseguire, ma è bene farsi assistere da un professionista per evitare errori o omissioni che potrebbero complicare la situazione. Una volta effettuata la cessazione, si può iniziare a lavorare concretamente al piano di ristrutturazione dei debiti, alla liquidazione controllata o a una delle altre soluzioni previste dalla normativa.

In sintesi, la chiusura della Partita IVA può aiutare concretamente chi intende accedere a una procedura di sovraindebitamento. Non è una condizione obbligatoria, ma nella maggior parte dei casi è una scelta strategica utile e coerente con lo spirito della legge. Permette di dimostrare che si è fatto tutto il possibile per fermare l’emorragia economica e che si è pronti a collaborare in modo attivo e trasparente per uscire da una situazione di crisi. Con il giusto supporto, la chiusura dell’attività può diventare il primo passo concreto verso una nuova opportunità di vita, più sostenibile e serena.

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Se stai pensando di chiudere la Partita IVA ma hai ancora dei debiti, l’avvocato Monardo può offrirti un’assistenza qualificata, personalizzata e soprattutto concreta, per accompagnarti in un momento delicato come quello della cessazione dell’attività economica. Con una solida esperienza nel diritto bancario e tributario e una rete nazionale di avvocati e commercialisti specializzati, Monardo è in grado di guidarti passo dopo passo, evitando errori e proteggendo i tuoi interessi.

La chiusura della Partita IVA non cancella automaticamente i debiti, ma è un passaggio fondamentale per interrompere l’aggravarsi della situazione e iniziare un percorso di risanamento. L’avvocato Monardo ti aiuta a gestire ogni aspetto di questo processo: dalla comunicazione formale agli enti (Agenzia delle Entrate, INPS, Camera di Commercio), alla verifica delle pendenze fiscali e contributive, fino alla costruzione di una strategia legale per affrontare e risolvere i debiti residui.

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